Giuseppe Parravicini, un giovane lissonese ad Auschwitz
Nel seguente articolo ho ricostruito alcuni fatti salienti della vita di Giuseppe Parravicini, deportato politico ad Auschwitz, grazie ai documenti conservati dal figlio Ermes nell’archivio di famiglia. Ad Ermes Parravicini l’ANPI di Lissone ha consegnato la tessera ad honorem alla memoria del padre nel “Giorno della Memoria” 2010.
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, come "Giorno della Memoria".
Giuseppe Parravicini nasce a Lissone il 7 febbraio 1921 da Protasio e Giuditta Morganti. Frequenta la scuola elementare presso il collegio Pio XI di Desio. Si iscrive poi alla scuola secondaria di avviamento professionale con indirizzo commerciale presso lo stesso collegio, conseguendone il diploma nell’agosto del 1935.
Inizia a lavorare come garzone, all’eta di quattordici anni, presso una ditta di Lissone, poi, dal luglio del 1939, presso la concessionaria della Fiat a Desio.
Svolge il servizio militare e viene congedato il 23 febbraio 1940 con destinazione ai servizi sedentari.
Viene assunto alla Garelli di Sesto San Giovanni in qualità di apprendista motorista addetto alla sala prove.
Dopo l’8 settembre 1943, entra a fa parte della 107ma Brigata Garibaldi SAP (Squadre di azione patriottica).
Nelle fabbriche sestesi e in Brianza dopo l’8 settembre non regnò la rassegnazione assoluta verso ciò che stava accadendo. Ci furono persone che cercarono di opporsi alla nuova realtà e si organizzarono per agire.
Le SAP erano piccoli gruppi di uomini che vivevano generalmente nelle loro cittadine, svolgendo il proprio lavoro e che venivano chiamate clandestinamente a svolgere azioni di propaganda, come volantinaggi notturni e distribuzione di stampa antifascista, atti di sabotaggio, fino ad azioni di recupero di armi sottratte a militi colti in solitudine e ad azioni più complesse, terminate le quali il sappista tornava ad inserirsi nel tessuto di sempre.
Le Sap, scriverà Luigi Longo, Comandante Generale delle Brigate d’assalto “Garibaldi”, sono state «il tentativo - in gran parte riuscito - di giungere a mobilitare, via via, in modo organico, la maggior parte della popolazione». E crediamo si possa aggiungere, che esse sono state, per la concezione e la portata del fenomeno, uno strumento di lotta originale e forse unico nella Resistenza europea nonché il fattore decisivo e insostituibile nella preparazione e nell'affermazione dell'insurrezione nel capoluogo lombardo. La denominazione di “Brigate Garibaldi” era stata assunta in ricordo della guerra antifranchista di Spagna.
Il ventiduenne Giuseppe Parravicini svolge funzioni di proselitismo antifascista tra i lavoratori della Garelli, l’azienda in cui presta la sua opera. Come attivista politico antifascista, gli vengono assegnati diversi incarichi, tra cui la costituzione di comitati di agitazione nelle fabbriche di Lissone e di Sesto San Giovanni e la creazione di GAP, Gruppi di Azione Patriottica. Aveva inoltre funzione di collegamento con altri centri in cui si stavano sviluppando le prime forme di resistenza al regime fascista e all’occupazione nazista.
Il 16 giugno 1944, anche in seguito ai tragici avvenimenti lissonesi (arresto e fucilazione dei quattro antifascisti lissonesi, Pierino Erba, Remo Chiusi, Mario Somaschini e Carlo Parravicini, suo cugino), Giuseppe Parravicini veniva ricercato.
Abbandonava il suo posto di lavoro e si dava alla macchia. Il 3 luglio 1944 veniva arrestato dalla Polizia speciale politica di Via Copernico di Milano e sottoposto a pesanti interrogatori. Era poi tradotto al carcere di San Vittore.
Il 15 luglio 1944 veniva deportato ad Auschwitz (il lager era ubicato a nord-est di Cracovia, in Polonia).
Incalzati dal dilagare della lotta partigiana nei territori occupati della Polonia e della Russia, i nazisti decisero la creazione di un Lager che, oltre a quelli già esistenti e che si dimostravano inadatti alle bisogna, potesse ospitare un gran numero di deportati insieme ad una complessa infrastruttura di imprese ed industrie alle quali adibire la manodopera concentrazionaria. Questo campo doveva inoltre rendere possibile la effettiva, efficiente e sollecita attuazione della «soluzione finale» del problema ebraico, cioè lo sterminio degli ebrei europei.
Nei pressi del villaggio polacco di Oswjecim fu individuato un vasto terreno demaniale che circondava una caserma d'artiglieria in disuso. Questo complesso di 32 edifici poteva costituire il nucleo ideale per l'installazione del Lager, che entrò in funzione nel maggio 1940.
Il campo aveva una capacità di almeno 100.000 persone. Nello stesso tempo fu anche deciso di costruirvi uno stabilimento per la produzione di gomma sintetica della IG Farben, che avrebbe assorbito i primi contingenti di deportati. Rigorosamente isolato dal resto del mondo, brulicava di deportati, uomini e donne, provenienti da tutti i paesi invasi ed occupati dai nazisti. Auschwitz era una vera e propria zona industriale, in pieno fervore di attività. La manodopera non mancava, continuamente sostituita da nuovi arrivi dato che la disciplina, la denutrizione, il clima, la fatica contribuivano alla falcidia dei deportati.
Nella foto buoni per ritirare del pane e della zuppa durante i turni di lavoro alla Farben, rimasti a Giuseppe Parravicini al suo rientro in Italia.
Dopo il suo arresto avvenuto il 3 luglio 1944, i parenti erano all’oscuro della sua sorte. In una testimonianza manoscritta, del luglio 1944, conservata nell’archivio personale di famiglia, la madre di Giuseppe Parravicini, Giuditta, rimasta vedova da sei mesi (il marito Protasio era deceduto nel gennaio all’età di 56 anni), così racconta:
«Dopo l’arresto di mio figlio, il mio cuore non aveva più pace, né giorno né notte. Lavoravo allora alla Brugola di Lissone da dove ho iniziato le mie ricerche. Prima a Monza, alla Villa Reale, poi al Comando tedesco, al Commissariato delle prigioni in Piazza Trento e Trieste, al Palazzo della G.I.L.: inutilmente. Allora mi recai a Milano: alla sede della questura di via Copernico, poi alla caserma nei pressi della stazione Centrale, al carcere di San Vittore ed infine al Palazzo di Giustizia dove seppi da un impiegato che mio figlio era in Germania ad Auschwitz. Era una giornata di bombardamenti su Milano tanto che dubitai di far ritorno a casa».
Il 12 dicembre 1944 Giuseppe Parravicini è ricoverato nel lazzaretto del lager per pleurite.
Il 17 gennaio 1945 le armate russe avanzano decisamente in direzione di Cracovia: il campo viene sgombrato.
In seguito all’avanzata dei Russi, Giuseppe Parravicini viene trasferito a Bielitz (Alta Slesia, vicino al confine cecoslovacco) e poi all’ospedale San Vincenzo di Linz, in Austria.
Documento rilasciato dall’ospedale austriaco
Nel marzo 1945 riesce a farsi rimpatriare per malattia; passata la frontiera a Tarvisio, stremato, il 7 marzo si fa ricoverare all’Ospedale civile “San Michele” di Gemona del Friuli. Diagnosi pleurite. Dopo le prime cure, il 21 marzo 1945, in seguito ad un miglioramento, esce dall’ospedale.
Con mezzi di fortuna arriva a Lissone il 22 marzo 1945. Ristabilisce i contatti con le forze della Resistenza. Entra a far parte della 119ma Brigata Garibaldina Di Vona.
La 119a Brigata Garibaldi era intitolata a Quintino Di Vona insegnante, nato a Buccino (Salerno) il 30 novembre 1894, fucilato a Inzago (Milano) il 7 settembre 1944.
Militante socialista, , il professor Di Vona aderì, nel 1921, al Partito comunista. Il professore, inquadrato nella 119ma Brigata Garibaldi, partecipò a numerosi atti di guerriglia.
Catturato in seguito a delazione da militi della Brigata Nera di Monza (che giunsero a Inzago all'alba del 7 settembre), Di Vona fu, per ore ed ore, picchiato a sangue. Dalle sue labbra non uscì una parola che potesse danneggiare la Resistenza. Nel primo pomeriggio i fascisti, al comando di un sottufficiale delle SS germaniche, trasportarono con un camion l'insegnante nella piazza principale del paese. Qui Di Vona fu fucilato da un manipolo di imberbi militi in camicia nera.
A Lissone Giuseppe Parravicini entra a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale lissonese.
L’attestazione, datata 26 aprile 1945, è firmata da Gaetano Cavina, Attilio Gelosa e Agostino Frisoni, i tre dirigenti del CLN lissonese, socialista, democristiano e comunista, oltre a Riccardo Crippa del Comando Militare di Piazza di Lissone.
Nella foto del 27 aprile 1945 i membri del CLN lissonese, il Sindaco con i componenti della prima Amministrazione comunale straordinaria dopo la liberazione dall’occupazione nazista e dalla dittatura fascista (Giunta e Consiglio comunale). Giuseppe Parravicini è seduto, il primo a destra.
Il I maggio a Lissone si svolge una grande manifestazione, in occasione della festa dei lavoratori. È la prima dopo la Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dal regime fascista: il fascismo aveva abolito la festa del primo maggio e aveva accorpato la festa del lavoro con il natale di Roma, il 21 aprile.
Nella foto di destra in primo piano (da sinistra): Giuseppe Parravicini, Gaetano Cavina, Attilio Gelosa, Agostino Frisoni e Leonardo Vismara.
Dal balcone di palazzo Terragni membri del CLN lissonese, il Sindaco con i componenti della Giunta e del Consiglio comunale durante la manifestazione del I maggio 1945: oratore ufficiale è Ettore Reina, fondatore della Camera del Lavoro di Monza nel 1893. Si noti la scritta Piazza Quattro Martiri: prima di diventare Piazza Libertà, così fu chiamata per qualche giorno, in memoria dei 4 partigiani lissonesi fucilati nel giugno 1944.
Riconoscimento qualifica partigiano
e diploma in riconoscimento del valore militare e del grande amore di patria
L’attestato rilasciato a Giuseppe Parravicini, firmato dal Commissario delle Brigate “Garibaldi” Pietro Secchia e dal Comandante Luigi Longo.
Alla fine della guerra ritorna alla Garelli di Sesto come collaudatore.
Continua però il suo impegno civile. Diventato segretario della Camera del Lavoro di Lissone, la dirige per tre anni.
Il 4 marzo 1946 partecipa alla stipulazione del contratto dei lavoratori del legno tra l’Associazione Industriali di Monza e Brianza e la Camera del Lavoro di Monza.
A Roma l’8 maggio 1946 partecipa al primo convegno nazionale dei lavoratori del legno: viene eletto segretario e ne redige il verbale. Inoltre nel suo intervento, a difesa dei lavoratori del legno, espone le incongruenze sorte per il divieto di esportazione del Governo segnalando che Lissone ha ricevuto da diverse nazioni ordinazioni che potrebbero dare lavoro per diversi anni ai lavoratori non solo di Lissone ma anche della Brianza. Chiede perciò l’intervento della CGIL presso gli organi competenti.
Il primo convegno nazionale dei lavoratori del legno termina inneggiando alla Repubblica dei lavoratori e alla Costituente (manca un mese al referendum in cui gli Italiani dovranno scegliere tra monarchia e repubblica e contemporaneamente eleggere i “padri costituenti” che dovranno scrivere la nuova Costituzione).
Il 2 luglio 1949 Giuseppe Parravicini si sposa, a Lissone, con Pierina Secchi.
Giuseppe Parravicini si impegna per il settore del mobile lissonese e il 1° ottobre 1951 diventa rappresentante della Camera del Lavoro di Lissone nell’Ente Comunale per il potenziamento del mercato mobiliero e della lavorazione del legno, partecipando alla stesura dello Statuto. Svolge tale incarico fino al marzo 1953.
Il 10 giugno 1959 nasce il figlio Ermes.
I mesi trascorsi ad Auschwitz lo hanno provato nel fisico: deve subire diversi ricoveri per sottoporsi a continue cure. Nel 1971 muore in ancor giovane età.
Un particolare ringraziamento va ad Ermes Parravicini: con la sua collaborazione e dalla consultazione del suo archivio di famiglia abbiamo potuto ricostruire la vita, breve ma intensa, di suo padre del quale può essere sicuramente fiero.
(Renato Pellizzoni)
intervento di ELIEZER WIESEL, premio Nobel per la pace
INTERVENTO DEL PROFESSOR ELIEZER WIESEL, PREMIO NOBEL PER LA PACE
Celebrazione del Giorno della Memoria 2010 al Parlamento italiano
Signor Presidente della Repubblica italiana, onorevoli Presidenti della Camera e del Senato, signor Presidente del Consiglio dei ministri, Silvio Berlusconi, onorevoli deputati e senatori, signor presidente della Corte costituzionale, sopravvissuti, membri delle comunità ebraiche, come non dirvi della mia grande emozione nell’essere qui. Mia moglie Marion ed io, Presidente Fini, le siamo profondamente grati del calore dell’accoglienza e della sincerità delle sue parole. Ci congratuliamo con l’Italia perché abbiamo partecipato a tante cerimonie, abbiamo visitato tanti Paesi dove viene celebrata la memoria, e posso dirvi che questo Paese costituisce un modello perché la commemorazione in Italia abbraccia tutte le sfere della società.
Abbiamo assistito oggi ad una cerimonia in cui il Presidente della Repubblica Napolitano ha consegnato dei premi ad alcuni studenti, a dei bambini e quando vedi i bambini ovviamente non puoi che sorridere e ti senti anche profondamente coinvolto.
Ieri abbiamo visto l’inaugurazione della mostra sull’Olocausto e quindi vogliamo ringraziarvi perché tutti noi siamo impegnati per ricordare. Siamo qui per ricordare e allora ricordiamo insieme quest’epoca della storia che ha avvolto nelle tenebre la speranza dell’uomo. Un’epoca in cui gli assassini hanno tormentato, torturato, isolato, affamato e ucciso sei milioni di uomini, donne e bambini non per qualcosa che avevano fatto, o detto, o scritto, o posseduto, ma semplicemente perché erano i discendenti di un popolo antico, l’unico popolo dell’antichità che sia sopravvissuto all’antichità.
Dove inizia la memoria? Per l’ebreo che sono, parlare qui infonde un profondo senso di riflessione, di gratitudine e di rispetto perché Roma per noi occupa un luogo speciale. Gerusalemme e Roma hanno memorie che si intrecciano: i saggi della Giudea venivano a Roma per perorare, di fronte agli imperatori romani, la causa del loro popolo ed oggi io, che sono uno dei loro eredi e discepoli, sono qui di fronte a voi, leader di questa nazione straordinaria. Io, il numero A-7713, sono qui a portarvi un messaggio su avvenimenti accaduti duemila anni più tardi.
Proprio in questi giorni, sessantacinque anni fa, mio padre Shlomo, figlio di Nissel e Eliezer Wiesel, numero A-7712, moriva di inedia e malattia nel campo di sterminio di Buchenwald. C’erano italiani a Buchenwald ? Non ricordo, ma ad Auschwitz ce n’erano. Ricordo un certo Luigi, timido, gentile, introverso, non parlava né il tedesco, né lo yiddish, e senz’altro non parlava il polacco, sembrava più perso di altri.
Ho incrociato forse Primo Levi che poi è diventato mio amico, come lei Presidente Fini ha detto? Ad un certo punto siamo stati assegnati alla stessa baracca, ma non era presente nella marcia della morte verso i vagoni che ci hanno portato a Buchenwald; è rimasto in ospedale.
Buchenwald, ricordo la notte in cui siamo arrivati. Molti erano morti per strada, ricordo i vagoni aperti sul treno, ricordo la tormenta di neve, molti sono morti, ma alcuni con le loro ultime forze gridavano «Shma Israel.., Hashem hu haelokim »: ascolta Israele, Dio è il nostro Dio ! Dio, lì ? Io ero uno studente devoto e non ho potuto reprimere il desiderio di unirmi agli altri in questo appello ai cieli.
Sinceramente non posso spiegare perché.
Ricordiamo: nel 1945 la Germania praticamente aveva già perso la guerra contro gli alleati. L’ultima grande battaglia nelle Ardenne è finita con la sconfitta tedesca e, ciononostante, la guerra di Hitler contro il popolo ebraico è continuata senza sosta. I sei campi di sterminio in Polonia erano stati liberati, ma non i campi in Germania e in Austria. Gli ebrei erano ancora oggetto di distruzione, ma perché? Levi dice che ad Auschwitz non c’era luce.
Mi hanno chiesto in un’intervista: quando andrà in cielo, quali saranno le parole che dirà a Dio? Io dirò un’unica parola: perché? Questa domanda non dobbiamo farla soltanto a Dio creatore, ma anche alle creature: perché Hitler e i suoi accoliti, nati nel cuore del cristianesimo, hanno fatto quello che hanno fatto? Perché volevano ad ogni costo distruggere l’ultimo ebreo sul pianeta? Oggi, riuniti per ricordare quel fatto, quell’avvenimento, che non ha precedenti nella storia, ci si potrebbe chiedere: ma perché la memoria? Perché riaprire vecchie ferite? Perché infliggere un tale dolore ai giovani? Per i morti è troppo tardi. Sì, ciò che è stato fatto non può essere annullato, neanche Dio può annullare ciò che è stato fatto.
Tanta paura, dolore e tormento non possono essere dimenticati. Ma possono essere veramente ricordati? In che modo ? In che modo possiamo aprire i nostri cuori e le nostre anime al ricordo e, ancora, conoscere la speranza?
Oggi dovremmo dedicare la giornata non solo al ricordo, ma anche alla riflessione e alla presa di coscienza. In che modo la storia giudicherà il comportamento del mondo? In che modo la storia giudicherà il comportamento dell’Italia? Sì, ci sono state persone coraggiose e nobili in Italia e altrove che hanno cercato di aiutare gli ebrei. Alcuni ci sono riusciti e meritano la nostra profonda gratitudine. Mia moglie Marion ela sua famiglia sono state salvate da una giovane coppia italiana a Marsiglia: oggi è il compleanno di mia moglie e lei è qui con noi. Quindi, io devo lei e la mia felicità ad alcuni italiani a Marsiglia. Ma quanti hanno corso il rischio? Quanti hanno aperto la propria casa ad un bambino ebreo, ad una famiglia ebrea, ad un ebreo che aveva di fronte la prigione e la deportazione? A qualsiasi livello della politica e al più alto livello della spiritualità, il silenzio non aiuta mai la vittima: il silenzio aiuta sempre l’aggressore.
Per molti di noi Auschwitz resta un nodo spartiacque nella storia: c’è un prima e un dopo. Mai prima di allora tanti bambini e tante famiglie sono stati uccisi da tanti uomini, uomini spesso istruiti, colti, che continuavano a manifestare la loro ammirazione per Goethe, Schiller, Bach, Beethoven, Hegel e Dante. Ma che ne fu della loro umanità? Erano disumani? Forse sarebbe un’ipotesi troppo semplicistica. Cosa ha provocato quella metamorfosi ? Negli anni io ho letto ogni libro su quell’epoca, in ogni lingua che conosco, cercando di capire gli assassini.
In che modo il male ha potuto raggiungere una tale profondità e una tale portata? Non sono in grado di spiegare neanche la passività di chi è rimasto a guardare a tutti i livelli. Non era così difficile salvare una vita umana. Non sarebbe stato così difficile, all’inizio del 1944, bombardare i binari che portavano ad Auschwitz, ma per motivi inspiegabili e ingiustificabili quei binari non sono stati bombardati. Perché ?
Ho rivolto questa domanda a diversi Presidenti americani: nessuno mi ha dato una risposta valida. Anzi, avevo paura della loro risposta. Forse perché allora le vittime che avrebbero potuto essere salvate erano ebrei, ebrei ungheresi ?
Non è facile neanche capire le vittime. Come mai tanti sono riusciti ad aggrapparsi alla loro fede nel buio del ghetto e nell’orrore dei campi? Dove hanno trovato la forza di ricostruire la loro vita sulle rovine del loro passato? Nelle sue memorie di Treblinka, un superstite, Yankel Wiernik ha scritto: sarò mai capace di ridere ancora ?
A Birkenau, Zalmen Gradowski, membro del Sonderkommando si chiede: sarò mai in grado di piangere ancora?
Eppure i sopravvissuti in Italia, in Francia, in America, in Israele dopo la guerra sono riusciti ad elaborare il lutto e la rabbia e a creare uno Stato ebraico nella terra degli avi. Solo tre anni intercorrono tra Auschwitz e la rinascita di Gerusalemme e dello Stato sovrano ebraico.
In che modo le vittime di ieri sono riuscite a realizzare tutto ciò nel nome dell’umanità ? Forse qualcuno ha la risposta, io non ce l’ho. Ma forse, ricordando i morti, diamo un insegnamento di vitale importanza ai vivi, un insegnamento sulla vita e la morte, la luce e le tenebre, la crudeltà e la compassione. Insegniamo a chi vuole ascoltare che quello che accade ad una comunità riguarda tutti e che nessun essere umano è solo nel mondo di Dio, ma che solo Dio è solo. Non dobbiamo permettere che nessuna vittima del destino, o prigioniero della società – mai dobbiamo consentirlo – si senta solo, respinto, abbandonato, rifiutato.
La storia oggi vive grandi sconvolgimenti; la nostra generazione è segnata dal disorientamento e dalla sfiducia. I giovani abbracciano il fanatismo religioso che a volte porta anche a missioni suicide. Gli attentati suicidi sono assassinii, omicidi e debbono essere condannati come crimini contro l’umanità ed io rivolgo un appello a lei, Presidente Fini, e a lei, Primo Ministro Berlusconi, potreste essere i primi nel mondo ad introdurre un disegno di legge che designi l’attentato suicida come crimine contro l’umanità.
Questo non fermerebbe le mani degli assassini, ma potrebbe fermare i complici. Chi insegnerà ai giovani – che noi dobbiamo educare – il diritto di tutti i bambini a vivere una vita sicura se non noi che abbiamo visto la parte peggiore dell’uomo?
Io so che alcuni sopravvissuti sono preoccupati: cosa succederà quando l’ultimo di noi non ci sarà più? Io non sono tanto preoccupato. Non sono tanto preoccupato perché credo che chiunque ascolti un testimone diventa un testimone e quindi, parlamentari, diventate nostri testimoni, leader dell’Italia, diventate nostri testimoni.
Debbo confessare, però, che nutro anche una certa frustrazione.
I testimoni hanno parlato e poco o niente è cambiato nel mondo. Il mondo si è rifiutato di sentire, di ascoltare, si è rifiutato di imparare, altrimenti come possiamo comprendere la Cambogia, il Ruanda, la Bosnia, il Darfur, come possiamo comprendere l’antisemitismo oggi? Se Auschwitz non ha guarito il mondo dall’antisemitismo, cosa potrà farlo? Io parlo dell’antisemitismo.
Come si può trattare con il Presidente di una nazione, Ahmadinejad, che è il primo a negare l’Olocausto e che vuole distruggere uno Stato membro delle Nazioni Unite? Come osa? Io ho visitato tanti Paesi del mondo e ho un’idea, forse non realizzabile. Dovrebbe essere arrestato e tradotto di fronte alla Corte dell’Aia e accusato di incitamento a crimini contro l’umanità.
La paura esiste ancora, le guerre civili, la fame. Milioni di bambini muoiono di malattia, di fame e di violenza. Il Medio Oriente è in grande tumulto: la pace tra Israele ed i vicini palestinesi è ancora un sogno, ma un giorno arriverà, credetemi, amici; se Israele ha potuto stringere la pace con la Germania, senz’altro sarà in grado di farlo con i suoi vicini. Creiamo un’occasione e mandiamo un appello a coloro che tengono in prigione Shalit: voi avete la credibilità per farlo. Quest’uomo da tre anni vive imprigionato e però c’è la speranza, la speranza deve esserci.
Guardiamo l’Europa: l’Europa è diventata un simbolo della solidarietà internazionale. La Germania e la Francia erano da sempre nemici, si uccidevano per pochi chilometri di territorio, ma oggi sono convinto che tra questi due Paesi non ci sarà mai più la guerra, o tra l’Italia e la Francia non ci sarà mai più la guerra.
Cosa abbiamo quindi imparato dal passato ? Abbiamo imparato che il razzismo è stupido e che l’antisemitismo è un’infamia. Abbiamo imparato che la nostra umanità è definita dal nostro atteggiamento verso l’alterità dell’altro, che abbiamo una chiara scelta tra cadere nella provocazione del nemico e il nostro dovere morale nei confronti gli uni degli altri, la scelta tra il nichilismo e il senso, il significato, tra la paura e la speranza. Questa scelta appartiene a ciascuno di noi.
Per concludere, siamo profondamente grati a voi tutti e profondamente commossi – non sono neanche in grado di dirlo – per questa giornata. Io ho sempre creduto che la vita non è fatta di anni, ma di singoli momenti e questo momento conterà nelle nostre vite. Quindi noi non viviamo nel passato, ma il passato vive nel presente, ed il nostro dovere rimane quello di umanizzare il destino, il mio e il vostro destino. Ricordiamo: qualsiasi cosa noi facciamo, qualsiasi cosa noi diciamo, qualsiasi siano i nostri obiettivi, non dobbiamo consentire che il nostro passato diventi il futuro dei nostri figli.