Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Sindaci di Lissone dall'Unità d'Italia ad oggi

23 Novembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Lissone dopo l'Unità d'Italia

Concetta Monguzzi è la prima donna Sindaco nella storia del Comune di Lissone.

Sindaci 
1859 - 1861 Felice Mariani 
1862 - 1873 Carlo Arosio 
1874 - 1877 Angelo Meroni 
1878 - 1880 Carlo Rocca 
1881 - 1885 Carlo Sanmartino 
1886 - 1887 Pietro Arosio 
1888 - 1895 Amedeo Meroni 
1896 - 1904 Luigi Varenna 
1905 - 1906 Mauro Riva 
1907 - 1908 Pietro Mussi
Commissari 
1908 - 1909 Giovanni Nota
Sindaci 
1909 - 1914 Mauro Riva 
1914 - 1920 Rodolfo Fossati 
1920 - 1923 Giovanni Mariani

Commissari 
1923 - 1924 Alfonso Campanari 
1924 - 1927 Carlo De Capitani 
1927 - 1928 Carlo Durante

Podestà
1928 - 1932 Alfredo Fossati
1932 - 1943 Angelo Cagnola

Commissari 
1943 - 1944 Aldo Varenna 
1944 - 1944 Eugenio Campo 
1944 - 1945 Giovanni Ruffini

Sindaci 
1945 - 1946 Angelo Arosio
1946 - 1951 Mario Camnasio
1951 - 1970 Fausto Meroni
1970 - 1975 Sergio Missaglia
1975 - 1985 Angelo Cerizzi
1985 - 1992 Giuseppe Valtorta

1992 - 1993 Adriano Muschiato

Commissario 
1993 – 1994 Bice Montanari

Sindaci 
1994 - 2002 Fabio Meroni

2002 - 2012 Ambrogio Fossati

2012 - 2017 Concetta Monguzzi

2017 -          Concetta Monguzzi

Il lungo cammino verso il voto delle donne in Italia

Le donne e le conquiste del dopoguerra


1867-delibera-comunale.JPG 1867-delibera-Lissone.JPG

delibere del Consiglio comunale di Lissone del maggio 1867, Sindaco Carlo Arosio

 

timbro del Comune di Lissone del 1866

timbro del Comune di Lissone del 1866

Sindaci di Lissone dall'Unità d'Italia ad oggi
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La popolazione di Lissone nel 1861

23 Novembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Lissone dopo l'Unità d'Italia

Lissone, borgo della Brianza

veduta-grigne.jpg grigne-e-resegone.jpg

Così Cesare Cantù descriveva, nel 1858, il distretto di Monza, uno dei quattordici in cui l'Austria aveva suddiviso il territorio milanese.

«Il territorio, parte in piano, parte sulle estreme falde dei colli di Brianza, è ubertosissimo di vino, bozzoli, legumi e frutta. Poche campagne sono innaffiate dal Lambro settentrionale, che da nord a sud traversa il distretto, e da sorgenti artificiali. Saluberrima ne è l'aria; ad ogni passo t'incontri in deliziose ville, giardini, serre: gaie brigate vi scorrono le belle stagioni, attratte dalla comodità della ferrovia. Degli abitanti, quali si danno all'agricoltura, quali lavorano su telai, o nelle grandi manifatture di Monza. L'artigiano per lo più è macilento, essendo costretto a lavorare molte e molte ore al giorno per tenue mercede, mentre s'impinguano i già ricchi intraprendenti».

Per quanto concerne la condizione sociale, occorre notare che i ceti contadini più diffusi erano i piccoli proprietari e i coloni. Parte della terra, frazionata in piccoli appezzamenti, era di proprietà dei contadini che la lavoravano e che da essa traevano un reddito tanto scarso da spingerli ad altre attività; ma la maggior parte dei terreni era di proprietà di patrizi locali e di famiglie nobiliari milanesi, che venivano a trascorrere la villeggiatura nelle amene ville» e nei «deliziosi giardini».

 

La popolazione di Lissone nel 1861

1856 pianta di Lissone

La popolazione lissonese presente alla data del primo censimento del regno d'Italia (1861) era di 3.707 abitanti (il censimento fu eseguito sulla popolazione presente di fatto il 31 dicembre 1861).

Secondo la legge n. 3702 del 1859 del regno di Sardegna, divenuta legge nazionale il 17 marzo 1861 per l'avvenuta proclamazione del regno d'Italia, il territorio del regno si divideva in province, circondari, mandamenti e comuni. Lissone faceva parte del circondario di Monza  del quale era il sesto comune più popoloso dopo Monza (24.662 ab.), Seregno (5.765 ab.), Desio (5.431 ab.), Sesto San Giovanni (4.189 ab.), Vimercate (4.106 ab.). Il circondario di Monza era a sua volta composto da 93 comuni per una popolazione di 156.885 abitanti. D'altra parte, la provincia di Milano risultava essere tra le più popolose del giovane regno d'Italia, con 948.320 abitanti.

Lissone, che si caratterizzava come centro agricolo dedito all'attività artigianale, non aveva riportato un aumento notevole di popolazione rispetto ai primi anni del secolo, quando gli abitanti erano circa 2.000.

 

Nel 1869 il comune di Cassine Aliprandi (Santa Margherita) si unisce a Lissone

La situazione cominciò a mutare nei decenni seguenti. Già nel censimento del 1871, il paese arrivò a contare una popolazione di 4.598 abitanti, registrando così un aumento netto di 891 persone. Va però detto che tale crescita si deve principalmente all'unione con l'antico comune di Cassina Aliprandi (Santa Margherita), risalente al 1869.

1870-Cassina-Aliprandi.JPG

L'ex comune di Cassine Aliprandi, nel 1861 contava una popolazione di 483 abitanti, pari circa al 13% della popolazione lissonese, La fusione dei due comuni confinanti provocò anche un ampliamento del 20% della superficie comunale.

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La stazione ferroviaria

23 Novembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Lissone dopo l'Unità d'Italia

La linea ferroviaria Milano-Monza di 13 Km, la prima strada ferrata dell'Italia settentrionale, era stata realizzata nel 1840 a conferma dei positivi rapporti intrecciati dalle due città. Dal Settecento le località brianzole erano meta di nobili e borghesi milanesi.

mappa ferrovia Mi Monza cartolina Milano Monza

 

Nel 1861 la linea ferroviaria venne prolungata sino a Como, ponendo il borgo di Lissone direttamente sulla tratto ferroviario, compreso tra le due stazioni di Monza e Desio, da cui distava rispettivamente Km. 5 e Km. 3.50.

Vent'anni dopo il paese, che aveva raggiunto una popolazione stabile di 5.000 persone, offriva vantaggi per la villeggiatura, forte della sua aria limpidissima, senza considerare che si trovava a pochi chilometri dall'allora Regio Parco. Erano presenti tutta una serie di strutture importanti come la caserma dei regi carabinieri, le scuole elementari e l'asilo infantile Umberto I fondato nel 1878. Le aziende proprietarie di terreni e fabbricati erano 290, alcune delle quali già note dentro e fuori i confini del regno per l'elevata qualità dei prodotti (come la Meroni e Fossati, fondata nel 1940, la Ferdinando Paleari e figli, fondata nel 1848). Infine, nel mese di ottobre la fiera del bestiame attirava gente da tutta la Brianza.

Meroni-e-Fossati.jpg ditta Meroni e Fossati

Logo Paleari  1890 mobilificio Paleari

 

Via-Padre-Reginaldo-Giuliani.JPG Via-Giuliani.JPG

Nonostante questo Lissone non aveva una propria stazione, non una linea tranviaria, non un servizio di vettura pubblica e per quanto fosse vicina a Monza, capoluogo del circondario, con la quale aveva fiorentissimi commerci, non aveva la possibilità di agevolare i contatti con Como e la Svizzera per i commerci di bestiame e legname. Per non parlare di Milano i cui commercianti, per ovvia comodità erano soliti preferire altre piazze dotate del servizio ferroviario.

Insomma la situazione dei collegamenti era decisamente negativa, o perlomeno poco adeguata.

Il 10 ottobre 1879, una delibera del Consiglio comunale di Lissone, approvata all'unanimità dai quindici consiglieri presenti, chiedeva al Governo che, sulla linea Milano – Como, venisse costruita “una stazione con scalo merci presso il cavalcavia soprastante la strada per Muggiò (attuale via Carducci, n.d.r.) , essendo il luogo più vicino ai due comuni di Lissone e Muggiò e a distanza favorevole tra le due stazioni di Desio e Monza”.

Innumerevoli sarebbero stati i vantaggi a beneficio delle numerose industrie lissonesi specializzate nella lavorazione dei mobili e mobilie di lusso, dei tessuti e filati diversi, al commercio dei legnami ed assi, a quello del bestiame, di granaglie e di bachi da seta.

Era intenzione della municipalità fare partecipe il comune di Muggiò, che con una delibera del dicembre 1879 aderì all'iniziativa lissonese.

Il nome della stazione sarebbe stato «Lissone-Muggiò».

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La stazione «Lissone - Muggiò» venne costruita tra il settembre 1881 e il maggio del 1882: i lavori vennero affidati ad una ditta belga.

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La Società di mutuo soccorso fra operai e agricoltori

23 Novembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Lissone dopo l'Unità d'Italia

 

 

Il 10 gennaio 1873, venne fondata a Lissone una Società di mutuo soccorso fra operai e agricoltori.

Il comitato promotore della Società, che si era formato nel 1872 e aveva studiato e preparato lo statuto, era composto da Francesco Mussi, Amadeo Meroni, Carlo Mariani, Luigi Mussi, Rodolfo Fossati e Felice Mariani.

Il Consiglio di Amministrazione era composto quasi per intero dai medesimi membri del comitato costitutivo. Primo presidente fu l'ingegner Carlo Rocca, sindaco di Lissone. Alla sua morte, nel 1879, gli succedette il cognato, conte Carlo San Martino di Strambino (che sarà, inoltre, sindaco dal 1881 al 1885).

La prima sede della Società era in Via Baldironi n. 3 nella casa del sig. Mariani Gioachino, gentilmente offerta, poi in Via Assunta e poco tempo dopo nella Casa Paleari angolo Via SS. Pietro e Paolo e Via Aliprandi, che era anche la sede del Comune.

Secondo lo spirito dei fondatori tale società non si prefiggeva il solo scopo della mutualità, ma anche «l'elevamento materiale e morale dei lavoratori»; lo statuto prevedeva, infatti, norme per l'organizzazione di iniziative culturali e la diffusione dell'istruzione tra le famiglie. Sin dal 1874 la società diede vita a una scuola festiva per i soci (nel 1876 la Scuola festiva contava 34 allievi) e ad una società corale - che divenne poi l'autonoma Corale Verdi, nel 1878 istituì una Scuola di disegno e intaglio (questa istituzione rappresenta il primo concreto tentativo di un’azione collettiva rivolta al mondo dell’artigianato del mobile); nel 1879 la fanfara e ancora, nel 1898, fondò un Corpo filarmonico.

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La Scuola di disegno e intaglio

23 Novembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Lissone dopo l'Unità d'Italia

La Scuola di disegno e intaglio (diventerà nel 1926 la Scuola professionale di Lissone)

Scuola-professionale.jpg 

fu fondata nel 1878 dalla Società di mutuo soccorso fra operai e agricoltori, per il grande interesse verso l'industria del mobile che la società aveva.

Dal 1895 fino al 1925 la Società di mutuo soccorso e la Scuola vennero guidate da Rodolfo Fossati

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(che fu pure sindaco dal 1914 al 1920). Antonio Perego, di Seregno, fu il primo direttore e anche uno dei primi insegnanti.

La scuola aveva lezioni quotidiane dalle venti alle ventidue, da ottobre a giugno, e la durata dell'intero corso di formazione era variabile dai 5 ai 7 anni: a un corso comune preparatorio di due anni, seguiva un corso specializzato per falegnami ebanisti o intagliatori (3 anni), che poteva infine essere completato con un corso superiore facoltativo, biennale. Tra le materie insegnate vi erano la geometria e l'ornato: la scuola disponeva, come materiale didattico, di varie raccolte di riviste e di modelli. La Scuola era destinata inizialmente ai figli dei soci della Società di mutuo soccorso, e venne successivamente aperta a tutti gli abitanti del luogo e dei paesi limitrofi. Rimaneva comunque un elemento di discriminazione nella tassa d'iscrizione, per cui chi abitava in Lissone pagava 2 lire, e gli altri 5.

 

laboratorio-scuola-professionale-del-mobile.JPG

 

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Il sistema del lavoro a domicilio

23 Novembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Lissone dopo l'Unità d'Italia

Negli anni ’70 del XIX secolo, il comune di Lissone (come risulta dalle risposte ai questionari della Prefettura di Milano) «è per la maggior parte agricolo, l'industria sua è nell'arte del falegname de' mobili, e del tessitore di cotone. Lavorano tutti a casa propria. I tessitori sono quasi tutti donne circa 500, dagli anni 15 ai 45 dipendenti tutti dai negozianti di Monza. Il loro sviluppo fisico non è troppo florido, e nelle donne maritate scarseggia il latte pei loro bimbi, il loro guadagno è di una lira al giorno. I falegnami saranno 400 dagli anni 15 ai 50; mestiere più sano e più proficuo, il loro lavoro è dato parte ai negozianti di Lissone, e parte ai negozianti di Milano».

Questi dati potrebbero essere non completamente veritieri in quanto l’attività artigianale era principalmente svolta a domicilio (e successivamente in laboratori annessi alle abitazioni), generalmente a carattere familiare e talvolta come secondo lavoro (almeno per alcuni dei membri della famiglia). Inoltre, il fenomeno dell' occultamento volontario, per sfuggire agli obblighi fiscali, rendeva estremamente difficile avere una stima esatta delle dimensioni del settore.

E Don Ennio Bernasconi, nel suo Lissonum, sostiene che:

«in questo periodo di tempo Lissone subì la sua più importante trasformazione economico-sociale, passando da villaggio dedito all'agricoltura e tessitura casalinga a mano, a grosso centro dell'industria del mobile e del legno ... con carattere spiccato di industria a domicilio».

Il sistema del lavoro a domicilio incontrava tra gli operai larghissimo favore, anche per la libertà e l'indipendenza che lo caratterizzano.

ditta-Meroni-e-Fossati.jpg Viale della stazione

Tra le industrie lissonesi che principalmente incoraggiavano l’attività dell’artigiano a domicilio, figurava la ditta A. Meroni e R. Fossati: “riconosciuto in pratica che nella costruzione dei mobili il lavoro della macchina risulta quasi insignificante in confronto dell'opera fine ed accurata che può compiervi la mano dell'uomo, pensò di studiare uno speciale ordinamento del lavoro a domicilio e, istruiti a mezzo di buoni tecnici i falegnami già iniziati nell' arte, migliorandone i conoscimenti, ed allevatine altri secondo i precetti più idonei”, favorì il crescere di “numerosi laboratori tutti prosperi e promettenti”.

In un’inchiesta dell’Umanitaria del 1904 si dice: «L’”industria a domicilio” dei mobili consiste nella produzione a domicilio da parte dell’operaio per conto, non già del cliente, o del consumatore, ma di un imprenditore che ha una funzione precipuamente commerciale.

Il processo di formazione di ogni laboratorio domestico in Brianza è questo: un apprendista, appena si è specializzato, ed è diventato “capace” tecnicamente e finanziariamente, si stacca dalla famiglia o dal padrone e impianta bottega per proprio conto, assume a sua volta degli apprendisti e dei garzoni coi quali stringe contratti annuali, e si fa aiutare dalla moglie e, più tardi, dai figliuoli, ma lungi dal conservarsi un produttore indipendente, cade sotto il negoziante all’ingrosso o sotto l’incettatore di Milano per l’acquisto della materia prima e per la vendita del mobile compiuto o quasi. Solo i mobili scadenti che non hanno la più piccola pretesa artistica e i mobili perfetti, di un ordine artistico superiore, vengono venduti direttamente al cliente, così che, fino ad oggi, il solo operaio altamente specializzato, che è ebanista e intagliatore insieme, che dà all'opera propria un'impronta personale e artistica, si mantiene “artigiano” indipendente.

La produzione dei mobili è quasi totalmente esercitata a domicilio. Ogni famiglia ha il proprio laboratorio - che serve spesso anche da cucina - nel quale lavorano i componenti la famiglia stessa sussidiati molto spesso da salariati di varie categorie. I locali che servono da abitazione e da laboratorio sono quasi sempre a piano terreno e, fatta eccezione per le case costruite da poco, lasciano molto a desiderare dal lato della comodità e dell'igiene. La loro cubatura è generalmente sproporzionata alle persone che vi si accasano. Spesso i pavimenti sono logorati, umidicci, ed alcune volte mancano o sono rimpiazzati da un grossolano acciottolato».

 1916 bottega artigiana

 La carriera del falegname cominciava attorno ai 10-11 anni, come garzone (era usanza che le famiglie dello stesso paese si scambiassero i figli per iniziarli al lavoro); il gradino successivo era quello di apprendista, mentre una volta raggiunta l'indipendenza professionale il falegname si staccava dalla famiglia o dal padrone per impiantare una propria bottega; l'ambizione ad impiantare il più presto possibile un proprio laboratorio determinava la creazione di un numero elevatissimo di unità produttive di dimensioni molto limitate.

In genere, negli stabilimenti dei commercianti veniva concentrata la manodopera più qualificata, per le fasi finali di montaggio e rifinitura dei prodotti.

cartoline dell’Archivio fotografico della Biblioteca civica di Lissone

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Il primo sciopero di lissonesi dall’Unità d’Italia

23 Novembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Lissone dopo l'Unità d'Italia

«1885 il mese di luglio fatto il sciopero di questa convenzione fra noi paesani di andar più a giornata al padrone perché non si può vivere ... »

dal manifesto affisso in piazza Garibaldi da contadini sconosciuti, rimosso la mattina del 13 luglio 1885 dai regi carabinieri di Lissone.

 

L'esasperazione dei contadini ebbe modo di manifestarsi quando, nell'ultimo ventennio del secolo, il quadro dell'economia brianzola fu sconvolto dalla crisi agraria internazionale. La messa a coltura di vastissime aree di terreno vergine negli Stati Uniti d'America innalzò bruscamente la produzione mondiale dei cereali, determinandone il crollo dei prezzi sui mercati internazionali. Lo stesso fenomeno si aveva per i bozzoli, causa la crescente produzione asiatica, in particolar modo giapponese.

I proprietari terrieri reagirono all'andamento sfavorevole del mercato sul governo per ottenere l'adozione di rigide misure protezionistiche e contemporaneamente imponendo ai coloni l'aumento del fitto a grano, l'incremento del numero delle giornate d'obbligo, l'appesantimento degli «appendizi». (Il termine «appendizi» deriva dalla consuetudine padronale di porre questi obblighi come appendici al contratto. In definitiva si trattava di tributi annui in uova, polli, capponi e in una quota di giornate lavorative non retribuite. Se i coloni possedevano animali da tiro erano obbligati a prestare anche servizio di «vettura» o «carratura» per i proprietari terrieri).

La conseguenza più diretta delle peggiorate condizioni produttive fu l'aggravarsi delle condizioni di vita delle masse rurali, alle quali si aggiunsero le nuove richieste padronali, tra cui l'aumento delle giornate che obbligatoriamente il contadino doveva garantire al proprietario in cambio, peraltro, di una paga inferiore a quella stabilita dal mercato. I contadini, inoltre, erano costretti a sostenere le spese per la coltivazione del fondo, mentre le imposte fondiarie venivano divise a metà.

Le condizioni dei contadini erano, perciò, diventate insostenibili.

I coloni, ridotti allo stremo dai ribassi dei prezzi, non potevano permettere che il padronato agrario scaricasse su di loro l'intero costo della grave crisi. Nell'estate del 1885, la situazione sfociò in agitazioni che ponevano sotto accusa i contratti colonici.

Verso la fine di giugno del 1885, a Vimercate, alcuni coloni si opposero alle pretese padronali con uno sciopero, che in pochi giorni dilagò in tutta la Brianza. Era la prima grande agitazione contadina dopo l'Unità d’Italia.

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Si era proprio nel bel mezzo della stagione dei raccolti e del pagamento del fitto a grano. I coloni chiedevano la riduzione del fitto e del canone per l'abitazione, l’abolizione definitiva degli «appendizi», l'aumento del salario per le giornate obbligatorie.

cascina brianzola

Dal vimercatese le agitazioni dilagarono a macchia d'olio in tutta la Brianza raggiungendo anche il mandamento di Monza e quindi Lissone.

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Lo sciopero lissonese del 1885, il primo dall'Unità d'Italia, non fu un fatto marginale nel panorama cittadino e tanto meno un semplice riflesso ad agitazioni che si diffusero in tutto il territorio brianzolo. Lo sciopero non fu organizzato dai movimenti socialisti, che invece dirigevano le agitazioni in molti dei comuni brianzoli; fu più che altro una contestazione spontanea, concepita sull'esempio dei comuni vicini. Tuttavia venne guardato con occhio benevolo dal clero locale, sensibile alle condizioni dei coloni.

In piazza Garibaldi, la mattina del 13 luglio, i carabinieri rimossero un manifesto diretto ai contadini affinché aderissero allo sciopero, minacciando rappresaglie per tutti coloro che non avessero condiviso la contestazione.

I toni accesi della parte introduttiva del manifesto evidenziavano il timore di un possibile sfaldamento della protesta:

«Il primo che va a giornata domani mattina sarà strugiata (distrutta, n.d.r.) la campagna e guardi bene cosa fa».

Il manifesto proseguiva, facendo appello alla comune situazione dei coloni e rnvitandoli al rifiuto delle giornate d'obbligo: «1885 il mese di luglio fatto il sciopero di questa convenzione fra noi paesani di andar più a giornata al padrone perché non si può vivere ... »

 

attrezzi agric inizi 1900  strumenti-agric-1900.jpg

  

Bibliografia:

E. Diligenti e A. Pozzi, La Brianza in un secolo di storia d'Italia (1848-1945), Milano, Teti Editore, 1980

F. Della Peruta, Il movimento contadino nell' alto Milanese (1885-1889)

Appunti di storia locale di Samuele Tieghi

Documentazione varia, in Archivio comunale di Lissone

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Le abitazioni di Lissone nella seconda metà dell’Ottocento

23 Novembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Lissone dopo l'Unità d'Italia

Le corti

La parte più antica del borgo di Lissone era costituita quasi prevalentemente da corti coloniche. La maggior parte degli edifici era di vecchia fabbricazione.

Curt-del-Pinot.jpg la-curt-del-Guast.JPG

Questi fabbricati erano abitualmente destinati ai contadini, anche se nel corso dell'Ottocento vi fecero la loro comparsa in numero crescente i falegnami.

La corte era formata da una serie di costruzioni concentrate attorno ad un cortile interno (court), spesso chiuso che comunicava con le vie del paese tramite un portone.

curt-di-Pagan.jpg La-court-del-Gabela.jpg

 

Alcuni nomi di corti esistenti anche nei primi anni del Novecento: la “court di Pagan”, nell’attuale piazza Libertà, a forma quadrangolare, abitata dalla famiglia Pagani; la “court di Monguz e Arienti” nell’attuale piazza Italia; in via Loreto la “court di Puz e dei Birè”.

Il cortile era in terra battuta o acciottolato spesso attraversato da acque malsane. Le abitazioni erano generalmente di un piano oltre quello terreno. Le stalle e gli altri edifici sussidiari, il cosiddetto rustico solitamente confinava con le abitazioni.

Al pianterreno si trovavano le cucine che davano direttamente sul cortile, gli unici locali provvisti di camini.

Al primo piano vi erano le camere da letto che servivano contemporaneamente come deposito per le granaglie.

Sopra le stalle, con bovini e in qualche caso equini e maiali, vi erano i fienili.

Gli edifici «ausiliari» erano coperti da un tetto molto sporgente che fungeva da portico per gli attrezzi e i carri.

la-court-del-Pagan.jpg La-court-da-la-Lega.jpg

Nei pressi delle stalle si trovava la latrina con il suo pozzo nero in cui confluivano i liquami del bestiame. In qualche caso, in un angolo del cortile vi erano i letamai.

Quasi sempre presenti erano i pollai.

Le case erano abitate da famiglie spesso numerose i cui membri dormivano in stanze mal aerate e frequentemente in numero superiore alla capienza del locale, rendendo l'aria irrespirabile. L’illuminazione era affidata raramente al petrolio e al gas acetilene.

Nella seconda metà dell’Ottocento gli edifici colonici subirono una riduzione degli ambienti rustici per ottenere spazi abitativi destinati alla crescente popolazione operaia e alla realizzazione di laboratori artigianali.

Il primo regolamento di polizia urbana redatto a Lissone nel marzo del 1874 stabiliva che, prima di iniziare la costruzione di nuovi edifici, occorreva presentare un progetto all’Autorità comunale.

Un regolamento sulla salubrità delle abitazioni e degli edifici pubblici ci dà un’idea delle precarie condizioni igieniche dei vani abitativi, spesso causa del diffondersi di malattie quali il colera. Spesso le esalazioni nocive erano generate dalla mancanza di latrine, che erano quasi sempre sottodimensionate rispetto al bisogno dei numerosi inquilini soprattutto delle case di corte.

La-court-di-sfrata.jpg 

Mancava a Lissone una rete fognaria, la cui costruzione sarà iniziata solamente nel 1926. Le acque putride frequentemente si infiltravano nei pozzi d'acqua potabile con il conseguente diffondersi di epidemie. Le acque dei pozzi, spesso scoperti, erano contaminate dalla sporcizia che vi penetrava facilmente.

Tra le malattie che assillarono la popolazione lissonese dopo l’Unità d’Italia vi fu il vaiolo, nel triennio 1871-73, che provocò ben 17 morti e che si ripresentò nel 1887-88.  Anche casi di colera si manifestarono negli anni 1866-1867 e nel 1884; questa epidemia viene segnalata a Lissone anche negli anni antecedenti l’Unità d’Italia e precisamente nel 1836, nel 1854-55 e nel 1860.

Poche le ville e palazzi in cui abitavano le famiglie più benestanti del paese.

Tra queste si ricordano: il palazzo dei conti San Martino e Rocca che occupava quasi tutta la via S. Antonio e parte della via San Carlo, il Palazzo Magatti, divenuto dal 1910 il nuovo municipio,

Villa-Magatti.jpg

la villa del benefattore Mauro Riva, villa Mussi in piazza della Libertà, villa Spaziani Carabelli posta immediatamente dopo il ponte della stazione sulla via per Muggiò, villa Gatti Massimiliano, anch'essa nei pressi della stazione ferroviaria, e villa Reati (ex Baldironi) ubicata in via Fiume.

 

Com’era la situazione nelle altri parti d’Italia?

Una grande indagine parlamentare sulla condizione del mondo agrario italiano, nota come «Inchiesta Jacini» dal nome di Stefano Jacini, a lungo ministro dei Lavori Pubblici, fotografa l'Italia povera, lacera e macilenta della seconda metà del Diciannovesimo secolo.

Nell'anno in cui inizia la pubblicazione del rapporto, il 1880, il mondo moderno è lanciatissimo. L'Europa è passata in quarant'anni da 1700 a 101.700 miglia di binari ferroviari, vale a dire da 2735 a 163.635 chilometri. È appena stata accesa la prima lampadina elettrica ideata da Thomas Edison a New York nel 1879, da 24 il telefono di Antonio Meucci e il primo ascensore in un grande magazzino di New York, da 26 il motore a scoppio, da 29 le rotative per la stampa dei quotidiani e il telegrafo sottomarino che collegava la Francia e la Gran Bretagna.

Eppure, mentre a Chicago è già stato costruito il primo grattacielo ed è partita la sfida a chi farà svettare quello più alto, le condizioni abitative degli italiani, nelle relazioni dei commissari della «Jacini», appaiono spesso medievali.

In Sicilia, «tra le tante cause della decadenza morale del contadino siciliano [c'è] la malsania e la ristrettezza delle abitazioni, ove in una medesima stanza o stamberga convivono persone d'ambo i sessi e di diverse età, sdraiati talvolta, per mancanza di letto, sulla paglia (padre, madre, figlie e figli, cognati, fanciulli) in compagnia del maiale o di altre bestie, in mezzo al sudiciume e al lezzo, ed in quella compiono ogni operazione della natura».

In provincia di Catanzaro, scrive il deputato e medico Mario Panizza, «i concimi si conservano nelle stalle; e se il bestiame, come accade, sta all'aperto, vengono accumulati lì presso; il concime si vede anche accumulato nelle camere da letto, se queste sono al pianterreno, o nella pubblica via. Le case, in generale, sono umide, luride, affumicate, pericolanti, spesso senza im­poste e senza soffitto. Non esiste nettezza pubblica; lo stato dei paesi muove ribrezzo». Né le cose vanno diversamente risalendo la penisola fino a quella che diventerà la dolce, linda e civilissima Umbria: «Nella provincia di Perugia se le condizioni igieniche delle case coloniche e loro adiacenze fossero meglio curate, non si lamenterebbero alcune malattie. Le coliche, le dissenterie, i reumatismi, le pleuro-polmoniti e la tifoidea sono le malattie ordinarie e prevalenti [...] Il concime si gitta in un canto addossato alla rinfusa ad una parete della casa colonica sotto la gronda dei tetti». Più a nord ancora, nelle terre di Parma, «i cessi mancano in tutta la provincia, salvo qualche eccezione. Le stalle ed i magazzini fanno corpo colla casa colonica, e comunicano direttamente, o, alcuna volta, per mezzo di un androne aperto. I concimi, dopo essere stati qualche giorno nelle stalle, si ripongono nei cortili o in vicinanza della casa. La nettezza interna è del tutto negletta; le case hanno poca luce, e non avrebbero aria, se non la ricevessero dalle pareti mal connesse e cadenti; talvolta di giorno il medico è costretto a visitare gl'infermi col lume. Non è punto curata anche la nettezza dei villaggi, massime di quelli posti sulle montagne, dove si lascia fermentare nelle pubbliche vie ogni specie d'immondizie».

Non c'è una regione dell'Italia, neppure una, dove il rapporto parlamentare possa segnalare un quadro abitativo soddisfacente.

L'«Inchiesta Jacini» riporta: «La stalla è la parte principale della casa del contadino, è ad un tempo il luogo del bestiame, il salone e il santuario della famiglia. È nella stalla che si passano i lunghi inverni; è là che la padrona di casa riceve parenti e amici; là la famiglia lavora, si ricrea, mangia e dorme. Intanto che le donne cuciono, rappezzano o filano, gli uomini giuocano alle carte o se la passano discorrendo [...] Le stalle o la camera dove dimora la famiglia sono riscaldate con delle stufe di ferro fuso o di pietra; la loro apertura per fortuna è nella camera stessa e serve a rinnovare l'aria. Si ha la cattiva abitudine di riscaldare troppo, onde esiste sovente fra la temperatura esterna e quella della camera riscaldata una differenza di 20 o 30 gradi. Questo contrasto di temperatura, aggiunto alla mancanza di aperture, che impedisce l'azione della luce e il rinnovamento dell'aria, produce frequentemente delle bronchiti, o polmoniti, o reumatismi» .

Dove portasse tutta quella miseria e quella sventurata estraneità a ogni cultura igienica da parte dei nostri nonni, lo si capisce dalle statistiche. Come quella sulle cause di morte nel 1887, il primo anno in cui si cominciò a tener nota di alcuni dati. Dai quali emerge che a uccidere gli italiani, in dodici casi sui primi sedici della classifica, erano soprattutto le infezioni. Con in testa la «malattia delle mani sporche», cioè la gastroenterite, seguita dalle malattie polmonari.

Racconta Eugenia Tognotti ne Il mostro asiatico: storia del colera in Italia che, nonostante l'eziologia del «male blu», chiamato così perché si lasciava dietro corpi rinsecchiti e bluastri, e i suoi modi di trasmissione fossero «ben chiari anche al più oscuro medico di villaggio» e così «le raccomandazioni per la bollitura dell'acqua e del latte», l'ignoranza collettiva intorno al ruolo della sporcizia nello spartiacque tra la vita e la morte, era tale che «i giornali ospitavano annunci pubblicitari di anticolerici come l'estratto di assenzio, l'acqua di Orezza (Corsica), "minerale, ferruginosa, acidula, gazosa e senza rivale"; o, ancora, la "menta di Ricqlès" di cui si vantavano i successi a Marsiglia e a Tolone».

E se questa era la cultura della classe media che leggeva i giornali, è facile immaginare cosa dovesse pensare la plebe analfabeta.

Certo, se ci fosse stato un generoso investimento sulla prevenzione, l'istruzione, la scuola, le cose sarebbero andate diversamente. Ma il governo italiano, al di là delle fiammeggianti battaglie di qualche illuminato, non pareva interessato al tema. Lo dice il vertiginoso ricambio di ministri (33 dall'Unità al 1901) della Pubblica Istruzione. Lo dicono le statistiche di Ernesto Nathan, mazziniano, economista, sociologo, appassionato di numeri e percentuali, secondo il quale l'Italia, che impiegava in spese militari oltre un quinto del suo bilancio, dedicava alla formazione culturale dei suoi cittadini il 2,7 per cento contro il 4,4 della Spagna, il 6,6 della Francia, il 7,5 della Baviera o il 10 abbondante della Gran Bretagna.

Ottomila morti contò Napoli, nell' epidemia di colera del 1884.

Era una strage, ogni volta che partiva un'epidemia di colera. Quasi 34 mila furono i morti, nei 4 anni dall'84 all'87.

 

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Documento del 12 marzo 1848 in cui il medico condotto segnala un caso di vaiolo di un lavoratore (Giuseppe Parravicini Parmigiano) addetto alla costruzione della linea ferroviaria Milano Como nel tratto interessante il Comune di Lissone. Il medico dichiara “di non poter praticare i soliti sulfamigi come si usa in simili circostanze, perché l’ammalato dorme all’aria libera su di un cassinaggio, ove le disinfestazioni sono affatto inutili. Le lavature pure non si possono praticare, poiché l’ammalato è privo di ogni supelletile”.

 

Bibliografia:

Gian Antonio Stella ODISSEE – Italiani sulle rotte del sogno e del dolore Edizioni Corriere della Sera 2004

 

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Le condizioni materiali di vita dei lissonesi dopo l’Unità d’Italia

23 Novembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Lissone dopo l'Unità d'Italia

La vita materiale degli abitanti di Lissone era spesso ostacolata dalle pessime condizioni igienico sanitarie. In un altro articolo si è già fatto riferimento alle condizioni delle abitazioni alla fine dell’Ottocento, sottolineando lo stato di degrado di buona parte di esse. In realtà, la precaria situazione sanitaria, a cui si deve aggiungere l'alimentazione scadente, mutò solo in parte durante la prima metà del Novecento.

Sin dagli ultimi decenni dell'Ottocento le autorità erano intervenute per arginare il diffondersi di malattie quali la pellagra, il tifo e il colera, definendo una serie di norme inequivocabili per la salvaguardia della salute pubblica. Nel 1884 una sottocommissione prefettizia incaricata di svolgere una serie di studi sulla pellagra venne a Lissone, dove ebbe modo di osservare lo stato allarmante in cui versava la pubblica igiene in quasi tutto il territorio comunale.

Venne osservata, innanzitutto, la presenza negli opifici di fanciulli al di sotto dei dieci anni, che lavoravano come operai con grave danno per la loro salute. Il fenomeno del lavoro minorile, diffusissimo in quei centri che andavano industrializzandosi, determinava spesso l'aggravarsi di situazioni sanitarie, favorendo le occasioni per il contagio di malattie quali la tubercolosi e di altre patologie infettive.

Sulla presenza della tubercolosi a Lissone nei primi anni del Novecento è indicativa la testimonianza del Regio commissario Giovanni Nota che così commentava la situazione: «Altre malattie, pur esse gravissime, ma meno impetuose e più lentamente diffusive, come ad esempio la tubercolosi polmonare, serpeggiano del pari e sfuggono più di quelle alle misure di cautela e di difesa che contro di essa devono essere apposte. Ora, essendo in questa, come in tante altre cose, più facile il prevenire che il reprimere, è da porre maggior impegno per il risanamento delle abitazioni, esigendo severa pulitura e conveniente selciatura di tutti i cortili, la costruzione di adatte fosse o vasche di smaltimento delle acque pluviali e soppressione della più parte delle attuali latrine, veri centri e fonti permanentemente di infezione, e la costruzione di altre meglio rispondenti alle imprescindibili necessità igieniche. Facendo in questo modo e vigilando assiduamente e rigorosamente affinché la pulizia sia mantenuta, si potrà conseguire un soddisfacente successo». Relazione del Regio commissario Giovanni Nota al ricostituito Consiglio comunale di Lissone nella seduta del 6 dicembre 1908, ACL, b. 289, f. 4

La court di sfrata

Inoltre i ragazzi erano sottoposti a lunghi orari lavorativi, ulteriore aggravante che finiva col minare le già precarie condizioni di salute.

Alle precarie condizioni dei fanciulli che lavoravano nei laboratori o nelle fabbriche, si aggiungevano, come persone facilmente soggette al contagio delle malattie infettive anche le donne, in particolar modo le donne incinte che lavoravano nelle fabbriche dedite alla tessitura, le quali frequentemente lavoravano anche fino agli ultimi giorni prima del parto.

Le operaie lissonesi impegnate nel ramo tessile erano numerose, si pensi che solo nel 1894 la ditta Pessina annoverava 62 operai e ben 485 operaie lissonesi.

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La relazione della commissione d'indagine sottolineava anche la disdicevole abitudine dei contadini lissonesi di tenere il granturco nelle stanze da letto. La mancanza di granai costringeva i contadini a conservare il mais direttamente nelle stanze delle abitazioni. Generalmente, veniva appeso a poco a poco secondo necessità. Al problema della conservazione del mais in casa, si aggiungeva la questione della cottura del pane, genere d'alimento tanto necessario per le classi povere, che veniva preparato senza le adeguate precauzioni ed era «voluminoso, poco cotto e senza sale». La pasta per il pane era nella maggioranza dei casi preparata direttamente in casa; si trattava per lo più di grosse pagnotte da un chilo e mezzo sino a cinque chili. La cottura poteva venire ordinata direttamente ai fornai del paese o, per quanto riguarda le famiglie contadine, essere effettuata utilizzando il forno rurale, messo a disposizione, non sempre gratuitamente, dai proprietari delle cascine o delle corti.

La sottocommissione si soffermò parecchio a lamentare le già osservate condizioni di degrado di molte abitazioni lissonesi, sottolineando che: «le case coloniche sono insufficienti al bisogno degli abitanti, sono poco pulite, mancano di latrine e nei cortili contengono liquami che mandano esalazioni mefitiche».

la curt del Guast  La court del Gabela

I problemi igienico-alimentari denunciati dalla commissione prefettizia non furono tuttavia risolti per diversi decenni.

Qualche provvedimento per la tutela dell'igiene venne comunque preso. Nel 1895, ad esempio, il territorio comunale venne diviso in due condotte mediche in previsione di affiancare un collega all'unico medico condotto. Tuttavia la seconda condotta venne istituita ufficialmente solo nell’ottobre del 1900 e i lissonesi dovettero aspettare sino al 1902 per poter usufruire del secondo medico.

Tra le malattie che assillarono la popolazione lissonese verso la fine dell’Ottocento si segnala la diffusione nel 1887-88 del vaiolo (presente a Lissone già nel triennio 1871-73 con ben 17 morti), il colera che tormentò i lissonesi nel corso di buona parte dell'Ottocento (1836, 1854, 1855, 1860, 1866-67, 1884) e che solamente nel 1910 vide la sua diffusione contrastata dal miglioramento di alcuni servizi come la costruzione dell'acquedotto, nonché dalla febbrile attività degli amministratori comunali per la divulgazione popolare della profilassi.

 

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Lissone, l'Adalgisa e «la stansa de Lissòn»

23 Novembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Lissone dopo l'Unità d'Italia

Già dall'inchiesta dell'Umanitaria, condotta agli inizi del XX secolo sull’industria brianzola dei mobili, risulta evidente la posizione rilevante di Lissone nel settore mobiliero. Ed è significativo che mentre la maggior parte dei paesi della Brianza erano e sono rinomati chi per le belle ville, chi per avere dato i natali a qualche uomo illustre, chi per la bellezza del panorama, Lissone era nota per l'industriosità dei suoi abitanti. Ce lo testimonia anche Cesare Cantù in «Milano e il suo territorio» quando, parlando di Lissone, la definisce «Industriosa terra, i cui abitanti hanno grido nell'arte del falegname e dell'intarsiatore».

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Ma la fama di Lissone ce l'ha confermata persino Carlo Emilio Gadda, scrittore attento a queste cose, puntiglioso nelle ricerche d'archivio per costruire personaggi minuziosamente e collocarli con precisione nel loro tempo: la «sua» Adalgisa, nel 1913, non compra una «camera da letto» ma «la stansa de Lissòn».

 

L Adalgisa

Ma vale la pena di riportare la pagina intera:

«Ebbe (l'Adalgisa n.d.r.), insomma, un'adolescenza e una giovinezza illibata: fino al povero Carlo. 'Seppe capire' il Carlo. Lo 'apprezzò', lo 'intuì', lo 'studiò': e lo capì così a fondo, che certe volte, se glielo avessero dimandato là per là, sui due piedi, tra il ferro caldo e la salsa d'amido, non avrebbe saputo dire nemmen lei che cos'era: se un ragioniere o un mineralogista, o piuttosto anzi un filatelico, un entomologo (ma questo assai più tardi): o un valoroso, un reduce dalla Libia. O un minchione. 'On bel mincionòn d'ora, con du oècc, cont on par de barbìs .. .'. Seppe amare il Carlo anche prima del sindaco: ma solo per facilitare il sindaco. I sindaci dell'epoca demoliberale, è noto, certe volte erano un po' duri d'orecchio: avevano bisogno anche loro d'un qualche incoraggiamento, poveri asini, per decidersi a inalberare la sciarpa, se non prorpio ad offrire la penna.

Così, non sempre, ma di quando in quando, accadeva pure che le spose dopo un cinque mesi dall'asperges ti sfornavano magari un settimino: che tutti però, lì per lì, lo avrebbero detto di nove. 'Quattro chili e mezzo! 'significava la bilancia, senza pronunziar parole. E come settimino di cinque mesi, date retta, poteva anche passare.

Per lei ci fu un anno, il 1913, se ben ricordo, o forse il '14 - se ben connetto i millesimi in aristoteloide unità - ci fu un estate bruciata che il nostro sindaco aveva proprio l'aria di voler ciurlare nel manico, da quell'insigne menatorrone che era: e anche 'la stansa de Lissòn', già comandata, sembrava languire in fabbrica: o addirittura languirne il modello nel magazzino delle Idee, come una pura Idea-Stanza.

Ma lei, l'Adalgisa, 'seppe perseverare nel suo affetto'. Impavida».

In «una relazione del cancelliere del censo del distretto tredicesimo al prefetto del dipartimento dell'Olona in data 12 novembre 1804 «si rileva che "la sola comune di Lissone ha n° 44 Famiglie che eserciscono l'arte di Falegname, le quali travagliano in fabbricare mobili vendibili, ed eccone le indicazioni. 1. Li legnami occorrenti sono provveduti in questo Dipartimento. 2. Il valore delle opere ridotte in merci non si può individuare, e tali manifatture si smerciscono nell'interno. 3. n° 68 persone sono verisimilmente occupate nelle Manifatture. 4. Si servono dei soli istromenti da falegname. 5. Dal 1769 in avanti tale manifattura si è accresciuta”».

Scrive Don Bernasconi:

 

copertina Lissonum

«Lissone è ormai diventato il maggior centro non solo di Lombardia, ma d'Italia dell'industria e del commercio del mobilio; ad esso affluiscono giornalmente operai a centinaia dai paesi vicini a cercarvi lavoro; ad esso si indirizzano anche i fabbricatori di Milano e della Brianza, ed i compratori di tutta Italia. Le sue numerosissime Ditte commerciali, (memorabili per importanza ed anzianità la Soc. A. Ferdinando Paleari e Figli e la Soc. A. A. Meroni e R. Fossati)

1890 mobilificio Paleari ditta Meroni e Fossati

che raccolgono il mobile dalle botteghe private od hanno annesso un opificio, tengono ormai aperti negozi, depositi, rappresentanze in tutte le città e grossi centri d'Italia, e si affermano con successo nelle Esposizioni, Fiere Campionarie, Mostre e simili. Già due volte si tenne in paese, con esito felice, una grandiosa Esposizione Biennale dei Mobili della Brianza, con un concorso largo di espositori ed acquirenti. E dal 1921 è aperto un Mercato dei mobili (un palazzo appositamente eretto) per mettere in diretto contatto produttore e compratore. Il progresso della meccanica italiana ha sviluppato anche le macchine per la lavorazione del legno (seghe, piallatrici, ecc.,) le quali hanno sostituito il pesante lavoro manuale del segantino, con enorme vantaggio nella rapidità della produzione, e ormai dagli stabilimenti e dalle segherie pubbliche vanno passando anche nelle modeste botteghe».

Prendiamo ora in esame la situazione di Lissone in campo economico all'inizio del '900 seguendo le indicazioni di Diligenti e Pozzi.

Nel 1911 «Lissone, registrava 10.654 abitanti. Qui, oltre alle già fiorenti attività mobiliere, si stava sviluppando un altro ramo dell'industria, completamente nuovo, quello della lavorazione meccanica del legno. La prima trancia a piatto, interamente in legno ma con un coltello di ferro lungo circa un metro, venne realizzata dai fratelli Mussi addirittura nel 1880. I primi fogli di tranciato furono ricavati da una radica di noce. Ma quella invenzione non ebbe successo anche perchè i mobilifici non erano ancora in grado di adeguare i loro processi produttivi a quella innovazione tecnologica che apriva una serie di problemi sia mercantili sia nella tecnica costruttiva e quindi nelle attrezzature. La stessa arretratezza dell'industria meccanica rendeva molto problematico il perfezionamento di quella prima trancia rudimentale. Occorreranno ancora una ventina d'anni di ricerche e sperimentazioni per arrivare ad applicazioni di macchine collaudate nella lavorazione del legno. Comunque, nel 1907 i progressi fatti anche in questo campo permettono a Carlo De Capitani di promuovere la costituzione della società italo-lettone Luterna a sostegno della prima fabbrica italiana di compensati, che non aveva vita facile poiché il mercato mobiliero stentava ad assorbire un prodotto che non fosse tutto di legno massiccio. Ma ormai i tempi sono maturi anche per la lavorazione meccanica del legno: l'espansione industriale proseguirà ininterrottamente anche in questo comparto. Nel 1910 sorgeranno la Sapeli, un'altra fabbrica di compensato e aziende che installano sia refendini francesi Guillet per ridurre i tronchi in tavolame, sia serie di macchine per la costruzione di mobili (seghe a nastro, piallatrici, trapani e torni), aziende queste ultime che lavoreranno per terzi, cioè per gli artigiani. A Lissone vengono ancora ricordati gli impianti meccanizzati dei Casati, di Meroni (detto Zot), di Schiantarelli (detto Roc). Nel 1916 la Sapeli installerà una sfogliatrice americana Merit che le permetterà di far fronte all'accresciuta richiesta di compensato, in particolare per uso aeronautico. Fabbriche di compensato, trance e segherie in quegli anni sorgeranno anche a Meda, Seregno, Desio, Seveso e Cesano Maderno.

«Ma la più grande fabbrica di compensati e tranciati d'Italia sarà realizzata, ancora a Lissone, dopo la prima guerra mondiale, esattamente nel 1920: si chiamerà Incisa e arriverà a dare lavoro a oltre mille dipendenti e a trasformare giornalmente 1750 quintali di tronchi in 70 metri cubi di compensato».

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Nel censimento industriale del 1911 Lissone è uno dei comuni con più di mille occupati in campo industriale. Durante il conflitto del '15-'18 «anche la lavorazione del legno, particolarmente impegnata nelle commesse militari a Lissone, Meda, Seveso e Cabiate, non sfuggiva alla regola» del parassitismo che caratterizzava le attività produttive dell'epoca. «In quel periodo sorgevano la lega cattolica dei tessili a Muggiò e quella dei mobilieri a Lissone. A Lissone inoltre, per iniziativa di Grandi, veniva creata la Cooperativa di lavoro e di produzione fra falegnami e affini. La nuova associazione però era destinata ad avere una vita stentata, anche perchè nei centri mobilieri il reclutamento per la produzione bellica soffocava ogni altra attività.

Si tenga presente che migliaia di operai brianzoli furono avviati al lavoro in stabilimenti ausiliari». «Il dopoguerra fu anche un periodo felice per i centri mobilieri: stava fiorendo l'industria del compensato, del tranciato, degli specchi, degli accessori in metallo, dei marmi e delle vernici; si profilava già una ripresa del turismo, favorita dalla promozione sociale di nuovi ceti, che avrebbe stimolato lo sviluppo alberghiero e quindi il mercato di prodotti per l'arredamento; brianzoli avventurosi in numero sempre più crescente esploravano paesi e foreste in tutti i continenti alla ricerca di tronchi e di nuove essenze di legno per arricchire la produzione mobiliera, alimentare l'industria dei tranciati e dei compensati: tutti i fenomeni in atto aprivano prospettive di espansione.

 

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Un pioniere lissonese, Carlo De Capitani, già fondatore di una delle prime fabbriche di compensato, la Luterna, è già in Africa nel 1921 (secondo notizie raccolte negli archivi di vecchie aziende, l'inizio delle ricerche per l'importazione di legname in Brianza, potrebbe essere così datato: 1924 in Brasile e nel Venezuela; 1926-27 nell'Unione Sovietica, in Romania e Bulgaria; 1932-34 in India, Canada, altri paesi dell'America Latina, Afghanistan, Persia, Turchia e Jugoslavia); nel '26 le 'camerette brianzole' arrivano sul mercato inglese dando vita a fiorenti scambi che cesseranno nel '31, dopo il tracollo della sterlina e la conseguente istituzione di un dazio protettivo del 30%; dal '27 i mobilieri esportano anche nell' America del Nord e nel Sudafrica».

1920 De Capitani fiera

 

Bibliografia:

AA. VV. Le affinità elettive – La Brianza e Lissone – Studi e ricerche nell’area del mobile Arti Grafiche Meroni Lissone 1985

Affinità Elettive 

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