Le leggi razziali del fascismo e la scuola
Il razzismo fascista non fu "all'acqua di rose". Le leggi razziali del fascismo furono una vergogna e una infamia imperdonabile. A causa di quelle leggi migliaia di ebrei italiani furono perseguitati, umiliati, ridotti alla fame, arrestati e poi spediti nei campi di sterminio.
Le leggi razziali furono emanate nel 1938: il 14 luglio venne pubblicato il "Manifesto del razzismo italiano" redatto, sotto l'egida del ministero della Cultura Popolare, da un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, poi trasformato in decreto, il 15 novembre dello stesso anno, con tanto di firma di Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d'Italia e imperatore d'Etiopia "per grazia di Dio e per volontà della nazione".
Con il manifesto e con le leggi successive, agli ebrei venne proibito di prestare servizio militare, esercitare l'ufficio di tutore, essere proprietari di aziende, essere proprietari di terreni e di fabbricati, avere domestici "ariani". Gli ebrei venivano anche licenziati dalle amministrazioni militari e civili, dagli enti provinciali e comunali, dagli enti parastatali, dalle banche, dalle assicurazioni e dall'insegnamento nelle scuole di qualunque ordine e grado. Infine, i ragazzi ebrei non potevano più essere accolti nelle scuole statali. Insomma una vera e propria tragedia per migliaia di persone, magari con alle spalle anni ed anni di onoratissimo lavoro.
Una delle prime istituzioni statali in cui fu introdotto l'antisemitismo fu proprio la scuola già a partire dall'estate 1938.
Il razzismo era completamente estraneo alla coscienza e alla tradizione italiana; l'applicazione delle leggi discriminatorie procedette a fatica e con parecchie resistenze.
Il 19 luglio 1938 - poco dopo la pubblicazione del documento noto come "Manifesto degli scienziati razzisti" - la Direzione generale per la demografia e per la razza, organismo istituito in seno al ministero degli Interni e preposto all'applicazione della normativa persecutoria antiebraica, dispose il censimento di tutti gli ebrei appartenenti all'amministrazione statale. In agosto fu vietato a tutte le scuole di accettare alunni stranieri ebrei (compresi quelli dimoranti in Italia) per il successivo anno scolastico, mentre era previsto il licenziamento dei professori incaricati e dei supplenti ebrei. L'appartenenza alla razza ariana divenne essenziale per entrare nel pubblico impiego. Sempre nello stesso mese il ministro Bottai con una circolare ministeriale sollecitava i provveditori alla massima diffusione nelle scuole primarie e secondarie della rivista " La difesa della razza", diretta da Telesio Interlandi.
Un'altra circolare disponeva il divieto di adozione dei libri di testo di autori di razza ebraica.
In settembre insegnanti ed alunni ebrei, salvo eccezioni, erano esclusi dalle scuole pubbliche italiane. La sospensione dal servizio per maestri e professori sarebbe scattata a partire dal 16 ottobre. A tale misura dovevano adeguarsi anche presidi, direttori, assistenti universitari, liberi docenti, membri delle Accademie, degli Istituti, delle Associazioni di scienze, lettere e arti e tutte le altre persone di "razza ebraica" impiegate, con qualsiasi mansione, nelle scuole (bidelli, segretari), negli uffici del ministero.
Lo Stato si impegnava ad istituire a proprie spese sezioni "separate" di scuola elementare nelle località in cui vi fossero stati almeno dieci bambini ebrei in età scolare; in queste scuole anche gli insegnanti potevano essere di razza ebraica. Il ministero dell'Educazione nazionale autorizzava, comunque, le comunità israelitiche ad aprire scuole elementari per i propri bambini.
I decreti di settembre colpirono 200 professori (98 erano docenti universitari) e 5.600 allievi, di cui 4.400 erano scolari, 1.000 alunni di scuola media, 200 studenti universitari, inoltre più di 133 aiuti e assistenti universitari, 114 autori di libri di testo.
La discriminazione razziale nella scuola fu ufficialmente annunciata dal ministro Bottai in persona in una trasmissione radiofonica diffusa il 16 ottobre 1938, in occasione dell'apertura del nuovo anno scolastico: «... La Scuola italiana agli italiani ... Gli ebrei avranno, nell'ambito dello Stato, la loro scuola, gli italiani la loro ...».
La normativa persecutoria fu accompagnata da una accesa campagna propagandistica nella scuola - con conferenze, lezioni, opuscoli, articoli sui periodici scolastici e non - volta a prevenire o annullare le reazioni negative ai provvedimenti.
Le scuole furono invitate ad abbonarsi a “La difesa della razza”.
Nella scuola non vi fu, quindi, unicamente l'introduzione della legislazione persecutoria nei confronti degli ebrei. Dall'autunno del 1938 gli studenti di "razza ariana" rimasti nelle classi furono educati ad essere consapevoli e fieri della loro superiorità razziale. Razzismo e antisemitismo si diffusero nei libri di testo, nell'insegnamento e nella formazione degli stessi insegnanti, nella vita scolastica quotidiana.
Furono create ventidue scuole elementari e tredici medie che consentirono di far proseguire gli studi ai giovani e ai bambini cacciati dagli istituti pubblici.
Dal diario di una bambina ebrea torinese: «Oggi è il primo giorno della mia nuova vita di scuola. Andandoci pensavo con rammarico alla mia maestra e alle compagne che avevo dovuto lasciare».
Scrive nel suo libro “La farfalla impazzita” Giulia Spizzichino, ebrea romana sfuggita alla retata del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma:
«L’elemento personale che associo alle leggi razziali sono le lacrime di mia madre, il brutto giorno in cui io venni allontanata dalla scuola. Lì per lì mi colpirono molto, non l’avevo mai vista piangere. Una mattina, frequentavo l’avviamento commerciale da un paio di mesi, il preside la convocò a scuola e con aria contrita le disse che non potevo più frequentare le lezioni. Lei scoppiò in lacrime, io ero interdetta. Avevo undici anni e alle elementari ero sempre andata bene. Forse non provai nemmeno un particolare dispiacere, del resto non capivo cosa ci fosse dietro quella espulsione, a differenza dei miei genitori che lo comprendevano perfettamente e prevedevano una svolta ancora più crudele.
Povera mamma, per lei fu un’umiliazione tremenda venire in classe, raccogliere tutti i miei libri e quaderni e portarmi via. Io in quei momenti stavo lì a occhi bassi, non capivo perché l’avessero costretta a ricondurmi a casa. Ero terrorizzata all’idea di aver fatto qualcosa di male e temevo una punizione da parte di mio padre, di cui avevo molta soggezione.
Ricordo bene come si svolsero le cose: io ero in classe, il preside arrivò e mi fece uscire in un corridoio dove, davanti a mia madre, spiegò che era arrivata una lettera del Partito Nazionale Fascista e per questo io dovevo lasciare la scuola. Il concetto era che non potevo più stare a contatto con le altre bambine. Di colpo mi sentii come affetta da un morbo contagioso. Quando mi dissero che dovevo lasciare la scuola, credo di non essere neppure rientrata in classe. Mi vergognavo, se l’ho fatto è stato solo per riprendere i miei oggetti scolastici, non ho avuto il tempo di salutare nessuno».