Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Fucilazioni e stragi in Brianza

23 Août 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #pagine di storia locale

Alessandro Pavolini, il segretario del Partito fascista repubblicano, lo aveva detto chiaramente al duce:

È ora di finirla con la politica all' acqua di rose. Occhio per occhio, dente per dente!

Roberto Farinacci, ovvero l'estremismo del fascismo, lo aveva ribadito:

Quando i plotoni d'esecuzione funzioneranno, la gente vedrà che si fa sul serio e rientrerà nella normalità.

Vincenzo Costa, comandante della Brigata nera Aldo Resega, esprimeva così il

proprio parere:

Occorre, secondo questo comando, usare i metodi forti per salvare il salvabile; Nessuna pietà per i ribelli; la deportazione per i renitenti e i favoreggiatori. E ora di usare il bisturi in profondità ...

Il comandante del presidio di Monza, ten. col. Zanuso, calca ancor di più la mano, esprimendosi a proposito della città di Sesto S. Giovanni:

Certo che per la zona di Gorgonzola, Desio, Seregno, Monza, Cernusco è una vera maledizione questo centro industriale totalmente sovversivo! Lì sta veramente il cancro della Lombardia e questa città rossa dovrebbe essere completamente distrutta all' infuori delle industrie, con il sistema germanico. La popolazione maschile deportata in Germania, lasciando sul posto solo donne, vecchi e bambini. Le maestranze dovrebbero essere deportate e sostituite sul posto da altre città d'Italia!

È il viatico per la guerra intestina, pietà l'è morta. Il fascismo repubblichino intende imporsi con gli stessi metodi dei nazisti padroni, con la repressione violenta. La Resistenza non può piegarsi al ricatto del terrore, ne andrebbe della sua stessa sopravvivenza e, d'altronde, i tedeschi e i fascisti non hanno certo aspettato la nascita della ribellione per perpetrare le loro stragi.

Il massacro di Cefalonia, l'eccidio degli ebrei di Meina sul lago Maggiore, la distruzione di Boves, le esecuzioni sommarie al sud, tutte queste atrocità, e molte altre, datano il mese di settembre del '43.

Opporsi con le armi è dunque l'unica via da intraprendere per chi vuole mutare questa triste situazione; combattere per salvarsi, per sfuggire ai bandi,


alle deportazioni, per impedire le razzie delle risorse del paese. Una strada che implica anche il recupero agli occhi del mondo libero, della dignità di un popolo coinvolto in una guerra assurda. L'alternativa è subire il tallone di ferro nazifascista e apparire davanti alla storia, come una nazione immeritevole di qualsiasi riconoscenza nella lotta per il progresso della civiltà.

I fascisti agirono duramente già contro i responsabili di piccoli atti criminali o presunti tali.

Ad Inverigo, il 20 aprile 1944, furono fucilati presso il cimitero cinque giovani (il più vecchio aveva 24 anni) accusati di vari furti in case private.

L'11 giugno a Lissone accade qualcosa di grosso. Due arditi della Legione Muti, Alessio La Cava ed Emanuele Scaglione, in servizio presso il Comune e sempre scatenati alla ricerca di renitenti furono gli obiettivi di un lancio di bombe a mano, uno morì subito, l'altro dopo qualche giorno. Le ricerche fasciste non approdarono a nulla, solo a causa· di una spiata vengono arrestati cinque·partigiani, non è sicuro che siano loro gli autori dell' attentato, ma ormai la guerra è totale, per loro non c'è scampo. Anche in Brianza, da tempo, la via è aperta alle esecuzioni sommarie e agli eccidi.

Dopo qualche giorno d'interrogatori e torture, Pierino Erba e Carlo Parravicini la sera del 16 giugno, sono sospinti brutalmente sulla soglia della Casa del fascio, sono pieni di lividi e incapaci di reggersi in piedi. Davanti a loro, nella piazza centrale del paese, i fascisti'hanno chiamato a raccolta con gli altoparlanti la popolazio­ne, ignara di ciò che doveva accadere, 1'esempio doveva essere chiaro per tutti. Dopo pochi minuti, i due giovani furono fucilati pubblicamente, la piazza si svuotò su­bito per l'orrore, mentre raffiche di mitra venivano esplose in aria. Altri due fermati, Remo Chiusi e Mario Somaschini, furono invece incarcerati e seviziati alla villa Reale a Monza dove, il giorno dopo i loro compagni, subirono la stessa tragica sorte. Solo uno riuscì a scampare, Giuseppe Parravicini, attivista politico, fu trasferito a S. Vittore e poi deportato ad Auschwitz, da dove tornerà miracolosamente vivo.

Verso la fine di quello stesso mese, a Desio si assiste non ad un' esecuzione, ma ad un vero e proprio omicidio. Luigi Biondi, partigiano dell' Atm di Milano, viene prelevato da casa sua in viale Monza a Milano e trucidato nella cittadina brianzola in via Milano.

Il metodo dei rastrellamenti, anche nelle cittadine più piccole, non viene abbandonato dai repubblichini. E ancora il ten. col. Frattini, che guida tutte queste azioni repressive in provincia di Milano, che il4 luglio all'alba, conduce 150 militi della Gnr e 50 squadristi a setacciare Renate e Veduggio. Non si hanno per fortuna incidenti, ma sei renitenti vengono portati via fra la popolazione terrorizzata per l'improyvisa puntata.

E questa della bassa Brianza occidentale, una zona dove in questa estate di fermento partigiano gli atti cruenti sono più frequenti, anche a carico della popolazione innocente.

A Seveso, infatti, il 13 luglio in via Montenero durante un allarme aereo, la ronda della Gnr uccide per la leggerezza di un suo componente, una signora inerme, Antonia Vago. A sparare è stato il milite Paolo Cogliati che è subito trasferito. Un mese dopo viene ucciso in circostanze non chiarite, mentre era di servizio sulla pro­vinciale Saronno-Monza. (42)

Il 31 agosto, a Cesano Maderno, altro fatto drammatico. Una delazione conduce la Gnr e la Brigata nera di Cesano, ad un deposito di armi allestito dai partigiani del luogo. I fascisti perquisiscono così Baruccana, frazione di Seveso, dove rinvengono due rivoltelle, una cassa di dinamite, manifestini antifascisti, 200 tessere annonarie di un comune della periferia milanese e parecchie carte d'identità in bianco. Mentre è in atto il sopralluogo giunge il partigiano Pietro Arienti, che viene immediatamente immobilizzato. Ha indosso due pistole, il suo destino è segnato. Viene caricato su di un camion per trasferirlo alla caserma di Cesano. Pietro non si dà per vinto e salta improvvisamente dal mezzo, un milite se ne avvede e con una scarica lo abbatte, i proiettili vaganti colpiscono anche una donna, Chiara Arienti, uccidendola. Il fratello Candido venne arrestato e picchiato alla caserma di Mombello, poi fu trasferito a Monza e a S. Vittore. Destinato alla deportazione in Germania, durante il viaggio riuscì però a fuggire.

I fascisti applicano in modo esagerato il motto di Pavolini ad Aicurzio, nella Brianza orientale. In questo caso il dente per dente, non è costituito da un uomo per un uomo, ma da un palo della luce, quello abbattuto dalle bombe di Mascetti, per un uomo. Per rappresaglia all' atto di sabotaggio, i fascisti tirano fuori dal carcere l'antifascista monzese Giovanni Bersan e lo impiccano nello stesso luogo dell'attentato. Un'esecuzione avviene anche a Inverigo; due giovani, forse renitenti, non si fermano all' alt di due repubblichini che sparano, uno dei fuggitivi viene ferito, l'altro, catturato, viene fucilato davanti al cimitero.

L'eccidio di Cucciago rimane però l'episodio più grave in quest'estate brianzola di guerra. Il 18 luglio, nel canturino, la polizia fascista è alla caccia di elementi particolarmente attivi nella ribellione; uno degli obiettivi è Cucciago, dove abita Bruno Battocchio, uno dei primi sappisti della zona. Giunti alla casa di questi non pensano a dare degli avvertimenti, non pensano neppure ad entrare, sfondata la porta vi buttano subito all'interno delle bombe a mano uccidendo degli inermi, il ricercato non era nemmeno in casa. Muoiono senza colpe Giovanni Battocchio, fratello di Bruno, la moglie Maria Borghi e Giuseppe Meroni.

 da “La Resistenza in Brianza” di Pietro Arienti Bellavite Editore Missaglia


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Zemljanka: la canzone dell'Armata Rossa a Stalingrado

14 Août 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Nelle ultime settimane del 1942 a Stalingrado la canzone preferita dell'Armata Rossa era Zemljanka («Il ricovero»), la risposta russa a Lili Marlene, a cui tra l'altro assomigliava.

 

È un’incantevole canzone di Aleksej Surkov, scritta l'inverno precedente, nota anche con il titolo tratto dal suo verso più famoso, «I quattro gradini verso la morte»

 

Il fuoco guizza nella stufetta

La resina cola dal ciocco come una lacrima

E la fisarmonica nel bunker

Mi canta del tuo sorriso e dei tuoi occhi

 

I cespugli mi hanno sussurrato di te

In un campo bianco di neve vicino a Mosca

Voglio soprattutto che tu senta

Com' è triste ora la mia voce

 

Ora tu sei molto lontana

Distese di neve si frappongono fra noi

È così difficile per me venire da te

E qui ci sono quattro gradini verso la morte

 

Canta fisarmonica, sfidando la tempesta di neve

Chiama quella felicità che ha smarrito la strada

Sto al caldo nel freddo bunker

Perché ho il tuo amore inestinguibile.

 

L’operazione “Barbarossa”, l’attacco nazista all’Unione Sovietica, era iniziata il 22 giugno 1941.

“disumanizzare i sovietici” era l’obiettivo cosicché tutto diventava lecito: ogni tipo di sevizie e di massacri, lo sterminio razziale, rappresaglie collettive. Ed ancora: vivere dei prodotti dei territori occupati, affamando i civili. “Annientare gli ebrei che appoggiano il bolscevismo e la sua cricca di assassini, i partigiani, è un provvedimento di autoconservazione”: queste erano le direttive impartite all’esercito invasore.

Nel corso della campagna di Stalingrado l’Armata Rossa subì 1.100.000 perdite. Ma il più grande errore dei comandi tedeschi era stato quello di aver sottovalutato il soldato semplice dell’Armata Rossa “Ivan”.

Scoprirono ben presto che militari circondati o in numero decisamente inferiore continuavano a combattere, quando, nella stessa situazione, le loro controparti occidentali si sarebbero arrese.


traduzione della scritta sul manifesto: per far cadere il coltello da questa mano moltiplica le forze del fronte antifascista


Un ordine di Stalin dell’agosto 1941, a due mesi dall’invasione, stabiliva che “ chiunque abbassa la sua bandiera durante la battaglia e si arrende dovrà essere considerato come un vile disertore, la sua famiglia verrà arrestata perché ha nel suo ambito una persona che non ha tenuto fede ad un giuramento e che ha tradito la madrepatria. Questi disertori saranno fucilati sul posto. Chiunque cada in un accerchiamento e chiunque preferisce arrendersi dovrà essere eliminato ad ogni costo, mentre la sua famiglia verrà privata di tutti i benefici dell’assistenza dello Stato”.

Numerosi soldati sovietici feriti e catturati dai nazisti riuscirono a sopravvivere nei campi di concentramento fino a quando non furono liberati nel 1945. Invece di essere considerati eroi vennero mandati nei gulag, considerati da Stalin dei traditori per essere caduti in mano nemica. Stalin applicò lo stesso provvedimento anche nei confronti di suo figlio Jakov.

Mentre  l’Armata Rossa entrava a Stalingrado, il 24 gennaio 1943, a Casablanca, Roosevelt e Churchill annunciavano la loro intenzione di combattere fino alla resa incondizionata dell’Asse.

Stalingrado: 2 febbraio 1943. La VI armata tedesca capitola




I Russi stavano facendo pagare caro ai tedeschi il loro attacco; il fronte orientale stava dissanguando a morte la Wehrmacht con molto maggiore rapidità di ogni altro fronte occidentale. L’Armata Rossa non si sarebbe fermata fin quando Berlino non fosse assomigliata alla città di Stalingrado in rovina. Dopo i bombardamenti nazisti Stalingrado era poco più di uno scheletro mal ridotto e bruciacchiato: migliaia di bambini erano morti sotto le rovine.

 







 

Nel novembre del 1943, durante la conferenza di Teheran, Churchill donò la spada di Stalingrado (il re d’Inghilterra Giorgio VI l’aveva fatta forgiare come dono alla città) a Stalin.

La conferenza di Teheran stabilì sostegno alleato per il resto della guerra. Il piano di Churchill di un’invasione attraverso i Balcani fu respinto: lo sforzo principale degli Alleati doveva essere rivolto verso l’Europa nord-occidentale.






1943-Stalingrado-bandiera-rossa.jpg




La vittoria sovietica a Stalingrado aveva costituito una spinta inimmaginabile per i comunisti in tutto il mondo. Con il “Nuevo canto de amor a Stalingrado”, Pablo Neruda scrisse una poesia d’amore senza confini per una città il cui nome aveva dato speranza al mondo intero:

 

Città, Stalingrado, non possiamo
giungere alle tue mura, siamo lontani.
Siamo i messicani, siamo gli araucani,
siamo i patagoni, siamo i guaranì,
siamo gli uruguaiani, siamo i cileni,
siamo milioni d’uomini.
E abbiamo altra gente, per fortuna, nella famiglia,
ma non siamo ancora venuti a difenderti, madre.
Città, città di fuoco, resisti finchè un giorno
arriveremo, indiani naufraghi, a toccare le tue muraglie
con un bacio di figli che speravano di tornare.

Stalingrado, non c’è un Secondo Fronte,
però non cadrai anche se il ferro e il fuoco
ti mordono giorno e notte.

Anche se muori non morirai!

Perché gli uomini ora non hanno morte
e continuano a lottare anche quando sono caduti,
finché la vittoria non sarà nelle tue mani,
anche se sono stanche, forate e morte,
perché altre mani rosse, quando le vostre cadono,
semineranno per il mondo le ossa dei tuoi eroi,
perché il tuo seme colmi tutta la terra.

 

Pablo Neruda (traduzione di Salvatore Quasimodo)

 

 

Durante la seconda guerra mondiale l’Armata Rossa aveva avuto 9.000.000 di morti e 18.000.000 di feriti. Solo 1.800.000 prigionieri ritornarono in patria dei 4.500.000 catturati dalla Wehrmacht. Le perdite tra i civili si pensa che si aggirino attorno ai 18.000.000 portando il totale delle perdite di guerra dell’Unione Sovietica a più di 26.000.000, ovvero cinque volte il totale delle perdite tedesche.

 

libera elaborazione dalla lettura del libro di Antony Beevor “Stalingrado – La battaglia che segnò la svolta della Seconda guerra mondiale”  BUR Storia

 

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due pagine gloriose della guerra di Liberazione

7 Août 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

La battaglia per Genova

«Padre morto, figlia uccisa, tutto finito anche io finito» dice il parlamentare tedesco all'interprete del CLN: viene dal Comando del generale Meinhold a Savignone e ne riflette lo scoramento. Sennonché l'autorità di Meinhold si ferma ai confini del porto, dove "comanda il capitano di vascello Berninghaus, nazista per l'eternità. L'insurrezione di Genova è segnata da questo dualismo e dagli equivoci che ne derivano.

Il 23 aprile le forze dell'insurrezione si muovono contro un nemico che ha circa 12.000 uomini nella città e 18.000 nelle zone circostanti. Non si può sperare di batterlo, si può tentare di paralizzarlo. Ed ecco il grande sabotaggio, saltano le linee elettriche ad alta tensione, vengono messe fuori uso le locomotive a vapore, si spara sulle strade che portano al Piemonte, si bloccano i telefoni. L'ordine di ritirata impartito dal comandante supremo in Italia generale Vietinghoff è giunto il 20 aprile,. ma il 23 Meinhold non sa come eseguirlo: prima ha chiesto il libero passaggio al Comando della garibaldina Pinan-Cichero e la risposta è stata no; ora tramite il cardinale Boetto, tenta la via del CLN, promette la salvezza della città per il libero transito, ma la risposta è identica, firmata dal presidente Paolo Emilio Taviani: «I tedeschi colpevoli di distruzioni saranno considerati criminali di guerra e come tali passati per le armi ». A sera il CLN rompe gli indugi, proclama l'insurrezione generale, ha capito che Meinhold offre ciò che non ha: Berninghaus sta facendo affondare natanti ali'imbocco del porto; e un reparto di SS è fuggito verso il Piemonte portandosi dietro venticinque prigionieri politici fra cui il primo Comando regionale ligure.

Insurrezione! La sera del 23 Battista arriva con la brigata Balilla a Sampierdarena; nel porto i sommozzatori, gli scaricatori, i finanzieri, i partigiani vanno, sotto le raffiche tedesche, a disinnescare le 219 cariche di esplosivo sparse fra moli e impianti. C'è un tipo anziano con i capelli grigi che alla testa di una squadra disinnesca una cinquantina di mine; colpito a morte scompare nelle acque. I testimoni diranno: «Si faceva chiamare Medici ». La Resistenza, esercito senza anagrafe, ha molti di questi soldati ignoti.

Il giorno 24 le battaglie parallele per il porto e per la città proseguono con alterne vicende. Sono entrati in azione nel centro i GAP e le SAP, le carceri di Marassi cadono nelle mani dei ribelli, i prigionieri politici chiedono armi per combattere. Dalla periferia buone notizie: Rivarolo è partigiana, il Comando regionale è alla Certosa. Ma in città c'è una dura sorpresa: i fascisti del tenente Pisano, travestiti da partigiani, si sono impadroniti della prefettura; un loro giornale con la testata «Secolo nuovo» tenta di seminare l'indecisione, la confusione, finge di parlare per conto di un comitato di liberazione, annuncia la nomina di un nuovo prefetto, di un nuovo questore, e invita a sospendere la lotta, ad affidare l'ordine ai metropolitani. Dal porto sale una colonna di fumo, brucia una nave carica di benzina, l'incendio potrebbe propagarsi alla città, ma Berninghaus non cede, è deciso a resistere ad oltranza.

Genova la sera del 24 è in questa dannata. situazione: il porto in mano nemica, il centro conteso fra fascisti e partigiani, la cintura fortificata presidiata dai tedeschi a loro volta assediati dalle divisioni partigiane. E non si può sperare in un immediato soccorso alleato, le avanguardie inglesi sono a La Spezia, a cento chilometri di distanza, e in mezzo ci sono forze nemiche, montagne.

Ma la mattina del 25 la situazione è decisamente migliorata: durante la notte i partigiani hanno rotto in più punti la cerchia delle postazioni d'artiglieria tedesche e hanno espugnato sull'altura di Granarolo la stazione radio, che comincia a trasmettere messaggi del CLN. Tutt'intorno, più in alto, la Pinan-Cichero ha completato il blocco delle vie di uscita. Meinhold non ha più scampo e alle 19,30 firma la resa la rimette nelle mani dell'operaio comunista Remo Scappini: «Tutte le Forze armate germaniche di terra e di mare alle dipendenze del signor generale Meinhold· si arrendono alle Forze armate del Corpo volontari della libertà .alle dipendenze del Comando militare per la Liguria ... ».

Ma Berninghaus dice ancora no, anzi condanna a morte il suo superiore Meinhold, colpevole di. tradimento; con lui dice no il capitano Mario Arillo della X Mas, e insieme compiono le ultime distruzioni. E allora battaglia: vi entrano i partigiani della montagna, della Cichero e della Mingo, mentre Genova è il teatro di caotici movimenti: una colonna di 2.000 fascisti e tedeschi che ha cercato di aprirsi la strada verso Savona deve rifluire in città: parte si trincerano nel grattacielo, parte riescono a fuggire verso Uscio. Nella tarda serata del 26 finalmente anche i nazifascisti del porto si arrendono. Restano alcuni reparti di artiglieria sulle colline, lassù c'è un comandante che risponde ad ogni proposta di resa: «lo non sparo sulla città, ma voi non attaccatemi. Voglio consegnarmi agli Alleati ». La minaccia dura fino all'ultima ora.

La città è libera, il CLN la controlla, rimette in funzione i .servizi pubblici. Il pomeriggio del 26 gli Alleati sono a Rapallo, dal loro Comando si telefona al Comando partigiano. L'incontro avviene l'indomani mattina a Nervi. I partigiani consegnano agli Alleati 6.000 prigionieri catturati in città, 12.000 in montagna; ma Genova no, anche se formalmente bisogna fare il passaggio dei poteri Genova è dei genovesi, l'hanno pagata con migliaia di morti e di feriti.


La battaglia del Piemonte

Solo il Piemonte ha le forze per tentare una grande bat­taglia manovrata e ci va, senza esitazioni, rischiando lo ster­minio in una pianura percorsa da grandi unità tedesche ancora compatte. Le più forti unità gielliste, la 1a e la 2a divisione, scendono su Cuneo e Saluzzo con i garibaldini della 9a e con gli autonomi di Cosa. Giellisti, maurini e garibaldini delle Langhe, in barba agli. ordini operativi, iniziano la corsa su Torino, l'alto Monferrato pensa ad Asti, i garibaldini di Ciro a Novara; calano su Torino le divisioni dalle valli di Susa, di Lanzo, del Chisone, del·Pellice.

La battaglia per Cuneo inizia il 25 aprile. Nei giorni precedenti i partigiani hanno costretto alla resa nelle vallate i battaglioni fascisti della Monterosa e della Littorio, salvate le centrali; ora si va al capoluogo, è l'ottavo assedio nella storia della città, quello posto dai suoi figli per liberarla. I tedeschi devono tenere la città per garantire il passaggio alle divisioni in ritirata dalla Liguria per le valli Roja e Vermenagna; e possono farlo, la città sta su un altopiano fra due fiumi, le artiglierie e le mitragliere da 20 battono tutte le provenienze, i ponti, le passerelle. Ma Ettore Rosa e i giellisti guadano il fiume Stura nella notte, risalgono la ripa, mettono in fuga, in località Torrette, un avamposto tedesco, raggiungono i quartieri ovest della città dov'è scoppiata l'insurrezione.

Dopo due giorni di lotta nell'abitato le posizioni si cristallizzano: i tedeschi chiusi nei loro fortini controllano da ponte a ponte la strada Borgo San Dalmazzo-Torino, tengono libero il tratto nell'abitato. Una commissione cittadina viene da Rosa a riferire la proposta tedesca:

« Sospendete l'attacco ed eviterete distruzioni alla città». « No », risponde Rosa, «non faccio la guerra sul piano di Cuneo, ma su quello nazionale ».

Arrivano a dar man forte i reparti giellisti e garibaldini che hanno occupato Savigliano e Saluzzo, arrivano i pezzi da 88 catturati a Busca, sparano sulla caserma del 2° alpini, fortilizio tedesco. I partigiani si battono con accanimento, devono liberare la città prima che vi giungano gli Alleati, prima soprattutto che vi calino le truppe francesi del generale Doyen. Il tenente Barton, che conosce le loro ansie, va a trattare con i tedeschi nel pomeriggio del 28 aprile. Non cedono ancora, anche se la città è ormai partigiana, con tricolori a tutte le finestre: Nuto Revelli tornato dalla Francia è passato sotto casa sua, ma senza salirvi; prima bisogna finire questo lavoro che si chiama liberazione.

Il 29 aprile la battaglia è finita, i capi della ribellione si ritrovano dopo venti mesi nella loro città: Dalmastro, Ventre, Rosa, Revelli giellisti,.i comunisti Comollo e Bazzanini, l'autonomo Cosa. Manca Duccio Galimbertl, morto, manca Livio Bianco, preso dalla battaglia per Torino. I francesi non. sono scesi in forze a Cuneo, si sono fermati nelle alte valli. C’e stato a Limonetto un incidente con i partigiani, un soldato marocchino ucciso per questa contesa di cui non si sa niente. Ed è arrivata in tempo la minaccia di Truman a De Gaulle: ogni tentativo di entrare in Italia significherebbe la cessazione immediata degli aiuti americani.

Il 25 aprile, quando inizia la battaglia per Torino, la città è un campo fortificato, interi quartieri sono circondati dal filo spinato, le strade sbarrate dai cavalli di frisia, dalle cupole dei fortini. «Nel paesaggio lunare di certi angoli di periferia », riferisce Giorgio Amendola, « si scontrano le pattuglie repubblichine e partigiane» Sono pronti a combattere immediatamente 9.000 delle squadre cittadine, e 1.000 autonomi, 3.000 garibaldini, 1.600 giellisti, 1.500 matteottini, affluiti in città dalle montagne. Le squadre. operaie pensano alle fabbriche, alla Fiat Grandi Motori piazzano le mitragliere da 20, l'ordine che stabilisce l'insurrezione. per il 26 arriva dovunque in ritardo, la bandiera tricolore già sventola sui fumaioli. L'ordine non è piaciuto al colonnello Stevens, comandante delle missioni alleate, vi ha acconsentito a malincuore ma a condizione che prima si liberino le strade provenienti da Asti e da Casale, per cui passeranno le avanguardie alleate. Poi scompare, si ritira in una villa sulla collina .. A tarda sera i resistenti della STIPEL, la centrale telefonica, intercettano gli ordini tedeschi: hanno deciso di restare in città per attendervi le truppe che si ritirano dal basso Piemonte. Stevens, in buona o in mala fede, ne trae pretesto per tentare un nuovo rinvio dell'insurrezione, dal suo rifugio manda a Barbato . l'ordine di non muoversi. L'ordine è su carta intestata del CMRP. Barbato lo conserva per la storia, ma scende in città.

Il 26 il Comando tedesco tratta: Torino diventi città aperta; il tedesco eviterà ogni distruzione purché sia libero il transito per la colonna Liebe che sale da Cuneo, composta dalla 5a e dalla 34a divisione; in caso contrario farà della città «una nuova Varsavia ».

No a Torino, no in tutti i luoghi dell'Italia insorta. I nazi, trincerati nel quadrilatero fra corso Vittorio Emanuele, via Arcivescovado via XX Settembre, corso Galileo Ferraris, ne escono per furenti sortite, per cannoneggiare le fabbriche sui cui sventolano le nostre bandiere. Sono venticinque carri armati che percorrono la città senza riuscire a spezzare le file di un esercito ribelle che ingrossa di ora in ora, manovrato con sicurezza sempre maggiore dal Comando che si è allogato alla Lancia in Borgo San. Paolo. Qui giunge un altra ambasciata tedesca: chiedono di far passare le divisioni in ritirata in un tempo massimo di quarantotto ore. La risposta è sempre no.

Il 28 le formazioni della montagna giungono in città, l'armata partigiana conquista la città strada per strada: la 8a Garibaldi arriva a corso Valdocco; Mauri, al termine della lunga corsa, occupa i ponti a Moncalieri, seguito da! suoi concorrenti, i giellisti della 3a di Alberto Bianco e i garibaldini di Nanni. Il 28 i tedeschi sgomberano gran parte del presidio. Il 29 ricompare il colonnello Stevens, chiede al Comando partigiano di far saltare i ponti sul Po; non gli danno retta, i ponti stanno in piedi per il domani, li difendono i partigiani.

Il generale Schlemmer chiede ancora via libera per le divisioni della colonna Liebe, il rifiuto glielo porta il colonnello Contini: Schlemmer legge, si inchina, saluta freddamente. Incomincia la corsa pazza fra la città e il Canavese delle diviosioni tedesche che non vogliono arrendersi ai partigiani.


Gli Alleati giungono a Torino il l° maggio, sei giorni dopo l'inizio della battaglia: In valle d'Aosta il capoluogo è occupato il 26, i francesi si fermano a Pre Saint-Didier. Novara, Vercelli, Alessandria cadono una ad una; qua e là bruciano i fuochi delle ultime stragi a Grugliasco, Collegno.

da “Storia dell’Italia partigiana” di Giorgio Bocca

 

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