Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Presentazione della II edizione del libro “Un secolo tra i banchi di Scuola”

27 Septembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone

Dopo una prima edizione stampata a cura della Sezione lissonese dell’ANPI, Ass. Naz. Partigiani d’Italia, il libro “Un secolo tra i banchi di scuola. Lissone dall’Unità d’Italia agli anni Sessanta” di Renato Pellizzoni, é stato ripubblicato a cura dell’Amministrazione Comunale di Lissone.

Delibera della Giunta comunale n°76 del 22/2/2017

copertina del libro

copertina del libro

introduzione del Sindaco Monguzzi e dell'Assessore Talarico

PREFAZIONE

Come appassionato studioso della storia d’Italia del Novecento, nelle mie letture ho sempre prestato attenzione anche agli accadimenti di quel periodo storico nella nostra città.

Dal 2007, quando l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia ha allestito in Biblioteca la mostra “A scuola col Duce”, a cura dell’Istituto di Storia Contemporanea di Como, ho indirizzato le mie ricerche sulle tematiche della scuola. Un impulso ad un ulteriore approfondimento è venuto, nel 2011, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Ho trovato allora negli archivi comunali dei documenti dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, che hanno resistito al naufragio del tempo e conservato le memorie del vissuto dei nostri avi. Il mio interesse si è concentrato anche sui registri di alcune classi delle scuole elementari lissonesi durante il regime fascista.

A partire dall’anno scolastico 1928-29, il “Giornale della classe”, si era arricchito di nuove pagine riservate alla “Cronaca e osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola”, pagine che per Regio Decreto gli insegnanti erano tenuti a compilare. Queste note preziose sono ormai dei documenti storici che illuminano la realtà sociale, culturale e politica del nostro Paese in quell’epoca. Leggendole si può capire come la scuola fosse coinvolta nella vita della comunità locale e della nazione.

Oggi gli insegnanti sono impegnati ad educare i ragazzi ai valori della tolleranza, della democrazia, della pace, della pari dignità tra i popoli. In un passato non molto lontano non era così. Per questo nel libro vengono riportate pagine di registri di alcune quinte elementari, ritenendo che il loro contenuto consenta di conoscere, nel modo più diretto, quale fosse la funzione della scuola sotto il fascismo.

Fondamentale nello sviluppo dell’operazione di indottrinamento della gioventù operata dal regime fu l’adesione della maggior parte dei maestri e delle maestre alla nuova ideologia. Il fascismo li blandì e si servì della loro opera. Già nel dicembre 1925, rivolgendosi agli insegnanti Mussolini aveva detto: «Voi siete degli uomini che hanno responsabilità tremende e ineffabili, di lavorare sul cervello, sulla coscienza, sugli uomini».

In quelle pagine dei registri si può spesso constatare lo zelo di molti docenti nella loro compilazione: ciò era anche dovuto al controllo sul loro operato esercitato dal direttore didattico e dagli ispettori ministeriali.

Ha scritto lo storico Ricciotti Lazzero: «Esaminando ciò che il fascismo ha fatto sui banchi di scuola si possono trarre gli elementi per capire e giudicare qualunque ideologia totalitaria nata o che nasca intorno a noi ... Perché la libertà nasce nelle aule delle scuole elementari, dove per la prima volta al bambino viene consegnato un libro. Quel libro deve essere corretto e leale, senza dottrine devianti e senza falsi scopi ... Sarà poi la realtà della vita con tutte le sue asprezze a modulare il carattere d’ogni creatura a seconda di ciò che porta dentro, e non un’uniforme o un canto di guerra».

Vorrei che questo lavoro consentisse di orientarsi in quel periodo non felice della nostra storia soprattutto a chi non l’ha vissuto, né l’ha sentito raccontare dai genitori o dai nonni.

Generalmente il ricordo di una maestra o di un maestro dei primi anni di scuola rimane indelebile nella memoria di una persona.

In questa seconda edizione del libro, ho voluto inserire la testimonianza sulla scuola di quegli anni di Giuseppe Pizzi, ex presidente della Famiglia Artistica Lissonese, che in “Una maestra di nome Gemma” descrive vividamente la figura della sua insegnante.

La mia ricerca si è poi allargata alla scuola primaria italiana: un viaggio attraverso le sue principali riforme e la sua evoluzione, dal “fare gli italiani” al “fare degli italiani dei fascisti”, al “fare degli italiani dei cittadini”.

I cambiamenti nel mondo della scuola sono determinati da diversi fattori, che nel libro vengono analizzati alla luce dei principali avvenimenti succedutisi in Italia dall’Unità agli anni Sessanta del Novecento: gli interventi legislativi in materia di istruzione, l'evolversi del costume, delle condizioni di vita, della cultura di un popolo.

Ho, altresì, prestato una particolare attenzione alle trasformazioni dell’ambiente, dell’economia, della vita politica e sociale di Lissone documentate in alcuni capitoli.

Oltre agli archivi, le fonti della mia ricerca sono stati i numerosi documenti di storia locale. Uno, in particolare, desidero citare: è quel prezioso libro scritto da Sergio Missaglia “Lissone racconta”.

La mia intenzione era di raccontare delle storie, non di scrivere un manuale di storia, nell’interesse di tutti coloro che amano rivolgersi al passato per ritrovare in esso tante ragioni del nostro presente e tanti stimoli per il nostro futuro. Spero di esserci riuscito.

                                                                            Renato Pellizzoni

In questa seconda edizione aggiornata, é stata inserita la testimonianza di Giuseppe Pizzi, ex presidente della FAL, Famiglia Artistica lissonese, sulla vita scolastica alla fine degli anni Quaranta.

testimonianza di Giuseppe Pizzi sui suoi anni di scuola elementare

Il libro è stato presentato Sabato 7 ottobre 2017 alle ore 10 in Villa Magatti (ex sede del Municipio).

L’iniziativa era inserita in “LIBRITUDINE 2017 IX edizione del Festival del Libro”, dieci giorni dedicati alla lettura, alla musica e all'arte.

Il libro è pubblicato in formato e-book nel sito internet del Comune di Lissone.

Sfoglia il libro in formato e-book

 

programma completo di LIBRITUDINE

Presentazione della II edizione del libro “Un secolo tra i banchi di Scuola”
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1° ottobre 1943: Napoli era libera

20 Septembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Alcune testimonianze di napoletani che sono stati protagonisti di quei giorni drammatici.

Intanto la liberazione del Sud si completava rapidamente. Dopo un facile sbarco a Taranto il 9 settembre le avanguardie britanniche si spinsero nella Penisola Salentina e verso Brindisi. A Bari giunsero la sera del 15. Attaccati a Gioia del Colle, i tedeschi si ritirarono a nord del fiume Ofanto, mentre soldati italiani e popolo insorgevano a Matera, Rionero in Vulture e in altri centri e si liberavano. Avanzando in Calabria, il XIII Corpo britannico occupò Crotone, Castrovillari e Belvedere e si diresse quindi da una parte verso Potenza e Taranto, dall'altra verso Salerno. Il congiungimento con la V Armata avvenne a Vallo della Lucania il 16 settembre, quando cioè la crisi era già stata superata.

L'incontro fra i comandanti delle due armate fu cordiale solo in apparenza. Durante la crisi, Montgomery aveva inviato al collega americano un messaggio: «Quando ci riuniremo sarà un gran giorno». Clark l'aveva commentato ironicamente, perché era sicuro che l'VIII Armata sarebbe arrivata a cose fatte. Ora, mentre sorrideva a Montgomery, Clark ripensava al brutti momenti passati in quei giorni. 

«Avevo posto il mio quartier generale - ricorda Clark - sulla spiaggia vicino al fiume Sele, e quella notte, la prima notte che io passavo a terra, i tedeschi arrivarono fin là e facemmo appena in tempo ad andarcene. Ma era normale che i tedeschi attaccassero in quel punto, tra il settore inglese e quello americano, per cui la situazione fu estremamente critica per due o tre giorni. Ma io ero convinto che i nostri uomini avrebbero tenuto duro, e così infatti fecero, per cui alla fine potemmo proseguire verso il nostro obiettivo: Napoli ». 

Nessuna città aveva sofferto per la guerra quanto Napoli. Oltre cento bombardamenti aerei avevano fatto 22.000 morti. I tedeschi completarono l'opera finendo di distruggere il porto.

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Con l'8 settembre la pazienza era giunta al limite. La tracotanza dei nazisti, che avevano occupato la città, si aggiungeva alle miserabili condizioni della gente e le esasperava. Mancava l'acqua, si soffriva la fame. E la rivolta covava.

Il 12 settembre il comando tedesco della piazza aveva proclamato lo stato d'assedio minacciando per ogni soldato ferito o ucciso rappresaglie cento volte maggiori. Gli avvisi recavano una firma che i napoletani non avrebbero più dimenticato, un nome che è rimasto il simbolo di tutte le loro sofferenze: il colonnello Scholl.

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Il 22 settembre un nuovo bando: si ordina di sgomberare entro le 24 ore tutta la fascia costiera della città per una profondità di 300 metri. Significa che 150.000 persone devono lasciare le loro case e cercare un alloggio impossibile. Gran parte della città si svuota. Sembra che Scholl sia riuscito nel suo intento di terrorizzare i napoletani. In realtà non ha fatto che esaltarne la rabbia. Nessuno ubbidisce più ai nuovi bandi. Al decreto per il servizio obbligatorio del lavoro sono attese 30.000 persone e se ne presentano 150. Scholl s'infuria. Ordina la deportazione della popolazione maschile. Chi non si presenta sarà fucilato.

Egli non immagina che questa città, nota per la sua gentilezza e la sua bonaria filosofia, stia per ribellarsi. Una rivolta spontanea che scoppierà dappertutto, senza piani ne ordini. Ecco diverse testimonianze di napoletani che rievocano quei giorni drammatici: 

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« Il 27 sera s'è incominciato a sentire qualche sparo sporadico e ciò fu dovuto proprio al rastrellamento che avevano iniziato i tedeschi, dopo i bandi. Ma questi tedeschi che non conoscevano la città erano accompagnati dai fascisti collaborazionisti i quali conoscendo le famiglie che avevano dei giovani, accompagnavano i tedeschi fin nelle case di questi, anche loro amici che in quel momento avevano dimenticato la vecchia amicizia. Da qui nacque una specie di organizzazione in questo senso, che molti giovani si raggruppavano in un sol posto, in una cantina, in una chiesa, non so, è vero, in un palazzo, in una masseria, e quando si è saputo che i rastrellamenti sarebbero stati ancora più intensificati allora si è pensato alla difesa». 

«Qui al Vomero i combattimenti hanno avuto inizio la sera del 27; uscimmo dalle Selve di Case Puntellate giù alle spalle e ci avviammo verso il centro. Il primo scontro con i tedeschi lo abbiamo avuto in via Bellini ed è stato in quel posto che verso le 18 circa incontrammo per la prima volta il professor Tarsia. Ci fu simpatica la sua figura di vecchio arzillo il quale portava uno scollino rosso al collo e con un bastone in mano si mise a gridare: “Dai, andiamo addosso ai tedeschi, questi disgraziati che vogliono creare una colonia tedesca qui in Italia!". La figura del vecchio ci piacque, allora pensammo di tenerlo come il simbolo dell’insurrezione del Vomero e lo facemmo comandante, comandante affibbiandogli il titolo di colonnello perché non sapevamo se era o non era militare, ma per dare un titolo specifico e alto lo chiamammo colonnello».

«Allora si è cominciato a dare addosso ai tedeschi per impedire che mettessero queste mine. E le armi so' state portate da delle donne, da dei ragazzi, da noialtri stessi, insomma c'è stata una collaborazione direi quasi di tutto il quartiere, non soltanto di noi adulti, di noi giovani, ma c'erano dei vecchi, c'erano delle donne; mi ricordo che dei cestini di bombe a mano ci sono state portate da una ragazza, da una popolana, e lei ci portava le bombe a mano che noi dalla terrazza tiravamo contro questi guastatori per disturbarli nella loro azione. Così v'è stata sparatoria lì fino alla sera e mano mano però si è cominciato a sentire anche per tutta Napoli le sparatorie; giungevano notizie: al Carmine si combatte, sul ponte della Sanità si combatte». 

«Quando i tedeschi stavano per far saltare il ponte della Sanità che è lassù, un sottotenente dell'esercito, Dino Del Prete, organizzò una certa difesa con una barricata e contemporaneamente da quella terrazza, da questa di fronte a me e da questa dove ci troviamo noi, dei patrioti incominciarono a sparare ». 

«L'azione del 28 fu indubbiamente una delle più importanti che si ebbero qui a Napoli sia per la intensità del combattimento e sia per lo scopo che raggiungemmo, cioè quello di evitare che venisse minato il ponte della Sanità. Già i tedeschi avevano scaricato queste due cassette e si accingevano, appunto, a metterle sotto una parte laterale del ponte, precisamente in quella zona lì dove c'è una birreria. Ci fu uno scontro violentissimo: mentre noi sparavamo e avanzavamo contro i tedeschi in campo scoperto, loro avevano il grande vantaggio non solo di sparare con armi automatiche ma di essere assolutamente riparati. L'azione fu felice, riuscì. Infatti riuscimmo a neutralizzare i tedeschi: ci furono naturalmente dei feriti, altri scappavano e così riuscimmo a togliere le cassette dove erano già le micce non ancora accese, per la verità, e a evitare la distruzione del ponte della Sanità». 

«E allora il giorno appresso quando sono scesi con i carri armati hanno sparato alla loggia delle suore filippine, e so' morte nove, dieci persone. Quindi noi perciò anche la notte e il giorno abbiamo tenuto sempre fermi questi uomini credendoci quindi che loro ci assalissero. Dopo scesero i carri armati e durante questa sortita vi furono diversi morti perché i carri armati spararono non solo con mitraglie ma spararono anche con dei cannoni che avevano sia il primo sia il secondo carro». 

«E anche qui alla discesa morirono, anche al Reparto, alla Salute, alla Duchessa, all'Ascesa, è vero, di via Pessina. Hanno colpito parecchia gente e sono morte parecchie persone. Non so se rendo l’idea ... È logico che se noi non avessimo fatto questo chi lo sa che cosa sarebbe successo». 

La mattina del 29, quando sono arrivato, qui, nella zona di Santa Teresa, ho già trovato molti uomini organizzati più o meno così, sommariamente, e immediatamente io mi recai verso Capodimonte: la dove si trovavano i tedeschi asserragliati nel bosco di Capodimonte. Intanto man mano dalle varie zone sia della via Fonseca, che dalla Stella che da Mater Dei, venivano giù gruppi di uomini, sì, gruppi di uomini armati più o meno nel migliore dei modi perchè armi erano state reclutate sia presso la caserma dei carabinieri che presso un deposito della marina che si trovava giù alle fontanelle di Mater Dei.

Allora si pensò di costruire una barricata e a tal uopo ci servimmo di una vettura tramviaria che era rimasta ferma proprio in quella zona; quindi si rese necessario far scendere giù da Mater Dei un mezzo dei vigili del fuoco che ci potesse aiutare con delle corde a capovolgere questa vettura tramviaria. Capovolta la vettura tramviaria il resto della strada fu coperto da carrettini della nettezza urbana e da mattoni e da basoli che furono divelti proprio dalla strada in modo che si creò addirittura uno sbarramento su via Santa Teresa. E questo durò per tutta la giornata fino alle quattro, quattro e un quarto del pomeriggio quando venne segnalata la presenza di carri armati che scendevano giù da Capodimonte. Allora fu veramente difficile soprattutto allontanare le donne e i bambini che si trovavano al centro della strada». 

«Mio figlio aveva 17 anni. È uscito verso le quattro e mezza da casa. Si è unito al tenente Falda che comandava questi ragazzini, erano una cinquantina di ragazzi. Allora il tenente disse: - chi è che vuole uscire in mezzo per i tedeschi a bruciare quel carro armato? - Allora il ragazzo si è levato le scarpe e ha detto, dice: vado io - il più audace! È uscito in mezzo 'a strada, teneva un bottiglione di benzina e poi ha buttato la bomba sul carro armato e ha incendiato il carro armato. Il ragazzo stava scappanno per salvarsi. Allora tutti insieme per via Roma, via Toledo, venivano delle camionette con i tedeschi con le mitragliatrici e mi hanno mitragliato il ragazzo, mi hanno levato le gambe al ragazzo. Il ragazzo è andato a terra e buttava sangue; chiamava aiuto, il ragazzo, ma non c'era nessuno che lo poteva aiutare. La mattina so' venuti verso le sette al balcone, mi hanno venuto a chiamare: - Pasquale sta ferito sotto a nu' palazzo. Jamme, venite, venite! - 'I dice: - Nunziatina, hanno ferito a Pasquale! -. Figurate, io ero la madre, no! Scappai, scappai, e in mezzo alla strada di via Roma ci sta un'altra strada, e in terra stavano tutti figli tutti ammazzati! Figurarsi, io corsi, io e mia nuora, e lo vedetti di sotto a 'nu palazzo 'n coppa a 'na sedia a sdraio, già muorto, 'o figlio mio. Ma se non so' morta chillu giorno nun more chiù, vedenno un figlio accussì bello, buono, tutte teneva tutte le qualità 'sto figlio mio, tutto, tutto buono era! » . 

«Alla discesa di questi carri armati si tentò di fermarli, ma invano, con delle bombe a mano, con delle bottiglie di benzina, insomma con delle armi rudimentali che si preparavano stesso sul posto, armi che venivano man mano rifornite da una ragazza, da una certa Maddalena Cerasuolo che allora aveva diciotto, diciannove anni, se ben ricordo, e che è stata veramente di aiuto a tutti quanti ». 

«Sì, il primo giorno delle bombe facemmo un posto di guardia, qui, un po' più avanti del ponte, ed ero io, mio padre ed altri diciassette uomini che facemmo una nottata intera dove stavano i tedeschi. La mattina dissi: - voglio sparare anch'io. - Un ragazzo disse: - questo è un 91, lo sai sparare? - Disse mio fratello: - adesso glielo insegno io! - E così il primo colpo che ho tirato sono andato a finire con la testa al muro».

«Le azioni naturalmente continuarono con maggiore violenza il 29 mattina, perché il 28 eravamo in pochi, pochissimi. Con noi parteciparono all'azione i carabinieri. Ci suddividemmo qua sulle diverse terrazze: questa terrazza, l'altra terrazza che c'è là vicino. Alcuni sparavano, è vero, dai ponti Rossi, e naturalmente, questa azione fece sì che i tedeschi cominciarono ad allontanarsi».

«Il primo gruppo di ostaggi che io ho visto trasportare al campo sportivo sono stati quelli di via Bernini, circa due camion, portandoli qua, sistemandoli dove ci sono attualmente quelle tribune. Allora decidemmo di attaccare il campo sportivo. Noi partigiani del Vomero, combattenti vomeresi, siamo fieri e molto di una sola cosa: quella che possiamo avere il vanto che la prima bandiera sventolata dai tedeschi è stata da quella finestra, perché è stato qua che loro alle due di notte si sono arresi con un trucco che usammo. Essendo restati solamente in otto o nove partigiani a presidiare il campo con i tedeschi dentro, facemmo finta di essere circa otto compagnie chiamando dalla prima all'ottava compagnia; contemporaneamente facemmo uscire i vecchi e le donne dai ricoveri con i bambini che facevano rumore con latte e pentole gridando: - abbasso i tedeschi, assaltiamoli, ammazziamoli, non ne lasciamo scappare uno - tanto che il capitano Sakan, con tutto il suo decantato coraggio, a un certo punto sentì il bisogno di parlamentare».

«Quando finì l'azione al campo sportivo, ché i tedeschi che erano nel campo sportivo si arresero, fecero un accordo, pare la sera del 30, che avrebbero rilasciato subito gli ostaggi che avevano, pare che erano in numero di quarantasette, qualche cosa del genere, e che avrebbero lasciato tra la notte e il mattino, è vero, dal 30 al 1° ottobre, la città senza colpo ferire ma senza neppure essere disturbati o offesi dai partigiani.

L'accordo in città fu mantenuto alla lettera e dagli uni e dagli altri, però i tedeschi, appena arrivati sulle colline di Capodimonte, cioè fuori dalla cerchia della città, vennero meno a quella parola che avevano dato, piazzarono le batterie e le autoblinde, adesso non so con certezza, e incominciarono a sparare indiscriminatamente sulla città mietendo moltissime vittime ». 

All'alba del 1° ottobre gli Alleati partirono per compiere l'ultimo tratto di strada che li separava da Napoli. Potevano avanzare liberamente senza bisogno di esploratori. L'unico ostacolo era rappresentato dalla folla che si riversava nelle strade a salutarli.

L'entrata in città avvenne alle nove e mezza, mentre nei quartieri alti si combatteva ancora contro i franchi tiratori. Ecco la testimonianza di Maddalena Cerasuolo la giovane che abbiamo già saputo essere stata di grande aiuto per i combattenti napoletani: 

«I tedeschi andarono via ma i fascisti ci diedero filo da torcere. Sparavano dai balconi, dalle finestre, dalle terrazze, nascosti però, non a faccia a faccia. Gli americani già erano entrati da giù verso Santa Teresa... Noi sparavamo allora contro una finestra e io stavo inginocchiata a terra, quando vedo un pezzo di colosso così e non li conoscevo gli inglesi, gli americani, non li avevo mai visti. Mi guardò perché avevo le giberne, l'elmetto e compagnia bella disse: - okey! - Non posso mai dimenticarlo. Agli altri gli prendeva il fucile e lo spezzava; a me disse: - presto, tu passa! - perché io feci cenno di volerlo tenere per me stessa, per ricordo. Feci così, lui mi capì e mi disse: - presto, tu casa, okey, okey! - Poi facemmo un grande corteo e andammo per via Roma: c'era la musica, si cantava il "Piave". A me una crocerossina mi diede un fascio di fiori. E pe' tutta via Roma si cantava. Andammo a palazzo reale; lì c'erano le avanguardie, c'era Montgomery, un certo generale Hunt. Allora mi fecero cenno di salire e io con i fiori non sapevo come parlare, non li avevo mai visti. Uscii anch'io al balcone. Dissi: - vi porto questi fiori a nome di Napoli e che voi siate i benvenuti. - E lui mi diede un bacio qui e un bacio qui. Mi baciò ... Montgomery».

Napoli era libera: ma mentre l'euforia della liberazione a poco a poco si spegneva, apparivano, con accresciuta evidenza, tutte le sue piaghe.

L'amministrazione alleata doveva affrontare i problemi di una città di oltre un milione di abitanti, privi di viveri, di lavoro, di risorse. Crollata la vita economica non c'erano altre possibilità che quelle offerte dagli Alleati. Fuori degli uffici le file dei disoccupati erano lunghissime, e chi poteva cercava di arrangiarsi.

Intanto nel porto, miracolosamente riattivato in appena 72 ore, le prime navi attraccavano a banchine improvvisate, scaricando materiale, munizioni e anche viveri per la città.

1944 agosto aiuti Alleati

Da qualche mese Napoli era affamata. In settembre la razione giornaliera di pane era scesa a 100 grammi. Negli ultimi giorni pane e farina erano scomparsi del tutto. Era inevitabile che si ripetessero le scene cui gli Alleati avevano già assistito più a Sud; a Napoli di nuovo, c'erano le proporzioni: una fame molto più grande, perché accumulata, nei giorni, nelle settimane, nei mesi, e una popolazione vastissima.

I problemi di ogni giorno, che lo slancio della lotta contro i tedeschi aveva accantonato, si riproponevano drammaticamente. Nelle quattro giornate c'erano il furore e la speranza. Ora si avvertiva un'inquietudine nuova mentre si annunciava un inverno lungo e grigio.

 

 

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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La guerra totale applicata all’Italia - La strage di Meina

13 Septembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

15 settembre 1943

Tre fatti esemplari segnano, alle origini, il rapporto fra i resistenti e l'occupante (nazista): la strage di Meina, l'incendio di Boves, la battaglia di San Martino. Ovverossia il genocidio e la guerra totale applicati all'Italia. Questi tre episodi di paura e di sangue servono a illustrare i modi e le ragioni della guerra totale, e l'odio dell'italiano per chi non è più, scrive Croce, «l'umano avversario / nelle umane guerre / ma l'atroce presente nemico / dell'umanità». Un nemico omogeneo in cui l'italiano del settembre (1943) non distingue fra soldato e poliziotto, fra tedesco e nazista, fra giovane e vecchio, fra ardito e riservista: «I territoriali», si legge in un diario, «non è che siano meno feroci dei loro compagni combattenti. Torturano per dare l'esempio, fucilano, impiccano». Un nemico odiato dopo tanti nemici combattuti senza ragione e senza odio. Per gli italiani umili il tedesco è il diavolo. Su una cappella valdostana si legge la dedica alla Madonna: «Pour nous avoir sauvé des Allemands».

La strage di Meina (15 settembre 1943) 

Meina è un villaggio residenziale sulla riva del lago Maggiore, luogo di rifugio, nel settembre del 1943, di famiglie israelite. Alcune hanno qui le loro ville; gli ebrei rimpatriati da Salonicco dopo l'occupazione tedesca abitano in albergo. Le famiglie Fernandez, Mosseri, Torres, Modiano ali hotel Meina dove è arrivata da Milano, la famiglia Pombas; in tutto, diciassette persone. Nei giorni dell'armistizio passano le punte motorizzate tedesche che vanno a chiudere i valichi con la Svizzera, ma il 15 settembre un reparto SS mette presidi nei centri rivieraschi e il Comando a Baveno. Sono SS reduci dal fronte russo, specializzate nella strage dell’ebreo; lassù il massacro è finito, qui si può continuare, anche se, al confronto si tratterà di briciole.

Un plotone viene diritto all'hotel, cattura gli ebrei. Chi li ha indirizzati? Le voci corrono nel piccolo paese sulla riva del lago. Si dice che siano stati i Petacci, i parenti di Claretta l'amante di Mussolini, per vendicare le ironie e gli insulti del periodo badogliano. C'è chi parla invece di un cliente novarese: avendogli l'albergatore rifiutato una stanza, lo avrebbe denunciato come ebreo che favorisce gli ebrei. A fine guerra si racconterà di misteriosi giustizieri in divisa inglese (gli israeliani della VIII armata britannica?) venuti da Milano a regolare i conti. Ma non c'è niente di certo, i fatti certi sono questi, che avvengono, dal 15 settembre, nell'albergo.

I diciassette ebrei dopo la cattura sono stati riuniti in un salone al terzo piano. Sentinelle davanti alla 'porta, proibizione di avvicinarsi, unica eccezione per una signora milanese «ariana» fidanzata di un Pombas. Alla notizia della retata c'è stato il fuggi fuggi degli ebrei dalla costa, ma qualcuno non ha potuto evitare la cattura. Trascorrono sette giorni: gli ebrei sempre chiusi nel salone del terzo piano gli «ariani» che riprendono la solita vita. Siamo in tempi, di grandi egoismi e le SS si mostrano cortesi con gli «altri». Il 22 giunge da Baveno un giovane ufficiale di nome Krüger, riunisce gli «altri» e dice: «Vi avviso che stanotte trasporteremo gli ebrei in un campo di lavoro. Prego scusare se ci sarà un po' di disturbo». E agli ebri tramite l'interprete, la signora Rosenberg: «stanotte partite per un campo di lavoro che è a duecento chilometri. Restano, per il momento nonno Fernandez e i suoi tre nipotini. Troveremo per loro un mezzo di trasporto più comodo».

Il viaggio notturno degli ebrei di Meina non è lungo duecento chilometri, termina appena fuori il paese, in riva al lago. I tedeschi li fanno scendere, ordinano agli uomini di togliersi la giacca (hanno una lunga esperienza, una tecnica precisa, evitano le fatiche inutili come quella di togliere le giacche ai cadaveri da affondare nel lago). Poi li uccidono a colpi di rivoltella alla nuca, gli legano dei pietroni al collo con funicelle di acciaio, li buttano in acqua. E stato un lavoro notturno affrettato: le correnti del lago slegano i pietroni, l'indomani i cadaveri affiorano, i pescatori si avvicinano. Una barca ne traina due a riva mentre passa in bicicletta da Arona la signorina Galliani, frequentatrice dell'hotel Meina: «Ma li conosco» dice «lui è un Fernandez, lei è la signora Maria Mosseri». Arrivano i carabinieri. «Via», dicono, «lasciate stare. I tedeschi non vogliono che ci occupiamo di questa faccenda».

Nella notte fra il 23 e il 24 vengono trucidati il nonno Fernandez e i nipotini. Si odono gli urli dei bimbi, le implorazioni del vecchio, gli spari. La macabra pesca continua. Se affiora un cadavere, le SS lo raggiungono in barca e lo sventrano con le baionette perché si riempia d'acqua. Poi trovano un metodo più sicuro: li trascinano a riva e li bruciano con i lanciafiamme.

Negli altri paesi l'eliminazione avviene giorno per giorno.

Un rapporto dei carabinieri del 30 settembre dà queste cifre di ebrei uccisi e gettati nel lago: Arona 4, Meina 12, Stresa 4, Baveno 14. Forse non è la cifra esatta, ma non è questo che conta. L'ordine di uccidere è arrivato a Baveno da Milano, dal capitano Saewecke.

La lezione di Meina.

La strage degli ebrei sul lago Maggiore dà agli italiani del settembre la lezione agghiacciante del genocidio. Lezione diretta, inequivocabile, che dovrebbe mettere fine alle mormorazioni, ai dubbi. Ma l'incredulità è tenace, l'italiano, come gli altri occupati, come il mondo, non vuole credere a un delitto cosi fuori di misura. Da noi le voci sulla persecuzione sono arrivate da alcuni anni; poi il sospetto del massacro, portato dai nostri soldati, reduci dal fronte russo o dai Balcani. Tutti quegli ebrei deportati; gli altri usati come schiavi; e dietro qualcosa di spaventoso, di inconfessabile.

“Un ebreo vestito di nero correva agitando un bastone; allon­tanava i bambini dalla tradotta, sapeva che i tedeschi sparavano senza pietà. Una ragazza passando lungo la nostra tradotta senza mai sostare, con voce calda, lontana, ripeteva in latino una pre­ghiera: chiedeva pane. Era un'ombra, sembrava uscita da un mondo di bestie” (da “La guerra dei poveri” di Nuto Revelli).

Il diarista italiano che vede e scrive in una stazione polacca, nell'estate del 1942, arriva a immaginare un mondo di bestie, non lo sterminio burocratizzato e scientifico delle camere a gas. I reduci come lui raccontano, ma nell'Italia del 1943 l'opinione pubblica non può pensare la «soluzione finale», cioè lo sterminio di un popolo intero, donne vecchi e bambini. Non ci pensano neppure gli ebrei italiani, anche se ospitano dei correligionari austriaci, cecoslovacchi e francesi sfuggiti al massacro. Nessuno ha visto con i suoi occhi, tutti pensano che «qui non succederà». Molti israeliti italiani non ci credono neppure dopo Meina, neppure nei primi mesi della repubblica fascista. Ce ne sono che si rivolgono al ministro fascista Buffarini Guidi per sapere se è proprio vero. La guida politica della comunità ebraica italiana è mediocre, ferma su posizioni di prudentissima rassegnazione.

Dopo Meina si dà la caccia all'ebreo in tutte le provincie italiane, negli stessi giorni si fa la retata degli israeliti francesi riparati nella valle Gesso, vicino a Cuneo, al seguito della IV armata. Sono circa 900, ne vengono catturati 493, solo 25 sopravviveranno alla deportazione. Caccia ai 55.000 ebrei fra locali e forestieri che si trovano in Italia. I tedeschi occupanti non hanno bisogno di una istruzione particolare: il generale SS, Karl Wolff ha partecipato alla strage in Polonia; il suo braccio destro generale Wilhelm Harster ha eliminato giudei in Olanda; a Trieste c'è Odilo Globocnik, colui che ha insegnato a Adolf Eichmann, il grande organizzatore dell'eccidio, come si possono usare le camere a gas.

(da “Storia dell’Italia partigiana” di Giorgio Bocca)
 

16 gennaio 2009

Questa notte è improvvisamente mancata nella sua Milano Rebecca Behar, l’amica Becky.

Sopravvissuta alla strage di Meina e degli ebrei dal Lago Maggiore del settembre-ottobre 1943, quando aveva poco più di tredici anni, ha dedicato gran parte della sua vita a portare testimonianza di quei tragici avvenimenti in ogni dove e soprattutto nelle scuole. Assieme al marito Paolo, ha incontrato migliaia di studenti, ha raccontato la sua storia ovunque, si è battuta per la verità contro ogni tentativo di strumentalizzazione e banalizzazione, contro ogni forma di razzismo, per salvare la memoria e la dignità di chi in quella orrenda strage scomparve nel nulla.

E’ un lutto grave, che priva ogni cittadino democratico e noi, amici sinceri, di una voce (la sua era roca e dolcissima allo stesso tempo) preziosa e insostituibile.

Ancora in questi giorni stavamo organizzando con lei nuovi incontri (a Meina per l’inaugurazione delle scuole ai Fratelli Fernandez Diaz, a Stresa, a Verbania, a Novara, a Prato Sesia, a Oleggio) in occasione del prossimo giorno della memoria. C’eravamo da poco incontrati a Trecate, di cui era cittadina onoraria.

Ora non c’è più e non ci sembra possibile. Il dolore è grande. Stringiamo il prezioso diario che ci ha lasciato:

Era la camera 410, ultimo piano. Noi eravamo sei: i miei genitori, mia sorella, i miei fratelli. Ci spinsero dentro e c’erano altri sedici ospiti dell’albergo, sprangarono la porta con una sentinella dietro. Cedemmo i materassi agli anziani. C’era chi piangeva, chi pregava, i grandi provavano a farci coraggio. Fuori si sentivano urla, ordini, un gran via vai di tedeschi.

Dopo due giorni una SS, nemmeno ventenne, mi prese da parte e mi chiese: come ti chiami? Becky risposi. E lui: tu sei ebrea, un giorno ti sposerai, farai dei figli ebrei e saranno tutti nemici della grande Germania”.

Addio Becky!

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Settembre 1943, la Milano del dopo armistizio

3 Septembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Settembre 1943, gli stracci sono sempre i primi a volare. La Milano del dopo armistizio si presenta come una città devastata dalle incursioni aeree dell'agosto precedente.
   

Degli oltre duecentomila abitanti rimasti senza tetto la maggior parte sono operai: alloggiavano in «abitazioni malsane e carissime» e ora, dopo che i bombardamenti alleati hanno infierito sui quartieri popolari di Porta Genova, Porta Ticinese, Porta Garibaldi e sull' area a nord dell'Arena, non hanno più nemmeno quelle.

Diverso il discorso per i ceti abbienti, i quali, a quest'epoca, sono già sfollati trovando riparo nelle campagne e nelle valli lombarde. Le autorità municipali, di fronte a tale situazione, ventilano sì un progetto di accertamento e di requisizione dei vani disponibili, ma basta il coro di proteste del sindacato proprietari di fabbricato perché tutto si areni e la proverbiale solidarietà meneghina, il "gran coeur de Milan ", si blocchi di fronte all'inviolabilità della proprietà privata.

Adesso, dopo l '8 settembre, il problema degli alloggi è aggravato anche dalle requisizioni operate dai tedeschi. Trovare casa, anche un buco in cui accalcarsi, diventa impresa sempre più ardua, almeno per chi non possiede un reddito superiore.

Non meno drammatica si presenta la situazione alimentare: le razioni assegnate a prezzi controllati - per ammissione degli stessi repubblichini - forniscono «meno di un terzo del fabbisogno minimo».

Il ricorso al mercato nero è, dunque, un fatto scontato e indispensabile, senonché i prezzi vanno registrando un'impennata vertiginosa. Anche qui, accanto alle disastrose conseguenze di un'economia di guerra di per sé asfittica e sempre più corrosa dalla speculazione, accanto alla rarefazione dei prodotti e alle difficoltà di approvvigionamento dovute al dissesto dei trasporti e al dominio dei cieli da parte dell' aviazione alleata, si aggiunge il peso dell'occupazione germanica.

La fissazione del cambio lira-marco nel rapporto 1 a 10, incoraggia l'accaparramento di beni di consumo da parte dei militari e dei cittadini tedeschi e concorre alla progressiva lievitazione dei prezzi della borsa nera, peraltro già inaccessibili alle classi più povere.

Con lo scorrere delle settimane la situazione generale peggiora sempre più. Il costo della vita ascende a livelli impensati: il capitolo alimentazione del settembre 1943 registra un aumento di 50 punti rispetto ai 14 dell'anno precedente e quello del vestiario un aumento di 74 punti (8 nel 1942).

Nei mesi successivi, da ottobre a dicembre, la Militärkommandantur 1013 segnala l'inadeguatezza del rifornimento dei grassi (destinati prevalentemente al fabbisogno della Wehrmacht), la deficiente disponibilità di zucchero, la scarsità di scarpe e la minaccia della totale scomparsa del sale. Buon ultimo anche la produzione risicola lombarda è destinata all'esportazione verso il Reich e, pertanto, alla popolazione italiana non potranno essere distribuiti che esigui quantitativi.

A completare il quadro già drammatico c'è anche la mancanza di combustibile e di legna da ardere per affrontare i rigori dell'inverno ormai prossimo: a fine anno l'indice relativo al capitolo riscaldamento e luce segna un aumento di ben 84 punti. Va da sé che, in una simile situazione, la difesa del salario e del posto di lavoro si identifichi come non mai con le possibilità di sopravvivenza, tanto più che la classe operaia si trova ora a dover fronteggiare anche i provvedimenti adottati dal padronato nella nuova congiuntura economico-politica.

Dall'agosto all'ottobre del 1943 in previsione della smobilitazione dell'industria bellica e, poi, per la scarsità di materie prime, il numero degli operai occupati diminuisce dell'8,8%, mentre l'indice delle ore lavorative eseguite cala di quasi 11 punti in settembre e di 17,2 in ottobre.

Le cifre statistiche relative all'intera Italia settentrionale trovano conferma in ciò che accade nel capoluogo lombardo. Tra settembre e ottobre si scatena una massiccia ondata di licenziamenti: la Caproni (6.000 dipendenti) ne espelle 2.000, la Lagomarsino (4.000) ne caccia 3.000, la Brown Boveri 2.000 su un totale di 5.000, la Safar (3.000 dipendenti) ne allontana 1.500, la Olap 500, le Rubinetterie riunite 1.300, la Montecatini 700, la Rizzoli riduce il personale da 200 a 70 unità, la Magni chiude, l'Innocenti non licenzia ma sospende 1.500 lavoratori. A nessuno viene corrisposto il previsto pagamento del 75% del salario da parte della cassa integrazione e i licenziamenti sono accompagnati dalla contrazione delle ore lavorative e dal mancato rispetto di accordi aziendali: alla Montecatini la settimana è ridotta a cinque giorni lavorativi, alla Safar si scende a due e inoltre si eludono gli impegni presi in merito alla concordata distribuzione di carbone e di biciclette per gli operai e se ne sospendono altri 300; all' Alfa Romeo di Melzo non vengono pagate le 35 lire pattuite per la trasferta né si provvede, come promesso, agli alloggi per i lavoratori; alla Grazioli si rifiuta il pagamento del 75% del salario ai sospesi e, in novembre, alla Caproni vengono ridotte le tariffe preventive del cottimo. 

 

Novembre 1943, l'angoscia grava sulla città come la sua proverbiale nebbia. Le forniture di gas e energia elettrica sono limitate a alcune ore della giornata, la gente va a dormire al buio e al freddo con l'incubo dei bombardamenti: una valigia ai piedi del letto e la torcia elettrica a dinamo sul comodino, per essere pronti al primo allarme a precipitarsi nelle cantine trasformate in malsicuri rifugi antiaerei.
 

C'è poco da mangiare: a chi possiede una tessera annonaria, in ottobre, sono stati distribuiti un chilo di patate, 100 gr. di fagioli, 50 gr. di salumi, 80 gr. di carne suina, un decilitro di olio, 200 gr. di burro e 100 gr. di grassi di maiale. Riso e pasta si aggirano attorno al chilo, di carne di manzo neanche parlarne, la verdura è introvabile. Una saponetta da bagno da 100 gr. deve durare due mesi e tra poco sparirà dal mercato. Per chi fuma la razione giornaliera è di tre sigarette.

 

Ma non esiste solo una Milano operaia che fa la fame, ne esiste anche un' altra: una Milano che sembra non voler pensare a quanto sta succedendo, una Milano che vuole stordirsi, che vuole o finge di illudersi che tutto stia tornando alla normalità. E i tedeschi, che di questa pseudonormalità hanno bisogno, ne incoraggiano gli aspetti più frivoli concedendo a tutto spiano autorizzazioni alla riapertura di cinema e teatri. I sette cinematografi rimasti aperti nei giorni dell'armistizio diventano ventotto alla fine di ottobre, più quattro teatri.

Bombardata la Scala, la stagione lirica si riapre al Nuovo con il Rigoletto e, se proprio non va bene a chi ha dello spettacolo un gusto un po' più grasso, al Mediolanum c'è Gambe al vento, con la compagnia di quel Nuto Navarrini che vanterà intime amicizie tra gli assassini della Legione autonoma Ettore Muti e che spesso si mostrerà in pubblico indossandone la divisa: negli anni cinquanta troverà benevola accoglienza nei palinsesti televisivi della Rai. Per chi ha denaro, invece, da sabato 29 ottobre è ripreso il galoppo all'ippodromo di San Siro.

È anche contro questa falsa normalità che i gappisti devono battersi per impedire che dilaghi e invischi le coscienze nell'accettazione passiva dell'occupazione straniera e del rigurgito squadrista.
da “Due inverni un’estate e la rossa primavera” di Luigi Borgomaneri


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Settembre 1943: i militari italiani a Cefalonia

3 Septembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

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A Cefalonia la divisione "Acqui" scelse la via della lotta senza speranza e, dopo otto giorni di combattimenti, cedette a preponderanti forze tedesche. La rappresaglia fu inaudita e precisa.

«Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento ... La loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza ...

Carlo Azeglio Ciampi, Cefalonia, 1° marzo 2001

 

La Divisione "Acqui" l'otto Settembre 1943 presidiava l'isola di Cefalonia con la maggior parte dei suoi effettivi ad eccezione del 18° Regg. Fanteria del III Gruppo del 33° Regg. Artiglieria e della 333ma batteria 20m/m dislocati nell'isola di Corfù.

L'organico della Div. Acqui all'8 settembre a Cefalonia era così composto: 17 Reggimento Fanteria - 317 Reggimento Fanteria - 33 Reggimento Artiglieria - 33 Compagnia Genio T.R.T - 31 Compagnia Genio Artieri - 3 Ospedali da Campo.

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Negli ultimi tempi erano stati aggregati come rinforzo due compagnie mitraglieri di Corpo d'Armata - una compagnia Genio Lavoratori. Dalla Acqui dipendeva pure il Comando Marina di Argostoli dotato di tre batterie per la difesa costiera, una flottiglia di MAS e una flottiglia di Dragamine, un reparto di Carabinieri e un reparto di Guardia Finanza.

Il totale delle truppe italiane si aggirava su undicimilacinquecento uomini fra sottoufficiali e truppa con 525 ufficiali.

Nel mese di Agosto 1943 a integrare il Presidio Italiano era sbarcato nell'isola un contingente di truppe tedesche costituite da un reggimento granatieri di fortezza con 9 pezzi di artiglieria. Tale contingente ammontava complessivamente a 1800 uomini fra cui 25 ufficiali, al Comando del Ten. Col. Hans Barge.

Nella notte dall'8 al 9 Settembre giunse al Comando Divisione il primo radiogramma dal Gen. Vecchiarelli Comandante Generale delle Truppe in territorio Greco che deformava nella lettera e nello spirito il proclama del maresciallo Badoglio condizionando l'atteggiamento della truppa alla linea di condotta che avrebbero assunto nei nostri confronti i tedeschi, non trascurando tuttavia che l'ex alleato veniva additato come nuovo nemico contro il quale bisognava tempestivamente premunirsi.

Il giorno 9 si è incominciato a notare un gran movimento di alcuni autocarri tedeschi dalla penisola di Lixuri dove erano dislocati verso Argostoli la capitale dell'isola.

Questo movimento aveva lo scopo di apportare rinforzi al proprio presidio di Argostoli.

Alla sera il Gen. Gandin Comandante la Divisione, invitava a rapporto il Ten. Col. Barge per comunicargli il testo del primo radiogramma del generale Vecchiarelli.

Il Barge assicurava che non aveva fino a quel momento ricevuto alcuna direttiva dal comando superiore tedesco, pertanto avrebbe continuato a collaborare con la Divisione nel senso di evitare che sorgessero incidenti tra italiani e tedeschi.

Il Gen. Gandin invitava a colazione il Ten. Col. Barge, il quale se ne esimeva, inviando come suo rappresentante il Ten. Fanth, il quale al brindisi si levava augurando all'Italia, tanto provata da una lunga guerra sfortunata, un'avvenire migliore e per chiarire che qualunque sviluppo avessero potuto assumere i rapporti italo tedeschi, sarebbero stati improntati a cavalleresca lealtà.

Nella notte perveniva il secondo radiogramma emesso dal Gen. Vecchiarelli con il seguente testo: "Seguito mio ordine 0225006 dell'otto corrente. Presidi costieri devono rimanere attuali posizioni fino al cambio con reparti tedeschi non oltre le ore 10 del giorno 10 Settembre. In aderenza clausole armistiziali truppe italiane non oppongano da questa ora resistenza ad eventuali azioni forza anglo americane. Reagiscano invece ad eventuali azioni forze ribelli. Truppe italiane rientreranno al più presto in Italia, una volta sostituite grandi unità si concentreranno in zone che mi riservo fissare unitamente modalità trasferimento. Siano portate al seguito armi individuali ufficiali e truppa con relativo munizionamento in misura adeguata a eventuali esigenze belliche contro ribelli. Siano lasciate a reparti tedeschi subentranti armi collettive tutte artiglierie con relativo munizionamento. Conseguiranno parimenti armi collettive tutti altri reparti delle forze armate italiane in Grecia, avrà inizio a richiesta comandi tedeschi a partire da ore 12 di oggi - firmato Generale Vecchiarelli".

Questo telegramma determinò lo sbandamento delle Divisioni in Grecia e destò nel comando della Acqui un doloroso stupore.

Esso pose il Gen. Gandin Comandante della Acqui dinanzi ai seguenti interrogativi: come cedere le armi ai tedeschi, cioè ai nemici degli alleati, quando l'ordine del Governo imponeva di cessare le ostilità contro gli alleati e di reagire ad atti di violenza tedesca? Bisogna ubbidire al Governo o disubbidire al Comandante dell'armata o viceversa?

Da questo tragico dilemma aveva inizio il dramma di Cefalonia.

Allo Stato Maggiore della Divisione a rapporto con il Gen. Gandin sorse un dubbio sul secondo radiogramma così in contrasto con il proclama del Governo che poteva essere apocrifo, perchè a conoscenza che sin dall'8 Settembre parecchi comandi in Grecia avevano deposto le armi ed i rispettivi cifrari erano caduti in mano tedesca.

Pertanto tale radiogramma veniva respinto al comando d'Armata come parzialmente indecifrabile. Sta di fatto che tale radiogramma paralizzò l'iniziale orientamento anti-tedesco del comando Divisione.

Il giorno 10 di mattina verso le ore 8 si presentava al comando Divisione il Ten. Col. Barge che a nome del comando superiore tedesco, chiedeva la cessione completa delle armi compresa quelle individuali definendo come termine le ore 10 dell'11 Settembre e come località di consegna la piazza principale di Argostoli alla presenza della popolazione.

Il Gen. comandante rispondeva chiedendo una dilazione dei termini, facendo presente di avere ricevuto dal Comando d'Armata un solo radiogramma e che era stato costretto a respingerlo perchè indecifrabile, chiedendo altresì di consegnare solamente le artiglierie e l'armamento collettivo scartando la piazza di Argostoli al fine di evitare al soldato italiano una così aperta umiliazione dinanzi alla popolazione greca.

Il Ten. Col. Barge si congedava promettendo di prospettare ogni cosa al proprio comando.

Nel frattempo il Gen. Gandin convocava a rapporto il Gen. Gherzi Comandante della Fanteria e tutti i comandanti dei Reggimenti nonchè il Comandante delle forze navali per esporre la situazione e sentire i rispettivi pareri.

In questo primo Consiglio di guerra prevale il parere di cedere le armi collettive, ma non le armi individuali. La notizia dell'ingiunzione di cedere le armi si era diffuso come un baleno nei reparti che manifestavano un acceso risentimento antitedesco.

I soldati della Acqui non intendevano sottostare alla grave umiliazione di fronte alla popolazione di Cefalonia.

Dello stesso parere erano la maggior parte dei giovani ufficiali. I tedeschi infrangendo lo "Status quo" conseguente alle trattative in corso, attuarono numerosi spostamenti di truppe facendo altresì affluire rinforzi dal continente.

Ma la Acqui era ben decisa a non lasciarsi sopraffare. A rafforzare questa situazione contribuiva la solidarietà del popolo greco che si univa spiritualmente al soldato italiano compresi gli ufficiali dell'esercito popolare greco di liberazione che operava sulle montagne, i quali si presentavano ai nostri comandi chiedendo armi ed offrendo generosamente la loro collaborazione.

Nella notte del 10 e 11 Settembre si rinnovavano i colloqui tra il Gen. Gandin e il Ten. Col. Barge venendo ad un accordo in linea di massima che prevedeva la consegna esclusiva delle armi collettive.

Nella mattinata dell'11 Settembre però il Ten. Col. Barge invitava repentinamente il Gen. Gandin a definire chiaramente il suo atteggiamento, sottoponendogli la scelta tra le seguenti proposte:

1 - con i tedeschi

2 - contro i tedeschi

3 - cedere tutte le armi anche quelle individuali.

Termine del tempo per la risposta: le ore 19 dello stesso giorno.

I tedeschi, era chiaro, non intendevano perdere tempo e verso le ore 17 puntavano un semovente su un nostro dragamine che isolato era costretto a ritirarsi dopo aver consegnato gli otturatori delle due mitragliatrici al comando artiglieria.

Il Generale Comandante a questo punto riuniva nuovamente a Consiglio tutti i comandanti di corpo, ma prima di trasmettere al comando tedesco la risposta definitiva all'ultimatum riuniva i sette Cappellani della divisione per sentire il loro definitivo parere.

I Cappellani ad eccezione di uno consigliavano la cessione delle armi.

La giornata del 12 Settembre si profilava molto burrascosa e densa di eventi. Fin dalle prime ore veniva notato un intenso via vai di aerei che paracadutavano rifornimenti ai tedeschi. Vennero pure segnalati sbarchi di uomini e mezzi nella baie rimaste isolate per la partenza dei mezzi navali che avevano ricevuto ordine di partire per nuove basi.

Il giorno 14 Settembre alle 2 antimeridiane, il Generale Comandante mediante fonogramma urgente pregava i comandanti di reparto di invitare le truppe ad esprimere il proprio parere sui seguenti 3 punti prima di prendere di fronte a Dio e agli uomini la suprema decisione:

1 - contro i tedeschi

2 - insieme ai tedeschi

3 - cessione delle armi.

All'alba ogni comandante raduna i suoi uomini e commenta con serenità obbiettiva la drammaticità della situazione. Alle prime ore del giorno 14 il Comando Divisione raccoglie l'esito del plebiscito. La risposta che prorompe unanime, concorde, è una sola: il primo punto ha riscosso il cento per cento delle adesioni. "Guerra al tedesco"

Contemporaneamente perviene dal Comando supremo italiano un cifrato a firma "Gen. Francesco Rossi" che ordina di resistere alle richieste tedesche, confermando l'ordine governativo dell'8 Settembre 1943.

A questo punto la posizione della Acqui è ormai chiara. L'ordine del Comando supremo elimina ogni dubbio.

Alle ore 12 il Comando Divisione consegna in Argostoli al comando tedesco la seguente risposta: per ordine del Comando supremo Italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la Divisione Acqui non cede le armi. Il Comando tedesco farà conoscere le sue decisioni entro le ore 9 del giorno 15 Settembre.

Ormai non c'è più tempo da perdere, il comando Divisione, il Comando Artiglieria e il Comando Genio si trasferiscono presso il Comando tattico in località Procopata.

Alle ore 10.45 le batterie contraeree aprivano il fuoco contro due idroplani da trasporto e una batteria del 33° Artiglieria affondava un pontone carico di tedeschi che tentava di accostarsi alla riva.

Ha così inizio la grande battaglia di Cefalonia che trova le forze contrapposte in rapporto di sparirà perchè nel frattempo i tedeschi, durante le trattative facevano affluire sull'isola 5 battaglioni di fanteria e 2 Gruppi di artiglieria da montagna.

La battaglia di Cefalonia si protrasse aspra e sanguinosa dalle ore 14 del 15 Settembre alle ore 16 del 22 Settembre sotto il fuoco interrotto (24 ore su 24 ore) di bombardamenti aerei di STUKAS in picchiata che mitragliavano a vista d'uomo.

I nostri fanti nonostante il martellamento aereo reagirono con indicibile accanimento non cedendo di un sol palmo.

Nel corso della battaglia gli Stukas oltre a bombardare e mitragliare, lanciarono manifestini invitanti alla resa e alla diserzione a nome del Generale di Corpo d'Armata Libert Lanz.

Il testo era il seguente: "Italiani di Cefalonia, camerati italiani, ufficiali e soldati perchè combattere contro i tedeschi? Voi siete stati traditi dai vostri capi, voi volete ritornare nel vostro paese per stare vicino alle vostre donne, ai vostri bambini, alle vostre famiglie? Ebbene la via più breve per raggiungere il vostro paese non è certo quella dei Campi di Concentramento inglesi.

Conoscete già le infami condizioni imposte al vostro paese con l'armistizio angloamericano. Dopo avervi spinto al tradimento contro i compagni d'armi germanici, ora vi si vuole avvilire con lavoro pesante e brutale nelle miniere d'Inghilterra e d'Australia che scarseggiano di mano d'opera. I vostri capi vi vogliono vendere agli inglesi, non credete a loro. Seguite l'esempio dei vostri camerati dislocati in Grecia, Rodi e nelle altre isole, i quali hanno tutti deposto le armi e già rientrano in Patria; come hanno depositato le armi le divisioni di Roma e delle altre località del vostro territorio nazionale. E voi invece proprio ora che l'orizzonte della Patria si delinea ai vostri occhi, volete proprio ora preferire morte e schiavitù inglese. Non costringete, no, non costringete gli Stukas germanici a seminare morte e distruzione. Deponete le armi! La via della Patria vi sarà aperta dai Camerati tedeschi!" "Camerati dell'Armata italiana, col tradimento di Badoglio, l'Italia fascista e la Germania nazionalsocialista sono state abbandonate nella loro lotta fatale. La consegna delle armi dell'armata di Badoglio in Grecia è terminata completamente, senza spargere sangue.

Soltanto la Divisione Acqui al comando del Gen. Gandin, partigiano di Badoglio dislocata sulle isole di Cefalonia e Corfù e isolata dagli altri territori, ha respinto l'offerta di una consegna pacifica delle armi e ha cominciato la lotta contro i camerati tedeschi e fascisti.

Questa lotta è assolutamente senza speranza. La Divisione Acqui in due parti è circondata dal mare senza alcun rifornimento e senza possibilità d'aiuto da parte dei nostri nemici. Noi camerati tedeschi non vogliamo questa lotta. Vi invitiamo perciò a deporre le armi e ad affidarvi ai presidi tedeschi delle isole.

Allora anche per voi come per gli altri camerati italiani è aperta la via verso la Patria, se però sarà continuata l'attuale resistenza irragionevole sarete schiacciati e annientati fra pochi giorni dalle forze preponderanti tedesche che stanno raccogliendosi. Chi verrà fatto prigioniero allora, non potrà più tornare in Patria, perciò camerati italiani appena leggerete questo manifesto passate subito ai tedeschi. È l'ultima possibilità di salvarsi.

Il Generale Tedesco di Corpo d'Armata.

É inutile dire che tali manifestini hanno avuto l'effetto contrario riaffermando in tutti i soldati la più ferma volontà di vincere e di scacciare i tedeschi dall'isola.

Il Gen. Gandin dopo aver letto tale manifesto, in presenza del suo Stato Maggiore si strappò dal petto la croce di ferro gettandola sul tavolo e disse: Se perdiamo ci fucileranno tutti. Fu la convinzione di tutti, ma nessuno vacillò, nessuno esitò, bisogna andare fino in fondo e così fu. Mentre la battaglia infuriava, continuarono a sbarcare ingenti forze tedesche con armi automatiche e mezzi corazzati; il Gen. Gandin fece inviare al Comando Supremo italiano un radiogramma chiedendo l'invio di qualche aereo per contrastare l'avanzata tedesca. A questo telegramma fu risposto in questi termini:

"Marina Argostoli per Comando Divisione: Impossibilitati invio aiuti richiesti, infliggere nemico gravi perdite possibili ogni vostro sacrificio sarà ricompensato. Firmato Gen. Ambrosio".

Nel frattempo la lotta degenerava, ogni reparto catturato veniva passato per le armi, perchè i tedeschi non volevano fare prigionieri.

La sera del 21 Settembre e l'alba del 22 l'intera Divisione veniva decimata e il Gen. Gandin convocò per l'ultima volta il Consiglio di Guerra il quale decise di chiedere la resa senza condizioni.

La riunione per la resa durava circa due ore, quindi gli ufficiali del comando divisione deponevano sul tavolo le loro pistole di ordinanza diventando da quel momento prigionieri di guerra.

Nonostante la bandiera bianca in segno di resa issata sul Comando tattico, non finiva la fucilazione dei reparti che deponevano le armi.

Alle ore 16 del 22 Settembre la battaglia di Cefalonia era finita, ma le fucilazioni continuavano per tutta la giornata del 23 Settembre durante i rastrellamenti effettuati dai tedeschi.

Dopo le esecuzioni sommarie in massa sul campo di battaglia nel corso delle quali avevano incontrato la morte 155 ufficiali e 4750 uomini di truppa, sembrava che l'impeto di bestiale ferocia sanguinaria fosse giunto al suo epilogo. Purtroppo tra il 23 e il 28 Settembre i tedeschi massacrarono altri 5000 uomini di truppa e 129 ufficiali, compreso il Gen. Gandin, i rimanenti 163 ufficiali accantonati presso la palazzina dell'ex comando Marina e all'ex caserma Mussolini vengono caricati su autocarrette e trasferite a punto San Teodoro nella famigerata casetta rossa e, dopo un sommario processo vengono avviati al supplizio a 4 per volta.

Compiuto l'orrendo crimine bisognava far scomparire le tracce; ad eccezione di alcune salme lasciate insepolte gettate in cisterne artificiali, la maggior parte vengono bruciate in una fossa comune e i resti buttati in mare.

Secondo i più recenti accertamenti (non facili) le perdite complessive della Divisione Acqui e della Marina ammontano a 390 ufficiali su 525 e 9500 uomini di truppa su 11500.

Pertanto gli scampati, cioè i superstiti, erano 135 ufficiali e 2000 circa uomini di truppa, la maggior parte deportati in Germania e poi in Russia da dove una parte non è più tornata.

Terminato l'eccidio di Cefalonia le truppe tedesche sbarcarono a Corfù. Il piccolo presidio resisteva per qualche giorno ma sopraffatto dall'ingente forza tedesca dovette cedere le armi, lasciando sul campo di battaglia parecchi uomini. Alla resa la rappresaglia tedesca fu meno crudele che a Cefalonia, ma si accanì sugli ufficiali che furono fucilati e i loro corpi dopo averli appesantiti con sassi furono gettati in mare. L'epopea della Divisione Acqui era giunta al suo epilogo.

(tratto dalla pubblicazione dell’Associazione Nazionale Reduci e Caduti della Divisione “Acqui”, a cura di Marco Pazzini)

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Terrore a Cefalonia

3 Septembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Si batterono da eroi contro lo strapotere del nemico. Duemila di loro erano morti in battaglia sotto i bombardamenti degli stuka e dell' artiglieria tedesca. Il 21 settembre di quel 1943 i superstiti alzarono bandiera bianca. Si erano arresi, ma furono massacrati. Caddero, così, a Cefalonia, dai cinque ai sei mila e cinquecento soldati italiani della divisione Acqui. I corpi, depredati, furono gettati in mare o in specie di foibe dell'isola o sommariamente interrati. Disse a Norimberga il generale Telford Taylor, pubblico accusatore: "Questa strage deliberata di militari italiani è una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato". Hubert Lanz, comandante del XXII corpo d'armata della Wehrmacht, fu condannato alla pena irrisoria di 11 anni, ma presto fu graziato. In Italia i 30 responsabili diretti del gigantesco assassinio non sono mai stati citati in giudizio.

Quella di Cefalonia è sicuramente la più drammatica e la più nota delle tragedie che coinvolsero i reparti italiani subito dopo l’8 settembre. Intere armate, in Grecia, nei Balcani, in Albania, furono lasciate in balia di se stesse. Chi si rifiutò di consegnare le armi all'ex alleato ne subì la reazione violenta e criminale. Ma tutto finì nell'Armadio della vergogna. Nascosto per non turbare il nuovo sistema di alleanze. Nascosto per cercare di cancellare le gravissime responsabilità dell'Alto comando italiano. Gli assassini non furono neanche disturbati con 'avvisi di garanzia'. Hanno dormito sonni di giusti. I superstiti della divisione Acqui furono, invece, processati. Erano stati accusati di ribellione per aver convinto il generale Antonio Gandin a non arrendersi. Vennero assolti, però.

Così scriveva, nell’aprile 2004, Franco Giustolisi nel suo libro “L’Armadio della vergogna” Ed. Nutrimenti.

 

Roma, 19 novembre 2013

Alfred Stork condannato all'ergastolo dal Tribunale militare di Roma.

Chi è Alfred Stork?

Caporale del battaglione Cacciatori di montagna, si propose volontariamente per far parte di uno dei due plotoni di esecuzione che passarono per le armi 129 ufficiali italiani - l'intero Stato maggiore della Divisione Acqui - sparando dall'alba al tramonto.

«Ci hanno detto che dovevamo uccidere degli italiani, considerati traditori»; si è giustificato quando lo hanno sentito. Che quegli ufficiali fossero prigionieri di guerra fu considerato un dettaglio minore. Stork, aveva vent'anni nel 1943. Oggi è un arzillo novantenne, che risiede in Germania. Ieri è stato condannato in primo grado all'ergastolo dal tribunale militare di Roma. «Anche se ci fu un ordine del Fuhrer, questo non significa che partecipare a un atto barbaro e criminale, contrario a tutte le convenzioni internazionali, si possa considerare legittimo» dice il procuratore militare di Roma, Marco De Paolis.

I familiari delle vittime hanno dovuto aspettare 70 anni per avere giustizia. Con la sentenza del tribunale militare, l'Eccidio di Cefalonia esce dai libri di storia e diventa una verità giudiziaria.

 

Cosa accadde a Cefalonia?

«Le forze armate italiane non esistono più», afferma un comunicato tedesco del 10 settembre 1943. In questo giorno, infatti, l'occupazione dell'Italia è un fatto compiuto e confermato dalle cifre delle spoliazioni militari che il generale Jodl traccia in apporto per Hitler: un milione e 255.660 fucili; 38.383 mitragliatrici; 9.986i pezzi di artiglieria; 15.500 automezzi; 67.600 fra muli e cavalli, e vestiario per 500.000 uomini (ma non sono cifre vere perché forse nell'euforia del Gran Quartiere generale del Führer, si propinano anche dati di questo tenore: «catturati 4.553 aerei e 970 mezzi «corazzati» quando in realtà, al momento della resa, l'Italia non possiede che 272 carri armati e poche centinaia di aeroplani operativi).

Ogni resistenza dell'esercito italiano è sparita, in quanto forza organizzata, ma - al di là del mare e dei confini continentali - rimangono intatte, anche se non utilizzate nel loro potenziale offensivo, notevoli forze. Il loro atteggiamento, in generale, è quello di una vera e propria rivolta contro i tedeschi - gli odiati alleati di ieri - ma anche contro gli ambigui ordini di Roma; una rivolta tuttavia di tipo nuovo, nella storia d'Italia, perché vi confluiscono sia lo spirito degli ufficiali «ribelli» gelosi del proprio «onore militare», sia l'«aspirazione alla libertà» che viene dal basso. È la svolta storica in cui si inserirà la Resistenza.

Il disfacimento dell'esercito all'estero dovuto soprattutto al fatto che, nelle ore dell'agonia, il comando supremo lo ha abbandonato, lo ha lasciato a sé, ha consentito che si sfasciassero le armate purché si salvasse il gruppo di potere che sta attorno al re e alla Corte e che finge di credere che la sua salvezza coincide con quella del Paese travolto dalla tragedia. Ma dove questo veleno dell'ambiguità non giunge, l'esercito, dato così facilmente per spacciato in patria, si batte in terra straniera con un accanimento, con una ostinazione che trova ben pochi riscontri nella storia militare di tutti i tempi: e se crolla, crolla a testa alta.

Nei Balcani e in Dalmazia, dove abbiamo 30 divisioni, in Grecia e nel Dodecaneso - la situazione è simile a quella dell’Italia metropolitana: da tempo i tedeschi hanno già occupato le posizioni migliori per disgregare e disorganizzare l'esercito italiano e hanno istillato a più livelli l'illusione che, con l'uscita dell'Italia dalla guerra, i nostri soldati potranno sottrarsi al carattere perentorio di una scelta definitiva - o da una parte o dall'altra - e tornare in patria al più presto. È appunto facendo leva su questa illusione che i tedeschi ottengono i primi successi, trovano un facile terreno di intesa con gli Alti Comandi disorientati e avviliti, ora che non debbono più «obbedire alle direttive del regime fascista» (come scrive un ufficiale del presidio di Lero alla famiglia) ma decidere autonomamente.

Cefalonia-ufficiale-e-soldati.JPGGià la sera dell'8 settembre cadono le isole dell'Egeo (Rodi, Coo, Simi, Lero, Calino, Stampalia, Scarpanto, Caso, Castelrosso, Samo, Icarnia, Furni, Sira) le cui guarnigioni sono agli ordini ammiraglio Inigo Campioni: i tedeschi della divisione Rhodos (generale Kleemann) occupano di sorpresa gli aeroporti di Rodi, Marizza e Gaddura e l’indomani - 9 settembre - fanno prigioniero il comando dell'isola. Tuttavia parecchi reparti italiani - specialmente il battaglione del 3090 fanteria comandato dal maggiore Anacleto Grasso - impegnano i nazisti in una serie di scontri e di combattimenti, facendo addirittura 200 prigionieri. Il giorno seguente, però, data la situazione disperata in cui vengono a trovarsi a causa dei ripetuti bombardamenti aerei, i reparti italiani debbono cedere le armi anche se l'ammiraglio Campioni si rifiuta di emanare l'ordine del «cessate il fuoco»: il 18 settembre verrà catturato e deportato in Germania; più tardi sarà fucilato dalla repubblica di Salò. A Cefalonia e a Corfù la resistenza italiana è aspra e accanita ad opera dei reparti della divisione di fanteria Acqui, (generale Antonio Gandin a Cefalonia; colonnello Luigi Lusignani a Corfù) ed elementi della Marina e della Guardia di Finanza. A Cefalonia, dopo varie trattative, visto che le forze tedesche continuano a ricevere rinforzi, viene decisa la resistenza armata che dura dal 13 al 24 settembre. Gli italiani combattono ad Argostoli, Telegraphos, Pbaraklata, Rizocuzolo, Phassa, Lixuri, Kimoniko e Divarata con la perdita di 75 ufficiali e di circa 2.000 soldati.

Cefalonia-paesaggio.JPGLa strage di Cefalonia si inizia sul campo di battaglia. Il 22 settembre sono massacrati quasi 4.500 ufficiali e soldati; poi, nei due giorni successivi, vengono condotti a gruppi, dinanzi ai plotoni di esecuzione, gli ufficiali superstiti e alla Casa Rossa di San Teodoro  cadono 400 di essi, fra cui il generale Gandin, futura medaglia d'oro, finché gli stessi tedeschi si stancano di fucilare: restano in vita soltanto 37 ufficiali mentre la truppa, convogliata in mare, è ulteriormente decimata per l'affondamento delle navi sulle zone minate. In totale muoiono a Cefalonia 8.400 italiani e le loro spoglie sono abbandonate insepolte nell'isola perché - dice il nazista maggiore Harald von Hirschfeld - «i ribelli italiani non meritano sepoltura». Solo la pietà dei greci radunerà i poveri resti in primitivi tumuli.

 

Bibliografia:

Franco Giustolisi, “L’Armadio della vergogna”, Ed. Nutrimenti 2004

Enzo Biagi, "La seconda guerra mondiale. Parlano i protagonisti", Rizzoli 1990

 

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