Salvatore Lambrughi, internato militare in Germania
Lissone, 21 novembre 2016
Salvatore Lambrughi ci ha lasciati. Durante la seconda guerra mondiale, giovanissimo, è stato un IMI, Internato Militare Italiano in Germania, cioé uno dei prigionieri che i tedeschi hanno utilizzato come manodopera coatta. Secondo la storiografia moderna gli IMI vengono definiti "gli schiavi di Hitler".
L'ANPI di Lissone lo ricorda.
Proprio in questi giorni, alla presenza dei ministri degli esteri di Italia e Germania si é tenuta la cerimonia di apertura della mostra "Tra più fuochi. La storia degli Internati Militari Italiani 1943-1945" presso il Centro di documentazione “NS-Zwangsarbeit”, Britzer Straße 5, 12439 Berlino.
La mostra che ha carattere permanente è allestita nel quartiere di Schöneweide, nelle casupole ancora esistenti di un lager dove vennero rinchiusi militari e civili italiani costretti al lavoro coatto.
La mostra sugli IMI è stata realizzata dalla Fondazione “Topografia del terrore” che gestisce alcuni fra i principali luoghi della memoria sulla seconda guerra mondiale nella capitale tedesca (un milione di visitatori nel 2015).
In questo articolo sono narrate le sue vicissitudini
In un quaderno di una trentina di pagine, Salvatore Lambrughi racconta i principali avvenimenti di quel triste periodo della sua vita, durante la seconda guerra mondiale, trascorso in prigionia.
Dalla prima pagina del quaderno:
«Memorie di un prigioniero di guerra in Germania. Il grido di un prigioniero di guerra soffocato dal dolore. Così iniziò il calvario che durò venticinque mesi».
Il 23 agosto 1943, il diciottenne lissonese Salvatore Lambrughi, classe 1924, risponde alla chiamata alle armi e dal distretto militare di Monza viene destinato a Vicenza. In città nota la presenza di soldati tedeschi. Passano quindici giorni: l’8 settembre alla radio viene dato l’annuncio dell’avvenuto accordo segreto di armistizio tra l’Italia e le potenze alleate, fino ad allora nemiche. Nel giro di pochi giorni tutte le principali città del nord e del centro Italia vengono occupate dai tedeschi. Salvatore viene disarmato dai tedeschi e fatto prigioniero.
Caricato su un vagone ferroviario, 40 uomini in un carro merci piombato, del tipo usato per il trasporto di cavalli, parte per la Germania.
Il suo destino è simile a quello di altri 600.000 soldati italiani prigionieri: diventa un Internato Militare Italiano (IMI) in Germania. Secondo questo status, deciso da Hitler il 20 Settembre 1943, agli IMI doveva essere riservato un trattamento peggiore di quello di qualsiasi altro prigioniero. E ciò in conseguenza di quel “NO” che dissero quando, con lusinghe e minacce, fu chiesto loro di riprendere le armi per il Grande Reich e poi per la Repubblica Sociale Italiana di Mussolini.
Dal quaderno di Salvatore: «Dopo due giorni e due notti di viaggio, la tradotta si ferma in aperta campagna: a piedi, attraversiamo una grande pineta al cui interno vi era il campo di concentramento. Sul cancello d’ingresso la scritta: KUSTRIN Stalak 3 C.
Küstrin, località a circa 100 chilometri ad est di Berlino, sul fiume Oder, era il nome tedesco di Kostrzyn, cittadina della Polonia.
«Ad accoglierci vi sono due ufficiali, un tedesco ed un italiano. Le parole dell’ufficiale italiano suonano come un terribile avvertimento: “L’acqua di questo campo non è potabile: per berla occorre farla bollire. Vi avverto perché qui sono già morti ottantamila russi”».
I prigionieri italiani vengono poi sottoposti al taglio dei capelli e fotografati; a ciascuno viene assegnato un numero di matricola inciso su una piastrina: a Salvatore Lambrughi tocca il numero 39280.
«Poi veniamo passati in rassegna da un ufficiale tedesco accompagnato da un interprete italiano. Con altri 4 internati vengo destinato a svolgere dei lavori agricoli. Con un trattore mi portano in una fattoria della zona. Il nostro alloggio è una baracca già occupata da ottanta alpini italiani prigionieri.
L’indomani si incomincia a lavorare nei campi: c’è chi raccoglie patate, chi barbabietole. C’erano anche russi, uomini e donne, alcune delle quali con bambini piccoli che dovevano accudire. Durante il primo giorno alla fattoria, attraversando il cortile, incontro un soldato russo con due patate bollite in mano che, sorridendo, me ne offre una: un bel gesto inaspettato di solidarietà tra prigionieri. Passarono quattro mesi. Un giorno arrivò da Berlino una richiesta di quindici prigionieri da utilizzare per lo sgombero delle macerie di edifici bombardati dagli Alleati. Salvatore è tra i prescelti. L’indomani partenza su un carro merci.
«A tarda sera il treno si ferma in una stazione: si ode il segnale di allarme, segno di un imminente bombardamento aereo. Le bombe cadevano a poca distanza dal treno: lo spostamento d’aria provocava forti scossoni al carro merci. Ci sentivamo come topi in trappola; c’era chi piangeva, chi pregava».
Salvatore, sperando nella buona fortuna, si sdraia sul fondo del vagone coprendosi la testa col bavero del pastrano. Cessato l’allarme, il treno può ripartire e, a notte inoltrata, arriva a Spandau West. Sobborgo di Berlino, era una zona industriale e per questo era soggetta a continui bombardamenti sia di giorno che di notte.
«A piedi raggiungiamo un grande campo di concentramento. Il mattino seguente, dopo l’appello in cortile, vengo destinato a lavorare, anzichè alla rimozione delle macerie, in una grande fabbrica: la Siemens. Era un edificio di dieci piani: il mio reparto si trovava al quinto. Io ero addetto alla tempera di bulloni e rondelle».
Scrive Salvatore: «Un giorno, verso l’alba, suona l’allarme: si corre verso un rifugio, interrato per metà, chiamato “paraschegge”. Passano sopra di noi un gran numero di aerei che sganciano bombe in continuazione. Qualcuno viene abbattuto dalla contraerea. Una bomba cade nei pressi del nostro rifugio, nella buca dove si portava la spazzatura: fortunatamente non esplode, ma lo spostamento d’aria è tale che un prigioniero che stava raggiungendo il rifugio viene scaraventato contro un palo della luce, perdendo la vita. A me saltano tutti i bottoni del pastrano che indosso».
Già dal primo giorno, durante la pausa di lavoro, in tedesco Frühstück, delle ore 9,30, durante la quale i dipendenti bevevano del caffè e mangiavano fettine di pane con margarina e marmellata portate da casa, una donna tedesca, che lavorava nello stesso reparto, si avvicina all’affamato Salvatore, rintanato in un angolo nelle vicinanze dei forni per la tempera: gli offre delle fettine di pane, senza farsi scorgere dagli altri dipendenti, e si allontana rapidamente. La stessa scena si ripete per più giorni. Salvatore, diciannovenne, viene poi a conoscenza del probabile motivo di quei momenti di generosità: un prigioniero italiano, già da alcuni mesi in quella fabbrica, lo informa che il figlio della donna, giovane marinaio, era dato per disperso. «Si prendeva cura di me come se fossi suo figlio tanto che, quando doveva andare in ferie, lasciò la tessera del pane ad una sua amica per non farmi mancare niente. Ma un giorno, purtroppo, venni improvvisamente trasferito.
Dalla fabbrica a piedi fino alla stazione, poi su un carro merci verso una destinazione sconosciuta. Il treno percorse diversi chilometri e si arrestò in aperta campagna. In un capannone ci fecero fare una doccia e i vestiti furono sottoposti a disinfezione. Ripartimmo sullo stesso carro e giungemmo verso sera in una stazione di un piccolo paese, Barwalde. Trascorremmo la notte dormendo sulla paglia in un grande cascinale. Rimanemmo in questa località alcuni mesi: si lavorava in una grande pineta i cui alberi venivano utilizzati per la produzione della carta. Poi altro trasferimento in un grande campo di concentramento. Era inverno. La prima notte al campo la passammo dormendo all’aperto: il mattino seguente ci svegliammo coperti di neve. Poi ci mostrarono quelli che dovevano servirci come riparo per la notte: erano delle piccole tende di forma circolare. Ci venne distribuito del caffè e dopo l’appello, scortati da soldati armati, fummo condotti al lavoro.
Eravamo impiegati nella costruzione di fortificazioni: si scavavano fossati anticarro, larghi quindici metri e profondi cinque, e trincee; si allestivano inoltre postazioni per i cannoni. Alcune SS tenevano sotto controllo i prigionieri al lavoro».
Una delle prime sere, di ritorno al campo, non vede più il suo zainetto che aveva lasciato sotto la tenda e viene colto dalla disperazione; era tutto ciò che gli era rimasto. Per fortuna un suo compagno lo ritrova nei dintorni.
«Un giorno - racconta Salvatore – un prigioniero che lavorava al mio fianco, esausto per la malnutrizione o perchè ammalato, si era fermato appoggiandosi al badile. Venne notato da due guardie: in un attimo gli furono addosso, e a colpi di badile lo tramortirono. Il poveretto rimase a terra fino a sera, poi due suoi amici lo trasportarono in spalla al campo. Mentre passavano nelle vie di quel piccolo paese, alcuni ragazzini iniziarono a deriderli e a gli sputargli addosso».
A giudizio di Salvatore, questo fu il periodo peggiore della sua prigionia. Il lavoro era massacrante, reso ancor più pesante per la scarsa alimentazione. Alcune volte, al mattino o alla sera durante l’appello, il comandante del campo operava una selezione di quei prigionieri che non riteneva più abili al lavoro: la strategia nazista dell’annientamento attraverso il lavoro era una triste realtà in quel campo!
La nostalgia di casa ogni tanto lo prende. Ricorda Salvatore un momento struggente di questo terribile periodo della sua prigionia: una sera, osservando la luna piena il cielo, immagina che anche sua madre, i suoi cari, la stiano guardando e ciò gli infonde la forza di volontà per resistere.
Per le pessime condizioni igieniche del campo, anche le malattie infettive si diffondono. Un giorno, da Berlino arrivano due ufficiali medici, che sottopongono i prigionieri a dei controlli. «Avevo male alla gola; dagli esami medici sono risultato positivo alla difterite. Fui perciò messo in quarantena in una tenda un po’ più protetta dal freddo. Per quaranta giorni venni esentato dal lavoro: la malattia mi aveva colpito in forma lieve, altrimenti non sarei qui a raccontare, come capitò a qualche altro ammalato».
Tornato al lavoro, un giorno sente dei colpi di cannone: sono le armate russe che avanzano verso l’Oder mentre soldati tedeschi sono in ritirata. «Scortati da guardie tedesche, dobbiamo abbandonare il campo: ci viene consegnato un filone di pane a testa che, a detta dei tedeschi dovrebbe durare per sei giorni, ma la maggior parte dei prigionieri lo divora in poco tempo».
Si deve attraversare il fiume Oder che in quel punto è gelato: ciò rende un po’ meno difficoltoso l’attraversamento. «Per chi rimane indietro o si fa male è la fine: i soldati tedeschi gli sparano un colpo di fucile. La ritirata dura sei giorni: arriviamo in una località chiamata Steglitz (un distretto di Berlino), dove c’era un campo di fortuna. Tanta è la fame che anche delle erbe del campo presto diventano cibo per i prigionieri!».
La mattina dopo una quindicina di prigionieri, tra cui Salvatore, vengono prelevati e portati in una casa di fortuna. Poi, un uomo anziano, che si presenta come il nuovo chef (in tedesco capo), li conduce in una zona colpita dai bombardamenti degli Alleati per la rimozione delle macerie: questo era il nuovo lavoro.
«Ogni giorno, in fila dietro lo chef, si raggiungeva una zona bombardata. Una mattina, la nostra squadra passa davanti ad una panetteria danneggiata, il cui proprietario era intento a sgombrarla dalle macerie. Trovandomi in ultima posizione, lascio il gruppo, senza farmi scorgere, e mi presento al panettiere: “ich arbeiten” (posso lavorare, dice Salvatore che ha ormai imparato le parole tedesche essenziali per la sopravvivenza, che gli saranno utili anche in altre circostanze). Alla sua risposta affermativa “ja”, inizio a spalare ottenendo come ricompensa un filone di pane che mangio subito. Rimango tutta la giornata: alle cinque del pomeriggio, mi presento nel cortile del Comune, che era il punto di ritrovo della nostra squadra. Lo chef, in primo momento mi minacciò di mandarmi in prigione, poi si calmò al mio racconto, anzi accosentì che rimanessi per qualche giorno al servizio del prestinaio. Altri giorni lo “chef” arrivava alle sette e, con l’U-Bahn (metropolitana), ci conduceva sul posto di lavoro. Io partivo mezz’ora prima e approfittavo per passare in alcuni negozi, chiedendo “ein bisschen brot (un po’ di pane)”. In qualche caso me lo davano, ma spesso ero costretto dalla fame a rubarlo; lo nascondevo sotto il pastrano per consumarlo poi senza essere scoperto. Una mattina la proprietaria del negozio mi vede e si mette ad urlare: scappo via e mi nascondo in una casa bombardata nelle vicinanze, perchè in quel momento stava passando una compagnia di soldati tedeschi armati che intonavano la canzone Lilì Marleen (famosissima canzone tedesca che racconta la storia del soldato che pensa al suo amore lontano). Passato lo spavento, raggiungo rapidamente il posto di lavoro».
Eravamo ormai nella primavera 1945: i bombardamenti continuavano senza tregua. «Un mattino, un areo sganciò due bombe sopra di noi. Dal primo piano della casa dove mi trovavo con due alpini, mi precipitai giù dalle scale. Per nostra fortuna le bombe caddero poco più lontano, ma lo spostamento d’aria fu fatale per un prigioniero che si trovava nel cortile. Allora mi rifugiai nello scantinato di un palazzo vicino, dove rimasi per tre giorni: con me c’erano anche dei civili russi anch’essi prigionieri. La mattina del quarto giorno udii il rumore di una camionetta; piano piano uscii dal nascondiglio cercando di non farmi notare. I due ufficiali russi che erano a bordo mi videro: scesero subito a terra e con il mitra spianato mi vennero incontro. Con le braccia alzate, salii gli ultimi gradini, dicendo “italiano”. Allora abbassarono i mitra dicendo in russo “italiano buono” e segnalai la presenza di loro compatrioti nello scantinato. Poco dopo arrivarono dei soldati russi: piazzarono sul marciapiede una Katyusha (lanciarazzi di fabbricazione sovietica) e, cantando, iniziarono, a sparare all’impazzata».
Salvatore con due amici partono alla ricerca di cibo: tutt’intorno vedono distruzione e morte.
«Abbiamo trovato un po’ di farina e delle patate che abbiamo caricato su un piccolo carrello e, in bicicletta, siamo partiti senza una precisa direzione; avevamo in mente una sola cosa: tornare a casa. Dappertutto uno spettacolo di desolazione: rovine e cadaveri sia di uomini che di animali.
Dopo qualche giorno, attraversando anche delle foreste, siamo giunti in una località – non ricordo il nome - situata su di un fiume che era impossibile attraversare: il ponte era stato bombardato. Allora abbandonammo le biciclette e ci dirigemmo verso la stazione. C’era un caos tremendo. Sulla prima tradotta che passò, salimmo senza sapere dove era diretta. Dopo aver percorso diversi chilometri, il treno si fermò. Ci trovavamo a Oleśnica, cittadina della Polonia. Il treno non ripartiva; allora scendemmo. Alcuni prigionieri dicevano che i russi ci avrebbero rimpatriati con una nuova tradotta. Ci sistemammo in un campo di raccolta di prigionieri di guerra. Ma il tempo passava e nessun treno arrivava. Dopo qualche settimana intorno al nostro campo erano comparsi dei soldati tedeschi armati e in stazione vi erano delle guardie russe. Anche per paura di essere portati in Russia, io e un mio amico di Verona decidemmo di fuggire. L’indomani, alle cinque di mattina, con dei pezzi di coperta legati sotto gli scarponi per non far rumore, in tre andammo in stazione e, quando sopraggiunse un treno merci, aprimmo il portellone di un vagone e salimmo. Con nostra sorpresa all’interno del vagone c’erano già altri soldati che dormivano: si svegliarono, erano dei serbi che ci chiesero chi fossimo. Provammo un po’ di paura e allora decidemmo di scendere alla prima fermata. Era una piccola stazione: dopo qualche ora salimmo su un treno passeggeri diretto a Varsavia. Qui c’era la Croce Rossa Italiana: ci diedero del pane e del caffè e poi, sempre in treno, ci portarono a Praga e, dopo quindici giorni, a Innsbruck, dove venimmo alloggiati in una caserma della cavalleria. Eravamo in attesa di essere rimpatriati: finalmente, un mattino, arrivò l’ordine di partenza per l’Italia. Salimmo su una tradotta merci e in poco tempo arrivammo a Bolzano. Era mattina presto, il sole stava sorgendo: delle crocerossine ci portarono del caffelatte. Qualcuno cominciò a intonare la canzone di Beniamino Gigli “Mamma”. Molti soldati e anche delle crocerossine si misero a piangere, ma la gioia di essere riusciti a tornare in Italia era grande.
Da Bolzano ci portarono poi a Pescantina, nel veronese , dove era stato istituito un centro di accoglienza e di smistamento dei prigionieri rimpatriati. Mi consegnarono un foglio di viaggio e cinquemila lire. Poi ognuno partiva per la propria destinazione. Dopo tanta sofferenza anch’io stavo per tornare a Lissone e finalmente, dopo così tanto tempo, avrei rivisto i miei cari».
In questo documento ho riportato parti del quaderno che Salvatore custodisce gelosamente. Lo ringrazio per avermene consentito la lettura. Ritengo che il suo modo di raccontare le tristi vicende di cui è stato protagonista ne renda partecipe il lettore. Per questo, con la sua autorizzazione, l’ho reso pubblico.
Salvatore Lambrughi è amante della pittura, diversi sono i quadri da lui dipinti appesi alla pareti della sua casa di Lissone, e della poesia: nelle pagine del suo quaderno ne ha trascritte alcune.
In occasione del “Giorno della Memoria”, il 27 gennaio 2010, a Salvatore Lambrughi è stata consegnata una medaglia d’onore come riconoscimento dello Stato italiano per il suo internamento nei lager nazisti.
E in occasione del 70° annoversario della Liberazione, Roberta Pinotti, ministro della Difesa, gli conferi' la "medaglia della Liberazione"
Il referendum del 4 dicembre 2016
Ecco come sarà la scheda elettorale per il referendum:
«Approvate il testo della legge costituzionale concernente "Disposizioni per il Superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016"?».
lettera del Presidente del Consiglio Matteo Renzi agli italiani all'estero
Le modalità del voto per corrispondenza degli italiani all’estero
Dopo il ricevimento del plico:
Presentazione del libro "BELLA CIAO"
DOMENICA 20 NOVEMBRE 2016
ORE 15 – CASA DELLA MEMORIA
Via Federico Confalonieri 14, Milano
domenica 20 novembre in occasione di Bookcity verrà presentato il libro "BELLA CIAO" di Carlo Pestelli.
La Sezione ANPI di Lissone sostiene l’iniziativa della casa editrice Add, curatrice dell'evento.
L’appuntamento e il sostegno della nostra Sezione Anpi di Lissone è segnalato nel calendario degli appuntamenti
La recensione del libro BELLA CIAO di Carlo Pestelli
Come arrivare alla CASA DELLA MEMORIA di Via Federico Confalonieri 14
dalla Stazione Centrale:
metrò 2 (verde) direzione Abbiategrasso o Assago Forum (è indifferente) fino a GIOIA (1 fermata), poi a piedi per via Sassetti e via De Castillia;
oppure
linea 60 direzione Zara fino a VIA POLA (3 fermate), poi a piedi per via Rossellini e via Sassetti.
Dalla Stazione Garibaldi:
metrò 5 (lilla) fino a ISOLA (1 fermata), poi a piedi per via Volturno,
oppure
a piedi diritto in piazza (soprelevata) Gae Aulenti, poi discesa con ponte pedonale verso via De Castillia.
RUBRICA SUL REFERENDUM COSTITUZIONALE
ore 21,00 presso la sala Polifunzionale della Biblioteca di Lissone per essere informati ed esprimere un voto consapevole al referendum
a cura di
Giovanni MISSAGLIA,
docente di Storia e Filosofia, autore di manuali di Educazione alla cittadinanza per i Licei
Il 4 dicembre è il giorno scelto dal governo per il referendum costituzionale.
Il REFERENDUM COSTITUZIONALE ha come oggetto il seguente quesito referendario:
«Approvate il testo della legge costituzionale concernente "disposizioni per il Superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016"?».
Interventi
"CAPIRE, VALUTARE E VOTARE"
"LA GRANDE RIFORMA? LA GRANDE ILLUSIONE"
"UN MOSTRO SOLTANTO ITALICO"
MA CHE SENATO SARÀ MAI?
MA CHE SENATO SARÀ MAI? (parte seconda)
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA: ARBITRO O GIOCATORE ?
PREMIERATO FORTE, PARLAMENTO DEBOLE, REGIONI DEBOLISSIME
GOLIA CONTRO DAVIDE ovvero LO STATO CONTRO LE REGIONI
I MISTERI DEL POPULISMO: LA RIDUZIONE DEI COSTI
LA LIBERTÀ NON É STAR SOPRA UN ALBERO ...
altri contributi
Giovanni Missaglia, vicepresidente dell’ANPI di Lissone
É morta TINA ANSELMI
É morta TINA ANSELMI
L’ANPI di LISSONE la ricorda.
Tina Anselmi era nata a Castelfranco Veneto nel 1927 in una famiglia cattolica antifascista. II suo impegno civile e politico, iniziato con la Resistenza, cui prende parte come staffetta partigiana, è proseguito, dopo la guerra, nel sindacato e all'interno della Democrazia cristiana. Laureata in Lettere all'Università Cattolica di Milano, divenne insegnante nella scuola elementare.
È stata presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia massonica P2 e della Commissione sulle conseguenze delle leggi razziali per la comunità ebraica.
Eletta alla Camera dei Depurati nel 1968, riconfermata fino al 1992, nel 1976 è stata nominata ministro del Lavoro. È la prima donna in Italia a ricoprire tale incarico.
Ha retto in seguito per due volte il ministero della Sanità, dal marzo 1978 al 4 agosto 1979 e compare fra gli autori della riforma che introdusse il Servizio sanitario nazionale.
Nel corso della sua carriera politica ha fatto parte anche delle commissioni Lavoro e previdenza sociale, Igiene e sanità, Affari sociali.
Si è continuamente occupata molto dei problemi della famiglia e della donna: si deve a lei la legge sulle pari opportunità. Nel 2004 ha promosso la pubblicazione di un libro intitolato “Tra città di Dio e città dell'uomo. Donne cattoliche nella Resistenza veneta” per la quale ha scritto l'introduzione e un saggio.
È stata più volte presa in considerazione da politici e società civile per la carica di Presidente della Repubblica.
Ha scritto Dacia Maraini:
«Ho conosciuto Tina Anselmi molti anni fa, in un tempo in cui stembrava possibile cambiare sia la famiglia che la società. Pur in settori diversi, con un'ideologia differente, Tina e io, come tante altre donne alla metà degli anni Settanta, eravamo unite da una medesima passione civile e da un legame che andava oltre le differenze: la consapevolezza che tutte insieme si poteva fare qualcosa per migliorare non solo noi, ma l'intero paese. Tina nel 1976 fu la prima donna ministro nella storia italiana, e certo per le donne fu una grande conquista.
Se penso alle due date, 1976 e 1978, non posso che valutare il cambiamento che in due anni ha vissuto il nostro paese: dalla conquista di un dicastero per una donna, con tante speranze e la sensazione di un inizio ricco di possibilità, al rapimento Moro e all'uccisione degli uomini della sua scorta, fino, dopo 55 giorni di prigionia, il 9 maggio, alla morte dello statista democristiano.
Diceva Tina, nel ricordare la sua esperienza di quei terribili 55 giorni - durante i quali era stata la “staffetta” tra la famiglia Moro e il partito - che mai più nulla sarebbe stato come prima e che «avremmo dovuto dare delle risposte e non fummo capaci di darle». Tina non abdicava mai alla sua libertà di pensiero, al suo giudizio critico».
Nel libro “Bella ciao. La Resistenza raccontata ai ragazzi” Tina Anselmi ricordava che, negli anni Trenta del Novecento, quando frequentava le scuole elementari di Castelfranco Veneto:
«A scuola si studiava, tra le altre materie, la dottrina del fascismo: era una materia obbligatoria, e chi non andava alla lezione di dottrina il sabato pomeriggio, non poteva entrare in classe il lunedì mattina. L’articolo primo della dottrina del fascismo diceva: "Lo Stato è un valore assoluto, niente al di fuori dello Stato, niente contro lo Stato, niente al di sopra dello Stato: lo Stato è fonte di eticità". Secondo quella dottrina, ogni legge è legittima e giusta perché viene dallo Stato, ed è giusto che il cittadino creda, obbedisca e combatta senza porsi nessuna domanda, senza ragionare con la propria testa.
Finché la dottrina si imparava a scuola, noi non ci facevamo caso, si imparava e basta; ma quando abbiamo visto a cosa portava quella dottrina, i suoi effetti pratici, quando abbiamo visto applicato il diritto di perseguire gli oppositori e di ucciderli, di uccidere i malati di mente perché la razza tedesca doveva essere perfetta, il diritto di bruciare la gente nei forni crematori, quando abbiamo visto bruciare nella piazza del paese un medico colpevole di aver curato un partigiano, quando abbiamo udito i lamenti dalle carrozze piombate che deportavano i nostri soldati in Germania, allora abbiamo rifiutato, ho rifiutato e combattuto un regime politico che legittimava le cose più terribili in nome dello Stato».
Nella prefazione del libro “Tra la città di Dio e la città dell'uomo, donne cattoliche nella Resistenza veneta” ha scritto Tina Anselmi (che, a diciassette anni scelse di fare la staffetta partigiana, con il nome di Gabriella, perché «non potevo voltare lo sguardo dall'altra parte, quando i nazifascisti occupavano la mia terra e portavano morte e distruzione»):
«La fede ha dato la forza di fare anche delle scelte dirompenti, rischiose, trasgressive. Lottare per la libertà ci ha dato la spinta per impegnarci in politica. Credo infatti che la partecipazione sia il contenuto più ricco che il mondo cattolico abbia dato alla Resistenza. Partecipazione che non finisce nell'episodio militare, ma che va oltre e che diventa impegno politico per la vita».
«Adesso quando qualcuno, che evidentemente non ha vissuto la Resistenza, dice che non dovevamo fare azioni di guerra, perché queste hanno portato ritorsioni, vendette, eccidi, la risposta che noi possiamo dare è che se non avessimo fatto niente, i tedeschi e i fascisti per quanto tempo ancora avrebbero occupato il paese? Come ci saremmo presentati davanti a quanti hanno combattuto il nazifascismo? Davanti alle nazioni vincitrici? Alcide De Gasperi si presentò alla Conferenza della Pace di Parigi, dicendo che non tutti gli italiani erano stati fascisti, e poté affermarlo perché c'era stata la Resistenza che legittimava la sua difesa del nostro paese».
Tina Anselmi ha accettato un ruolo estremamente impegnativo, quello di essere presidente della Commissione parlamentare inquirente sulla Loggia P2 di Licio Gelli. Nell’ottobre del 1981 fu la presidente della Camera Nilde Iotti a designarla per quel delicato incarico. E lei prima di decidere prese quindici minuti per riflettere, chiese un parere a un caro amico, Leopoldo Elia, presidente della Corte Costituzionale, e infine accettò.
Disse ad Anna Vinci, autrice del libro “LA P2 nei diari segreti di Tina Anselmi”: «Il mio rammarico è che non si è voluto continuare a indagare, a studiare il nostro lavoro, ad andare in fondo, a leggere, soppesare i 120 volumi degli atti del Commissione, che tutti potrebbero consultare, che si trovare nella biblioteca della Camera».
Diceva Tina Anselmi: «Basta una sola persona che ci governa ricattata o ricattabile, perché la democrazia sia a rischio ... Fate presto a pubblicare i miei appunti, dopo, anche solo qualche giorno dopo, sarà troppo tardi»
Purtroppo quel suo lavoro - come per anni ha denunciato, inutilmente, la stessa Anselmi - è stato accantonato.
Continua Anna Vinci:
«Lei ha vinto, tuttavia ....» Lo testimonia la relazione conclusiva, e il suo discorso alla Camera, nella seduta del 9 gennaio 1986. «Ha vinto, perché la Commissione, con la collaborazione di uomini di buona volontà, passione civile e qualità professionale, uomini rari e per questo quanto più preziosi, ha segnato il solco e gettato il seme per un’opera di bonifica nei luoghi nascosti dell'incontro tra crimine, politica, denari, anche, mafie, cominciando dai servizi segreti, come indicava con tanta lucidità e lungimiranza nella relazione ... Una bonifica che, sebbene non sviluppata e completata, è stata un argine al completamento del piano di Rinascita democratica piduista, del materassaio di Arezzo, Licio Gelli ... Tina Anselmi è stata una donna forte, libera e coraggiosa, che ci ha regalato una delle pagine più onorevoli della nostra Repubblica, tanto spesso offesa da coloro che dovrebbero rappresentarla avendo giurato di difendere la Carta costituzionale».