4 giugno 1944: Roma liberata dagli Alleati
3 Juin 2013 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale
Roma, ultimi giorni di maggio, primi giorni di giugno. La città con il suo milione e mezzo di abitanti vive come trasognata, in apatica stanchezza, inerte sotto guai e angherie che pare non debbano mai avere fine.
Improvvisamente, il pomeriggio del 3 giugno, le cose precipitano. Gli abitanti delle case lungo i viali Margherita, Liegi, Parioli, lungo il Corso e la via Flaminia, vedono passare in fila ininterrotta cannoni, carri armati, autocarri che si dirigono verso settentrione. La gente guarda, assiepata sui marciapiedi, non osa pensare che sia vero. Sfilano per tutto quel pomeriggio, per tutta la notte e il giorno seguente pezzi d'artiglieria d'ogni calibro; carri colmi di roba rubata, autocarri stipati di soldati sporchi laceri molti macchiati di sangue, la faccia annerita, gli occhi perduti. Sfilano con un rumoreggiare continuo, paracadutisti, carristi della Göring, SS, granatieri, artiglieri, soldati dei servizi con una disciplina meccanica e spasmodica, le armi puntate contro la strada, contro le finestre. Sanno che traversano una città nemica.
Verso le due del pomeriggio del 4 il flusso si attenua, si arresta. Il rumore della battaglia, più chiaro ora nel silenzio delle strade, non pare avvicinarsi. Dalle terrazze si vedono i colli dei Castelli avvolti da una nebbia, da un fumo fermo. Qualche macchina tedesca qualche macchina di fascisti indugia con tracotanza, va su e giù; ma generali e gerarchi hanno cominciato a scappare da ieri sera, sono scappati i direttori dei giornali, scappa Zerbino alto commissario, scappa il questore Caruso (nella fretta della fuga l'automobile andrà a sbattere contro un albero presso Bagnoregio, Caruso si romperà una gamba, lo raccoglieranno, lo riconosceranno, sarà arrestato e giustiziato), scappa Koch, piantando in asso i minori scagnozzi, scappa Kappler con gli aguzzini di via Tasso, scappa il generale Kurt Mälzer comandante della piazza di Roma, ubriaco come al solito. Ma prima hanno avviato verso il nord i prigionieri più importanti, li han tirati fuori delle celle orribili, stivati nei carri. A un sergente affidano un autocarro con Bruno Buozzi, con il generale Dodi, con altri dodici preziosi ostaggi, non si possono lasciare indietro, bisogna portarli a Mussolini. Ma giunto alla Storta il sergente tedesco pensa che quei quattordici prendon troppo posto, si potrebbe caricare tanto buon bottino invece; e li fa scendere dal carro, li fa fucilare, tutti e quattordici, e riparte, con la coscienza leggera.
La sera scende limpida, fresca. Il crepuscolo si è fuso col chiarore della luna che sorge. Rientrano in casa i cittadini, disciplinati, all'ora del coprifuoco; ma indugiano sulle soglie, stanno alle finestre, tendono l'orecchio al grande silenzio. Ed ecco scoppi di combattimento vicinissimo, battere di mitragliatrici, latrati di bombe. E di nuovo il silenzio, limitato da un uguale lontano brontolio di motori. Sto anch'io al balcone, con gli amici che mi ospitano. Sentiamo d'un tratto venire da via Veneto un batter di mani, grida di evviva. Scappo fuori, scappiamo fuori, corriamo verso il clamore. Davanti all'Excelsior c'è un piccolo gruppo eccitato di persone, dicono che son passati tre o quattro carri armati inglesi o americani, non sanno bene: ringraziavano degli applausi, pregavano che non gli si facesse perdere tempo, chiedevano la via per Ponte Milvio, dovevano subito buttarsi dietro ai tedeschi. Corriamo verso piazza Barberini, verso un vicino ansimare di motori. La piazza è deserta, chiara nella luce della luna. Un enorme carro armato è fermo all'angolo delle Quattro Fontane; quando ci arriviamo, vediamo una fila di altri carri su per la salita, fermi. C'è attorno un brusio, d'una piccola folla curiosa, alacre, che non grida, che non acclama. Un soldato altissimo, magro, è in piedi a terra davanti al primo carro, mastica qualcosa. La gente lo guarda, non dice niente. Chiedo; «Where do you come from?» «From Texas», risponde.
Ho l'improvvisa vertigine d'una vastità sconfinata, che accoglie e dissolve la pena, le angosce di nove mesi, ove lo stesso sollievo si smarrisce. Arrivano due ragazzette con una bandiera tricolore in mano, la danno al soldato. il soldato, serio, si volge in su verso i compagni seduti in cima al carro, le gambe penzoloni: «Here is a flag».
Uno stende una mano, afferra la bandiera, la issa sulla torretta.
Bibliografia:
Paolo Monelli - Roma 1943 – Einaudi 1993
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