Arnaldo Pellizzoni: prigioniero di guerra numero 20765 - Stammlager VI G
Arnaldo Pellizzoni (Lissone il 24/8/1915 - 24/12/1999) ha venticinque anni, quando viene richiamato alle armi nel Maggio 1940; partecipa alla seconda guerra mondiale, prima sul fronte francese poi sul fronte greco-albanese. Sull’ isola greca di Tinos, occupata dagli italiani, viene fatto prigioniero dai tedeschi subito dopo l’ 8 Settembre 1943 e deportato in campo di concentramento in Germania, prigioniero numero 20765.
Liberato dagli americani nell’ Aprile 1945, ritorna a Lissone il 4 Settembre 1945.
Nel documento “Per non dimenticare: diario di guerra di Arnaldo Pellizzoni” ho ritrascritto parti del diario di mio padre; altri fatti me li ha raccontati.
Il diario si riferisce ai cinque anni, dal 1940 al 1945, in cui l’Italia è stata trascinata in una guerra inutile e sciagurata da un regime dittatoriale, il fascismo, che "aveva fatto della guerra un dato fondamentale della propria azione politica e dell'educazione dei giovani, lo sbocco inevitabile di una concezione falsa di dominio e di oppressione”. Sono anche gli anni di vita che un giovane, dai 25 ai 30 anni, avrebbe desiderato, come tanti suoi coetanei, vivere diversamente: penso a quante sofferenze abbia provato personalmente e con lui i suoi diretti familiari. Nonostante tutte le traversie, è riuscito a sopravvivere, a resistere ed a ritornare dal campo di concentramento, a differenza di tanti altri, caduti o dispersi in guerra, o dei 20.000 militari deceduti in prigionia.
Dice Gerard Schreiber, ufficiale della marina tedesca, nel suo libro “ I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943–1945 Traditi - Disprezzati – Dimenticati”: “… i militari rinchiusi nei campi di prigionia nazisti, nel rifiutare ogni forma di collaborazione con la Repubblica Sociale Italiana e con il Terzo Reich, attuarono anche loro, sia pure senza l’uso delle armi, una forma di resistenza …”
La prigionia nei lager tedeschi va considerata parte integrante della resistenza antifascista e si iscrive a pieno titolo nella Storia della Resistenza che ebbe molte forme: quella operata dagli intellettuali e da uomini politici (che si opposero alla dittatura fascista, assassinati o imprigionati per diversi anni o mandati al confino o costretti a rifugiarsi all’estero), quella degli operai in sciopero nelle fabbriche, quella dei partigiani sulle montagne; resistenti furono anche i civili che li aiutarono, i militari che si schierarono con il Regno del Sud.
Anche Nuto Revelli, scrittore-partigiano, così si espresse sulla vicenda dei militari italiani internati: “ la prigionia nei lager tedeschi è una pagina della Resistenza almeno nobile ed eroica quanto la nostra guerra di liberazione”.
Il diario di mio padre è fitto di annotazioni nel primo anno di guerra: dalla partenza dall’Italia fino all’arrivo a all’isola di Tinos. Credo che ciò sia dovuto al forte impatto con la cruda realtà della guerra da parte di un giovane venticinquenne, che vede la morte particolarmente vicina e che vede morire alcuni suoi commilitoni.
Il diario diventa scarno durante il presidio sull’isola di Tinos: è questo forse il periodo che, nonostante la lontananza dalla propria terra e dagli affetti familiari (una sola volta rientrerà a Lissone durante i due anni di permanenza sull’isola), trascorre con una certa tranquillità.
Pur essendo gli Italiani degli occupanti, riesce a stabilire una buona relazione con una famiglia greca (i Prelorenzo, di antiche origini italiane) che addirittura gli chiedono di fare da padrino al battesimo del loro figlio ultimogenito Giovanni: ho potuto conoscere personalmente Giovanni in occasione di una sua visita in Italia.
Durante la permanenza a Tinos trascrive a penna su un quaderno il suo diario, di piccole dimensioni e scritto a matita, forse per timore che l’originale diventi illeggibile.
Il diario è sintetico ed essenziale dopo l’8 Settembre e durante la permanenza nel campo di concentramento in Germania. Nel lager ogni sforzo è rivolto alla sopravvivenza; tra la fatica del lavoro, acuita da una alimentazione scarsa e di poche calorie, le marce di trasferimento dal campo alla fabbrica e ritorno, i controlli e le perquisizioni, di tempo per scrivere ne rimane ben poco.
Alcuni episodi mi sono stati raccontati direttamente da mio padre gradualmente. Credo che per diversi anni, perfino all’interno delle famiglie, le esperienze di quel periodo fossero considerate un argomento di cui era meglio non parlare. Penso che anche mio padre abbia condiviso l’affermazione di un altro deportato italiano: “raccontare poco non era giusto, raccontare il vero non si era creduti, allora ho evitato di raccontare, sono stato prigioniero e bon, dicevo …” .
Pur con una rabbia interiore, il suo intimo desiderio era di ricostrursi una vita, accantonando nella memoria i disagi e i patimenti subiti.
Anche lui era uno dei 600.000 Internati Militari Italiani (IMI): secondo questo status, deciso da Hitler il 20 Settembre 1943, agli IMI doveva essere riservato, e fu riservato in concreto, un trattamento peggiore che a qualsiasi altra persona catturata in guerra.
Erano diventati tali per quel “NO” che dissero quando “con lusinghe e minacce” fu chiesto loro “di riprendere le armi per il Grande Reich e poi per la Repubblica Sociale Italiana di Mussolini”.
Renato Pellizzoni, figlio di Arnaldo, attuale presidente dell’ANPI Sezione di Lissone
Per non dimenticare: diario di guerra di Arnaldo Pellizzoni
«Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell'ignoranza, come eravamo cresciuti noi della "generazione del Littorio". Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta»
Nuto Revelli
(ufficiale degli alpini della Tridentina nella tragedia della campagna di Russia, poi comandante partigiano di Giustizia e Libertà e scrittore (1919-2004), dal discorso in occasione del conferimento della laurea honoris causa, 1999)
"Anche se ancora pochi di noi sono testimoni, questo nostro passato non deve restare nell’oblio perché ora i nostri ventri sono sazi e le case calde, perché abbiamo un letto pulito per dormire e i nostri nipoti sorridono compassionevoli se ci vedono raccogliere e portare alla bocca le briciole che rimangono sulla tovaglia o se mettiamo da parte un pezzo di pane rimasto sulla tavola.
Faccio mie le parole di Primo Levi:
«Voi che viveve sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando la sera il cibo caldo e visi amici … meditate che questo è stato» ".
Mario Rigoni Stern
(scrittore ed ex-deportato
da "Ritorno nel lager I/B" in "Aspettando l’alba e altri racconti" Einaudi 2004)
Per non dimenticare: da un diario di guerra (1940 1945)
«In questo documento ho cercato di riassumere gli avvenimenti di cui sono stato protagonista dal 1940 al 1945.
E’ in breve il racconto di cinque anni della mia vita, dall’età di 25 ai 30 anni.
Sono pagine che non si leggono sui libri di storia, ma non sono solamente delle vicende personali; sono un pezzo di Storia degli anni di guerra, simile a quella di molti altri soldati italiani che nell’ estate del 1945 ritornarono dai lager nazisti: lì erano stati deportati dopo l’ 8 Settembre 1943. A loro era stato offerto di tornare liberi indossando le divise della Wehrmacht o della Repubblica di Salò, ma essi rifiutarono.
Ho potuto ricostruire i fatti basandomi non solo sul ricordo ma anche grazie ad un piccolo diario da me tenuto durante gli anni dal 1940 al 1945.
Questo diario, scritto a matita, e’ stato da me custodito gelosamente soprattutto durante la mia prigionia nel campo di concentramento in Germania. Non e’ stato facile salvarlo da tutte le perquisizioni e anche quando sembrava ormai irreparabilmente perso sotto le macerie della mia baracca, distrutta da un bombardamento, sono riuscito fortunatamente a recuperarlo.
Penso che la mia testimonianza, insieme a quella di altri protagonisti della seconda guerra mondiale, possa essere utile ai giovani.
La conoscenza delle conseguenze della guerra non solo sulla vita delle nazioni ma anche sui singoli individui che la compongono, possono costituire un momento di riflessione per le nuove generazioni, affinché non si ripetano più in futuro tragedie come quelle che noi abbiamo vissuto».
Arnaldo Pellizzoni
Lissone, Aprile 1995
«Il periodo della mia partecipazione alla seconda guerra mondiale si può suddividere in quattro fasi:
- il fronte francese (estate 1940)
- il fronte greco-albanese (Natale 1940 - Luglio 1941)
- il presidio a Tinos, isola greca del Mar Egeo (Agosto 1941 - Settembre 1943)
- il campo di concentramento in Germania (ottobre 1943 - Agosto 1945)
FRONTE FRANCESE
«Il mio coinvolgimento diretto nella seconda guerra mondiale ha inizio nel 1940.
All’età di 25 anni, il 24 Maggio 1940 vengo richiamato alle armi al Distretto di Monza in attesa di partire per il fronte francese e poi trasferito ad Ormea, in provincia di Cuneo: il 6 Giugno il 3° Battaglione dell’ 8° Reggimento Fanteria Cuneo, di cui faccio parte, si avvicina al Col di Tenda, dove rimane accampato».
L’ 8° Reggimento Fanteria ha sempre fatto parte della Divisione Cuneo (nata dal Reggimento Nizza nel 1701 poi trasformata in La Marina nel 1713 e poi ancora in Brigata Cuneo e da essa in Divisione (nella foto la mia medaglia dell’ 8° Reggimento Fanteria Cuneo).
Il 10 giugno 1940 Mussolini annunciò con enfasi l'entrata in guerra dell'Italia, a fianco della Germania, contro la Francia e l'Inghilterra. Quindi fece muovere le truppe sul versante alpino, tra il Moncenisio e il mar Ligure, per invadere da sud la Francia, già messa in ginocchio dalla ben più possente invasione tedesca. Ormai per la Francia era la fine: il 14 giugno i tedeschi occuparono Parigi.
Il 22 giugno 1940 la Francia firmò l'armistizio con i tedeschi nella foresta di Compiègne.
Il 24 - Armistizio italo-francese
Pur essendo stata breve la battaglia sul fronte delle Alpi, costò alle nostre forze armate notevoli perdite (circa 600 caduti, 2000 feriti e 600 dispersi).
L'Italia ottenne la smilitarizzazione di una zona di 50 chilometri lungo il confine italo-francese.
«Dopo l’armistizio, con il 3° Battaglione rimango nella zona di Vernante (in provincia di Cuneo) fino al mese di Agosto, passando le giornate a fare esercitazioni, per poi essere trasferito a Monza. Si cominciava a sperare di essere mandati a casa.
Data la vicinanza con Lissone, durante la libera uscita potevo passare qualche ora in famiglia.
Nel frattempo il 25 ottobre 1940 Mussolini decise di attaccare la Grecia partendo dall'Albania, con la convinzione di ottenere una facile vittoria (ma l'esercito greco non solo resistette valorosamente ma inizialmente occupò addirittura il territorio albanese).
Un giorno furono revocati tutti i permessi.
Il 21 Dicembre 1940 dalla stazione di Milano Rogoredo si parte per una nuova destinazione: il fronte greco-albanese.
Il treno arriva a Brindisi il giorno 23».
FRONTE GRECO-ALBANESE
«Il 23 Dicembre con la mia Compagnia, la 11ma Compagnia Fucilieri del 3° Battaglione dell’8° Reggimento Fanteria Cuneo, mi imbarco sulla nave Argentina che con altre due navi, Italia e Firenze, formano un convoglio, scortato da una nave ausiliaria. Ci dirigiamo verso l’Albania. La vigilia di Natale, durante la navigazione in Adriatico, la Firenze viene colpita a poppa da un siluro lanciato da un sottomarino inglese; altri due siluri vanno a vuoto».
«Il mare era in burrasca. L’affondamento avvenne abbastanza lentamente: tutti coloro che si trovavano sul ponte dalla parte opposta al lato silurato e riuscirono a saltare sul ponte della nave Barletta, giunta in soccorso, si salvarono. Nel naufragio morirono circa 100 alpini.
In serata si arriva nel golfo Valona (attuale Vlorë) in Albania e si trascorre la notte di Natale a bordo della nave.
Il mattino di Natale scendiamo e ci dirigiamo verso Valona: in un campo, in mezzo al fieno, trascorro il Natale (sarà il primo di cinque passati lontano da casa).
Il giorno di Santo Stefano trascorre in attesa della partenza.
Il 27 Dicembre 1940 su automezzi si parte per portare rinforzi al fronte.
Capodanno 1941: sotto una bufera di pioggia e neve inizia il nuovo anno costringendoci a ritornare verso Valona. Solo il giorno 3 Gennaio si riparte su automezzi per Dhermi, località a circa 80 Km da Valona, per poi proseguire a piedi verso la linea di combattimento, a Vunoi. Qualcuno dice: “laggiù ci saranno i greci, povera e brava gente di montagna, che esporranno la bandiera bianca”… Ed invece …
Il 4 Gennaio 1941 i primi scontri: 4 caduti italiani sotto i colpi dei mortai».
Dal mio diario:
«Giorno 11 Gennaio 1941, fuoco intenso di artiglieria da entrambe le parti mentre la pioggia cade a dirotto. Un ufficiale greco fatto prigioniero afferma: “I Greci perderanno ma l’Albania sarà la tomba degli Italiani!”
13 Gennaio: finalmente un po’ di sole ma a mezzogiorno, una scarica di mortaio piomba a circa 50 metri dalla mia tenda; il tenente della mia compagnia viene ferito ad una gamba da una scheggia.
Si dorme poco e così nelle ore di riposo (si fa per dire) sotto la tenda, con le pareti rinforzate da sacchi di terra, riesco a scrivere qualche riga sul diario.
18 Gennaio: Neve, pioggia e vento. La nostra artiglieria spara dalla mattina alla sera: il mio plotone riempie sacchi di terra per rinforzare i fortini.
21 Gennaio: 8 nostri aeroplani con manovre in picchiata bombardano le postazioni greche.
23 Gennaio: scambio di diversi colpi di artiglieria; alcuni colpi sparati dai Greci sfiorano la nostra postazione e colpiscono una casetta di fronte sulla vetta e fanno una strage…
24 Gennaio: … colpi sopra colpi di mortaio che fanno rabbrividire…».
«26 Gennaio: verso le due del pomeriggio giungono 3 nostre navi cacciatorpediniere che bombardano la zona costiera.
26 Gennaio: 1 morto e 5 feriti della mia Compagnia … Oggi le nostre truppe hanno sfondato il fronte a Tepeleni e avanzano ….
3 Febbraio: il sergente della mia Compagnia, che dorme nella mia stessa tenda, mentre sta raggiungendo la tenda comando viene raggiunto da una scarica di mitragliatrice che lo ferisce ad una gamba.
4 Febbraio: fa freddo, c’e’ bufera: un cecchino nemico da un’altura spara ad ogni movimento di soldato.
12 Febbraio: … mattinata primaverile splendida … osservando dalla nostra postazione vediamo il mare calmo … ma la nostra artiglieria spara granate Shrapnel verso quota 1096».
«16 febbraio: mentre io ed alcuni uomini della Compagnia ci apprestiamo alla distribuzione del rancio serale, si scatena il finimondo con bombe che cadono da ogni parte; colpi di mitragliatrice; bilancio: 6 feriti portati su barelle all’infermeria. Il rancio viene distribuito il mattino seguente.
20 Febbraio: la mia tenda viene sfiorata da vari colpi che cadono fortunatamente a poca distanza.
27 Febbraio: dalla nostra postazione assistiamo ad una battaglia aerea.
2 Marzo 1941: massiccio attacco aereo italiano con una trentina tra bombardieri e caccia sulle postazioni greche».
«4 Marzo: di nuovo aerei italiani bombardano le postazioni greche, mentre navi italiane sparano dal mare verso la costa.
20 Marzo: devo lasciare la prima linea per l’infermeria dove rimango per cinque giorni causa febbre alta.
28 Marzo: verso le 9 del mattino tre colpi di mortaio nemico centrano il nostro fortino in quel momento vuoto. Distrutte solo alcune armi.
31 Marzo: mal di denti.
9 Aprile: il comando ci informa che le truppe dell’Asse hanno occupato Salonicco
15 Aprile: il nostro battaglione passa all’attacco; in un punto un po’ esposto una raffica di mitra uccide il tenente ed un soldato della mia Compagnia.
18 Aprile: l’attacco è riuscito e si procede sul territorio. In uno dei primi paesi occupati gruppi di bambini escono dai rifugi intonando canti patriottici.
L’ avanzata continua verso Porto Edda, lo scalo albanese di Santi Quaranta, dove si entra il giorno 19 Aprile; si procede con cautela, mentre i genieri cercano di bonificare il terreno dalle mine.
Nel mese di Maggio e di Giugno, dopo continui spostamenti a piedi e su autocarri, si arriva ad Igoumenitsa poi al porto di Missolungi, sul golfo di Patrasso».
«24 Luglio 1941: imbarco sulla nave Città di Agrigento; attraverso lo stretto di Corinto arriviamo al Pireo, il porto di Atene, la sera del 26 Luglio.
27 Luglio: partenza per l’isola di Siros, scortati da 4 navi ausiliarie e da aerei che sganciano bombe in mare a protezione da eventuali attacchi di sottomarini inglesi. A Siros si insedia il centro di comando della zona.
29 Luglio: partenza per l’isola di Andros. Si sbarca nel porto di Gavrion sulla costa occidentale dell’isola e poi a piedi si raggiunge Andros, distante circa 30 Km sulla costa orientale.
Dal 1 al 6 Agosto con un motoveliero veniamo trasportati sull’isola di Tinos».
PRESIDIO A TINOS (Agosto 1941 - Settembre 1943)
«1 Agosto: arrivo sull’isola di Tinos».
L’11ma Armata del generale Carlo Vecchierelli impiegata in Grecia, aveva la sede del Comando ad Atene. Era composta da tre Corpi d’Armata italiani e da un Corpo d’Armata tedesco. Alla fine di Luglio del 1943 l’11ma Armata passò alla dipendenza di impiego del Gruppo Armate Est e poi a quelle del Comando Supremo. Erano agli ordini dell’ammiraglio Inigo Campioni, con sede del comando a Rodi. L’ammiraglio assolveva anche i compiti di Governatore del Dodecaneso.
Il dislocamento delle truppe dell’esercito italiano su almeno 29 isole (17 isole Cicladi, 3 Sporadi settentrionali e 9 isole del Dodecaneso) comportava un tal frazionamento da far comprendere, almeno in parte, i facili successi ottenuti dalla Wehrmacht quando, dopo l’armistizio, si rivolse contro le isole.
La Divisione Fanteria “Cuneo” occupava con i suoi uomini venti isole (Cicladi e Sporadi).
«A Tinos, isola delle Cicladi, nel mar Egeo meridionale, sono rimasto per ben due anni fino all’ 8 Settembre 1943, tranne una breve parentesi di un mese di licenza in Italia, nell’ottobre 1941. Anche il rientro in Italia per questa licenza è stato avventuroso.
Dal mio diario: 7 Ottobre 1941 – ore 8 partenza da Tinos; alle ore 14 rientro nel porto per mare in burrasca. Altro tentativo il giorno 15, più fortunato: arrivo a Rafina da cui, in autobus, il giorno 16 raggiungo Atene. Dopo 4 giorni, il 21 Ottobre, partenza in treno per l’Italia. Nel mese di Novembre, ripercorrendo lo stesso tragitto, ritorno sull’isola di Tinos».
«Il compito affidato alla mia Compagnia era di presidiare l’isola. Il nostro alloggio era presso un’ex caserma della polizia greca».
«Durante questo periodo di occupazione del territorio ellenico, ho cercato di mantenere dei rapporti corretti con la popolazione greca, nonostante alcuni rigidi regolamenti. Ho conosciuto una famiglia di antiche origini italiane, i Prelorenzo, e sono stato il padrino di battesimo di un loro figlio, Giovanni. (Questi, cresciuto, durante un suo viaggio in Italia nel 1965, è venuto a trovarmi a Lissone). I greci con i quali sono stato a contatto, non avevano nulla dello stereotipo delineato dalla roboante propaganda fascista; era gente comune come noi, con gli stessi problemi e le stesse piccole gioie».
«Come sergente ho cercato di frenare le intemperanze di qualche soldato un po’ esaltato, prevenendo delle situazioni che avrebbero potuto avere conseguenze negative sia per i militari italiani che per la gente dell’isola».
Nel complesso tra i militari si era andata formando una sorta di mentalità di pace, perché lo stazionare nelle Sporadi, nelle Cicladi o nel Dodecaneso significava in fondo vivere indisturbati.
«I giorni seguenti il 25 Luglio 1943 ci giunse la notizia dell’arresto di Mussolini. La domanda che circolava tra noi soldati era cosa fosse mai successo a Roma e se il fascismo era finito veramente o no. A queste e ad altre domande non sapevamo dare una risposta. Avevamo anche capito che neanche i nostri ufficiali avevano compreso la situazione che si andava creando in Italia».
Alle 18,30 dell’8 Settembre 1943 il generale statunitense Eisenhower fece trasmettere da Radio Algeri il comunicato che il Governo italiano aveva chiesto la resa incondizionata delle sue Forze Armate.
Pietro Badoglio, capo del governo italiano, annuncia la firma dell'armistizio avvenuta segretamente cinque giorni prima, con il seguente proclama:
"Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza".
«In tarda serata cominciò a circolare sull’isola la notizia, non controllata e attinta non si sapeva bene da quale fonte, che un armistizio era stato concluso fra l’Italia, l’Inghilterra, l’America e la Russia. La situazione ci si presentava oscura, greve di incognite.
Qualche ufficiale tenta di lasciare l’isola, ma viene convinto anche con minacce a non abbandonare i propri soldati; qualcun altro, per senso di responsabilità, decide di non separarsi dai suoi soldati e di condividerne le incertezze della sorte».
I tedeschi allora diedero il via all’operazione “Achse”, i cui preparativi erano iniziati già nel mese di Agosto; il piano mirava a neutralizzare le forze italiane dislocate nel mare Egeo. Gli italiani dovevano proseguire la guerra a fianco dei tedeschi o, in caso di rifiuto, consegnare le armi e tutto l’equipaggiamento ai tedeschi. In caso contrario le truppe tedesche avevano avuto l’ordine di usare la forza.
L'irresolutezza e la contraddittorietà dell'atteggiamento dei comandi furono alcuni dei motivi che determinarono la caduta del presidio di Rodi e dell'intero Egeo, dove pur non mancarono ufficiali capaci e coraggiosi che seppero prendere l'iniziativa e battersi con accanimento.
Dal diario:
«11 Settembre 1943 — I tedeschi sbarcati sull’isola di Tinos, eseguono un rastrellamento: solo 5 militari della mia Compagnia, dismessa l’uniforme, riescono a sfuggire nascondendosi tra la popolazione greca sui monti dell’isola, rischiando la fucilazione.»
Una direttiva tedesca del 15 Settembre 1943 per il trattamento degli appartenenti alle Forze Armate italiane precisava con frase lapidaria: “chi non è con noi, è contro di noi”.
Riuniti i militari italiani al porto, occorre scegliere: con o contro i tedeschi, dividendosi in due gruppi. La decisione è unanime, tutti si schierano contro.
Gli ufficiali vengono divisi dal resto della truppa, per evitare che possa “divampare la resistenza di unità intere”.
«Disarmato, come prigioniero vengo portato con un caicco sull’isola di Siros e da qui, il 18 settembre, in nave giungo al Pireo, il porto di Atene. La traversata mi parve eterna, ma alla fine giungemmo nella capitale greca: vengo smistato alla periferia della città, in un primo campo di transito di prigionieri italiani.
Giravano voci che una volta cedute le armi saremmo stati rimpatriati. Ma ben presto ciò si rivelò falso».
Il dominio assoluto del mare da parte degli Alleati ostacolò notevolmente l'evacuazione delle isole. Un ordine criminale del Führer stabiliva che per i trasporti su nave decadevano tutte le norme di sicurezza relative alla limitazione numerica degli imbarcati e che occorreva sfruttare lo spazio al massimo senza curarsi di eventuali perdite.
I trasporti dalle isole dell'Egeo verso il continente, avvenuti in tali condizioni, costarono la vita a migliaia di prigionieri italiani (circa 13.000) periti in seguito all'affondamento di vari piroscafi colpiti da unità di superficie e da sommergibili delle forze alleate.
L’obiettivo di Hitler era quello di eliminare dallo scacchiere della guerra uomini che, eventualmente schierati sul fronte opposto, avrebbero potuto creare problemi alle sue armate e, nello stesso tempo, recuperare braccia da impiegare nell’industria tedesca.
Lo stato maggiore della Wehrmacht appoggiò il proposito di Speer, il ministro degli Armamenti, di impiegare il più rapidamente possibile i prigionieri italiani come forza lavoro, soprattutto a fronte della necessità di reclutare un sempre maggior numero di lavoratori tedeschi da inviare al fronte per realizzare, secondo le parole del ministro della propaganda Goebbels, la “guerra totale” che aveva come obiettivo la vittoria finale della Germania.
«Inizialmente considerati “prigionieri di guerra” la nostra qualifica mutò presto in “IMI internati militari italiani”».
Il 20 settembre 1943, dopo la liberazione di Mussolini e poco prima della proclamazione del nuovo stato fascista (la Repubblica Sociale Italiana), Hitler ordinò di trasformare i prigionieri italiani in “internati militari”. Il mantenimento dello status di prigionieri di guerra per gli internati militari avrebbe di fatto significato trattare alla stregua di una potenza nemica lo stato che Mussolini si apprestava a proclamare.
“Né d’altra parte i nazifascisti avrebbero potuto fare diversamente: chiamarci con il vero nome di “prigionieri di guerra” avrebbe significato che quasi settecentomila italiani ci eravamo schierati con altri italiani che si battevano contro il nazifascismo sul fronte italiano, in Jugoslavia e con i partigiani del Nord Italia. Sarebbe stato il riconoscimento dello stato di guerra in cui si trovava nuovamente quasi tutto il popolo italiano, ma ora contro la Germania; sarebbe stata un’ulteriore prova dell’assurdità della fantomatica repubblica fascista”.
Oltre il reticolato / la vita è bella
qua dentro c'è la morte / di sentinella.
Sotto una coltre bianca / sta un internato
ormai non ha più freddo / se ha nevicato.
Per la seconda volta / m'han prelevato
lo schiavo dei Tedeschi / son diventato.
Stanotte per la fame / non so dormire
vorrei chiudere gli occhi / e poi morire.
Ma non posso morire / così per via
devo portar quest'ossa / a mamma mia.
Canzone degli internati, sull' aria di Sul ponte di Perati.
CAMPO DI CONCENTRAMENTO IN GERMANIA (Ottobre 1943 - Agosto 1945)
«1 Ottobre 1943: vengo caricato su un vagone ferroviario con la scritta "Hommes 40, chevaux 8"; 40 uomini in un carro merci, del tipo usato per il trasporto di cavalli. I trasporti ferroviari venivano effettuati sfruttando lo spazio disponibile sino all’estremo limite delle capacità di carico.
Indossavamo le nostre uniformi, con zaino, cinturone senza baionetta, tascapane con gavetta e borraccia.
Il treno parte per una destinazione a noi ancora sconosciuta. Durante alcune soste in piccole stazioni, offriamo alle persone che si avvicinano al treno qualche indumento leggero, contenuto nei nostri zaini, in cambio di alimenti.
Poi i carri ferroviari vengono piombati. Allora anche i più ottimisti cominciano a perdere la fiducia di essere riportati in Italia.
Passata Lubiana, il treno prende la direzione verso nord. Ora sappiamo che non si torna in Italia. Si viaggia solo di notte; non si sapeva dove si andava. Durante il giorno veniva aperto un vagone alla volta e i 40 uomini venivano fatti scendere per i bisogni e la distribuzione di pane e zuppa.
Dopo dieci giorni giungiamo nel campo di Stablack, nei pressi di Konigsberg, in territorio della Prussia Orientale, l’attuale Kaliningrad (Russia) dove nel Campo Stellare n. 1 ci ritroviamo nel giro di pochi giorni in 25.000 prigionieri. (L’enorme campo di concentramento di Stablack arrivò a contenere fino a 70.000 prigionieri). Passiamo con gli stessi indumenti dai 35/40 gradi della Grecia alla piena stagione autunnale, con freddo, nebbia e pioggia, del Nord Europa».
«Vengo poi smistato in un altro lager: la mia nuova destinazione è un campo di concentramento nei pressi di Julich, città distante circa 40 chilometri da Colonia. Il nostro gruppo di amici più stretti cerca di non dividersi: lo stare uniti ci dà un po’ di coraggio nella sventura. Qui veniamo numerati, fotografati, schedati: sono il prigioniero N° 20765. In base alla mia professione di meccanico, vengo destinato ad una fabbrica metalmeccanica».
Sulla carta per la corrispondenza sono riportati anche i seguenti dati:
N° di prigioniero: 20765
M. – Stammlager = Mannschaftsstammlager = campo di prigionia per sottufficiali e militari di truppa VI = Regione Militare sede del Comandante dei prigionieri
G = Bonn a Rhein Arbeits–Kommando = comando di lavoro 669
Lo Stammlager VI G era nell’attuale Lander Renania Settentrionale Westfalia.
Alle dipendenze degli Stammlager vi erano gli Arbeits–Kommando, distaccamenti di minori dimensioni ubicati nelle vicinanze delle fabbriche o dei luoghi di lavoro in cui venivano impiegati i prigionieri.
«Il nuovo campo di concentramento si trova a circa sette chilometri di distanza dalla fabbrica: è composto di alcune baracche di piccole dimensioni, ognuna delle quali contiene 20 letti a castello, per 40 persone, circondate da torrette e filo spinato.
Si effettuano due appelli giornalieri, uno di primo mattino e uno alla sera per il conteggio dei prigionieri: questa operazione generalmente si protrae per un’ora, a volte due, costringendoci a stare in piedi all’aperto con qualsiasi condizione di tempo».
E’ durante uno di questi appelli che mio padre, per non so quale motivo, riceve un pugno all’occhio destro da una di queste SS. Dopo qualche anno dal suo rientro in Italia, verrà operato: l’operazione non gli restituirà completamente la vista all’occhio destro.
«Ogni giorno, esclusa la Domenica, inquadrati e scortati dalle SS, raggiungiamo a piedi la fabbrica. Alla Domenica, nel campo di concentramento è possibile assistere alla messa.
Nel mio reparto si riparano locomotive a vapore: spesso i danni consistono in perforazioni dei serbatoi dell’acqua dovuti quasi sempre ad azioni belliche.
Nel capannone della fabbrica si lavora con personale tedesco: ci sono anche prigionieri francesi e russi, questi ultimi facilmente riconoscibili perché indossano una divisa a strisce e hanno la testa parzialmente rasata (anche i prigionieri russi non sono tutelati dalla Convenzione di Ginevra e nella gerarchia dei prigionieri del Terzo Reich vengono dopo gli italiani).
Il regolamento, nonché dei limiti invalicabili, segnati sul pavimento e controllati dall’alto da soldati delle SS, impedisce ogni contatto tra prigionieri di diversa nazionalità.
Il lavoro diventa pesante soprattutto a causa della scarsissima alimentazione, del tutto insufficiente ed inadeguata per turni di lavoro di 8-10 ore.
L’unico pasto giornaliero consiste in una minestra di rape, cioè acqua con pezzi di rape, consumato in fabbrica; ogni 3 giorni al capo baracca vengono consegnati due pezzi di pane da dividere tra 40 prigionieri. Per evitare discussioni sulle parti, qualcuno costruisce una piccola bilancia. Un giorno arrivano nel lager alcuni vagoni carichi di patate. Durante la notte alcuni di noi decidono di tentare di prenderne qualcuna. Mentre siamo sui vagoni arrivano alcune SS con i cani; ci nascondiamo tra le patate per non farci vedere e per trarre in inganno l’odorato dei cani: l’operazione riesce, ma con uno spavento tale che questo alimento sarà escluso dalla mia alimentazione di libero cittadino.
Un giorno, durante una marcia di trasferimento dal campo di concentramento alla fabbrica, un prigioniero del mio gruppo, vedendo delle piccole patate ai bordi della strada, abbandona le file per raccoglierle, ma viene freddato da una mitragliata della SS che ci segue.
Durante la notte le baracche vengono chiuse dall’esterno e viene staccata l’illuminazione interna, che consiste di una piccola lampada dalla luce molto fioca. Come servizi igienici viene usato un bidone posto nel centro della baracca.
E’ consentito scrivere ai familiari solo su lettere e cartoline postali appositamente distribuite al campo: la corrispondenza è sottoposta a censura».
«Non si doveva, infatti, scrivere dove eravamo e come eravamo trattati. Si scriveva che si stava ottimamente, che il trattamento era buonissimo e che i congiunti vivessero tranquilli».
«Buoni utilizzati nel campo di concentramento come danaro:
peccato che nel lager non ci fosse nulla da poter acquistare, soprattutto di generi alimentari tranne qualche volta della birra».
Traduzione del testo sul soldo: Questo buono vale come mezzo di pagamento per prigionieri di guerra e può essere accettato e speso solamente nel campo di prigionia, presso i campi di lavoro negli spacci esplicitamente indicati. Lo scambio di questo buono come mezzo di pagamento legale deve aver luogo solamente presso le casse competenti dell’amministrazione del campo. Trasgressioni, intimidazioni e falsificazioni verranno puniti. Il capo del comando superiore delle Forze Armate.
Nel luglio 1944 scarseggia anche la carta per la corrispondenza.
Gli internati militari non potevano rivendicare per sé i diritti derivanti dalla convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra; erano pressoché sottratti al controllo della Croce Rossa Internazionale e restarono alla mercé dell’arbitrio dei tedeschi. Berlino classificando i militari italiani non come prigionieri di guerra bensì facendoli passare per internati militari, si riservò piena libertà di decidere se autorizzare o meno le attività assistenziali delle organizzazioni internazionali.
Nel dicembre 1944 Vaccai, responsabile della Repubblica Sociale Italiana, del SAI Servizio Assistenza agli Internati militari, afferma: “non era stato fatto nulla” per gli internati militari. Lo stato fantoccio di Mussolini, costretto a pagare un enorme contributo in generi alimentari non solo alle truppe della Wehrmacht presenti in Italia ma anche al Reich – ossia alla popolazione tedesca - evidentemente non era in grado di prestare dovuta assistenza ai cittadini italiani prigionieri che si trovavano in Germania.
Anche il Consolato d’Italia, in una lettera datata 17 novembre 1944, fornisce un quadro della realtà dell’internamento in Germania: il Console di Cratz, rivolgendosi al Podestà di Menaggio scrive:
“[…] in base a superiori disposizioni impartite, i militari italiani già internati in Germania in seguito agli avvenimenti dello scorso anno, sono stati passati recentemente quali lavoratori civili. Nella mia Circospezione Consolare il numero di tali ex militari internati, distribuiti nei vari campi, ammonta a circa 6000. La maggior parte di essi si trova - in fatto di vestiario e di indumenti- in una situazione veramente disastrosa. Trattasi invero di persone che già da oltre un anno trovansi qui internate ed adibite a lavori quasi sempre pesanti, che non hanno avuto finora la possibilità di rinnovare nessun capo del proprio corredo, nella maggior parte dei casi già in cattive condizioni al momento del loro arrivo in Germania dai vari fronti di guerra. L’inverno nordico con i suoi terribili rigori è ormai alle porte e si rende indispensabile e indilazionabile la necessità di provvedere in qualche modo a favore di questi infelici. […] Rimane ancora una sola via aperta: quella della solidarietà dei fratelli italiani che vivono in Patria. […]”.
La maggior parte degli internati attendeva generi alimentari e vestiti dai familiari, a volte anche inutilmente perché i vagoni ferroviari venivano saccheggiati durante il viaggio.
In una cartolina postale del lager, scritta il 18 Luglio 1944, vi sono i ringraziamenti per aver ricevuto dalla famiglia il terzo pacco con indumenti.
In un'altra lettera scritta il 24 Agosto 1944, giorno del 29° compleanno, mio padre ringrazia i genitori per aver ricevuto un pacco con indumenti personali e soprattutto cibo.
La sopravvivenza è legata a qualche pacco che si spera di riceve da casa e che si divide tra compagni di prigionia ( “… siamo come fratelli …” ).
L’arrivo di un pacco assumeva un’importanza particolare, e siccome il suo contenuto era anche un segno della partecipazione dei congiunti a casa, la sua apertura era un momento di intensa emozione che, almeno per un istante, riusciva a lenire la straziante nostalgia di casa e apriva nuove prospettive di vita.
«Gli indumenti che indosso sono gli stessi di quando sono partito per l’Albania; cerco di mantenerli in ordine come posso anche con l’aiuto del mio più caro amico, Angelo Fusetti di Cislago, che è un sarto. Un giorno nel lager faccio la conoscenza con un giovane di Vedano al Lambro, Tullio (*). Fa il parrucchiere per i tedeschi, ma anche ci rapa per aiutarci a liberarci dai parassiti.»
(*) Tullio impara il tedesco. Alla liberazione del campo di concentramento, conosce una bella ragazza tedesca. Subito si sposano. Tullio incarica Arnaldo, al rientro in Italia, di recarsi a Vedano per tranquillizzare genitori e i parenti circa la sua esistenza in vita e di prepararli alla novità del suo matrimonio con una ragazza tedesca. Tullio rientrerà in Italia solo alla fine del 1945 per tornare subito in Germania dove vivra fino al 2005, anno della sua morte.
«Durante i trasferimenti dal lager alla fabbrica sovente venivamo insultati dai civili che incontravamo: ci chiamavano in senso spregiativo “badogliani”, “traditori” oltre a sputarci addosso.
Spesso giungevano al campo di concentramento delegazioni per convincerci a collaborare con il regime fascista e nazista in cambio della libertà: la scelta era tra una vita di stenti nei lager o il lavoro coatto e un “posto” da soldato regolare del terzo Reich o della Repubblica Sociale Italiana (in questo caso vi era la possibilità di ritornare subito in patria). Ma quelli che accettarono, i cosiddetti “optanti” furono una minoranza. Durante una di queste visite nel lager, un fascista italiano ci insultò gravemente dicendoci "Voi badogliani siete la feccia dell’Italia"».
I motivi del rifiuto a qualsiasi forma di collaborazione con il regime fascista e nazista furono diversi: dalla volontà di mantenere fede al giuramento prestato al Re, dal rispetto per se stessi, suscitato in modo particolare dal trattamento ricevuto dai tedeschi, e dal dichiarato antifascismo. In particolare negli animi degli internati militari italiani covava il rancore silenzioso e cupo verso quelli che ritenevano responsabili della loro miseria, ossia il “fascismo e i tedeschi” accompagnato dalla generale convinzione che la guerra sarebbe presto finita con la vittoria degli alleati, rafforzata dalle notizie travolgenti che giungevano dai vari fronti di guerra e dalla visione delle città della Germania distrutte, nelle quali i prigionieri venivano spesso impiegati per rimuovere le macerie.
Nonostante tutto la massa dei soldati italiani disarmati ebbe la forza di resistere alle offerte e alle pressioni. Fin dai primi giorni da questa forza si sviluppò “una resistenza cosciente che parve essere stata motivata soprattutto politicamente ed eticamente da sentimenti antifascisti.
Fin dall’inizio il trattamento riservato agli IMI oscillò tra propositi di rappresaglia e di sfruttamento.
In seno alla dirigenza nazista i propositi di vendetta, di cui si fece portavoce lo stesso Hitler, si scontrarono con posizioni più pragmatiche che alla fine indussero il Führer ad accogliere le proposte avanzate da Sauckel (dal 1942 plenipotenziario generale per la mobilitazione del lavoro) e Speer (ministro per gli armamenti) affinché gli internati venissero trasformati in “lavoratori civili”.
Il 20 luglio 1944 (giorno del fallito attentato contro di lui), Hitler decise di acconsentire al cambiamento di status.
Il 3 Agosto 1944 il comando supremo della Wehrmacht comunicò che ufficiali, sottufficiali e militari di truppa sarebbero passati ad un rapporto di lavoro civile. Tutti quanti i comandi dislocati in Germania dovevano cambiare “status” senza però interrompere le attività in corso.
Nell’autunno 1944 molti internati si opposero alla loro trasformazione in “lavoratori civili”.
«Per noi nessun cambiamento! o internati militari o lavoratori civili, ma sempre nel filo spinato».
“Il problema base per noi dal momento in cui si è iniziata la campagna per farci di buona o di cattiva voglia passare civili è stato quello di rifiutarci in tutti i modi di firmare qualsiasi documento che possa più o meno direttamente implicare il nostro consenso a quella strana operazione o, comunque, al lavoro obbligatorio per l’astuto ma odiatissimo nemico tedesco. Soldati siamo stati catturati, soldati siamo trattenuti con la forza; soldati vogliamo un giorno tornare in patria”.
A partire dall’inizio di settembre 1944 il cambiamento di status venne attuato con metodi coercitivi. Tutta quella operazione si presentò comunque come un inganno destinato esclusivamente ad etichettarli in maniera diversa.
Le imprese cercarono di gestire gli internati, dai quali si aspettavano un vantaggio sul piano del rendimento, esclusivamente secondo i loro intendimenti e con i loro metodi.
«A settembre 1944 il campo di concentramento viene distrutto da un bombardamento, per fortuna mentre eravamo in fabbrica. Il mio diario, che tenevo nascosto sopra una trave della baracca e che avevo faticosamente salvato da tutte le perquisizioni, sembra ormai irreparabilmente perso. Con alcuni miei compagni, cercando tra le rovine nel tentativo di recuperare i nostri zaini, riesco a ritrovarlo intatto.
Vengo trasferito in un altro lager a Schwerte, nei pressi di Dortmund, sul fiume Ruhr, la zona più industriale della Germania».
Traduzione
Documento d’identità n° 1074
Fabbrica: Reichsbahnausbesserungswerk = Fabbrica nazionale di riparazione delle ferrovie Schwerte (Ruhr)
Reparto K Occupato: Hilfsschlosser = aiutante meccanico
Attenzione!
- La cessione del documento di identificazione a persone non autorizzate è considerato reato
- Lo smarrimento deve essere comunicato immediatamente alla Direzione o all’ufficio del Personale
- La carta d’identità deve essere portata sempre con sé durante il servizio
- Non consente di entrare ed uscire dal lavoro durante il servizio. Il documento di identificazione è di completamento … è punibile colui che ne è sprovvisto quando gli viene richiesto.
«Gli alloggiamenti sono degli stanzoni all’interno della fabbrica.
Tra i tedeschi con i quali lavoro ci sono due personaggi emblematici che tengono un comportamento antitetico nei miei confronti. Il primo, che avevo soprannominato “Milankaputt”, al mattino, al mio arrivo nel reparto, conoscendo la mia provenienza, mi accoglie dicendomi “Milan Kaputt” (per farmi credere che Milano è stata distrutta dai bombardamenti), suscitando in me una certa apprensione. Una mattina “Milankaputt” non si presenta al suo posto di lavoro: sulla morsa del suo banco di lavoro vedo appoggiato un mazzo di fiori; vengo poi a sapere che l’aereo da combattimento sul quale si trovava il figlio era stato abbattuto. L’ altro che avevo soprannominato “il Campagnolo”, perché proveniva da una vicina zona di campagna, di animo buono e che ritenevo contrario al regime, all’ora del caffè che viene distribuito in mattinata, per un mese mi allunga, stando bene attento a non farsi notare, un pezzo di pane con la mortadella, che a volte consumo subito oppure, quando è possibile lo divido in baracca con i miei più intimi amici».
In seguito alla trasformazione da Internati Militari Italiano in “lavoratori civili” ai prigionieri viene concessa una retribuzione fittizia in “reichmark”.
«L’alimentazione insufficiente per svolgere qualsiasi attività lavorativa rimane».
Nell’inverno 1944-1945 il gelo, la mancanza di abiti adeguati, di coperte, di cibo, rese penosissime le condizioni degli ex-internati, ai limiti della sopravvivenza. I sintomi del crollo ormai imminente, d’altro canto, non mancarono di suscitare negli ex-internati la speranza che la loro prigionia sarebbe presto finita. Certo, gli attacchi aerei mettevano in pericolo la loro vita.
«11 Aprile 1945:
rombi di motori; il cielo diventa buio per la scia che le fortezze volanti che solcano il cielo sopra di noi emettono per non farsi colpire dalla contraerea. Cadono bombe; la fabbrica, che aveva già subito alcuni bombardamenti aerei lievi, viene bombardata in modo intensivo: i tedeschi la abbandonano, noi prigionieri cerchiamo riparo nei sotterranei. Mentre cerco dì nascondermi, a causa di uno spostamento d’aria dovuto ad una esplosione, vengo scaraventato ad alcuni metri di distanza, finendo in un tombino. Per fortuna me la cavo con alcune escoriazioni e qualche botta.
Nei sotterranei, con nostra sorpresa, scopriamo i magazzini pieni di ogni ben di Dio: e pensare che per noi non c’ erano neanche le bende; in caso di ferite sul lavoro ci si fasciava con pezzi dì carta!
15 Aprile 1945:
i soldati americani arrivano nella fabbrica e veniamo liberati. Momenti di grande sollievo e gioia. Siamo alquanto dimagriti e non siamo più abituati ad una alimentazione normale tanto che al primo pasto dì latte e riso stiamo tutti male. Poi piano piano ci si riprende. Ci sistemano presso abitazioni private, abbandonate dai proprietari, dove provvediamo autonomamente alla nostra alimentazione mediante i viveri che ci vengono consegnati.
Riprendiamo le forze tanto che costituiamo una squadra di calcio che partecipa ad un mini-torneo internazionale».
7 Maggio 1945: il generale tedesco Jodl firma la resa incondizionata della Germania.
«Luglio 1945: ai primi del mese la nostra zona passa sotto il controllo degli Inglesi, mentre gli americani si portano più a nord nella Germania. Con gli Inglesi ci troviamo un po’ più a disagio: non solo per l’alimentazione ma anche per il nuovo regolamento che non consente di restare fuori fino a tardi alla sera e che prevede il rientro entro le ore 19».«Il tempo trascorreva lentamente e attendevamo con ansia il fatidico giorno del rimpatrio. A metà Agosto ci assicurano che entro la fine del mese avremmo lasciato la Germania e ci invitano a preparaci. Partimmo da Dusseldorf; attraversammo diverse città tedesche, tra cui Colonia, Stoccarda, tutte devastate dai bombardamenti. Il treno procedeva lentamente».
«Ai primi dì settembre attraverso la Svizzera, passando dal lago di Costanza, arrivo a Ponte Chiasso. Il pensiero continuo era la casa, i familiari. Non ne avevo notizia da alcuni mesi. Il mio paese era stato bombardato? Le nostre case avranno subito danni? Arrivo poi a Como. Con alcuni compagni di viaggio andiamo in un’osteria; avevo cucito nella mia giacca prima, e salvato poi, 500 Lire: con mia grande sorpresa mi accorgo che sono appena sufficienti per comprare una bottiglia di vino!
Ritorno in stazione dove trovo un lissonese al quale subito mi rivolgo per avere notizie del mio paese. Sotto la sua guida, salgo sul primo treno diretto a Milano.
E’ il 4 Settembre 1945: arrivo alla stazione di Lissone. Saluto i miei compagni che continuano il viaggio per Milano e scendo dal treno. Una mia conoscente, che in quel momento era in stazione, mi vede e corre verso via Padre Reginaldo Giuliani, dove allora abitavo, ad annunciare ai miei parenti e al vicinato il mio ritorno. Mentre mi dirigo verso casa, un gruppo dì conoscenti della via mi si fa incontro e mi accoglie festosamente: poi l’incontro con i miei cari ….».
Arnaldo Pellizzoni
Lissone 25 aprile 1995
Quand'ero in prigionia / qualcuno m'ha rubato
mia moglie e il mio passato / la mia migliore età.
Domani mi alzerò / e chiuderò la porta
sulla stagione morta / e mi incamminerò.
Boris Vian, 1956 (trad. di Ivano Fossati, 1992)
Enrico Consonni: storia vera di un soldato allo sbando
In occasione dell’8 settembre, pubblichiamo un articolo in cui vengono narrate le vicissitudini di un lissonese, Enrico Consonni, durante la seconda guerra mondiale.
È tratto da un racconto, curato da Walter Consonni, socio dell’ANPI Lissone e figlio primogenito di Enrico, che ha trascritto le memorie del padre.
Enrico Consonni, figlio unico di Pietro Consonni e Maria Proserpio, è nato a Lesmo (Milano) il 30 gennaio 1922 ed è deceduto a Monza il 9 luglio 1979.
La madre Maria muore subito averlo partorito e suo padre, contadino nelle terre di Lesmo e Camparada, lo affida ad una zia che lo cresce fino ai 14 anni circa; nel frattempo frequenta la scuola materna “Ratti” e le Scuole Elementari di Lesmo insieme al suo migliore amico e coetaneo Tarcisio Beretta che condividerà con lui anche tutte le disavventure militari narrate successivamente in un memoriale.
A 14 anni viene inviato a Lissone presso il forno dei Meroni per imparare il mestiere di panettiere; Enrico, per il suo carattere buono, è accolto benevolmente dalla già numerosa famiglia del panettiere e cresce con i figli di questi come un nuovo fratello.
Viene chiamato alle armi nel 1942 a guerra iniziata.
I coscritti della classe 1922 di Lissone, in attesa di partire per il fronte di guerra. Enrico Consonni è il primo da destra della seconda fila (dal basso).
Prima inviato all’autocentro di Milano, dove condivide l’addestramento anche con Romeo Brugola (il futuro partigiano Rom ancora vivente a Lissone) e ottiene la patente di guida per condurre automezzi pesanti e autoblindo.
Da Milano viene trasferito a Caserta con i reparti destinati alla campagna nel Nord Africa;
imbarcato per la Libia durante il tragitto in mare l’imbarcazione è assalita dalla RAF e costretta al rientro immediato alla base; le tragiche sconfitte di El Alamein e Tobruk costringono il suo reparto allo spostamento sul fronte della Jugoslavia.
Enrico Consonni (a sinistra, con il suo migliore amico e coetaneo Tarcisio Beretta, a destra, che condividerà con lui anche tutte le disavventure militari narrate successivamente in un memoriale).
Enrico rimane in Istria e Croazia fino all’8 settembre del 1943 quando l’armistizio coglie di sorpresa i reparti motorizzati del regio Esercito e da quel giorno inizia il racconto autobiografico che narra delle sue tribolazioni e del suo vagabondare durato fino al novembre 1943.
Dal diario di Enrico Consonni, in cui descrive il suo avventuroso viaggio dalla Jugoslavia a Lissone:
"8 SETTEMBRE 1943
Era una sera limpida e prima ancora che calassero le tenebre il tenente radunò gli uomini rimasti nell'accampamento... L'ufficiale comunicò che il Governo Badoglio, costituito da appena 45 giorni, si era reso incondizionatamente alle forze alleate e ordinò agli uomini che prendessero essi stessi misure precauzionali arbitrarie onde difendere gli automezzi in caso di aggressione da parte di qualsivoglia forza bellica. ... si innalzò al cielo un generale urlo di gioia e immediatamente si manifestò un primo atto di rifiuto all'ordine di restare calmi. “Vogliamo andare a casa” era la parola d'ordine diffusa ovunque e già tutti si premuravano di organizzare, ognun per sé e Dio per tutti, la partenza. ...
9 SETTEMBRE 1943
L'alba del 9 settembre era serena, il sole non era ancora sorto e già gli uomini si radunavano spontaneamente in gruppetti per interpellarsi tra loro sui fatti della sera precedente. Nei loro occhi si poteva leggere una grande felicità, i loro cuori avevano un solo anelito: la casa. In ogni argomento di discussione, in ogni frase proferita non ci si poteva esimere dal ripetere “Andiamo tutti a casa”. Gli automezzi partiti la sera prima non erano ancora rientrati; ne arrivarono invece tre dal distaccamento di Cerquinicza. In quel paese erano scesi dai monti i partigiani e avevano chiesto al locale comando italiano la consegna pacifica di ogni sorta di materiale giacente, perché in caso contrario, avrebbero agito di conseguenza con le loro forze dislocate a pochi chilometri di distanza, nascoste negli antri più oscuri, celate dai boschi delle montagne adiacenti. ... Si passò il pomeriggio all'insegna di una certa calma. La continua eco di voci che provenivano dalla piccola borgata giungeva ai nostri orecchi come un palese invito a desistere da tutto e ad avviarsi sollecitamente verso la meta che cuore e pensiero sempre più desideravano. La nostra presenza sulla loro terra aveva rappresentato una vera oppressione; erano stati privati della libertà. In quel pomeriggio i visi della popolazione oppressa non erano tuttavia corrucciati da quei biechi e torvi sguardi che solevano mostrarci. I volti di quella gente, come noi provata da guerra, fame e stenti, apparivano in quel momento più sereni, ma lo sarebbero stati ancora di più se noi soldati italiani avessimo abbandonato in fretta la loro terra, dopo averla “conquistata” con non pochi sacrifici (guerra maledetta!). Durante quel pomeriggio nulla di particolare accadde. Soltanto verso il tramonto un aereo tedesco sorvolò il territorio e da bassa quota lanciò nugoli di manifestini. Corremmo per i campi a raccoglierne qualcuno, credendo di leggere possibili messaggi o ordini per il nostro reparto in attesa. Erano fogli che riportavano frasi in lingua slava, indirizzati non agli italiani ma a quella popolazione. Mi imbattei in un uomo già anziano e gli chiesi di tradurmi nella mia lingua il contenuto dei volantini; lo fece abilmente e in poche parole mi spiegò che i tedeschi esortavano la popolazione slava ad unirsi compatta a loro per continuare la guerra contro i nemici della Germania. ...
10 SETTEMBRE 1943
... Nell'attesa dell'ordine di partenza della colonna degli autocarri, si vedevano dai finestrini transitare alcuni uomini mai visti fino a quel momento; erano vestiti per metà borghese e per metà militare e portavano all'occhiello una stella rossa. Si dirigevano verso il vicino baraccamento dei guastatori alla ricerca di armi. Notavo dal loro aspetto trasandato e sobrio che doveva trattarsi di persone appena scese dalle montagne circostanti oppure appena usciti dai nascondigli naturali che in quella zona abbondavano. A questi uomini piuttosto giovani si univano anche donne e ragazzi e tutti si accalcavano in quel luogo per procacciarsi un'arma. Il comandante in persona si dava un gran da fare per distribuirle elargendo anche preziosi consigli sull'uso; vedemmo anche mpartire istruzioni per maneggiare i lanciafiamme. Fu una scena che ci rese tutti intimamente compiaciuti e concordi con la determinazione e la risolutezza di quel popolo che voleva essere definitivamente libero, e più che mai desiderava riconquistare la propria libertà anche combattendo, se necessario. ...
Finalmente il nostro reparto, rimasto ancora compatto, si mosse e in poco tempo raggiungemmo Fiume dove sostammo sulla strada provinciale per Abbazia. ...
Di queste soste prolungate ne approfittavano parecchi militari che si spostavano a piedi: autisti e soldati dei veicoli abbandonati, sbandati e sconosciuti di altre compagnie montavano con destrezza sul primo carro disponibile per poter proseguire con noi la marcia verso l'interno. Uno di quei soldati abbandonati o dispersi era proprio Tarcisio Beretta, il mio caro amico d'infanzia nativo di Lesmo, come me; il destino ci aveva voluti anche compagni d'armi e, durante la noia dell'addestramento, con lui ingannavo il tempo scrivendo liberi componimenti, in una strana lingua italiana frammista al dialetto brianzolo; continuammo poi le nostre imprese letterarie anche durante le ore libere negli accampamenti di Monastero e San Martino. Egli da tempo si era impegnato nella mia ricerca e proprio allora mi rintracciò tra la grande confusione; abbracciandomi mi spiegò le sue disavventure recenti. Lo invitai a rimanere con me per dormire e a dividere lo spazio sul mio autocarro, ancora funzionante, e poi aggiunsi: “D'ora in poi tutto quello che faremo sarà deciso insieme!”. Gli porsi una galletta delle mie e cercammo di venire a capo di quella situazione controversa. ...
11 SETTEMBRE 1943
Tra mille perplessità ed incertezze giungemmo così alle porte di Pola dove, appena superato l'aeroporto di Astura, ci assestammo. In poco tempo capimmo che era stato organizzato in quell'area un concentramento gigantesco di reparti mobili del nostro sfasciato esercito italiano: migliaia di automezzi erano dislocati nei boschi circostanti. ... Proseguire la marcia diventava impossibile. In quello stesso momento giungeva di gran carriera un motocarro della Wehrmacht con a bordo quattro uomini armati di grosse mitragliere. Era diretto verso l'aeroporto con uno scopo che fu presto chiaro: occuparlo. ... Tutti noi, coraggiosi soldati italiani sparsi a migliaia in quel luogo, non fummo capaci di intervenire in alcun modo. ... Fu così che quattro soli soldati tedeschi presero possesso dell'area aeroportuale, confiscarono tutto quanto esisteva al suo interno e vi posero una sentinella armata a guardia. Le ore passavano inesorabilmente, ma di ordini nemmeno uno. ... Passammo una notte insonne, rotta da continue scariche di mitra e sibili di proiettili che non facevano presagire niente di buono.
12 SETTEMBRE 1943
Con la luce del giorno vedemmo i nostri tenenti di guardia, allo scoperto lungo la linea ferrata, che rientravano verso di noi. Alle sette essi informarono tutto il nostro esercito di mezzi e uomini, o almeno ciò che ne era rimasto, di aver ricevuto dal comando tedesco una sorta di ultimatum che in sintesi poneva le seguenti due condizioni da scegliere: deporre ogni genere di armamento nelle mani dei tedeschi e quindi essere deportati al campo di concentramento di Lubiana - via Pola - come prigionieri; accettare di continuare a combattere a fianco delle armate germaniche contro le forze alleate. Il nostro tenente, soldato tutto d'un pezzo, rigoroso ufficiale del Regio Esercito Italiano, ci concedette cinque minuti per prendere una decisione e riportare ai tedeschi gli elenchi di coloro che dovevano essere ritenuti combattenti o prigionieri. Non occorse comunque molta meditazione a noi tutti per operare una scelta che escludesse nel modo più assoluto entrambe le proposte-capestro dei nostri ex-alleati, considerate a dir poco mortali. Il rifiuto del nostro gruppo fu dunque unanime e in un batter d'occhio ognuno prese a correre disordinatamente verso i luoghi dove poter rimediare tutto ciò che riteneva necessario per fuggire. Visto ciò che stava accadendo e capito che la situazione gli sfuggiva di mano, il tenente si piazzò col mitragliatore al lato nord del nostro luogo di concentramento, presumendo un esodo di massa da quella parte. L'intenzione era quella di scongiurare l'ammutinamento e fermare con estremo rimedio la fuga della sua truppa ormai allo sbando. A quella vista, l'affiatato terzetto di commilitoni composto da me con gli inseparabili amici Tarcisio Beretta e Luigi Spada, si gettò allora a spronbattuto in direzione opposta, verso il Mare Adriatico. Il dado era ormai tratto e l'azione decisiva aveva preso la strada del non-ritorno. ...
per la notte ... Ci coricammo sul nostro letto fatto di erba e zolle inumidite dalla frescura notturna e per coprirci usammo, Tarcisio ed io, una unica giacca divisa in due. ...
13 SETTEMBRE 1943
Spuntò l'alba del nuovo giorno, dopo lo snervante dormiveglia con i suoi torbidi e tristi sogni, e il chiarore dell'aurora cancellò presto ogni paura dalle nostre menti per lasciare spazio al nuovo progetto di riprendere il cammino ... Dall'alto del colle si poteva vedere una parte della costa e sull'orlo di una insenatura, che il Mare Adriatico sembrava avere dipinto su una tela, era abbarbicato un paesello dall'atmosfera tranquilla e domestica. ...
Entrammo con decisione nella strada principale di Medolino, questo era il nome riportato sulla segnaletica stradale, camminando uno di fianco all'altro. Sulle porte delle case comparivano simultaneamente al nostro passaggio le donne del paese e, dal nostro abbigliamento e dal nostro modo di fare, subito riconobbero in noi dei soldati allo sbando. Qualcuna di loro, che più era sensibile ai dolori e alle pene dell'umanità e probabilmente ben conosceva le ristrettezze e gli stenti propri ed altrui, ci chiese se avessimo fame. Un gesto assai caritatevole al quale rispondemmo con immediatezza e positivamente. Ci rifocillarono con quel poco di pane e verdure che avevano, ci dissetarono, senza chiedere nulla di noi. Sentivamo di essere capitati tra persone amiche e quindi osammo domandare se non avessero da offrirci anche un rifugio nel quale rimanere a riposare pochi giorni. ...
ci incamminammo con passo spedito in direzione della strada provinciale costiera di Albona, con l'intenzione di operare un largo giro intorno a Pola ed evitare i tedeschi....
17 SETTEMBRE 1943
Verso le dieci fummo in vista di Pisino, un paese infossato in una verde conca, circondato da colline. Alle sue porte stazionavano di guardia alcuni partigiani armati. Ci avvicinammo ad essi con passo sicuro e, quando gli fummo di fronte, ci invitarono ad attendere l'arrivo di un altro gruppo di sbandati appena avvistati. Fummo inquadrati ed avviati alla vicina caserma accompagnati da un uomo già attempato. Sul portone di ingresso si potevano leggere ancora i nomi dei battaglioni dell'esercito italiano che vi erano stati insediati, ma sul pennone sventolava ormai la bandiera comunista dei partigiani di Tito. ... Lasciato Pisino, prendemmo la direzione di Pinguente. La strada provinciale era normalmente battuta da persone di diverse età, donne e uomini, accomunati da un unico fregio all'occhiello: la stella rossa ... Una stella che, tuttavia, sembrava diffondere più il significato universale della libertà che quello troppo restrittivo di un ideale politico. ...
18 SETTEMBRE 1943
... Ci confortava sapere di avere coperto ormai una distanza di 120 chilometri; se le nostre stime erano esatte mancavano “solo” 45 chilometri circa a Trieste e pertanto decidemmo di percorrerli tutti nello stesso giorno. ... Erano le diciannove circa ed approssimandosi la sera, cercammo sistemazione ad Ospo, un piccolo paese dietro un colle in prossimità del capoluogo giuliano. Ci sentivamo ormai vicini al grande balzo ma non volevamo rischiare di compromettere quanto di buono avevamo combinato fino ad allora; pertanto ci mettemmo prima di tutto alla caccia di informazioni utili per entrare ed attraversare Trieste nel modo più sicuro. Ricevemmo qualche notizia da alcuni militari provenienti da Aquila ed altre ancora dalla popolazione locale; fummo anche portati a conoscenza di alcuni gravi fatti. Una signorina appena rientrata in bicicletta da Trieste disse di aver sentito parlare di un silos nel quale erano concentrati militari e sbandati rastrellati nella zona in attesa di essere deportati e, inoltre, di avere letto un bando fatto affiggere sui muri della città dal comandante germanico Barnbek. Il testo del manifesto era rivolto agli appartenenti alle forze armate italiane e conteneva la diffida di presentarsi alle più vicine caserme dei carabinieri o ai comandi tedeschi entro 48 ore, pena la fucilazione o l'impiccagione. Questa brutta notizia fece naufragare d'un colpo tutte le nostre speranze. ...
20 SETTEMBRE 1943
Trovammo una nuova famiglia che ci ospitò con affetto, disposta a trattenerci con loro anche parecchi giorni, in attesa che gli eventi prendessero una piega più favorevole. ... I due vecchi Novak si spezzavano la schiena per star dietro alle campagne; i due figli non potevano essere d'aiuto in quanto, farsi vedere troppo in giro, significava rischiare di essere prelevati con la forza dai tedeschi. Così decidemmo di renderci utili ai Novak come contadini e manovali, in modo da sdebitarci con loro. Partecipammo alle operazioni di vendemmia nelle vigne del circondario; raccoglievamo uva dalla mattina alla sera o spannocchiavamo il granoturco e le giornate passavano in fretta. ...
Prendemmo così la decisione di tentare ulteriormente il passaggio di Trieste l'indomani ... ma... Non erano ancora le nove quando fummo distratti dal rumore di numerosi motori provenienti dalla strada di Trieste, prima piuttosto in lontananza e dopo pochi minuti decisamente più vicini a noi. ... Dalla vigna dove stavamo lavorando potevamo ormai scorgere diversi carri armati e autoblindo tedesche e ancora, subito dietro, autocarri che scaricavano a terra centinaia di soldati. Seguimmo con attenzione e terrore ogni movimento e, quando fummo certi che i temuti tedeschi avevano nel mirino proprio il nostro paese e i dintorni, fu il panico. Gli uomini delle S.S. si disposero a ventaglio per una retata capillare e tremenda; un reparto prese la nostra direzione ed un altro si spostò su tutta la collina di fronte. Si udirono i primi colpi, prima isolati e sporadici e poi più insistenti. Cercammo un nascondiglio mentre le S.S. salivano inesorabilmente ... Di lì a poco, nascosti nell'erba, sentimmo tutta la vallata rintronare di cannonate, raffiche di mitra e scoppi di bombe a mano. Sul versante opposto le fiamme stavano divorando San Servolo. Ci trovavamo dunque al centro di un rastrellamento in grande stile e le nostre vite correvano un drammatico pericolo. La paura ci aveva ipnotizzati; eravamo in quel frangente come due automi incapaci di pensare, privi di energie e paralizzati nei movimenti ... Con la coda dell'occhio vidi sbucare dalla cima un soldato tedesco e poi, circa dieci metri più in basso, eccone un altro. Anche Tarcisio vedeva altri soldati avanzare su tutto il fronte dell'intera vallata. Il momento era drammatico. Udimmo alcuni rumori tra le foglie e dei passi, poi una raffica scaricata con rabbia; istintivamente chiudemmo gli occhi, ci stringemmo forte la mano ... Dopo ancora un attimo di sconcerto, socchiudemmo gli occhi e ci trovammo di fronte un soldato della S.S. con il mitra spianato e ancora fumante. Fu un incontro agghiacciante. Egli ci fissò per qualche secondo immobile e anche noi lo guardammo impauriti. Era un ragazzo molto giovane vestito con una tuta mimetica e carico di armi. Non so bene che cos'altro sia successo in quel terribile momento: ricordo che Tarcisio, con voce tenue guidata probabilmente da una forza sovrumana, disse: “Guten camerata, volete uva?” Con aria apparentemente seccata il tedesco rispose semplicemente e rudemente “nicht” e se ne andò. Ad una cinquantina di metri un gruppo di S.S. in rastrellamento sparava sventagliate di raffiche radenti il suolo e si allontanava in direzione opposta. L'avevamo scampata bella ... "
Occorreranno ancora diverse settimane, contrassegnate da immensi pericoli, disagi, privazioni e dal continuo altalenare sospeso tra la vita e la morte, prima che Enrico Consonni arrivi a Lissone.
Giunto sano e salvo a Lissone presso la famiglia di adozione, probabilmente tramite il Meroni, riesce a ottenere un lavoro di pubblica utilità presso la Ditta Motta (quella dei panettoni) che operava con una sede proprio a Lissone; il lasciapassare delle autorità tedesche gli permette di essere esentato dalle forze armate e dalla deportazione.
Per sdebitarsi dell’ospitalità concessagli dalla famiglia Meroni, mio padre partecipa al lavoro notturno nel forno di famiglia con i “fratelli”; Enrico nel tempo libero ama disegnare e dipingere e utilizza le sue opere da autodidatta di talento per pagare i pranzi e le cene nella vicina trattoria del Sole.
Dopo la guerra riesce anche a frequentare per un paio d’anni una Scuola di Avviamento Professionale e si fidanza nel 1948 con la sua futura moglie e mia madre Ines Valagussa che sposa nel 1951.
Tramite il suocero riesce ad aprire un’attività propria a Monza, un negozio di alimentari, panetteria e vino dove lavora fino a 57 anni quando muore improvvisamente di leucemia acuta.
Nella seguente poesia di Tarcisio Beretta, amico fraterno di Enrico Consonni, e suo compagno nelle vicissitudini della guerra, traspaiono le sensazioni provate dai due giovani, durante la loro fuga nei giorni seguenti l’8 settembre 1943, e nel momento terribile quando la loro vita è stata per un attimo nelle mani di un giovane soldato tedesco.
SETTEMBRE 1943
Folle la nostra fuga
concepita nella paura
verso ignoti orizzonti.
Allucinanti pensieri di morte
visioni di cimiteri spettrali
e molti scoppi nel cuore.
Sette interminabili giorni
con le membra logorate,
aggrediti dalla fame
e traditi
da tanti miraggi.
Su quelle aspre
doline carsiche
lasciammo lembi di carne
senza imprecazione
e nessun lamento.
Silenzio
per ascoltar rumori,
scrutare oltre lo spasimo
per non vedere
tute mimetizzate.
Le notti di pece
insidiavano i nostri trasferimenti
franando
nei cespugli delle valli.
Non un lume
per l'orientamento
ed il digiuno astronomico
arretravano il nostro cammino.
Nelle gambe piegate
le cinquecento miglia,
la mente indebolita
dall'urlo agghiacciante
della nostra fine
su uno dei tanti abeti
o spezzati
lungo i turgidi vigneti.
Trieste,
città promessa,
atterrita,
trafitta da fili spinati
distrusse le nostre speranze.
Ricacciati nella valle di Ospo,
la feroce trappola
del rastrellamento
stroncava le ultime forze
e le labbra
balbettavano preghiere.
Dei passi s'arrestarono
alle nostre spalle
per eterni istanti.
Un giovane S.S.
s'allontanò;
con l'alba
sulla dorsale
si compiva il miracolo
della Resurrezione.Lissonesi nel Corpo Italiano di Liberazione (C.I.L.)
Con questo articolo vogliamo rendere omaggio a quei Lissonesi che dopo l'8 Settembre 1943, rimasti nell'Italia meridionale, combatterono per la Liberazione dell'Italia nel 1° Reggimento Motorizzato, nei Gruppi di Combattimento nel Corpo Italiano di Liberazione e nei Gruppi di Combattimento:
Arosio Ennio
Arosio Giuseppe
Ballabio Oreste
Galimberti Renzo
Mussi Mario
Paltrinieri Bruno
Rivolta Franco
Rovera Massimiliano
Sala Giulio
"Nel settembre del 1943 gran parte della popolazione italiana “indossava l’uniforme”. 4.666.600 erano gli uomini inquadrati nei ranghi dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, compresi Carabinieri e Guardia di Finanza (l’Esercito disponeva di 82 Divisioni, la Marina di 349 navi e l’Aeronautica di 1.500 aerei, il tutto dislocato in Italia e all’estero).
Considerato che la popolazione italiana a quella data era di circa 43 milioni di persone, quasi l’11% della popolazione era in armi, percentuale che sale a più del 22% se si considera la sola componente maschile della popolazione; comunque oltre l’80% della “forza lavoro” era assente dalle attività produttive. Alla data dell’8 settembre, circa 700.000 militari erano fuori del territorio nazionale, e furono coloro che, soprattutto per mancanza di chiare direttive, subirono le perdite più gravi.
Fu inevitabile, pertanto, che subito dopo l’8 settembre, la spaccatura nell’ambito delle Forze Armate, e dell’Esercito in particolare, si manifestasse in tutta la sua evidenza. I “soldati di Mussolini” e pochi loro simpatizzanti si precipitarono nelle formazioni tedesche e al nord, nella Repubblica Sociale, mentre gli altri fecero, come abbiamo visto, una scelta coerente, anche se, in molti casi, estremamente dolorosa. È opportuno indicare, anche se succintamente, la frenetica cadenza delle trasformazioni attuate (in qualche caso imposte dagli alleati) nell’ambito delle ricostituite unità delle Forze Armate italiane. Anche se nei giorni successivi all’8 settembre le formazioni dislocate in Puglia, Lucania e Calabria si erano battute con determinazione contro i tedeschi, gli Alleati non consentirono ai reparti italiani di proseguire la lotta. Le unità furono riordinate, inglobando anche molti elementi che erano giunti dal nord, attraversando le linee, e militari provenienti dai Balcani.
Il 26 settembre fu costituito il 1° Raggruppamento Motorizzato (in pratica una brigata su 4 battaglioni di fanteria e supporti, per un totale di circa 3.000 uomini). Il 13 ottobre 1943 venne formalizzato lo stato di guerra contro la Germania.
Il 7 dicembre il 1° Raggruppamento entrò a linea, a Monte Lungo, sul fronte di Cassino. Dopo due tentativi, la posizione fu conquistata. Ci furono 350 caduti (più del 10% della forza).
Nel febbraio del 1944 il Raggruppamento, con una forza di circa 5.000 uomini, combatté sugli Appennini e il 18 aprile venne inquadrato nel “Corpo Italiano di Liberazione”.
A fine maggio la linea Gustav in corrispondenza di Cassino fu infranta e il “Corpo Italiano di Liberazione”, forte ora di 24.000 uomini, fu inquadrato nell’VIII Armata Britannica, impegnata sul fronte adriatico; questa allocazione fu attuata per evitare che le truppe italiane partecipassero alla liberazione di Roma.
II 24 settembre 1944 gli alleati chiesero al Governo italiano di approntare, per essere impiegate in prima linea, 6 divisioni leggere, denominate “Gruppi di Combattimento”; denominazione che rispondeva a ragioni politiche, per minimizzare il contributo bellico italiano alla causa alleata, in previsione degli accordi di pace. Le uniformi dei Gruppi di Combattimento (Cremona, Friuli, Folgore, Legnano, Mantova e Piceno) erano inglesi, con simboli e mostrine italiane. I Gruppi di Combattimento furono inizialmente schierati sulla linea Gotica (che, partendo dalle alpi Apuane, a nord di Pisa, raggiungeva l’Adriatico a nord di Ravenna) e, sempre inquadrati nell’VIII Armata inglese, liberarono Bologna, Modena, Mantova e nel settore orientale Ferrara, Venezia e, infine, risalendo la valle dell’Adige, raggiunsero Bolzano.
Quelle donne e quegli uomini che parteciparono attivamente alla guerra di Liberazione, nei ranghi delle Forze Armate o nelle formazioni partigiane, o anche semplicemente attuando la resistenza passiva, avevano in mente l’ideale di una nazione libera, democratica, pacifica, profondamente rispettosa dei diritti umani. Quelle donne e quegli uomini operarono con determinazione, affrontando gravissimi rischi, in un Paese distrutto, diviso e occupato da eserciti stranieri, con alle spalle centinaia di migliaia di morti e di invalidi, e con un morale provato da oltre tre anni di guerra. E in aggiunta con l’accusa di essere anche dei traditori. Quelle donne e quegli uomini, invece, erano convinti che l’accusa infamante era profondamente ingiusta: la maggior parte del popolo italiano aveva preso coscienza sia dei tragici errori politici commessi, sia di essere stato ingannato, sia della necessità, proprio perché colpevoli, di porre fine alle immani distruzioni provocate dalla guerra. Il popolo italiano non aveva tradito! Era stato tradito! " (da una conferenza del generale Franco Angioni)
dal sito dell' Esercito
Il C.I.L., trasferito sul fronte adriatico alle dipendenze dell'8a Armata britannica e agli ordini del Generale Umberto Utili, iniziò, dall'8 giugno, una travolgente offensiva che doveva portarlo allo sfondamento della Linea "invernale", alla conquista di Canosa Sannita, Guardiagrele e Orsogna e alla liberazione di Bucchianico da parte di bersaglieri e alpini, mentre i paracadutisti raggiungevano Chieti ed altre località della costa adriatica.
Nei giorni 11, 13 e 15 giugno elementi della 1a Brigata del C.I.L. raggiunsero, senza colpo ferire, Sulmona, L'Aquila e Teramo. Nonostante la dura resistenza opposta dai tedeschi sul fiume Chienti, i nostri reparti si erano scaglionati in progressione per decine di chilometri, fino a occupare Tolentino e Macerata, superando la posizione tenuta dai tedeschi in direzione di Cingoli.
Il Comandante del C.I.L. dispose che la Divisione "Nembo" gravitasse nella zona di Teramo, spingendo le avanguardie verso Ascoli, città che fu raggiunta da una pattuglia della 184 a compagnia motociclisti il 18 giugno alle ore 13,00 circa. La zona di Filottrano costituì per i germanici la posizione più forte, ma la sua conquista era indispensabile per la presa di Ancona. In verità fu un po' sottovalutata la difficoltà dell'operazione, il che determinò la morte di oltre 300 nostri soldati, a causa della forte reazione dei tedeschi che contrattacarono con carri armati e intenso fuoco di artiglieria. All'alba del 9 luglio però i paracadutisti italiani issarono il Tricolore sulla torre e sul campanile della cittadina.
A metà luglio i polacchi conquistarono Ancona e il C.I.L. riprese il suo movimento lungo la direttrice più interna rispetto a quella costiera. Santa Maria Nuova, Ostra Vetere, Belvedere Ostrense, Pergola, Corinaldo, Cagli, Urbino, Urbania: sono tutte località legate al ricordo dell'eroismo e del sacrificio dei soldati del C.I.L..
Dopo una logorante guerra di movimento fino alle prime propaggini della "Linea Gotica", il Corpo Italiano di Liberazione giunse al fiume Metauro completamente stremato, avendo abbandonato lungo la strada la maggior parte dei logori mezzi. Il 24 settembre 1944 la Grande Unità venne sciolta e ripiegata dal fronte. L'alto morale dei soldati italiani e la loro decisa volontà di battersi per la liberazione del suolo patrio destò ancora una volta l'incondizionata ammirazione degli Alleati che decisero di aumentare in notevole misura le possibilità di impiego dei nostri reparti e di assegnare loro armi ed equipaggiamenti più moderni. Fu così possibile costituire con i reparti del disciolto C.I.L., integrati da nuove forze italiane provenienti dalla Sardegna, 6 Divisioni che assumeranno la denominazione di "Gruppi di Combattimento".
Forze Armate e Resistenza
8 settembre: a migliaia i soldati che attaccarono gli invasori nazisti
Ufficialmente la “guerra di Liberazione” ha inizio in Italia l’8 settembre 1943 e termina il 25 aprile del 1945, quale lotta dichiarata al fascismo e all’occupazione tedesca. In verità questa guerra trae origine da quei movimenti di opposizione, attiva e passiva, armata o inerme, che erano sorti in Italia con l’avvento del fascismo e successivamente, in forma più consistente, durante la seconda guerra mondiale, contro il nazifascismo. Questi movimenti sono passati alla storia con il termine di “Resistenza”.
La guerra di Liberazione, quindi, e la confluenza di due elementi diversi: le correnti antifasciste che si erano opposte alla dittatura durante il ventennio e le masse popolari, in uniforme e non, il cui malcontento verso il fascismo si era manifestato in modo sempre più acuto nel corso della seconda guerra mondiale. La guerra di Liberazione non scoppia come una guerra tradizionale, con un atto formale, ma nasce come moto spontaneo, anche caotico e convulso. Le correnti antifasciste della prima ora affiorano alla legalità dopo il 25 luglio del 1943, ma non sono più le stesse di 20 anni prima; così come il popolo italiano, nelle sue classi e strati sociali, risulta profondamente cambiato da come l’aveva trovato il fascismo all’epoca della sua nascita. La maggiore consapevolezza culturale, i grandi sacrifici sopportati, ma soprattutto la convinzione di aver partecipato a una guerra sbagliata, hanno diffuso in vasti strati della popolazione, e anche nei ranghi delle Forze Armate, la voglia di insurrezione.
L’entrata in guerra, e oggi la storia ci è di conforto, fu una iniziativa personale di Mussolini, presa anche contro il parere di alcuni gerarchi fascisti e dei tecnici militari, che hanno comunque la grave colpa di non essersi opposti con vigore. Ma certamente la decisione fu assunta contro la volontà del popolo italiano e non contano le “adunate oceaniche” o i 10.000 fascisti assiepati il 10 giugno 1940 in Piazza Venezia (tante sono le persone che quella piazza al massimo può contenere) per affermare che il popolo italiano era tutto favorevole alla guerra! L’entrata in guerra fu un atto di azzardo, nel quale tutta la vita della nazione fu giocata sull’alea della fine imminente della guerra («poche migliaia di morti necessari per la vittoria», come fu dichiarato allora). Non si tenne nel minimo conto dello stato di logoramento e di impreparazione delle Forze Armate, della mancanza di riserve e dell’assenza di materie prime. Vero è che la situazione della realtà economica italiana nel ’40 era disastrosa. L’autarchia – era stata sbandierata come il sistema economico vincente per il popolo italiano – non solo aveva asciugato ogni possibile riserva, ma era stata attuata con la prospettiva della guerra inevitabile e lo stesso fascismo s’era messo in condizioni di non poter tornare indietro.
L’autarchia, nei fatti un atto di grande presunzione contro il resto del mondo che aveva decretato le sanzioni all’Italia, combinando gli effetti della sovrapproduzione in alcuni settori con quelli della carestia di guerra, aveva tolto all’economia italiana gli sbocchi, le vie di uscita, qualsiasi possibilità di successo. Spremuto fino all’osso il magro mercato interno, se si voleva mantenere il ritmo vertiginoso dei profitti capitalistici del momento, era inevitabile indirizzare la produzione delle materie trasformate verso nuovi mercati, aprire rapidamente la strada verso l’Europa. Mussolini, con la decisione di entrare in guerra, interpretò soprattutto la volontà del capitale finanziario. Non ci fu esponente del mondo bancario o industriale che esprimesse la sua disapprovazione alla guerra. Il popolo italiano era rimasto estraneo a una decisione così tragica. Anzi, si ritenne che la situazione economica della gran massa degli italiani era divenuta così insostenibile che, malgrado tutto, la guerra sarebbe stata una liberazione sia per il milione di lavoratori disoccupati permanenti, sia per le tante famiglie sospinte dall’autarchia verso la miseria.
Ci fu anche una infelice coincidenza, perché la guerra nelle sue prime battute favorevoli, consentì di incanalare il malcontento popolare nel concetto del “dovere verso la patria”.
Alla data dell’8 settembre 1943, la situazione era completamente diversa rispetto al giugno del 1940. La guerra si era manifestata nella sua completa tragicità. I lutti si erano diffusi nel territorio nazionale, sul quale era gia iniziata l’invasione; le sconfitte militari erano aumentate e i bombardamenti avevano già provocato migliaia di vittime tra la popolazione civile, mentre la maggior parte della “forza lavoro” era assente dalle famiglie.
Nel settembre del 1943 gran parte della popolazione italiana “indossava l’uniforme”. 4.666.600 erano gli uomini inquadrati nei ranghi dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, compresi Carabinieri e Guardia di Finanza (l’Esercito disponeva di 82 Divisioni, la Marina di 349 navi e l’Aeronautica di 1.500 aerei, il tutto dislocato in Italia e all’estero). La Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, come vedremo, era a parte.
Considerato che la popolazione italiana a quella data era di circa 43 milioni di persone, quasi l’11% della popolazione era in armi, percentuale che sale a più del 22% se si considera la sola componente maschile della popolazione; comunque oltre l’80% della “forza lavoro” era assente dalle attività produttive. Alla data dell’8 settembre, circa 700.000 militari erano fuori del territorio nazionale, e furono coloro che, soprattutto per mancanza di chiare direttive, subirono le perdite più gravi.
Con l’8 settembre l’Italia attraversò uno dei momenti più drammatici della sua storia recente. La scelta delle Forze Armate, dove fu possibile un minimo di resistenza, dove si ebbe l’iniziativa di uomini che, in assenza di direttive coordinate, volevano salvare l’onore e la dignità della nazione, fu netta e corale. Resistenza all’oppressione, alla violenza di coloro che, non paghi della tragedia provocata da una terribile guerra di aggressione, volevano prolungare oltre ogni ragionevole, umana sopportazione, uccisioni e distruzioni. È anche vero che intere unità si dissolsero, ma in molti casi per assenza di direttive da parte del comando supremo, unita a inferiorità schiacciante di armamenti, e in qualche caso per decisione degli stessi Comandanti che preferirono lasciare liberi i loro uomini piuttosto che condannarli all’annientamento, ai plotoni di esecuzione, alla deportazione.
La situazione delle Forze Armate italiane dopo l’8 settembre è caratterizzata da 800.000 militari internati in Germania (dei quali oltre 40.000 non fecero ritorno), da 500.000 prigionieri degli alleati, da 80.000 riuniti nelle formazioni partigiane in Italia, mentre circa 30.000 si erano associati alla locale resistenza in Jugoslavia, in Albania, in Grecia e da 616.000 entrati a far parte delle ricostituite Forze Armate italiane.
Desidero sviluppare una breve analisi sulle cifre ora elencate e cercare di illustrare il perché della grande massa di militari nei campi di concentramento, nelle formazioni partigiane (in Italia e all’estero) o nelle unità schierate con gli alleati (in totale più di un milione e mezzo di uomini!). Questa analisi servirà a comprendere la Resistenza non solo nei suoi aspetti politici, ma anche nel suo significato militare. È necessario ricordare il grande impegno espresso dal fascismo per realizzare il controllo delle Forze Armate, ricercando nel contempo una spaccatura al loro interno. Agli inizi degli Anni 30 il fascismo fondò la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). Le Forze Armate, inclusi i Carabinieri, la Pubblica Sicurezza (come si chiamava allora l’attuale Polizia di Stato) e la Guardia di Finanza garantivano completamente la “Sicurezza Nazionale”. Nonostante ciò, fu disposta la costituzione della Milizia, ordinata come l’Esercito, dalle squadre sino alle Divisioni (anche se le unità e i gradi erano denominati, incuranti del ridicolo, come nell’antica Roma: manipoli, centurie, legioni; così come i gradi erano legionario, seniore, centurione, etc.). La Milizia provocò pericolose spaccature e odiosi contrasti.
I primi gravi problemi tra Esercito e Milizia si ebbero nella guerra d’Africa, nel 1935-1936. Nel 1940 la Milizia comprendeva circa 60.000 uomini e la frattura con le Forze Armate era evidente; a nulla valsero i tentativi di migliorare la situazione, cercando di instaurare artificiosamente la concordia. Anzi, furono proprio questi tentativi, come quello di inquadrare i battaglioni delle “Camicie Nere” all’interno delle Divisioni dell’Esercito, ad accelerare il processo di disgregazione. Valga per tutti l’esempio della Divisione alpina Julia che, mobilitata per la Grecia, si ammutinò, piuttosto che accettare nelle proprie fila i reparti fascisti e condusse uno “sciopero” militare a oltranza (mancata partecipazione al rancio e alle adunate per la libera uscita) finché non furono esaudite le richieste. I “soldati di Mussolini” così erano chiamati gli appartenenti alla Milizia, non erano accettati dal personale dell’Esercito, tanto che si verificarono situazioni di contrasto, specie quando i militari delle Forze Armate non riconoscevano l’autorità degli “Ufficiali col fascio” (la Milizia non portava le stellette sull’uniforme, ma un piccolo fascio littorio sul bavero); tra l’altro le promozioni, nella Milizia, non avvenivano per capacità tecniche, ma per “meriti fascisti”.
Fu inevitabile, pertanto, che subito dopo l’8 settembre, la spaccatura nell’ambito delle Forze Armate, e dell’Esercito in particolare, si manifestasse in tutta la sua evidenza. I “soldati di Mussolini” e pochi loro simpatizzanti si precipitarono nelle formazioni tedesche e al nord, nella Repubblica Sociale, mentre gli altri fecero, come abbiamo visto, una scelta coerente, anche se, in molti casi, estremamente dolorosa. È opportuno indicare, anche se succintamente, la frenetica cadenza delle trasformazioni attuate (in qualche caso imposte dagli alleati) nell’ambito delle ricostituite unità delle Forze Armate italiane. Anche se nei giorni successivi all’8 settembre le formazioni dislocate in Puglia, Lucania e Calabria si erano battute con determinazione contro i tedeschi, gli Alleati non consentirono ai reparti italiani di proseguire la lotta. Le unità furono riordinate, inglobando anche molti elementi che erano giunti dal nord, attraversando le linee, e militari provenienti dai Balcani.
Il 26 settembre fu costituito il 1° Raggruppamento Motorizzato (in pratica una brigata su 4 battaglioni di fanteria e supporti, per un totale di circa 3.000 uomini). Il 13 ottobre 1943 venne formalizzato lo stato di guerra contro la Germania. Il 7 dicembre il 1° Raggruppamento entrò a linea, a Monte Lungo, sul fronte di Cassino. Dopo due tentativi, la posizione fu conquistata. Ci furono 350 caduti (più del 10% della forza) che andarono ad aggiungersi ai circa 10.000 morti a Cefalonia, a Corfù, in Egeo, nella difesa di Roma.
Nel febbraio del 1944 il Raggruppamento, con una forza di circa 5.000 uomini, combatté sugli Appennini e il 18 aprile venne inquadrato nel “Corpo Italiano di Liberazione”. A fine maggio la linea Gustav in corrispondenza di Cassino fu infranta e il “Corpo Italiano di Liberazione”, forte ora di 24.000 uomini, fu inquadrato nell’VIII Armata Britannica, impegnata sul fronte adriatico; questa allocazione fu attuata per evitare che le truppe italiane partecipassero alla liberazione di Roma.
II 24 settembre 1944 gli alleati chiesero al Governo italiano di approntare, per essere impiegate in prima linea, 6 divisioni leggere, denominate “Gruppi di Combattimento”; denominazione che rispondeva a ragioni politiche, per minimizzare il contributo bellico italiano alla causa alleata, in previsione degli accordi di pace. Le uniformi dei Gruppi di Combattimento (Cremona, Friuli, Folgore, Legnano, Mantova e Piceno) erano inglesi, con simboli e mostrine italiane. I Gruppi di Combattimento furono inizialmente schierati sulla linea Gotica (che, partendo dalle alpi Apuane, a nord di Pisa, raggiungeva l’Adriatico a nord di Ravenna) e, sempre inquadrati nell’VIII Armata inglese, liberarono Bologna, Modena, Mantova e nel settore orientale Ferrara, Venezia e, infine, risalendo la valle dell’Adige, raggiunsero Bolzano.
Furono inoltre costituite 8 divisioni ausiliarie, dedicate alle attività logistiche di rifornimento e trasporto, per un totale di circa 200.000 uomini, che consentì agli alleati di disimpegnare un numero equivalente di combattenti da destinare ad altri scacchieri.
Per fedeltà storica, è opportuno ricordare che fu inoltre costituito,nell’ambito delle Forze Armate italiane, il Corpo Assistenza Femminile, da impiegare presso i posti sosta, le biblioteche, gli uffici informazioni, le Case del soldato, etc. Le appartenenti al Corpo erano donne di età compresa tra i 21 e 50 anni, in uniforme, tutte volontarie e assimilate al grado minimo di sottotenente.
È noto che alla guerra di Liberazione, oltre alle unità militari che operarono a fianco degli anglo-americani, agirono anche donne e uomini che, riuniti in bande alla macchia o comunque in clandestinità, impugnando le armi o in altri modi, intesero offrire il loro contributo per cacciare dal territorio nazionale l’occupante tedesco e abbattere la costituita Repubblica Sociale nel nord Italia. Le Forze Armate italiane, con il sostegno delle Forze Speciali alleate, attuarono un sistema di collegamenti e rifornimenti di armi e materiali alla Resistenza nell’Italia occupata.
Non fu un’operazione semplice; fu necessario conciliare visioni completamente diverse sul fenomeno “Resistenza”. Gli alleati, almeno inizialmente, non nutrivano molta fiducia nei riguardi di una organizzazione che non potevano direttamente né dirigere né controllare. In seguito a delicate trattative si convenne che le formazioni partigiane avrebbero dovuto organizzare esclusivamente azioni di sabotaggio, tramite prigionieri di guerra alleati fuggiti dai campi di concentramento o missioni di collegamento alleate che sarebbero state inviate presso le formazioni stesse. Il Comando Alleato, inoltre, pretese che le formazioni partigiane escludessero dalla propria pianificazione l’insurrezione generale, di fatto la liberazione, delle città più importanti. Il risvolto politico di questa proibizione era evidente. Il divieto fu disatteso, e le unità tedesche e fasciste furono cacciate da Genova, Torino, Milano e da altre città prima dell’arrivo degli alleati. Furono necessari alcuni mesi perché la collaborazione tra le Forze Speciali alleate, Forze Armate italiane e Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), da cui dipendevano le diverse formazioni partigiane, diventasse più fiduciosa e fattiva. Nonostante il sostegno, le formazioni partigiane operarono in un contesto di decisa repressione.
Quelle donne e quegli uomini che parteciparono attivamente alla guerra di Liberazione, nei ranghi delle Forze Armate o nelle formazioni partigiane, o anche semplicemente attuando la resistenza passiva, avevano in mente l’ideale di una nazione libera, democratica, pacifica, profondamente rispettosa dei diritti umani. Quelle donne e quegli uomini operarono con determinazione, affrontando gravissimi rischi, in un Paese distrutto, diviso e occupato da eserciti stranieri, con alle spalle centinaia di migliaia di morti e di invalidi, e con un morale provato da oltre tre anni di guerra. E in aggiunta con l’accusa di essere anche dei traditori. Quelle donne e quegli uomini, invece, erano convinti che l’accusa infamante era profondamente ingiusta: la maggior parte del popolo italiano aveva preso coscienza sia dei tragici errori politici commessi, sia di essere stato ingannato, sia della necessità, proprio perché colpevoli, di porre fine alle immani distruzioni provocate dalla guerra. Il popolo italiano non aveva tradito! Era stato tradito!
La guerra di Liberazione ha segnato l’inizio della rinascita di una Nazione profondamente desiderosa di collocarsi dignitosamente nell’ambito della comunità internazionale. Il prezzo pagato nella guerra di Liberazione è stato molto elevato. Per raggiungere il traguardo della libertà i caduti sono stati, in 17 mesi, 88.337 e i feriti gravi più di 20.000, senza contare le vittime tra la popolazione civile. Questi eroi facevano parte delle unità militari, delle formazioni partigiane, dei prigionieri in mano tedesca, tutti uniti e accomunati in un unico grande sacrificio.
A loro il nostro rispettoso pensiero e la gratitudine per averci consentito di riacquistare la dignità nazionale. In tutti esisteva la viva speranza di non essere più costretti a combattere una “guerra di Liberazione”.
(da una conferenza del generale Franco Angioni)un capro espiatorio per i nazisti, dopo l’8 settembre 1943: Mafalda di Savoia
La tragica storia della principessa Mafalda Maria Elisabetta di Savoia-Assia (Roma , novembre 1902-Buchenwald 28 agosto 1944), secondogenita del re Vittorio Emanuele III ed Elena di Montenegro è tristissima e straziante. La pupilla di casa Savoia era andata sposa, il 23 settembre 1925, al principe tedesco Landgrave Philipp von Hesse (Germania , 6 novembre 1896 - Roma, 25 ottobre 1980) tenente dell'Esercito prussiano . Il nazismo, pur non riconoscendo titoli nobiliari utilizzò il Langravio d'assia conferendogli un grado nelle SS e vari incarichi. Non si sa se Filippo fosse un nazista convinto, di certo Mafalda, almeno nei primi tempi ammirava Hitler come del resto aveva ammirato Mussolini.
Una foto storica li ritrae circondati da innumerevoli e importanti invitati sullo scalone d'onore del castello reale di Racconigi il giorno delle fastose nozze.
L'unione principesca fu allietata dalla nascita di quattro figli:
Maurizio - Maurice Frederick Charles (Racconigi, 1926) sposò nel 1964 la Principessa tedesca Tatjana di Sayn-Wittgenstein-Berleburg, da cui divorziò nel 1974 ;
Enrico - Henry William Constantine (Roma, 1927-Langen, 1999) ;
Otto - Otto Adolf (Roma, 1937 –Hannover, 1998) sposò nel 1965 Angela von Doering da cui divorziò nel 1969; seconde nozze nel 1988 con la cecoslovacca Elisabeth Bönker, da cui divorzio nel 1994 ;
Elisabetta - Elisabeth Margarethe Elena Johanna Maria Jolanda Polyxene (Roma, 1940) sposò nel 1962 Friedrich Carl Gf von Oppersdorff (1925-1985).
La vita scorreva via, felice e piena. Mafalda aveva ricevuto come dono di nozze Villa Polissena, a Roma: è lì che abitava quando tornava in Italia.
Poi il destino di Mafalda diventa tragico.
Nel 1943, in piena guerra mondiale, la principessa Savoia partì alla volta della Bulgaria. Voleva abbracciare la sorella Giovanna di Savoia moglie del re Boris III, agonizzante. La firma della resa dell'Italia agli anglo-americani e il suo annuncio (8 settembre) la colsero Oltralpe. In pieno marasma con il piano di Hitler che voleva arrestare il Re Vittorio Emanuele III, la Regina e il principe ereditario. Che elusero la cattura rifugiandosi a Ortona e poi, via mare, a Brindisi. Mafalda volle a tutti i costi ritornare a Roma per riabbracciare i figli. I piccoli Savoia-Assia erano ben nascosti in Vaticano sotto la protezione del cardinal Montini, il futuro Paolo VI. Il resto è noto. Fu catturata con l'inganno dai nazisti di Kesselring (Mafalda è stata arrestata il 22 settembre 1943 a Villa Wolkonski sede dell'ambasciata tedesca dove era stata attirata con un inganno. Che venne in seguito portata all'aeroporto dell'Urbe e imbarcata su un volo per Berlino) e deportata a Buchenwald. Il 18 ottobre del '43 Mafalda varcò il portone del Campo di concentramento.
La principessa possedeva solo i vestiti che indossava al momento dell'arresto . Le sue richieste di vestiti e biancheria furono sempre negate . Le fu proibito anche di scrivere ed il suo nome venne cambiato con quello di MADAME ABEBA .
Rinchiusa in una baracca riservata a prigionieri particolari che non lavoravano e ricevevano il vitto delle SS che era poco migliore di quello che ricevevano i prigionieri comuni , soggiornò insieme al socialdemocratico tedesco ed ex ministro Brenschiel e sua moglie nonché una dama di compagnia
La principessa ebbe occasione di conoscere un prigioniero italiano , il sardo Leonardo Bovini , addetto allo scavo di una trincea antiaerea all'interno del recinto della baracca dove Mafalda era prigioniera . Da lui si ebbe la notizia al Campo della presenza della principessa di Savoia .
Il 24 agosto del '44 Buchenwald venne bombardato dagli alleati anglo-americani. Mafalda rimase ferita gravemente: il braccio sinistro ustionato fino all'osso e una vasta bruciatura sulla guancia. Venne trasportata nella camera di tolleranza del Campo trasformata provvisoriamente in lazzaretto . Fu operata in ritardo dal medico capo delle SS perché non avesse contatti con i prigionieri e con metodo inadeguato alla circostanza . Non venne soccorsa adeguatamente e dopo quattro giorni d'agonia in preda alla cancrena la sfortunata principessa moriva, a soli 42 anni.
La salma della principessa non fu cremata come accadeva normalmente , ma messa in una cassa nera di legno e trasportata a Weimar in Germania dove fu messa nel reparto d'onore riservato ai caduti in guerra nella fossa comune 262 delle SS .
Recentemente fu scoperto che Mafalda non fu mandata subito in Germania ma a Bolzano nel Campo smistamento dei prigionieri (ebrei, zingari, politici).
Ci sono testimoni oculari che l'hanno riconosciuta nel campo di Bolzano. Era sempre vicina a una signora ebrea. Ma nessuno ha potuto avvicinarla».
Perchè il re non ha avvertito la figlia sul pericolo imminente? «Non sapeva con esattezza la data dell'armistizio. Il dramma è che non sono riusciti a coordinarsi. Lei è stata avvertita, però, al confine italiano. Ma essendo sposata con un principe tedesco s'è fidata, non ha pensato di poter diventare un capro espiatorio per i nazisti. Mafalda invece divenne un simbolo, anche il marito fu spedito nel Campo di concentramento di Flossenburg.
da www.lager.it
8 settembre 1943: il comportamento della Marina militare
La Marina italiana eseguì l'ordine, per quanto duro fosse, di salpare per Malta con un movimento simultaneo di grande precisione, subendo gravissime perdite priva come era d'ogni protezione antiaerea. Mentre la squadra di Taranto poteva percorrere indenne la breve distanza, quella della Spezia che costituiva la parte più rilevante della flotta rischiava l'annientamento nel corso della lunga rotta.
La Corazzata Roma nel momento in cui viene colpita (immagine tratta dal sito della Marina Militare)
Al largo della Maddalena un attacco aereo tedesco colpiva nella santabarbara la Roma che s'inabissava insieme all'ammiraglio Bergamini e 1500 uomini dell'equipaggio; era colpita inoltre l'Italia che però poteva continuare, benché appruata, la navigazione; nella rotta verso l'Africa il Vivaldi era affondato dalle artiglierie germaniche costiere e il Da Noli saltava su una mina. Ma è veramente giusto attribuire tale splendido comportamento come si è fatto in genere allo spirito dei suoi ufficiali, tradizionalmente e sicuramente «monarchico» e quindi impenetrabile al tradimento e alle infiltrazioni della quinta colonna fascista? Certo, la casta militare della marina ha avuto e ha tuttora carattere più omogeneo di quello dell'esercito, è, per sua natura, dotata di qualità «tecniche» che formarono anche nel periodo fascista il più sicuro argine contro il carattere d'improvvisazione e di faciloneria impresso dal regime alle Forze Armate. Ma considerare il comportamento della marina all'8 settembre solo come una prova di «lealismo» monarchico oppure come la dimostrazione d'una «obbedienza agli ordini» passiva e indiscriminata, significa dare un'interpretazione troppo semplice e unilaterale a uno dei fatti più importanti della nostra storia. Occorre anche tener conto delle «condizioni di vita» degli equipaggi, apparentemente isolati e racchiusi in se stessi - più isolati d'un qualsiasi reparto al fronte - ma, in realtà, inseriti in una valutazione degli avvenimenti di tipo «internazionale », collegati con le potenti radio di bordo alle stazioni straniere più lontane, da Londra a Mosca, comunque alieni da quel gretto provincialismo che costituisce la forza della propaganda fascista. Né bisogna trascurare il fatto che proprio quelle particolari «condizioni di vita» avevano consentito di organizzare a bordo da parte dei marinai - operai specializzati in divisa militare - vere e proprie cellule comuniste, tollerate dai «superiori »; e che, in sostanza, insieme all'«antifascismo» degli ufficiali conviveva e agiva come elemento di pressione dal basso quello, ancor più convinto e pugnace, degli equipaggi.
Nei giorni seguenti alla caduta del fascismo la bandiera rossa fu issata insieme alla bandiera nazionale sulla fortezza del Varignano (La Spezia) e furono i marinai della flotta italiana alla fonda nel porto di Gaeta a salutare, col pugno chiuso e cantando Bandiera rossa, il vaporetto che riportava alla libertà e alla lotta i dirigenti della classe operaia confinati a Ventotene, a manifestare la loro gioia per questa grande vittoria delle forze popolari nel periodo badogliano.
L '8 settembre non giunse dunque inaspettato se già alle prime luci dell'alba successiva i muri degli arsenali di La Spezia e di Taranto apparvero cosparsi di scritte inneggianti alla pace e alla lotta antinazista, le stesse scritte che apparivano nelle stesse ore nelle maggiori fabbriche italiane.
da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia Einaudi 1964