Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

La costituzione del CVL Corpo Volontari della Libertà (9 giugno 1944)

30 Septembre 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

La Resistenza nel maggio 1944 è in rapida ascesa, cammina speditamente; ha dietro di sé la raggiunta « unità nazionale» che, stabilita nel le sue forme legali nel lontano regno del Sud, agisce sempre più in profondità nel territorio occupato dai nazifascisti. Il CLNAI già si considera a tutti gli effetti rappresentante del governo legittimo. In questa nuova fase si prospetta il problema dell'unificazione del Comando delle forze partigiane, la necessità di dare un assetto definitivo o un nuovo assetto sul piano politico e organizzativo agli organi militari sia al centro, sia alla periferia.

Finché i partigiani erano ancora forze disperse, non collegate fra di loro, finché ogni banda agiva isolatamente ognuna nel suo settore, il CLN aveva limitato la sua opera a quel controllo e a quell'aiuto generico che poteva essere fornito dalle sue Giunte militari, organizzate pariteticamente con la rappresentanza dei cinque partiti. Ora la situazione è mutata o va mutando rapidamente: le bande si vanno trasformando in reparti sempre più grossi, si va passando un po' ovunque dal distaccamento d'una trentina d'uomini al battaglione e da questo alla brigata.

Il 9 giugno 1944 si costituisce il «Comando generale per l'Italia occupata del Corpo volontari della libertà».

distintivo riconoscimento CVL

Il Comando generale è diviso in più sezioni (assistenza, operazioni, informazioni e controspionaggio, aviolanci, trasporti e collegamenti, prigionieri alleati, falsi). Della sezione più importante, la sezione operazioni, sona responsabili Ferruccio Parri e Luigi Longo, coadiuvati da un tecnico militare. Il dirigente azionista e quella comunista occupano così in seno alla struttura collegiale del Comando una posizione preminente che rispecchia, oltre che il loro prestigio personale, il rapporto di forza che s'è consolidato alla periferia (ove le brigate garibaldine e le brigate GL sono le più consistenti e numerose).


 

Ecco le prime direttive del CVL alla periferia:

«Il Comando generale per l'Italia occupata, pur non presumendo di dirigere le azioni delle varie unità, nell'autonomia e nell'iniziativa delle quali riconosce un elemento di quella rapidità e agilità che devono caratterizzare l'azione partigiana, farà opera però affinché le singole azioni siano sempre più dirette verso un movimento d'insieme, organizzato secondo i migliori criteri dettati dall'esperienza. Farà avere a questo proposito a tutti i Comitati e Comandi dipendenti delle istruzioni soprattutto per quanto riguarda la preparazione organizzativa tecnica della insurrezione nazionale ... »

bibliografia
“Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia  Einaudi 1964


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La formazione del CLNAI (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia)

29 Septembre 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Mentre lo Stato italiano viene diviso in due e ogni giorno s'allarga di più la fenditura che divide il Nord dal Sud, minacciando paurosamente l'esistenza nazionale fin dalle fondamenta, ponendo in forse anche la conquista risorgimentale dell'unità, ha ancora un'assai debole voce il nuovo elemento che dovrà impedire colla sua azione il maturarsi di una tale rovina, il Comitato di liberazione nazionale. Sorto a Roma nelle giornate infuocate dell'armistizio, aveva superato d'un balzo, sotto la spinta degli avvenimenti, le divergenze fra le correnti politiche che erano in esso confluite. Era nato di getto come organo insurrezionale chiamando alle armi i cittadini di Roma, e aveva solennemente dichiarato, nella vacanza d'ogni potere, la propria natura e i propri compiti di governo straordinario. Da organo unitario dell'antifascismo s'era di colpo trasformato in organo d'unità nazionale.

Il primo CLN che assume i compiti di effettiva guida della lotta di liberazione per un'intera regione è quello di Torino. Sono vari i motivi che producono questa sua priorità: la sua stessa anzianità di costituzione (il Fronte nazionale di Torino fu il primo a costituirsi in Italia, nel 1942), la tradizione antifascista non solo operaia ma estesa ai gruppi borghesi più avanzati, il senso particolarmente radicato a Torino, punto di partenza per l'unità d'Italia nel Risorgimento, della « legalità» dello Stato e quindi della completa «illegalità» della pseudo-repubblica; insieme al passato, gli avvenimenti più recenti, il fatto che Torino per due volte nel marzo e nel novembre '43 ha dato il segno della riscossa operaia. Tutto ciò confluisce nell'attribuire al CLN piemontese, fin dal suo esordio, i lineamenti di un vero e proprio «governo di guerra» già ramificato fin dal settembre nei suoi vari settori: comitato generale e comitato esecutivo, comitato militare, finanziario, stampa e propaganda, per gli approvvigionamenti.

D’altro canto al principio del 1944 arriva definitivamente in porto anche la questione dei poteri del CLN per l'Alta Italia. Già il CLN lombardo si è guadagnato di fatto la propria autorità, estendendo la propria sfera organizzativa sino a Firenze.

Alla fine di gennaio la questione è definitivamente risolta con la lettera inviata dal CLN di Roma a quello di Milano con la quale, nella prospettiva d'una imminente liberazione della capitale e d'una separazione dell'Italia settentrionale dal resto del paese, il CLN lombardo viene investito dei poteri di «governo straordinario del Nord», rappresentante già fin da questo momento del «nuovo governo democratico»

Nella lettera il CLN centrale afferma che ormai è divenuto suo « primo compito» quello di promuovere e dirigere la partecipazione popolare alla battaglia per la liberazione di Roma e precisa che anche per il Nord «la lotta deve avere come sbocco finale l'insurrezione generale contro l'occupante ».

Nasce così il CLNAI che nella prima e importante mozione stabilisce:

«Il nuovo sistema politico sociale ed economico non potrà essere se non la democrazia schietta ed effettiva. Del governo di domani il CLN è oggi una prefigurazione» e riafferma «l'unità del patto di riscossa e di rinnovamento democratico che lega i cinque partiti. Chi opera contro l'unione di essi opera contro il paese».

Si tronca così con questo documento ogni tentativo interno di scindere la Resistenza.

 

Il CLN di Milano, in seguito trasformatosi in CLNAI, era originariamente (settembre I943) composto dai liberali Arpesani e Casagrande, dai comunisti Li Causi e Dozza, dagli azionisti Albasini Scrosati e Parri, dai socialisti Veratti (poi deceduto) e Viotto, dai democristiani Ca e Enrico Falk, sotto la presidenza dell'indipendente Alfredo Pizzoni. Successivamente il Comitato ebbe a subire le seguenti modifiche: per il PLI, ad Arpesani si aggiunsero Anton Dante Coda e Filippo Jacini; per il PC, Dozza si recò in Emilia e a Li Causi si aggiunsero Sereni e Longo che ben presto passò al CVL; per il PdA, Parri passò al CVL e ad Albasini si aggiunsero Lombardi e Valiani; per il PSIUP si aggiunsero Marzola, Pertini, Morandi; per la DC, Casò fu sostituito da Marazza a cui si aggiunse anche Augusto De Gasperi. La presidenza del CLNAI restò a Pizzoni sin quasi alla Liberazione, poi passò a Morandi.


Alfredo Pizzoni presidente del CLNAI

bibliografia:
“Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia  Einaudi 1964

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il clero e la Resistenza

28 Septembre 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Il clero italiano, fin dall'inizio dell'occupazione tedesca, aveva dovuto scegliere fra due alternative: la Resistenza patriottica all'invasore, quale ad esempio fu quella condotta in Belgio dal primate belga cardinale Mercier durante la prima guerra mondiale o l’acquiescenza allo stato di fatto, quale si ebbe in Francia durante l’occupazione nazista.

In Italia invece non fu scelta con chiarezza né l'una né l'altra strada, non ci fu una politica vaticana «a senso unico», facilmente definibile nelle sue caratteristiche. L'unica direttiva che arrivò da Roma fu quella di negare il riconoscimento de iure alla repubblica di Salò, pur riconoscendola come un governo di fatto.

Il clero basso, si può dire in ogni regione, offre la sua assistenza agli «sbandati» e continua ad offrirla anche quando essi sono divenuti «ribelli» e poi patrioti: è un'assistenza che travalica facilmente i limiti della carità imposta dai doveri sacerdotali, poiché non si limita, almeno nelle sue manifestazioni più esplicite, a offrire un rifugio, uno scampo alle persecuzioni nazifasciste, ma fornisce un vero e proprio appoggio al consolidarsi delle prime formazioni partigiane e collabora in forme più o meno dirette alla loro efficienza bellica. Numerosi esempi possono essere portati in tal senso risalendo dal Sud al Nord.

A Roma spicca la figura di don Pietro Morosini, fucilato «per l'opera di ardente apostolato fra i militari sbandati... l'acquisto e la custodia delle armi» («se mi lascerete libero ricomincerò da capo», dichiarò orgogliosamente ai suoi giudici). E ancora a Roma è da ricordarsi il coraggioso gesto compiuto da' un sacerdote, don Paolo Pecoraro: il 12 marzo 1944, in occasione della benedizione papale in piena piazza San Pietro, gremita fino all'impossibile, dove abbondavano fascisti ed SS tedesche, non esitò con sprezzo del pericolo e rischiando la propria vita, ad issarsi su uno dei piedistalli dell'obelisco e ad esortare a voce altissima tutti gli italiani a battersi contro gli oppressori, a cacciare il nemico invasore.

Decine e decine di parroci sull'Appennino e sulle Alpi acconsentono a trasformare le loro canoniche in depositi d'armi, e non solo consentono, ma sono essi stessi a suscitare e ad organizzare la guerra di liberazione. Così, ad esempio, fa don Pasquino Borghi nelle zone del Reggiano, fucilato nel gennaio come organizzatore dei primi nuclei di ribelli, il parroco don Agnesi in Piemonte che trasforma la sua canonica in «ufficio d'arruolamento della IV brigata Garibaldi», don Gaggero a Genova al quale fa capo il CLN locale. E gli esempi si
potrebbero moltiplicare. Ci sono anche quelli che assumono direttamente il comando delle formazioni partigiane come «don Pietro» nella provincia di Massa-Carrara e «don Carlo» in quella di Reggio Emilia. Sono questi gli esempi più avanzati, alcuni d'eccezione, ma è indubbio che la gran massa del clero basso si dimostrò favorevole, e non solo a parole, alla Resistenza.

 

La situazione in Brianza

Don Enrico Assi, uno dei sacerdoti che più hanno partecipato alla Resistenza brianzola insegnante al seminario di S.Pietro a Seveso più volte imprigionato dai fascisti, nel suo libro Cattolici e Resistenza afferma:

«Se la Resistenza fu essenzialmente rivolta dello spirito non contro altri uomini, ma contro un'allucinante concezione dell'uomo e della storia .... se la Resistenza fu l'esplosione della grande idea della libertà e anelito verso un mondo nuovo, non poteva che costituire il luogo della presenza e dell'opera dei preti e dei cattolici».

Ma, per il clero, fu veramente così? Il fenomeno del collaborazionismo fra gli ecclesiastici fu ben poca cosa. Si limitò all'ambiente dei cappellani militari, intriso di sentimenti patriottici influenzati dalla fascistizzazione dei reparti.

Vi fu però una profonda diversità del comportamento delle alte gerarchie ecclesiastiche da quello del basso clero.

Per quanto riguarda i vescovi del centro-nord, la maggior parte non diede credito al fascismo repubblichino. Cercarono con un atteggiamento distaccato, di far dimenticare gli anni delle benedizioni ai gagliardetti, dei Te Deum per le conquiste coloniali e del nazional-cattolicesimo. Pochissimi si fecero coinvolgere (sempre comunque marginalmente) nel movimento per la libertà. I due vescovi delle diocesi milanese e comasca che coprivano il territorio brianzolo, il cardinal Ildefonso Schuster e monsignor Alessandro Macchi, non si distaccavano da questo clichè. Non è nota nessuna presa di posizione autorevole, chiara ed espressa a gran voce o sottovoce contro quella “allucinante concezione dell’uomo e della storia” che, giustamente diceva don Assi.

Per il basso clero non fu così. Molti semplici sacerdoti, molti parroci di campagna e di paese che vivevano a stretto contatto con la popolazione e della quale, quindi, conoscevano le privazioni, i lutti determinati da quella guerra ed ora anche le angherie fasciste, meglio comprendevano qual erano le le necessità più elementari da soddisfare, il problema dei giovani renitenti da proteggere con i  tedeschi in casa.

I prevosti e i maturi parroci brianzoli assumono un contegno distaccato e freddo nei confronti della repubblichina, ma alla popolazione per ancestrale senso di rispetto all'autorità costituita o per timore, consigliano con fervore di non muoversi contro gli occupanti, di non compiere gesti ostili per non suscitare rappresaglie, per evitare spargimenti di sangue e mantenere comunque l'ordine. Suggeriscono di attendere con rassegnazione la fine di questo tragico momento e di pregare.

È un dato di fatto, una realtà, è che la Chiesa fu con ciò un elemento di attenuazione dell'opposizione al nazifascismo in Brianza, di freno all'appoggio alla Resistenza, condizionando molto anche l'attività delle formazioni cattoliche.

Chi furono, allora, i sacerdoti più vicini al movimento clandestino? In genere erano i preti dell'ultima generazione, i più recettivi verso la necessità di ritrovare la libertà e verso il bisogno di dare il giusto valore alla politica.

Alcuni esempi di sacerdoti brianzoli impegnati nella Resistenza:

don Aurelio Giussani, di Baruccana di Seveso ed insegnante al collegio S.Carlo di Milano, membro dell'O.S.C.A.R. (Organizzazione di soccorso cattolico degli antifascisti ricercati), che si costituisce proprio all'interno dell'istituto milanese. Ricercato dai fascisti; è costretto nell'ottobre del 1944 a lasciare Milano. Si unirà alle bande partigiane dell' Appennino emiliano divenendo, col nome di padre Carlo da Milano, il cappellano della 2° brigata Julia e poi della Divisione Val di Taro, scendendo dai monti solo dopo la Liberazione;

don Antonio Redaelli, parroco di Barzanò, che incitava i giovani dal pulpito a non aderire ai bandi della Rsi.

O altri appartenenti ufficialmente alla Resistenza come don Fortunato di Monza nella cui casa vi era una base della della brigata liberale Ippocampo, o come don Mario Limonta di Concorezzo, cappellano e medico del gruppo Cinque giornate che combattè al S.Martino nel varesotto e che riparò in Svizzera dopo la battaglia. E ancora:

don Luigi Vantellini di Nova Milanese che era in contatto coi gruppi partigiani della Valtravaglia che riforniva di soldi;

don Bonzi, del collegio Pio XI di Desio che accusato di favorire i partigiani del luogo e di nascondere armi, venne arrestato il 29 aprile 1944, tradotto nelle carceri di Monza e poi a S.Vittore da dove fu inviato a Bolzano Gries e quindi deportato a Dachau. Morì, essendo il suo fisico ormai compromesso dal trattamento riservatogli, a 43 anni nell'aprile del 1947;

don Antonio Bossi, coadiutore al S.Gerardo a Monza, fu cappellano della 52°Brigata del Popolo;

don Giuseppe Orsini, coadiutore a Varedo, teneva i contatti fra la brigata Mazzini del luogo e il distaccamento della Brigata del Popolo;

don Antonio Cazzaniga, parroco di Cederna a Monza, fu arrestato il 7 ottobre 1943 con l'accusa di nascondere armi; non trovandole i fascisti lo incarcerarono a S.Vittore dove fu anche torturato. Fu liberato per l’intervento del cardinale Schuster presso il console tedesco;

don Vittorio Branca, presso la parrocchia di Camnago. Nella canonica della piccola frazione aveva trovato ospitalità prima del tentativo di espatrio sotto il nome di avvocato Martinelli, Concetto Marchesi, direttore dell'Università di Padova, ricercato dopo il discorso del 1° dicembre 1943 in cui aveva invitato gli studenti alla resistenza. Don Vittorio gli divenne ottimo amico pagando questo rapporto con diversi interrogatori a cui fu sottoposto dai fascisti della caserma di Seregno.

Di notevole spessore fu l'apporto al movimento resistenziale offerto da quel centro di antifascismo marcato stretto dalla polizia repubblichina che si era installato nel collegio arcivescovile, il Niccolò Tommaseo di Vimercate. Erano in tresca con il centro di Vimercate anche altre parrocchie limitrofe come quella di Burago Molgora, dove don Alessandro Decio aveva nascosto alcune armi, don Domenico Villa e don Peppino Villa di Arcore, veri fiancheggiatori dei partigiani, e don Virginio Zaroli, coadiutore a Villasanta che protesse numerosi sbandati e renitenti.

Un rancoroso rapporto del gennaio 1945 sulla situazione del ribellismo in Brianza, stilato dal comandante della Brigata Nera di Monza tenente colonnello Zanuso, si accanisce contro la massoneria nera, come viene definito il clero. Rileva una zona particolarmente pericolosa nel vimercatese dove si ritiene che la comunità cattolica influenzi in senso anti-Rsi la popolazione. Dunque anche ai fascisti era nota e dava fastidio l'opera del clero brianzolo. Un clero che, certo, si oppose al nuovo regime e ai tedeschi in gradi diversi, che si espose in un' azione di contrasto al nuovo potere in misura molto varia, ma che in gran parte, con le dovute eccezioni, non fu in questi venti mesi fascista. Uno sbandato, un ebreo, un partigiano bussando ad una canonica poteva, non certo con sicurezza, ma con buone probabilità, trovare ricovero ed assistenza.

 

Elaborazione da:

-       “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia  Einaudi  1964

-       La Resistenza in Brianza 1943-1945” di Pietro Arienti  Bellavite  2006

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La Resistenza e l'ambiente contadino

20 Septembre 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Nei primi mesi del 1944 il movimento partigiano passa un periodo di raccoglimento e di preparazione ai compiti futuri. Ai primi rastrellamenti, alla prima fase ribellistica, fatta di continue fluttuazioni e incertezze, ha sopravvissuto una schiera relativamente esigua di uomini temprati da quelle prime e durissime prove. Tutti insieme non superano gli effettivi d'una sola delle divisioni tedesche stanziate in Italia: il caos iniziale degli sbandati s'è fissato e precisato nella modesta cifra di 10 mila armati dispersi dalle Alpi all'Appennino ligure-emiliano, armati esclusivamente con le armi «recuperate» al nemico. Ma ciò che conta non è il numero o il bilancio ancora esiguo che si può trarre dalla loro attività bellica: è il fatto che questa schiera di precursori del futuro esercito partigiano s'è ormai radicata come un elemento stabile sulle montagne, s'è connaturata, per così dire, all'ambiente.
 

I contadini delle zone montane che erano state soggette a un continuo impoverimento e spopolamento,


avevano fin dal primo momento accolto con simpatia i rib
elli; come avevano accolto, con un semplice e profondo senso d'umana pietà, gli sbandati del settembre '43 senza far distinzioni fra divise e nazioni. ... il fatto che ogni famiglia contadina aveva anch'essa un figlio morto o disperso nella seconda guerra mondiale. Si faceva con tutta naturalezza per l'ospite italiano o straniero, ciò che si desiderava che fosse stato per il proprio figlio.

I rastrellamenti tedeschi avevano cercato di rompere violentemente questi primi vincoli d'umana solidarietà, avevano mirato innanzi tutto a terrorizzare i.contadini, sottraendo ai ribelli ogni punto d'appoggio e di rifornimento. Malgrado i primi e inevitabili effetti, avevano invece finito per determinare un risultato contrario. ... I contadini delle Alpi e dell'Appennino cominciano a sentire quei primi nudei di ribelli come il proprio esercito, sono essi a battezzarli al principio del 1944, come «patrioti ».

Il nome indica un mutamento profondo nel movimento partigiano. ... Intorno alle bande è cambiato o sta cambiando il primitivo isolamento. Quando ancora la Resistenza non ha i suoi servizi d'informazione e di collegamento, sono i contadini a segnalare per primi di casolare in casolare l'avvicinarsi del nemico, ad esercitare la propria astuzia nella difesa dei patrioti. Un ragazzo che parte dal paese di fondovalle e che raggiunge affannato, ma orgoglioso della missione compiuta il capo dei patrioti sulla montagna per avvisarlo del pericolo imminente; i lenzuoli o le coperte che le famiglie contadine espongono alle finestre per indicare che il nemico è in paese, sono i primi mezzi rudimentali con cui le bande si sono collegate col resto del mondo, i mezzi ai quali spesso hanno dovuto la propria salvezza.

Spesso i patrioti attingono dal folclore contadino anche i nomignoli sotto cui celano la propria identità ...


da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia  Einaudi 1964

 

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Le "repubbliche contadine" nel Mezzogiorno d’Italia, dopo l'8 settembre 1943

20 Septembre 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Le "repubbliche contadine" si formarono negli ultimi mesi del 1943 in numerose realtà del Mezzogiorno d’Italia senza che però vi fosse tra loro alcuna forma di collegamento e comunicazione.

La popolazione insorgeva, chiedeva in primo luogo cibo, assaliva i depositi alimentari, ridistribuiva le risorse con criteri egualitari, eleggeva i propri rappresentanti, fronteggiava le forze dell'ordine italiane, la polizia anglo-americana. Ispirandosi a un'antica tradizione egualitaria arricchita dall'istanza antifascista, si dava vita a brevi esperienze di repubblica, richiamandosi in qualche modo alla repubblica sovietica con il suo mito di palingenesi sociale e facendo propria anche la polemica contro la monarchia, di derivazione repubblicana risorgimentale, inasprita dal comportamento di Casa Savoia dopo l'8 settembre 1943.

Le "repubbliche contadine" furono di breve durata, ma si saldarono con il movimento di occupazione delle terre che si sviluppò nel Mezzogiorno con grande intensità tra il 1944 e il 1946, durante i governi d'unità nazionale e, poi, ancora, tra il 1947 e il 1949, dopo l'espulsione di comunisti e socialisti dalla compagine governativa. Questo ciclo di lotte conseguì alcuni risultati sul piano politico istituzionale: nel giugno del 1944 si ebbe la promulgazione dei decreti Gullo, che prevedevano in primo luogo la proroga dei contratti agrari e la riduzione dei canoni d'affitto, stabilivano una diversa ripartizione dei prodotti per il mezzadro, la cui quota passava dal 40% al 60% del raccolto, e introducevano la possibilità che le terre incolte fossero assegnate a cooperative di contadini.

Su scala locale furono istituite le commissioni comunali e provinciali per l’assegnazione delle terre incolte e la loro attività, pur costantemente ostacolata dall'accanita resistenza degli agrari e da lentezze burocratiche e politiche, costituì un importante esempio di democrazia, anche perché avvenne sotto il vigile controllo dei contadini che continuavano le occupazioni di terra.

Le "repubbliche contadine" si collocano pertanto all'inizio di un periodo di profonda trasformazione politica e sociale del mondo delle campagne, a cui seguirà, di lì a qualche anno, il massiccio esodo dell'emigrazione.

Alcune delle "repubbliche contadine"  furono costituite nelle seguenti località:

- a Sanza, un piccolo paese nel Vallo di Diano, in provincia di Salerno, il 10 ottobre 1943;

- a Maschito, piccolo centro in provincia di Potenza, dopo la partenza del presidio tedesco a metà settembre 1943, fu insediata la «repubblica contadina”;

- una terza si ebbe a Calitri, un piccolo paese di circa 10.000 abitanti in provincia di Avellino, dove, il 29 settembre 1943, poco prima che giungessero gli anglo-americani, scoppiò l'insurrezione;

- a Caulonia, in provincia di Reggio Calabria, la "repubblica", che si protrae per diversi mesi, dal novembre 1944 all'aprile 1945, viene instaurata dal neosindaco Pasquale Cavallaro , maestro elementare antifascista, insediatosi nel gennaio del 1945, la cui nomina viene ratificata dagli Alleati e dal prefetto socialista di Reggio Calabria, Francesco Priolo, i quali accettano la situazione di fatto.

Le "repubbliche contadine" e le insurrezioni che hanno luogo nell'immediato dopoguerra del Meridione italiano hanno alcune caratteristiche comuni. Gli insorti infatti riescono a inserirsi nel vuoto di potere creato dalla ritirata tedesca e dalla scarsa autorevolezza del Regno del Sud e ad assumere il controllo del territorio per giorni e talvolta per settimane e mesi. In molti casi vi è anche la legittimazione istituzionale perché sono insediati, anche se spesso con procedure improvvisate, commissari e sindaci che sono espressione della comunità locale e vengono riconosciuti o comunque tollerati dai prefetti italiani, dall'AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory) e, poi, dall'ACC (Allied Control Commission). Nelle rivolte, la violenza esercitata sia contro i proprietari terrieri e le loro famiglie sia contro i rappresentanti dello "Stato vicino" compromessi con il fascismo - ex podestà, segretari comunali, dirigenti dei consorzi agrari -, con quanti insomma hanno sottratto risorse alla comunità e si sono arricchiti con l'imboscamento dei generi alimentari, ha un escalation drammatica: il processo popolare nella piazza del paese, le percosse e le lesioni, l'omicidio, il linciaggio.

 

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L'incendio di Boves

19 Septembre 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Nei pressi di Cuneo, una delle prime stragi compiute dai nazisti nei primi giorni dell’occupazione dell’Italia dopo l’8 settembre 1943.

 

A Boves il tedesco applica per la prima volta la politica del terrore. Boves viene data alle fiamme il 19 settembre del 1943: sono trascorsi solo undici giorni dall'armistizio. Il racconto dell'incendio può iniziare da una annotazione diaristica:

Salimmo di corsa sulle colline del Giguttin e vedemmo il paese in un mare di fuoco. Impossibile! Incredibile! Dire l'impressione di sgomento e di disperazione che era nei nostri occhi non si può. Forse dovrei paragonarla ai sentimenti e alle tragedie cosidette classiche e storiche.

Quel settembre «era buono per i funghi ». Il padrone del caffè Cernaia imbottigliava il dolcetto arrivato da Dogliani; nella calzoleria Borello si preparavamo gli zoccoli, per i giorni di fango e di neve. Le cose di sempre in un villaggio piemontese che non aveva capito la guerra e neppure. la confusione, dopo la disfatta; vissuto per secoli nel suo quieto sogno di alberi, di fontane, di vicende e di commerci minimi; costretto ora a esprimete in poche ore, in una luce rossastra, tutta la capacità umana di soffrire. Perché. i tedeschi avevano deciso di impartire, a freddo, « una severa lezione ai ribelli» . La lezione è affidata al maggiore delle SS Joachim Peiper che ha occupato Cuneo l'11 settembre con 500 SS dotate di carri armati e di autoblindo: tedeschi duri, di quelli che manovrano e sparano con uno stile inconfondibile, dove riconosci. l'addestramento perfetto, ma anche il complesso di superiorità razziale. L'esperienza che sta per fare Boves non è nuova, è già stata fatta da molti villaggi dell'Europa occupata; ma quelli di Boves non sanno o non credono, nel loro sentimento si ritrova come denominatore comune, lo stupore.

Nei primi giorni i tedeschi hanno trascurato l'informazione sul ribellismo che nasce. Conoscono poco la lingua, i luoghi, non hanno ancora informatori fidati; e poi non devono credere a un ribellismo già organizzato, già articolato in formazioni diverse, certo non immaginano che in Italia possa essere nato in pochi giorni ciò che, altrove, ha richiesto mesi. Se fossero informati colpirebbero i gruppi politici, comunisti e azionisti, che sono il seme più forte della Resistenza. Invece attaccano a Boves un residuo dell'esercito, credono che a Boves siano rimasti reparti regolari, disponibili per la ribellione; e impartiscono la loro lezione preventiva del terrore. Il giorno 17 due aerei tedeschi sorvolano le pendici della Bisalta e lanciano manifestini invitanti alla resa. La marea degli sbandati, dei rifugiati, è già in calo, restano, nelle frazioni, forse cinquecento uomini; ma il 19 settembre, al momento di combattere, sono ridotti a cento, in maggioranza valligiani: alla sinistra i bovesani Renato Aimo e Bartolomeo Giuliano, con i compaesani; al centro Ignazio Vian, veneziano, impermeabile chiaro e occhi chiari con i suoi soldati della guardia di frontiera; alla destra il cuneese Gino Renaudo. I ribelli sono armati di fucili 91, di mitragliatrici Breda, di mitragliatori; il gruppo Vian ha un cannone da 75: colpi in dotazione, uno.

Peiper manda un'avanguardia a Boves nel pomeriggio del 18, cinquanta uomini con due pezzi da 88. Si fermano sul piazzale della fornace Regia e tirano sulle borgate, su Roccasetto, Moretto, Sant'Antonio, Castello, senza preavviso; poi entrano in Boves, chi li comanda fa radunare la popolazione in piazza e dice: «Se non volete che fuciliamo gli uomini andate in montagna e dite ai ribelli che hanno quarantott'ore di tempo per scendere. Se consegneranno le armi saranno lasciati liberi ». Qualcuno sale sulla montagna a informare i ribelli, ma ormai Aimo e gli altri del paese hanno deciso: «Meglio morire qui che darci prigionieri ».

Il giorno 19 Peiper manda a Boves due SS in automobile: soli, in un paese di cui si dice sia il centro della ribellione. Può essere la ricerca di un pretesto; o semplicemente l'ordine crudele di un comandante crudele; o anche il disprezzo per l'italiano smarrito e imbelle della disfatta. Alle 10 i due si fermano sulla piazza del paese e si guardano attorno; poi vorrebbero ripartire ma il motore si è guastato; e sono indaffarati a ripararlo quando arriva sulla piazza, mitragliatore sul tetto, un camion di ribelli, scesi per la corvée del pane. Non si spara neppure: i due vengono subito catturati, fatti salire sul camion, portati in montagna fra la gente che applaude. Poi la folla incomincia a diradarsi, dopo qualche minuto il paese sembra deserto. Le SS arrivano alle 12,30. Peiper va in municipio, cerca del podestà e del segretario comunale: sono già fuggiti in montagna. Si presentano il parroco don Giuseppe Bernardi e l'industriale Antonio Vassallo. «Andate lassù, fateveli restituire» urla il tedesco. «Risparmierà il paese? » chiede il prevosto. Peiper dà la sua parola. Il prete e l’industriale salgono da Vian al Castellar, in automobile, sventolando uno, straccio bianco. Dopo quaranta minuti tornano con i prigionieri; si è discusso fra Aimo, Giuliano e Vian, ma alla fine hanno deciso di dare ascolto al parroco: se vuole dica pure che i ribelli stanno sciogliendosi. Don Bernardi, ora che i prigionieri sono restituiti, non serve. più; Peiper rompe gli indugi, la lezione del terrore commcia subito, come raccontano le testimonianze.

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Vedemmo le prime volute di fumo. Passò una donna gridando:. «Hanno ucciso Meo! Hanno ucciso Meo! ». Qualcuno dl noi scappò, io rimasi alla fontana per finire di lavare.

Avrebbero dovuto mantenere la parola, invece noi di dentro la trattoria sentimmo raffiche di mitraglia. Li per si decise di tornare a casa ma in quel momento entrò Beppe con la camicia insanguinata: «Sparano su tutti» disse.

Erano vestiti di giallo e di marrone come i teli-tenda. lo ero con uno di Rosbella. Gridarono qualcosa che non capimmo, poi si misero a sparare. Il mio compagno ebbe un braccio spezzato al gomito.

In piazza Italia un carro armato era fermo davanti l'osteria Cernaia. Vicino al carro c'era un giovane, lo riconoscemmo subito. Benvenuto Re di 17 anni. Visto che i tedeschi si erano allontanati e parevano non interessarsi di lui, lo esortammo a fuggire. Sorrise e rispose: «Am faran pa gnente ». Alla sera vidi il suo cadavere sulla piazza.

Lo stupore, in tutte le testimonianze della strage assurda.

A un ordine del maggiore Peiper don Giuseppe Bernardi e Antonio Vassallo vengono fatti salire su una camionetta. « Fategli ammirare lo spettacolo a questi signor!» dice Peiper. Il sadismo non è casuale, nella lezione nazista del terrore. La camionetta percorre lentamente il paese in fiamme, perché il signor prevosto possa vedere che ne è dei suoi parrocchiani.

Ero in casa entrarono tre tedeschi e si misero a cospargere con un liquido i mobili del nostro piccolo salotto. Ma perché li rovinate? dissi. Uno mi colpì al ventre con un calcio. Dopo vidi tutto bruciare attorno a me.

Così in centinaia di case. Alla fine del giro, il parroco e l'industriale vengono cosparsi di benzina, colpiti da raffiche, dati alle fiamme mentre agonizzano.

La lezione del terrore è distinta dalla repressione armata, della ribellione: a Boves si incendia e si spara sui civili, prima e durante i combattimenti con i ribelli. Mentre Boves brucia, una colonna di SS sale verso il Castellar. I partigiani hanno piazzato il loro pezzo da 75 al ponte del Sergent: spara il suo unico colpo alzo zero e immobilizza l'autoblindo di testa; poi il fuoco partigiano mette in fuga quelli dei camion. Sul terreno, presso il ponte, c'è il primo morto ribelle, un marinaio. Stanno seppellendolo, quando i tedeschi ritornano in forze: una decina di carri armati arrivano all'altezza del ponte, girano a destra nel prato e si allineano come per una parata. Ignazio Vian ha ordinato ai suoi di non sparare. I cannoni tedeschi aprono il fuoco, terra e corteccia di castagni volano in aria, passano sibilando i proiettili delle mitragliere; quelli esplosivi danno l'impressione che qualcuno spari anche dall'alto. Quando i tedeschi salgono all'attacco, Vian si mette a urlare ordini a reparti inesistenti, e poi con i pochi che gli sono rimasti vicino, forse venti uomini, va al contrattacco lanciando bombe a mano. I tedeschi si ritirano.

Intanto i contadini in armi sulle colline vedono il fumo che sale dalla parte di Boves. Di sera una luce rossastra si allarga nel cielo pallido. Aimo e Giuliano scendono a vedere Dirà Giuliano:

La cittadina pareva morta. Non vidi che cinque-sei persone.

Le fiamme erano sole a regnare sovrane, tutto divorando. Le due piazze erano illuminate a giorno; ogni tanto qualche figura umana passava fra i bagliori. Quasi ovunque si sarebbe potuto leggere il giornale, benché fossero ormai le dieci. Davanti la calzoleria Borello trovai un tale. Aveva una bottiglia in mano. «Mah », diceva, « casa mia brucia e io sono qui. Mah, beviamo ancora una volta».

Sulla montagna sono rimasti in pochi. Vian e i suoi sì spostano in val Vermenagna. A Boves il giorno 20 si contano i morti e le case distrutte: ventitré morti fra i civili, centinaia di case bruciate, i raccolti persi, il bestiame soffocato nelle stalle. Arriva da Cuneo il viceprefetto, trova il carabiniere Vota, lo manda a cercare qualche impiegato del municipio. Il carabiniere ritorna con gli impiegati Stefano Pellegrino e Antonio Barale. «Perché non siete in ufficio? Che state facendo?» «lo », dice Pellegrino, «è da due giorni che faccio il pompiere ». «Su, sbrighiamoci », fa il viceprefetto, « saliamo in municipio ». Dirà il testimone Pellegrino:

Quando arrivò al primo piano rimase male. Non c'era più nulla, tutto era scomparso. Si vedevano solo le macchine da scrivere contorte. Assicurai il vice prefetto che i registri dell'anagrafe erano stati messi in salvo. «Va bene» disse lui con le labbra che gli tremavano. «Vuoi venire al cimitero?» gli dissi. «No », disse lui, «ai riconoscimenti pensateci voi ». Se ne andò sconvolto, forse non aveva creduto di assistere a tanta tragedia. Andammo nel cimitero. A destra entro due piccole bare, don Bernardi e Vassallo. Sembravano due bambini tanto erano rattrappiti. Poi gli altri. Non posso dimenticare la smorfia terribile di Minicu du Siri. Era un mutilato di guerra.

 

Ignazio Vian, nato a Venezia nel 1917, impiccato a Torino il 22 luglio 1944, maestro elementare e studente in Magistero, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria.

Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera, l’8 settembre 1943 Vian era in servizio a Boves. All’annuncio dell’armistizio, fu tra i primi ad attestarsi sulla Bisalta, la montagna che sovrasta l’intera zona, per apprestarsi a rispondere con le armi all’incombente minaccia tedesca.

 

 

La lezione di Boves

Boves: la politica del terrore. Un'altra lezione diretta, inequivocabile. Prima arrivavano da·noi le notizie delle stragi commesse dai nazisti in Russia, in Polonia, nei Balcani, ma erano fatti lontani, spesso fraintesi. Si ascoltava la storia di un villaggio polacco o serbo messo a fuoco e si pensava all'epilogo di una battaglia regolare, alla distruzione di un campo nemico.Non si immaginavano o si immaginavano male la repressione preventiva, il terrore teorizzato, la strage a freddo, indifferente all'età e al sesso delle vittime. Boves insegna che un' villaggio può essere devastato solo perché il tedesco. ha deciso di rivolgere all'occupato «un energico ammonimento ».

Una politica che finisce per escludere ogni altra politica. Lo dimostra il comportamento di Peiper. Fa bruciare vivo il parroco: significa rinunciare, se non al favore, alla neutralità di un clero che, nella provincia contadina, ha un grande potere. Fa bruciare l'industriale Vassallo: significa rinunciare, se non all’appoggio, alla neutralità di una borghesia amante dell'ordine,. che potrebbe fare da cuscinetto fra l'occupante e la ribellione. A Peiper interessa unicamente la lezione del terrore, egli obbedisce solo alle sue ferree regole, previste fin dal 1940 nelle circolari del maresciallo Keitel, dettagliate nel codice degli ostaggi del generale von Stülpnagel: tanti fucilati per un danno alle .cose, tanti per un danno alle persone, con facoltà al Comandi locali di aggravare o di attenuare la rappresaglia. Una politica che nasce da una ipotesi assurda, la schiavitù altrui, e finisce in una pratica assurda, l'impossibile sterminio di tutti i nemici, il delirante tentativo hitleriano: «Dobbiamo essere crudeli. Dobbiamo esserlo con tranquilla coscienza. Dobbiamo distruggere tecnicamente scientificamente, tutti i nostri nemici». La distruzione totale dei nemici è un'utopia che gronda sangue. Qualcuno dei nemici sopravvive sempre, il numero dei nemici aumenta di continuo.

Boves, per quanto possa apparire assurdo, offre questo triste conforto: la strage e la crudeltà hanno un fondo, un villaggio bruciato non è un villaggio distrutto e un villaggio distrutto non sarebbe la fine della Resistenza. I ribelli scesi a Boves la sera dell’incendio hanno incontrato i paesani in fuga: si sono salutati, si sono parlati. È stato un altro amaro conforto: una popolazione punita, perseguitata dall'occupante, non è una popolazione ostile alla ribellione, è una popolazione ormai legata alla ribellione.

 

da “Storia dell’Italia partigiana “ di Giorgio Bocca - Editrice Laterza 1980

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Settembre 1943: la nascita del movimento partigiano in Abruzzo

15 Septembre 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

“Anche qui s'addensano gli sbandati e viene formato particolarmente per opera di alcuni ufficiali effettivi un vasto concentramento nella zona di Teramo con la speranza di mantenerlo intatto fino all'arrivo degli angloamericani.

Su 1600 uomini così raccolti sul massiccio di Bosco Martese, a 30 chilometri dalla città
, solo 320 sono effettivamente gli sbandati, circa 100 i prigionieri evasi, slavi e inglesi, e 1200 sono invece i giovani della città di Teramo che accorrono al primo appello in montagna: fenomeno forse unico in tutto il corso della Resistenza italiana, questo dell'emigrazione compatta della parte più attiva di un'intera popolazione in montagna. L'attacco tedesco che non si fa aspettare (25 settembre) incontra una resistenza accanita malgrado che la colonna nemica si faccia precedere, lungo la via d'avanzata, da un ufficiale superiore italiano detenuto come ostaggio. Liberato con azione fulminea quest'ultimo, i partigiani catturano e fucilano sul posto un maggiore tedesco e infliggono dure perdite a tutta la colonna chiudendo in netto vantaggio la prima giornata di combattimento (57 fra morti e feriti tedeschi contro sei caduti partigiani). Il dispositivo di difesa di Bosco Martese, accuratamente collegato nelle varie postazioni, ha funzionato alla perfezione ed ha un carattere militare evoluto, quel carattere che la Resistenza acquisterà nel suo complesso solo nella piena fase della sua maturità: ci sono persino i mortai e una batteria d'artiglieria da montagna che ha centrato in pieno la colonna nemica. La resistenza si protrae accanita per tutto il 26 e solo all'alba del terzo giorno, quando il nemico, ricevuti forti rinforzi, impegna nella battaglia un peso soverchiante di uomini e mezzi (circa un migliaio di Alpenjager), viene sospesa, dopo aver incendiato il materiale e inchiodato i pezzi d'artiglieria. Si scioglie il concentramento di Bosco Martese, ma scaturisce dal suo seno la maggior parte dei quadri del movimento partigiano della regione e il ricordo di quella prima ed eccezionale
impresa fermenterà fino all'ultimo in Abruzzo come motivo d'orgoglio e d'incitamento.

Inoltre un gruppo di giovani nemmeno ventenni, in gran parte studenti di scuola media, prende la via della montagna già il 22 settembre e si stabilisce sulle pendici del Gran Sasso; ma, pressoché inerme, la banda viene immediatamente sorpresa dai tedeschi e nove ragazzi vengono fucilati quali «franchi tiratori ». Così sulle pendici della Maiella, guidati da un insegnante del liceo di Chieti, altri giovani costituiscono la banda di «Palombaro », anch'essa dissoltasi dopo i primi scontri.

A questi e analoghi tentativi segue poi il vigoroso sforzo organizzativo compiuto dal socialista Ettore Troilo, coadiuvato da alcuni ufficiali e la costituzione del gruppo Patrioti della Maiella, la più consistente formazione partigiana abruzzese e anche la prima a prendere contatto con gli alleati.

È ancora l'Abruzzo a pagare il prezzo della sua prococe resistenza e della prossimità della linea del fronte con un ingente e tuttora pressoché ignorato contributo di sacrifici e di sangue. Il 21 novembre 1943 nel villaggio di Pietransieri - che aveva tardato ad eseguire l'ordine di evacuazione impartito dalle autorità germaniche - irrompono le truppe tedesche e fanno strage di 130 civili, in gran parte donne e bambini.

da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia Einaudi 1964
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settembre 1943: la formazione Italia Libera

12 Septembre 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Fin dal 12 settembre 1943 si era costituita e già stanziata a Madonna del Colletto, fra Valle Gesso e Valle Stura, la formazione Italia Libera, «l'unica formazione che si sia veramente costituita in città, attraverso una selezione e che dalla città si sia trasferita a costituzione avvenuta, in montagna».

È
composta da una dozzina di civili del Partito d'Azione capeggiati da Duccio Galimberti: non soldati sbandati, non giovani minacciati dal lavoro obbligatorio o dalla deportazione in Germania, ma elementi borghesi anche agiati, il cui antifascismo risale e si ricollega all'insegnamento di Piero Gobetti. Il suo esempio ha infatti resistito tenacemente nell'ambiente intellettuale torinese per vincoli diremmo quasi familiari: la moglie di Gobetti, Ada Marchesini, è rimasta sul luogo a ricordare il sacrificio del compagno e la sua casa è divenuta uno dei maggiori centri della cospirazione cittadina. Del tutto inesperti d'arte militare, i componenti dell'Italia Libera si sono rivolti in un primo momento a ufficiali effettivi che hanno rifiutato di porsi a capo di quella piccola spedizione. Debbono quindi fare da sé, felici di poter passare finalmente - com'essi dicono - «dalla teoria all'azione». Ma non c'è tuttavia in loro quella smania di agire subito e ad ogni costo che contrassegnerà altri settori del movimento partigiano. C'è piuttosto l'idea di organizzarsi solidamente, di addestrarsi alla nuova vita con cognizione di causa: li anima un rigoroso spirito egualitario per cui tutti i servizi, anche i più faticosi della vita collettiva in montagna, vengono eseguiti a turno e al tempo stesso una profonda avversione per qualsiasi forma disciplinare che ricordi il vecchio esercito: fino al punto di rifiutare l'uso di indumenti militari! È questa la formazione politica che avrà poi un più costante e regolare sviluppo, aggregandosi gruppi di ufficiali alpini, estendendo continuamente il suo raggio d'azione fino a trasformarsi nelle divisioni Giustizia e Libertà del Cuneese.


da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia Einaudi 1964

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gli intellettuali italiani dopo l’8 settembre 1943

10 Septembre 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

La cultura italiana fu colta anch’essa di sorpresa dagli avvenimenti del settembre. Alcune punte avanzate erano già attive nella lotta antifascista, altre erano ancora ferme in un'angosciosa perplessità nei suoi quadri più numerosi, dalle università ai vari gruppi artistici e letterari. La catastrofe nazionale era piombata improvvisa sulla maggioranza degli intellettuali italiani che non aveva aderito al regime o aveva aderito solo formalmente ... che aveva stimato di salvare la cultura insieme alla propria anima, rifugiandosi in un'arte o in una scienza lontana dalla vita e dai suoi problemi reali. ... Tanti intellettuali si trovarono nel momento del crollo isolati e disperati, senza più riparo o rifugio all'incalzare degli avvenimenti, come gli « sbandati» ed i fuggiaschi del nostro esercito. ... In questo stato di disorientamento, di dubbio angoscioso che arrivava fino alla disperazione, intervenne la voce di Giovanni Gentile. ... Era un richiamo, sia pure così camuffato di. parole solenni, all'attivismo cieco e inconsapevole, una tavola di salvezza offerta decisamente ai naufraghi; non una scelta fra « il bene» e ,« il male» perché bene e male - avvertiva il Gentile - sono dappertutto; l'importante è partecipare alla«storia», intendendo per storia - come egli aveva sempre inteso - la soggezione allo Stato o al potere costituito, l'aureola dell'idealismo intorno al manganello di ieri e al bastone tedesco di oggi. ...

Le parole di Gentile sono della fine del '43, pronunciate non a caso dopo quel Natale che avrebbe dovuto concludere nel segno della«concordia nazionale» la repressione della classe operaia nelle fabbriche e dei primi nuclei partigiani sulle montagne.

Circa un mese prima, il 28 novembre 1943, presso l’Università di Padova era accaduto un episodio esemplare durante la solenne ed eccezionale inaugurazione dell'anno accademico alla quale non furono invitati né i tedeschi né le autorità fasciste; ma il ministro Biggini, all'ultimo momento, assieme al prefetto Fumei, volle intervenire, come egli disse, «in forma privata ». Erano pallidi e titubanti. La grande aula magna rigurgitante di folla, era silenziosa, ma quando entrarono alcuni studenti in divisa repubblicana e armati, cominciò un tumulto indescrivibile: abituati alle prepotenze, da molti anni, i militi risposero con minacce, con insulti e occuparono la tribuna degli oratori, tentando di resistere alla dimostrazione ostile che andava assumendo una violenza sempre maggiore. Entrò in quel momento il Senato accademico con Concetto Marchesi in testa. Il rettore e il pro-rettore allontanarono a viva forza dalla tribuna i militi repubblicani e subito dopo il Marchesi cominciava la sua nota orazione che si chiudeva inaugurando l'anno accademico non più a nome del re, ma in nome «dei lavoratori, degli artisti, e degli scienziati». Disse:

«Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine; voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede, l'impeto dell'azione, e ricomporre la giovinezza e la Patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall'ignavia, dalla servilità criminosa, voi, insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell'Italia e costituire il popolo italiano. Non frugate nelle memorie e nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c'è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto o ha coperto con il silenzio o la codarda rassegnazione, c'è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina. Studenti, mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi, maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l'oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l'Italia dalla ignominia, aggiungete al labaro della vostra università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo

Da allora l'Università di Padova diventa il maggiore centro cospirativo veneto, è il punto d'incontro fra coloro che agiscono nella clandestinità o hanno preso la via della montagna e coloro che sono rimasti al proprio posto non per salvare la cultura in astratto ma per dare a quegli incontri e a quella organizzazione la «copertura legale». A questa funzione principale vengono indirizzati gli studi e le lezioni universitari; lo studio maggiore è come colpire il nazifascismo senza dargli requie e senza risparmio di sacrifici. L'università fornirà i quadri alla brigata guastatori Silvio Trentin, che cosi si denomina dal dirigente antifascista reduce dalla Francia e prematuramente scomparso nella lotta dopo aver dato il primo impulso alla resistenza veneta: la brigata che avrà uccisi tutti e tre i comandanti avvicendatisi alla sua direzione. Fornirà la più lunga e compatta lista di martiri della Resistenza, professori, assistenti, studenti, inservienti, fucilati o morti in combattimento, nelle prigioni, nei campi di concentramento: circa un centinaio.

da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia  Einaudi 1964




 

Per le attività di liberazione dal nazifascismo l'Università di Padova è stata l'unica in Italia ad essere insignita della medaglia d'oro al valor militare.

A ridosso della solenne inaugurazione dell’anno accademico, il 12 novembre 1945, alla presenza del generale Dunlop, ‘governatore’ alleato per le Venezie, Ferruccio Parri, già presidente del Cln Alta Italia e allora presidente del Consiglio dei ministri, appuntò al gonfalone dell’Università di Padova la medaglia d’oro al valor militare per il contributo dato da studenti, docenti e personale universitario alla Resistenza, con la motivazione dettata da Concetto Marchesi e scolpita alla base dell’elenco dei caduti nell’atrio del palazzo del Bo:

 

«Asilo secolare di scienza e di pace, ospizio glorioso e munifico di quanti da ogni parte d’Europa accorrevano ad apprendere le arti che fanno civili le genti, l’Università di Padova nell’ultimo immane conflitto seppe, prima fra tutte, tramutarsi in centro di cospirazione e di guerra; né conobbe stanchezze, né si piegò per furia di persecuzioni e di supplizi. Dalla solennità inaugurale del 9 novembre 1943, in cui la gioventù padovana urlò la sua maledizione agli oppressori e lanciò aperta la sfida, sino alla trionfale liberazione della primavera 1945, Padova ebbe nel suo Ateneo un tempio di fede civile e un presidio di eroica resistenza e da Padova la gioventù universitaria partigiana offriva all’Italia il maggiore e più lungo tributo di sangue.»

Padova, 1943-1945

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