Il contributo delle Forze Armate regolari nella Resistenza e nella Guerra di liberazione
Dalla conversazione di LEANDRO GIACCONE, tenuta il 24 gennaio 1975 nell'Aula magna dell'Università Cattolica di Milano
Il 10 giugno 1940, anche se l'esercito francese si era dissolto come nebbia al sole, le autorità militari italiane rimasero assolutamente contrarie al nostro intervento nel conflitto. Per tenere la Libia avremmo dovuto conquistare il dominio, aeronavale del Mediterraneo, e per tenere l'Africa Orientale avremmo dovuto conquistare l'Egitto. Non eravamo in grado di affrontare con logiche probabilità di successo né l’uno né l'altro compito, perché il nostro potenziale aeronavale e - mezzi e basi - era nettamente inferiore a quello del nemico, e né in Italia né in Africa avevamo moderne unità corazzate.
Mussolini conosceva benissimo il pensiero e le ragioni dei militari, ma dichiarò egualmente la guerra, convinto che l’Inghilterra fosse sul punto di chiedere anch'essa la pace subito dopo la Francia. Ma ciò non accadde e le ostilità proseguirono. Le Forze Armate, il popolo italiano seguitarono a combattere per quaranta mesi quella guerra che era stata intrapresa dai responsabili politici, dal regime fascista, nella sciagurata certezza che dovesse concludersi in pochi giorni.
Nel 1941, entrati nel conflitto gli Stati Uniti, la vittoria tedesca era ancora possibile: dipendeva dalla eventualità di una richiesta di pace da parte della Russia. Alla fine del 1942 il crollo della Russia non era più credibile, il potenziale bellico degli Alleati cresceva ogni giorno, mentre ogni giorno diminuiva quello dell'Asse; in Estremo Oriente il Giappone aveva perso l'iniziativa senza speranza di poterla recuperare. La guerra scatenata da Hitler era irrimediabilmente perduta.
Spettava ai politici dell'Asse trarre le conclusioni, e chiedere la pace nell'interesse dei popoli di cui reggevano le sorti. Ma l'unico responsabile della politica tedesca, Hitler, e l'unico responsabile della politica italiana, Mussolini, non vollero accettare la dura realtà della sconfitta: loro sopravvivenza politica diventava incompatibile con il bene supremo dei due paesi.
Le masse popolari avevano sensazione istintiva che la guerra fosse ormai perduta e desideravano solamente la pace; ma non potevano far valere le loro istanze, perché le organizzazioni di massa facevano tutte capo ai gerarchi del Partito Unico.
Per cessare la guerra bisognava liquidare i due regimi e la difficoltà maggiore non era l'estromissione di Mussolini o l'eliminazione di Hitler con un attentato, ma la possibilità di neutralizzare istantaneamente tutti i reparti della Milizia fascista in Italia, tutti i reparti delle SS in Germania: solo gli eserciti regolari potevano tanto.
Il 25 luglio, appena caduto Mussolini, Hitler dette immediata esecuzione al piano già preordinato per neutralizzare le conseguenze strategiche di una nostra possibile pace separata. Oltre alle otto divisioni tedesche già in Italia, la notte del 26 cominciarono ad affluire un’altra diecina, tante quante furono giudicate sufficienti a neutralizzare istantaneamente le forze italiane dislocate nella Penisola. Così le nostre Autorità politiche e militari tra il 25 luglio e l'8 settembre agirono sapendo che l'alleato da cui si stavano dissociando era di fatto padrone della situazione.
Quando gli Alleati proclamarono al mondo l’avvenuto armistizio, l'Alto Comando fu in grado di impartire ordini operativi di reale consistenza solo alle forze capaci di movimento autonomo: la Marina e l'Aeronautica. Che ubbidirono raggiungendo Malta e gli aeroporti dell'Italia liberata. Per le forze terrestri le possibilità strategiche erano pressoché nulle; ai vertici della gerarchia non vi erano personalità di eccezione capaci di affrontare il disastro incombente, e l'esercito si dissolse.
Solo a livello dei minori reparti, eccezionalmente di Divisione, si verificarono ovunque resistenze cruente contro i tedeschi che procedevano al nostro disarmo. Furono episodi fatalmente di breve durata, ed irrilevanti sul piano strategico; ma di enorme importanza sul piano psicologico e politico. Quei fatti d'arme spontanei, ed ancor più il rifiuto di tutti i militari italiani di proseguire la guerra accanto ai tedeschi, furono la conferma plebiscitaria che le masse avevano aderito alle decisioni di vertice di scindere il nostro destino dal destino dell'alleato nazista.
Secondo le clausole dell'armistizio gli Alleati affiancarono al Governo italiano una Commissione di controllo che era arbitra di ogni nostra attività politica: era composta da rappresentanti di Russia, Inghilterra e Stati Uniti d'America. Al nostro Stato Maggiore affiancarono una Commissione di controllo che era arbitra di ogni nostra attività politica: era composta da rappresentanti di Russia, Inghilterra e Stati Uniti d'America. Al nostro Stato Maggiore affiancarono una Missione, che era arbitra di ogni nostra attività militare: composta da ufficiali inglesi, aveva la sigla MIIA e noi la chiamammo subito “Mammamia”.
Era stato promesso un trattato di pace più o meno duro a seconda del nostro apporto alla guerra contro la Germania, e subito sollecitammo l'impiego sul fronte italiano delle quattro Divisioni che in Sardegna ed in Corsica si erano salvate dal crollo generale. “Mammamia” rifiutò le nostre offerte, altrimenti l'alleanza di fatto si sarebbe fatalmente trasformata in alleanza di diritto, sarebbe stato impossibile a fine guerra imporci un trattato di pace punitivo.
Ma la politica inglese tendeva pure a mantenere pure in piedi le strutture fondamentali dello Stato italiano, per assicurare alla fine del conflitto una certa stabilità politica generale nell'area del Mediterraneo; cosi in seno alla Commissione politica sosteneva la Corona, e non poté esimersi dal concederci almeno di far entrare in linea, nel novembre 1943, il I Raggruppamento Motorizzato.
Si trattava solo di pochi Battaglioni e di qualche Gruppo di artiglieria raggranellati in Puglia, che, inseriti nella V Armata americana sul fronte di Cassino, portarono a termine con grande sacrificio di sangue l'azione tattica della conquista di Montelungo.
Quel primo nucleo dell'esercito italiano che si ricostituì nel Sud sotto la guida di ufficiali di stato maggiore del governo Badoglio, era composto inizialmente da 10.000 uomini e in seguito, sia per il buon rendimento che per altre ragioni di ordine politico, portato a 25.000 e infine a 50.000 con armi ed equipaggiamenti "made in USA."
Il primo nucleo di combattenti del CIL era formato in genere da soldati lombardi e bergamaschi della divisione Legnano, reduci quasi tutti dai fronti russo, africano, greco-albanese, che l'armistizio aveva sorpreso nelle Puglie.
Frattanto gli Stati Uniti perseguivano in Italia una politica diametralmente opposta a quella dell'Inghilterra. Essi erano favorevoli all'impiego massiccio di nostre Grandi di Unità per farci poi ottenere lo status di alleati, ma temporaneamente davano il loro appoggio a quelle correnti politiche che tendevano a liquidare le Forze Armate, ancora legate alla Corona dal loro giuramento di fedeltà.
A sua volta la Russia perseguiva in Italia una politica diversa sia dall'Inghilterra sia dall'America. Essa da tre anni stava sopportando il maggior peso della macchina bellica tedesca, ed era sottoposta ad uno sforzo sovrumano: le incombenti necessità militari condizionavano ogni sua scelta politica. Era suo interesse che contro i tedeschi entrassero subito in linea le maggiori possibili forze Non aveva nessuna importanza che sul bianco delle bandiere ci fosse o non ci fosse lo scudo sabaudo, e poiché l’efficienza dell'esercito era in quel tempo naturalmente condizionata dalla Corona, Stalin, meno ambiguo di Churchill e più razionale di Roosevelt, ne aveva tratto tutte le logiche conseguenze.
Nel marzo 1944 Togliatti sbarcava a Napoli e dichiarava che il problema istituzionale doveva essere accantonato per costituire un Governo capace di creare un esercito il più forte possibile, che entrasse al più presto in linea contro i tedeschi. Cosi furono i russi e il ricostituito Partito Comunista a dare il più incondizionato appoggio politico e morale alle nostre Forze Armate regolari, che si andavano faticosamente ricostituendo tra inenarrabili difficoltà.
Nel gennaio 1944 il giovane generale di Brigata Utili fu inviato ad assumere il comando del I Raggruppamento, che "Mammamia" aveva già deciso di sciogliere inviando i suoi 5000 uomini a reparti lavoratori nelle retrovie. Utili non si rassegnò, saltò tutta la gerarchia, e riuscì a farsi ricevere dal generale Clark, comandante della V Armata americana. Il colloquio fu lungo e a momenti drammatico, ma alla fine ad Utili fu consentito di fare il tentativo di mettere in piedi validi reparti combattenti, se in quelle condizioni era un'impresa ai limiti delle possibilità umane.
Alle truppe, Utili chiese il massimo che potevano dare ed affrontò combattimenti a mano a mano più impegnativi, nella misura in cui il morale dei reparti andava migliorando, anche se i disagi materiali seguitavano ad essere gravi, specie per l'insufficiente equipaggiamento.
Nel marzo 1944, a sottolineare la positiva valutazione del comportamento bellico dei nostri reparti, fu consentito che il complesso delle forze italiane combattenti assumesse il nome di Corpo Italiano di Liberazione, CIL. La nostra estrema debolezza politica non era in grado di smuovere l’Italia dalla equivoca posizione di "cobelligerante," ma i militari, con chiara visione degli obiettivi politici della nostra partecipazione alla guerra, riuscivano a porsi, almeno nel nome, sullo stesso piano degli alleati.
A fine maggio 1944 il CIL venne trasferito nel settore adriatico, e per tre mesi consecutivi fu impiegato senza soste all'inseguimento del nemico che con perfetta manovra ripiegava sulla linea Gotica, imbastendo successive valide linee di resistenza. Così molte genti d'Abruzzo, delle Marche e della Romagna ebbero il privilegio di non essere liberate da truppe straniere.
A fine agosto il CIL fu ritirato dalla linea di combattimento mento, ed il generale Browing, capo in testa di "Mammamia," venne a farci un discorso: " ... Voi del CIL avete reso un grande servizio all'Italia; se voi non aveste combattuto bene, gli Alleati non avrebbero mai accettato di costituire una più numerosa forza combattente italiana". Si trattava finalmente, di sei Divisioni.
Friuli" e "Cremona," che l'8 settembre si erano validamente battute contro i tedeschi in Sardegna ed in Corsica, erano già in approntamento; con il CIL si costituirono la "Legnano" e la "Folgore"; successivamente si sarebbero armate la "Mantova" e la "Piceno." Ma poi agli Alleati sembrò di aver concesso troppo: le Divisioni italiane si sarebbero chiamate Gruppi di Combattimento, e non sarebbero stati impiegati riuniti in un'Armata italiana, ma suddivisi alle dipendenze di Corpi d'Armata alleati. Tutto per attenuare le conseguenze politiche del nostro concorso allo sforzo bellico comune.
Tra gennaio e marzo 1945, Cremona, Friuli, Folgore e Legnano furono schierate sulla linea Gotica. Tutte presero parte all'offensiva generale che iniziò il 9 aprile sul fronte dell'VIII Armata inglese; il 14 entrò in azione la V Armata americana; il 21 aprile cadeva Bologna, saltava tutto il sistema difensivo tedesco, e sul piano strategico la guerra in Italia era conclusa e vinta.
Due Armate, centinaia di migliaia di tedeschi in armi si arresero con i loro comandi di Corpo d'Armata e di Divisione, perché sopravanzati dalle colonne corazzate che precludevano ogni via di ritirata aprendosi a ventaglio su tutta la Valle Padana.
Le nostre Forze Armate regolari avevano concorso vittoria con:
60.000 soldati del CIL e dei Gruppi di Combattimento
75.000 marinai che con le navi battenti bandiera italiana dopo l'8 settembre avevano compiuto cinquantamila azioni di guerra;
30.000 aviatori che con gli apparecchi italiani salvati dalla catastrofe avevano effettuato undicimila voli nel cielo nemico;
38.000 militari che al di là delle linee avevano combattuto nella quinta colonna, in formazioni partigiane “Autonome”, non alle dipendenze di questo o quel partito, ma riconoscendosi solo parte integrante delle Forze Armate regolari.
180.000 militari, infine, erano in forza alle Divisioni ausiliarie aggregate alla V e all'VIII Armata, o erano presenti nei reparti territoriali per gli indispensabili servizi delle retrovie.
Tra il settembre 1943 e l'aprile 1945 caddero in combattimento, o morirono nei lager tedeschi, o furono fucilati come partigiani, oltre 86.000 militari con le stellette.
Ma il più massiccio, il più martoriato, il più incredibile contributo alla Resistenza, fu dato dai seicentomila militari catturati dai tedeschi nel settembre 1943. Essi rimasero nei lager fino all'aprile 1945.
Bibliografia:
1945/1975 ITALIA. Fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento.
Conversazioni promosse dal Consiglio regionale lombardo nel trentennale della Liberazione.
Feltrinelli Editore aprile 1975
La nascita della prima Repubblica
Il 1948 si è aperto con uno storico alzabandiera al Quirinale, la mattina di Capodanno, per significare che l'antico palazzo, già residenza dei papi e poi sede dei re sabaudi, era diventato la casa ufficiale del presidente della Repubblica.
L'alza bandiera (il tricolore ovviamente epurato dello stemma sabaudo) era storico, perché voleva dire anche e soprattutto che da quella mattina era in vigore la nuova Costituzione, la Carta fondamentale dell'Italia democratica.
Un altro degli obiettivi per cui molti italiani si erano battuti durante la guerra di Liberazione veniva così raggiunto. Ma quali erano stati gli avvenimenti più importanti per la vita della Nazione che erano accaduti tra la fine della guerra e l’inizio del 1948?
La nascita della prima Repubblica
«La liberazione non fu solo merito delle forze alleate e delle quattro divisioni dell'esercito italiano. Fu anche il popolo a liberarsi da sé: innanzitutto con l'opera tenace ed eroica delle formazioni partigiane, nelle campagne, nelle montagne, nelle città. Quel 25, aprile del 1945, all'indomani dell'ordine di insurrezione generale delle forze della Resistenza dato dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, molte città del Nord, grandi e piccole, vennero liberate dai partigiani, prima dell'arrivo delle forze alleate. In quello stesso giorno, nelle città che avevano già visto la fine della lunga occupazione, gli italiani si unirono in cortei spontanei ed esultanti. Fu una grande festa di popolo nelle strade e nelle piazze, un popolo che si ritrovava rinato, libero e unito. Le gesta di quelle giornate formarono, per sempre, la nostra coscienza democratica. Gloria a coloro che salvarono l'onore del popolo italiano e diedero il loro vitale contributo alla riconquista della libertà: la libertà per tutti, anche per coloro che li avevano combattuti».
Carlo Azeglio Ciampi, decimo Presidente della Repubblica Italiana
Dopo il 25 aprile 1945, che aveva visto la fine della guerra in Italia con la liberazione del Nord dall’occupazione nazista e il crollo definitivo del fascismo, per l'effetto congiunto dell'azione militare alleata e dell'insurrezione partigiana, i capi della Resistenza si ritrovano a Roma e con loro arriva il cosiddetto «vento del Nord», termine coniato da Pietro Nenni. Vento del Nord voleva dire aria di cambiamento, politico e sociale, voleva dire portare fra le alchimie della nuova politica «romana» la lezione della lotta partigiana, una spinta a un profondo rinnovamento. E lo stesso Nenni si è candidato a guidare questa nuova fase, suscitando però l'opposizione di democristiani e moderati. Alla fine si è raggiunto un accordo sul nome di Ferruccio Parri, uno dei dirigenti del Partito d'azione e soprattutto esponente di punta della Resistenza col nome di battaglia «Maurizio».
Parri ha preso il posto di Bonomi, il cui secondo governo, costituito sei mesi dopo il primo, e durato sei mesi anch'esso, si è dimesso definitivamente il 12 giugno. Nove giorni dopo, è nato il governo del «vento del Nord», in versione moderata, con il leader democristiano De Gasperi agli Esteri, quello comunista Togliatti alla Giustizia e Nenni alla vicepresidenza. Questi governi andavano dai liberali ai comunisti, cioè comprendevano forze politiche diametralmente opposte, che tuttavia collaboravano nel segno dell'emergenza nazionale seguita alla guerra e alla sconfitta.
Nonostante le doti personali di onestà e d'impegno del presidente del Consiglio, Ferruccio Parri, nel governo era cominciato un braccio di ferro tra sinistra e centrodestra su come articolare le prime elezioni democratiche (se subito quelle politiche o quelle amministrative) e sui poteri della futura Assemblea costituente (se dovesse o meno decidere sulla forma istituzionale dello Stato e se dovesse o no avere anche normali poteri legislativi, nell'ambito della sua durata). Il secondo problema era il più importante.
Lo aveva sollevato per primo Umberto di Savoia, come Luogotenente,
in un'intervista al «New York Times» del 7 novembre 1944, sostenendo che un apposito referendum, e non l'Assemblea costituente, dovesse decidere tra monarchia e repubblica. Lo scopo era chiaro: le chances monarchiche sarebbero state molto più grandi in una consultazione popolare che in un'assemblea elettiva, dato l’orientamento prevalentemente repubblicano dei partiti antifascisti. Il contrasto si era riproposto sui poteri dell'Assemblea: doveva limitarsi a redigere la nuova Carta costituzionale (conservando ovviamente una funzione di controllo politico generale e di ratifica dei trattati internazionali), lasciando al governo il potere di legiferare, oppure il suo mandato doveva essere quello di un normale Parlamento, con in più la funzione costituente?
Dopo solo sei mesi, il governo Parri viene messo in crisi dai liberali; alla guida del Paese arriva il leader della Democrazia cristiana Alcide De Gasperi che forma un governo di estrazione “ciellenistica” con Nenni vicepresidente e Togliatti alla Giustizia.
Sulla svolta, la prima di una serie che avrebbe portato due anni dopo allo scontro elettorale tra gli ex alleati, decisivo per il futuro del Paese, non hanno mancato di esercitare una notevole influenza gli anglo-americani. Tre giorni dopo l'insediamento del primo governo De Gasperi, le autorità militari anglo-americane hanno deciso di restituire all'amministrazione italiana le regioni del Nord, rimaste ancora sotto il loro controllo.
Di fronte a quella che era ormai la prospettiva di un referendum istituzionale e di una distinta elezione dell'Assemblea costituente i partiti hanno serrato le file, con una serie di congressi. Quello del Partito comunista si svolse dal 29 dicembre 1945 al 7 gennaio 1946. Quello della Democrazia cristiana e quello del Partito liberale, in aprile, hanno registrato, nel primo caso, un senso di ascesa, di responsabilità crescenti, e nel secondo un senso di declino.
Il congresso del Partito d'azione, che si svolse dal 4 all'8 febbraio nel teatro romano Teatro Italia, ha significato l'uscita dalla scena italiana di un piccolo-grande partito, che aveva raccolto le speranze di quanti auspicavano una formazione politica capace di essere una «terza forza» tra i due poli emergenti, entrambi in qualche misura estranei o laterali alla tradizione dell'Italia unita e «risorgimentale», il polo comunista e quello cattolico.
Una terza forza laica e democratica, occidentale ma riformatrice, anche in senso socialista, erede di un gruppo glorioso della Resistenza, non a caso chiamato Giustizia e Libertà. Una terza forza modernizzatrice, potenzialmente incubatrice di uno schieramento democratico-progressista, alternativo a quello democratico-conservatore, in un sistema liberale «compiuto». In questo senso, era stata vista con interesse dalla stessa America, nella fase «rooseveltiana».
Membri del partito erano uomini come Ugo La Malfa, Leo Valiani, Altiero Spinelli, Luigi Salvatorelli, Ferruccio Parri, Emilio Lussu, Riccardo Lombardi, Piero Calamandrei, Guido Calogero, Tristano Codignola, Francesco De Martino, Vittorio Foa, e vari altri). In ogni caso, essa è crollata nella notte tra il 7 e l'8 febbraio 1946, con l'uscita dal Teatro Italia della componente più spiccatamente «liberale» (Parri, La Malfa), che avrebbe dato vita a un Movimento democratico-repubblicano, di breve durata, abbandonando le correnti tendenzialmente o dichiaratamente «socialiste».
C'è stato scontro anche nel congresso socialista, svoltosi a Firenze dall'11 al 17 aprile. Il Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria, questo era il nome ufficiale) era reduce da forti affermazioni nel primo gruppo di elezioni amministrative, che si era tenuto già in marzo. A Milano era risultato addirittura vincitore assoluto, distanziando Dc e Pci. Era, di fatto, il primo partito della sinistra.
E tuttavia era ormai diviso tra due «anime», che riflettevano anch'esse, nello stesso ambito del socialismo, due modi diversi di vedere il futuro nazionale, e le alleanze necessarie per perseguirlo. Una era l'anima, appunto, «proletaria», legata alla tradizione dell'unità della classe operaia, l'altra era l'anima socialdemocratica e riformista, che riemergeva dopo il periodo della lotta comune della «unità di azione», contro il nazifascismo. Riemergeva quando il nazifascismo era stato ormai sconfitto e si delineava sempre più nettamente una divaricazione, e anzi un conflitto, tra i vincitori dell'Est e quelli dell'Ovest, cioè tra l'Unione Sovietica e l'Occidente liberaldemocratico, ma anche, eventualmente, socialdemocratico: in Gran Bretagna, per dire, il governo laborista di Attlee aveva preso il posto, all'indomani della vittoria, di quello conservatore di Churchill.
Le due anime del Psiup si sono identificate essenzialmente in due volti. Uno, quello di Pietro Nenni e l'altro quello di Giuseppe Saragat.
Il congresso di Firenze non ha fatto una scelta tra l'uno e l'altro, ha rimosso i motivi dell'incompatibilità, ha cercato una soluzione «unitaria». Ma l'equilibrio di partito che ne è emerso è subito apparso un equilibrio precario, destinato a rompersi alla prima occasione. Nella prospettiva, ancora, di schierarsi in un senso o nell'altro, per l'Est o per l'Ovest.
Per il referendum istituzionale e per l'elezione dell'Assemblea costituente (ferma restando la funzione legislativa del governo) è stata infine fissata una data: il 2 giugno 1946.
La campagna elettorale si è svolta sostanzialmente nella calma. Il clima si è ravvivato dopo il 9 maggio, per la decisione di Vittorio Emanuele III di abdicare in favore del figlio, che da luogotenente è diventato il nuovo re, col nome di Umberto II. Per l’occasione Togliatti inventò uno slogan ironico che definiva Umberto «il re di maggio».
In realtà, la mossa di Vittorio Emanuele (sgombrare il campo della sua persona, comodo bersaglio dei repubblicani e degli antifascisti), subito seguita dalla partenza per l'esilio in Egitto, ha ridato slancio ai sostenitori della monarchia, aiutati anche da una serie di viaggi pre-elettorali di Umberto e da suoi rassicuranti discorsi sull'avvenire della democrazia. Così, una consultazione che sembrava destinata a un sicuro successo della repubblica è ridiventata incerta, e l'attesa è cresciuta.
Alla fine la repubblica ha vinto e la monarchia ha perso, ma la proclamazione ufficiale del cambiamento istituzionale è stata molto più laboriosa del previsto.
I voti sono stati 12.717.923 per la repubblica e 10.719.284 per la monarchia. Ma c'è stato un clamoroso imprevisto: questo risultato si riferiva ai voti validi, mentre la legge parlava della maggioranza dei voti espressi, quindi calcolando le schede bianche e nulle.
La Corte di Cassazione ha infine appurato che i voti non validi erano 1.509.735 e che comunque la monarchia aveva perso, sia pure per mezzo milione di voti. Quanto a Umberto II, egli si è deciso a partire per l'esilio il 13 giugno diretto a Lisbona: lo ha fatto lasciando dietro di sé una scia di risentimenti, e senza neppure uno scambio di saluti col presidente del Consiglio De Gasperi, che si era preparato a un commiato formale e rispettoso.
Tuttavia finalmente è nata la Repubblica italiana, e con essa l'Assemblea costituente, chiamata a redigere la Carta fondamentale del nuovo Stato democratico.
Ne sono stati chiamati a far parte 207 democristiani, 115 socialisti, 104 comunisti, 41 rappresentanti dell'Unione democratica nazionale (PLI e Democrazia del lavoro), 30 appartenenti all’Uomo Qualunque, 23 repubblicani (del PRI), 16 esponenti del Blocco nazionale della libertà (monarchici), 9 residui azionisti (col concorso del Partito sardo d'azione), 4 rappresentanti del Movimento indipendentista siciliano e così via, fino a completare il numero di 555 membri dell'Assemblea.
Dopo la proclamazione della Repubblica, il governo ha varato una legge di pacificazione nazionale, l'amnistia generale per i reati politici, firmata dal Guardasigilli Togliatti.
De Gasperi, dopo l'elezione di Enrico De Nicola a capo provvisorio dello Stato,
ha formato il suo secondo governo, al quale partecipava anche il PRI, non più trattenuto dalla pregiudiziale antimonarchica, e dal quale era uscito Togliatti: al suo posto, alla Giustizia, un altro comunista, Fausto Gullo.
Ma andava cambiando radicalmente anche il quadro internazionale. Già il 5 marzo, nel famoso discorso di Fulton, Churchill aveva denunciato il calare di una «cortina di ferro» tra Est e Ovest.
Questo metteva quanto meno in grande imbarazzo il rapporto di governo tra De Gasperi e i partiti di sinistra.
Oltre a ciò c'era il problema del Trattato di pace, in via di definizione a Parigi. Il 3 ottobre, la conferenza ha raggiunto un accordo sul confine orientale, che sostanzialmente toglieva all’Italia la penisola istriana e creava il Territorio libero di Trieste, sotto il controllo dell'Onu. Una concessione, anche se incompleta, alla Jugoslavia comunista e all'Urss, ancora alleate e un’altra fonte di disagio per Togliatti, costretto a conciliare la difesa degli interessi italiani con quella del movimento comunista internazionale.
Bibliografia:
Aldo Rizzo - “L’anno terribile. 1948: il mondo si divide” - Laterza 1977
dalla Liberazione alla Costituzione
Il 27 dicembre 1947 la Costituzione è promulgata dal Capo dello Stato provvisorio Enrico De Nicola.
Il 25 aprile 1945, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamò l'insurrezione generale ed emanò il decreto dell'assunzione di tutti i poteri da parte dei Comitati di Liberazione regionali, provinciali e cittadini.
Finiva in Italia la seconda guerra mondiale, ma il Paese era da ricostruire: il 10% delle case e il 90 % dei ponti erano distrutti, le ferrovie inefficienti, perdite incalcolabili in agricoltura, mille miliardi di danni.
Ferruccio Parri, esponente di spicco della Resistenza, il nome di battaglia di "Maurizio", è il primo Presidente del Consiglio dei Ministri di un Governo di unità nazionale composto da democristiani, comunisti, socialisti, azionisti, liberali e demolaburisti.
Il primo provvedimento del governo Parri è la creazione del Ministero della Costituente, affidato a Pietro Nenni, con il compito di predisporre progetti per la riforma dello Stato.
Il governo Parri nomina la Consulta Nazionale, anche se non eletta direttamente dal popolo è la prima Assemblea rappresentativa che si riunisce dopo il fascismo: i suoi 430 componenti sono ex partigiani,reduci, rappresentanti di partito e dei sindacati, e, novità assoluta, in segno della conquista dei diritti politici, 13 donne.
La Consulta fa le veci del Parlamento, ma gli Italiani vogliono scegliere i loro rappresentanti, dopo venti anni di dittatura. Nell’autunno del 1945 si moltiplicano le manifestazioni che chiedono di poter eleggere un’assemblea costituente.
Il 10 dicembre 1945, a seguito delle dimissioni dei ministri liberali, cade il governo Parri: gli subentra Alcide De Gasperi. Solo tre anni prima Alcide De Gasperi aveva contribuito alla fondazione della Democrazia Cristiana, riunendo membri del Partito Popolare e giovani cattolici. Rester alla guida del Paese per sette anni.
Nel governo De Gasperi sono presenti i sei partiti che formavano il Comitato di Liberazione Nazionale: Democrazia Cristiana, Partito comunista, Partito Socialista di Unità Proletaria, Partito d’Azione, Partito Liberale e Democrazia del Lavoro.
Nel 1944 il governo Bonomi aveva stabilito che la forma istituzionale dello Stato da adottare sarebbe stata decisa direttamente dall’Assemblea Costituente. De Gasperi, invece, ritiene che la scelta spetti al popolo.
I partiti riuniscono i propri congressi. Occorre definire i programmi per il governo del paese e per la Costituzione che verrà e soprattutto ogni partito deve stabilire quale posizione assumere riguardo l’assetto costituzionale.
A Roma si riunisce il V congresso del Partito Comunista sotto la guida di Palmiro Togliatti. Al Congresso del Partito d’Azione si discute della possibilità di avere una repubblica presidenziale del tipo di quella americana. La guida del Partito Repubblicano, Pacciardi, non ha dubbi sull’esito del referendum, la monarchia sarà seppellita sotto una valanga di no. Tra i partiti che si riuniscono a congresso c’è anche il Partito Democratico del Lavoro, fondato da Bonomi e da Ruini. Dopo vent’anni di vita clandestina anche il partito Socialista si riunisce a congresso a Firenze. La Democrazia Cristiana, nel suo primo congresso, sostiene la scelta della repubblica, mentre è il filosofo Benedetto Croce a inaugurare il III congresso del Partito Liberale con un discorso in cui esorta i militanti a restare uniti.
Resta da scegliere il sistema elettorale con cui affrontare il voto. Per scrivere la Costituzione è necessario il contributo della più ampia area degli orientamenti politici, così la scelta cade sul meccanismo proporzionale che fotografa la situazione reale del Paese e tutela le minoranze, dando rappresentanza a tutti i partiti in proporzione ai voti ricevuti.
Si decide che il giorno stesso in cui gli Italiani andranno a votare per il referendum, monarchia o repubblica, eleggeranno anche il nuovo parlamento e si fissa la data: il 2 giugno.
La televisione ancora non c’è ma, per la prima volta, si fà ampio usa dei mezzi di informazione di massa.
Nella primavera del 1946 si svolgono le elezioni amministrative per costituire i Consigli di oltre 5.000 comuni e per gli Italiani si tratta di una prova generale di democrazia. Dopo anni di consenso obbligato possono, infatti, manifestare la propria volontà e apprendere nuove abitudini: nessuno sa più cosa significhi ricevere un certificato elettorale.
Per la prima volta sono ammesse al voto le donne: si tratta di oltre 14 milioni di elettrici.
Ma la grande attesa è tutta sul referendum monarchia o repubblica: paure e speranze di cambiamento dividono il Paese.
La situazione pare precipitare quando il Re Vittorio Emanuele III decide di abdicare in favore del figlio Umberto. È il 9 maggio e questa abdicazione scatena un mare di polemiche: i partiti della sinistra accusano il Re di voler condizionare le elezioni ed in questo clima teso si arriva al 2 giugno.
Alle urne va quasi il 90% degli aventi diritto. Il 5 giugno, per radio dal Viminale, il ministro Romita diffonde l’annuncio semiufficiale: la repubblica ha quasi due milioni di vantaggio.
Il 10 giugno, nella sala della Lupa, la Cassazione si riunisce per comunicare i risultati del referendum. Per una strana coincidenza è questa una data che gli Italiani ricordano bene: il 10 giugno 1924, infatti, il socialista Giacomo Matteotti venne ucciso per aver apertamente accusato i fascisti di aver commesso illegalità per vincere le elezioni. Il 10 giugno è legato ad un altro evento drammatico: il 10 giugno 1940 l’Italia dichiarava guerra a Francia e Gran Bretagna, entrando di fatto nel secondo conflitto mondiale. Alle ore 18, in una sala gremita, il Presidente della Corte, Giuseppe Pagano, comunica i dati delle lezioni: gli Italiani hanno scelto la repubblica.
I risultati del referendum non sono omogenei: tendenzialmente il centro-nord ha votato per la repubblica e il sud per la monarchia.
Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, De Gasperi, autorizzato dal Consiglio dei Ministri, assume le funzioni di Capo dello Stato. È scontro tra Governo e Monarchia. Quello stesso giorno, alle 15,30, Umberto II, il cosiddetto Re di Maggio, abbandona il Quirinale, lascia l’Italia e vola in Portogallo. Il suo regno è durato solo un mese.
Il 18 giugno la Suprema Corte di Cassazione proclama ufficialmente i risultati: ha vinto la repubblica.
Il 25 giugno 1946 si riunisce l’Assemblea Costituente: è la prima assemblea eletta a suffragio universale nella storia d’Italia. 21 sono le donne su 556 deputati: 9 donne della Democrazia Cristiana, 9 del Partito Comunista, 2 del partito Socialista e una per il Partito dell’Uomo Qualunque.
Tra i primi compiti vi è quello di eleggere il presidente dell’assemblea: la scelta cade su Giuseppe Saragat, uno degli esponenti di spicco del Partito Socialista. Poi occorre nominare un Capo dello Stato, sebbene provvisorio: dovrà incarnare il senso dell’unità della nazione. L’uomo più adatto appare Enrico De Nicola, illustre giurista napoletano di sentimenti monarchici.
Il 13 luglio 1946, De Gasperi forma il primo governo della Repubblica italiana: la novità rispetto al passato è che i partiti vengono rappresentati in proporzione ai risultati elettorali. Anche la formula dell’investitura è nuova: i ministri giurano nell’interesse supremo della nazione.
Per svolgere il delicato compito di elaborare un progetto di Costituzione, l’Assemblea decide di nominare una Commissione composta da 75 membri in proporzione alla rappresentanza dei partiti. I membri della Commissione riescono a tenere il lavoro di elaborazione della Carta costituzionale separato dalla lotta politica e dai cambiamenti di maggioranza. La crisi del maggio 1947 fa uscire i partiti comunista e socialista dal Governo De Gasperi.
L’Assemblea Costituente lavora di gran ritmo: in un anno e mezzo si terranno 375 sedute in Parlamento: bisogna elaborare la nuova Costituzione ma anche vigilare sul Governo e assolvere a funzioni legislative. Intanto l’8 febbraio 1947 il comunista Umberto Terracini viene eletto presidente dell’Assemblea Costituente in seguito alle dimissioni di Saragat.
Nell’agosto 1946 si tiene a Parigi la conferenza di pace: in questa occasione verrà definito il nuovo equilibrio mondiale. Sono presenti delegati di 21 Paesi; De Gasperi difende le ragioni dell’Italia.
Dalle potenze vincitrici l’Italia è considerata un paese sconfitto, che ha perso la guerra. Con l’appoggio del Parlamento, il Governo De Gasperi sollecita una pace giusta, che tenga conto dei sacrifici compiuti dal popolo italiano per liberarsi dall’occupazione nazista e pertanto chiede agli Alleati di non imporci amputazioni territoriali.
Alla successiva elaborazione del trattato, però, l’Italia non può partecipare; a quel tavolo sono ammessi solo i “quattro grandi”: Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Francia.
Nel gennaio 1947 De Gasperi vola in America e riesce a stabilire un rapporto di fiducia con l’Amministrazione statunitense. Il presidente Truman garantisce all’Italia prestiti e nuovi aiuti alimentari.
Il trattato di pace si rivela molto duro per l’Italia: Trieste non viene ricongiunta all’Italia e la zona contesa, già teatro di violenze ai danni della popolazione italiana negli anni dal 1943 al 1945, viene divisa in due L’area di Trieste è affidata al governo militare anglo-americano, mentre una parte dell’Istria finisce sotto il controllo militare jugoslavo. Da queste terre e dalla Dalmazia partiranno migliaia di Italiani, che daranno vita ad un vero e proprio esodo verso l’Italia che durerà circa dieci anni.
Il trattato è considerato punitivo dal mondo politico e anche la gente comune scende in piazza per protestare. Il Governo, tuttavia, sa che non è possibile rifiutare i termini imposti dalle potenze vincitrici e il 10 febbraio, a Parigi, l’Italia firma il Trattato.
Il 27 giugno il ministro degli Esteri, Sforza, presenta all’Assemblea Costituente il testo del Trattato di Pace perchè venga ratificato: il risultato è in forse. La discussione in aula è molto accesa, le critiche sono durissime. È il momento del voto: i socialisti decidono di non partecipare, i comunisti si astengono e le destre votano contro. I voti favorevoli alla ratifica prevalgono. La questione di Trieste è tutt’altro che risolta. Il ritorno della città nei nostri confini sarà possibile solo nell’ottobre del 1954 con una firma, a Londra, di un accordo tra Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Jugoslavia.
Il mondo rivoluzionato dal conflitto fatica a trovare un equilibrio. Se nella lotta contro il nazifascismo le potenze avevano saputo far fronte comune fino alla vittoria, adesso la tensione fra Stati Uniti e Unione Sovietica cresce costantemente e nel 1947 inizia la cosiddetta “guerra fredda”.
Gli Stati Uniti lanciano il famoso “Piano Marshall”, un sistema di aiuti per sostenere l’economia dei Paesi dell’Europa sconvolti dalla guerra.
Proprio per contrastare l’influenza americana, l’Unione Sovietica costituisce il Cominform, un ufficio di collegamento tra i partiti comunisti dei Paesi dell’Est, al quale aderiscono il Partito comunista italiano e francese. Il nostro Paese entra nel blocco occidentale mentre il Partito comunista italiano mantiene saldo il collegamento con quello orientale.
Il progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione dei 75 viene presentato all’Assemblea il 31 gennaio 1947. Il 22 dicembre 1947 il testo è approvato con 453 voto favorevoli e 62 contrari. Il 27 dicembre la Costituzione è promulgata dal Capo dello Stato provvisorio Enrico De Nicola. La Costituzione entrerà in vigore il I gennaio 1948.
Durante il fascismo il Parlamento è stato un guscio vuoto; la Costituzione è il frutto prezioso che segna l’inizio di una fase nuova per la storia d’Italia e rappresenta la rinascita del Parlamento.
Emblema della Repubblica
Bibliografia:
La rinascita del Parlamento - dalla Liberazione alla Costituzione
DVD - Fondazione Camera dei Deputati 2008
I LAVORI DELL' ASSEMBLEA COSTITUENTE (1946 – 1948)
L’articolo offre degli spunti di riflessione sull’ordinamento della nostra Repubblica, ancor oggi di attualità. Già durante i lavori dell’Assemblea Costituente, per la definizione di alcuni articoli della Costituzione (ad esempio sul bicameralismo), erano state avanzate delle proposte poi lasciate cadere.
Alcune date significative della storia della Repubblica
12 aprile 1944: Le stazioni radio di Bari e di Napoli trasmettono il proclama Vittorio Emanuele III agli italiani (sarà il suo ultimo): «Ho deciso di ritirarmi dalla vita pubblica, nominando Luogotenente generale mio figlio. Tale nomina diventerà effettiva, mediante il passaggio materiale dei poteri, lo stesso giorno in cui le truppe alleate entreranno in Roma. Questa mia decisione, che ho ferma fiducia faciliterà l'unità nazionale, è definitiva e irrevocabile ».
Così esce praticamente di scena il vecchio re, dopo un regno di quarantaquattro anni, durante il quale ha visto l'età di Giolitti, la guerra di Libia e la prima guerra mondiale, la vittoria e il difficile ritorno alla pace; ha visto un'Italia libera e democratica, e poi ha ceduto al fascismo.
22 aprile 1944: Si forma un nuovo governo. Badoglio ne è ancora il capo, ma i ministri non sono di scelta regia e rappresentano tutti i partiti antifascisti.
18 giugno 1944: Non più il Capo dello Stato ma il Comitato di Liberazione Nazionale designa, come presidente del Consiglio, Bonomi. Badoglio si ritira a vita privata. I membri del Governo giurano ancora nelle mani del Luogotenente, ma con la seguente formula: «I sottoscritti ministri e sottosegretari di Stato italiani si impegnano sul loro onore di esercitare le loro funzioni per i supremi interessi della nazione e di non commettere alcun atto che possa in qualsiasi maniera pregiudicare la soluzione del problema istituzionale prima della convocazione dell’Assemblea Costituente».
25 aprile 1945:Insurrezione nazionale.
16 marzo 1946: decreto luogotenenziale n° 99
Stabiliva che «contemporaneamente alle elezioni per l'Assemblea Costituente» il popolo sarebbe stato chiamato a decidere, mediante «referendum», sulla forma istituzionale dello Stato (Repubblica o Monarchia). L'Assemblea Costituente aveva il compito di fissare e regolare la forma dello Stato con norme della Costituzione.
Lo stesso decreto affidava all'Assemblea Costituente una serie di attribuzioni politiche e legislative. Le affidava innanzi tutto la elezione del Capo Provvisorio dello Stato, qualora il «referendum» avesse fatto prevalere la Repubblica sulla Monarchia e il controllo politico sul Governo, dichiarato responsabile nei suoi confronti, il che implicava la investitura fiduciaria del Governo stesso e la facoltà di obbligarlo alle dimissioni mediante una mozione di sfiducia. Quanto alla funzione legislativa, il decreto stabiliva che durante il periodo della Costituzione e sino alla convocazione del Parlamento, instaurato dalla nuova Costituzione, il potere legislativo sarebbe rimasto delegato al Governo.
Il decreto prefissava altresì la «durata» dell'Assemblea Costituente, stabilendo che essa sarebbe stata sciolta di diritto il giorno della entrata in vigore della nuova Costituzione.
Infine veniva fissata la data storica della elezione della Assemblea Costituente; storica, per vero, a duplice titolo; perché in quella giornata - che fu il 2 giugno 1946 - il popolo italiano sarebbe stato chiamato a decidere la forma dello Stato, optando tra la Monarchia e la Repubblica, e inoltre avrebbe scelto i componenti dell'Assemblea Costituente per deliberare la nuova Costituzione dello Stato italiano.
Il decreto legislativo, che disponeva queste così importanti determinazioni era, come tutti i decreti legislativi del tempo, un provvedimento del Governo - il secondo, dopo la liberazione del territorio nazionale, e presieduto dall’on. De Gasperi -, ma era stato preceduto da un parere della Consulta Nazionale. Questa Consulta era stata istituita dopo la liberazione del territorio nazionale e ad essa partecipavano esponenti delle forze politiche, che si erano affermate dopo la liberazione, e uomini politici del tempo prefascista benemeriti della Nazione per i loro precedenti «parlamentari», o per la loro resistenza al regime, come Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Nitti, Enrico De Nicola e Benedetto Croce, ma senza che la Consulta rappresentasse effettivamente, e nella proporzione delle sue divisioni politiche, la comunità dei cittadini.
La discussione svoltasi in questa Assemblea in poche giornate, ai primi di marzo del 1946, segnò l'apoteosi di Vittorio Emanuele Orlando. Il vecchio parlamentare, il Presidente della Vittoria al tempo della prima guerra mondiale, ma anche il celebre professore di diritto pubblico, era stato chiamato a presiedere la Commissione incaricata di esaminare lo schema del provvedimento legislativo, e fu lui che ne accompagnò la relazione nell'aula di Montecitorio con un discorso smagliante, che indusse il Presidente della Consulta Nazionale a proclamare l'affissione tra gli applausi dell'Assemblea.
Per la prima volta nella storia dello Stato italiano, il popolo sarebbe stato chiamato ad un «referendum» nazionale per una decisione politica di tanta importanza - le consultazioni popolari precedenti risalivano ai plebisciti di annessione, rimessi a un corpo elettorale molto limitato -; ed era anche la prima volta che lo Stato italiano avrebbe avuto una «sua» Costituzione, deliberata da un'Assemblea Costituente, in luogo dello Statuto del Regno, una carta costituzionale «concessa» nel 1848 dal re Carlo Alberto per il Regno sardo piemontese e divenuta Statuto del Regno d'Italia per estensione plebiscitaria.
I lavori della Costituente
Venne istituito un ministero per la Costituente, al quale venne preposto l'on. Pietro Nenni.
Fornito di un numero esiguo di funzionari, il temporaneo ministero per la Costituente visse in lotta col tempo, giacché la data del 2 giugno 1946 costituiva un termine non superabile, in vista del quale si sarebbe dovuto predisporre la legge elettorale, attendere alla convocazione dell'Assemblea Costituente, provvedere all'opera di informazione del pubblico e di preparazione del materiale di studio, ritenuto utile per elaborare la nuova Costituzione dello Stato.
Vennero costituite tre Commissioni: la Commissione economica, la Commissione per la riorganizzazione dello Stato e la Commissione per i problemi del lavoro, tutte formate da tecnici e cattedratici della materia, di uomini politici qualificati, nonché di funzionari dello Stato appartenenti alle alte magistrature.
Il ministero per la Costituente curò la pubblicazione di un «Bollettino di informazioni e di documentazione», largamente diffuso e che si vendeva anche nelle edicole dei giornali. Lo scopo e il tono del Bollettino era quello di divulgare in forma succinta ed accessibile a tutti le nozioni necessarie per comprendere i compiti affidati all'Assemblea Costituente, aggiornando i lettori sulle maggiori Costituzioni del mondo, sui movimenti costituzionali in atto, sui problemi e sulle scelte possibili, che attendevano l'Assemblea Costituente.
In perfetta osservanza del termine prefissato, con ordinata operazione di voto e una assai alta partecipazione dei cittadini alle urne, l'Assemblea Costituente veniva eletta nei giorni 2 e 3 giugno 1946, risultando composta di 556 «onorevoli costituenti», tra cui 21 donne.
Il sistema proporzionalistico, adottato per la sua elezione, conferì all'Assemblea Costituente una rappresentanza politica variegata. Se la dominavano i rappresentanti di tre partiti: la Democrazia Cristiana in testa con 207 «costituenti», il Partito Socialista con 115, il Partito Comunista con 104. L'Unione Democratica Nazionale, un raggruppamento che raccoglieva liberali, democratici del lavoro e indipendenti ottenne 41 rappresentanti; il Fronte dell'Uomo Qualunque» 30 rappresentanti capeggiati dal suo fondatore Guglielmo Giannini, un noto commediografo giornalista, che aveva suscitato un movimento politico intorno al suo giornale intitolato «L'Uomo qualunque»; 23 rappresentanti del Partito Repubblicano Italiano, ancorato al programma del Partito Repubblicano storico; e 36 rappresentanti di gruppi politici minori, quali Blocco Nazionale della Libertà, il Partito d’Azione, il partito dei Contadini ed altri.
Riunitasi il 25 giugno 1946 per la prima volta a Montecitorio, prescelto a sua sede, sotto la presidenza del decano Vittorio Emanuele Orlando, l'Assemblea si elesse prima di tutto il suo Presidente nella persona di Giuseppe Saragat. Indi provvide alla elezione del Capo Provvisorio dello Stato nella persona di Enrico De Nicola, avendo il «referendum» sulla questione istituzionale attribuito una netta vittoria alla forma di Stato repubblicana.
Si stabilì di deferire l’incarico ad una Commissione, composta da 75 «costituenti» e da questo numero denominata poi la Commissione dei 75, presieduta da Meuccio Ruini, già Presidente del Consiglio di Stato, appartenente al Partito Democratico del Lavoro. I 75 «costituenti» designati dal Presidente dell'Assemblea furono, in pratica, i facitori della Costituzione e furono scelti in proporzione alla forza numerica dei gruppi politici, che componevano l'Assemblea. Nella Commissione restarono compresi eminenti personalità degli stessi partiti, come Palmiro Togliatti e Attilio Piccioni, giovani e meno giovani «costituenti », sino allora ignoti, ma tra i quali alcuni sarebbero saliti ad alti ed altissimi ranghi della vita politica italiana, come Luigi Einaudi, Giovanni Leone, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Umberto Terracini e Paolo Rossi. E vi erano presenti «tecnici» di grande prestigio, come i professori di diritto pubblico Piero Calamandrei, Costantino Mortati, Tommaso Perassi.
La Commissione dei 75 fu suddivisa in tre sottocommissioni, a ciascuna delle quali fu assegnato di predisporre una diversa parte del progetto, rimettendosi ad un Comitato ristretto, chiamato di «redazione», la coordinazione delle parti, e alla Commissione nel suo «plenum» le decisioni sui punti rimasti controversi e l'approvazione finale.
Si era d'accordo che la nuova Costituzione italiana sarebbe stata una Costituzione lunga, un testo costituzionale non limitato a stabilire l'organizzazione fondamentale dello Stato, bensì a determinare, anche nei sommi suoi istituti e princìpi, l'assetto economico e sociale della Nazione.
La materia costituzionale fu così ripartita: alla prima sottocommissione si attribuirono i rapporti civili, e cioè la determinazione della posizione del cittadino come persona, nei suoi diritti fondamentali di libertà, e come partecipe della vita politica della comunità, nei suoi diritti e doveri politici fondamentali. Alla seconda sottocommissione l’ordinamento costituzionale della Repubblica con la determinazione degli organi supremi, nonché delle loro attribuzioni. Alla terza sottocommissione infine i diritti e i doveri economico-sociali, con la determinazione dei diritti del cittadino lavoratore, della iniziativa economica privata rispetto all'intervento dello Stato nella vita economica nazionale, la delimitazione più moderna e circoscritta del diritto di proprietà privata, nonché il controllo sociale della vita economica.
Vi furono delle proroghe rispetto ai tempi previsti: queste furono causate anche dall'esercizio dell'attività politico-legislativa, che in certi momenti assorbì interamente l'Assemblea e con la quale si alternava la discussione e la votazione dei singoli articoli del testo costituzionale.
Episodi culminanti di questa attività, diversa ed estranea al compito primario dell'Assemblea, furono le discussioni per la investitura fiduciaria dei tre «ministeri», sempre capitanati dall'on. De Gasperi, discussioni delle quali la più intensa fu quella per la investitura del Governo «monocolore democristiano» nel giugno 1947. Tale Governo seguiva quello che si era chiamato governo «tripartito», nel quale cioè si erano associati per la guida politica e amministrativa del Paese i tre maggiori partiti (Democrazia Cristiana, Partito Comunista e Partito Socialista); e la crisi relativa comportava la estromissione da cariche di governo dei rappresentanti del Partito Comunista. A questa crisi politica aveva contribuito la scissione del Partito Socialista nell'ultimo suo congresso tenuto a Palazzo Barberini, con la fondazione del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani ad opera di Giuseppe Saragat: un evento politico che aveva indotto lo stesso on. Saragat a dimettersi dalla carica di Presidente dell'Assemblea Costituente.
Al suo posto, venne eletto Umberto Terracini, al quale toccò l'onere e l'onore di dirigere la discussione e l'approvazione da parte dell'Assemblea Costituente della nuova Costituzione.
L'Assemblea partecipò ampiamente all'esercizio della funzione legislativa, quale organo consultivo del Governo, cui tale funzione era stata affidata durante il periodo della Costituente, esaminando un numero cospicuo di disegni di legge.
L'Assemblea Costituente iniziò l'esame del progetto di Costituzione il 4 marzo 1947. Il progetto venne innanzitutto sottoposto ad una valutazione complessiva, da cui emersero problemi che avrebbero poi dato luogo alle maggiori discussioni dell'analitica disamina dei suoi 139 articoli.
I maggiori riguardarono:
- la introduzione di un preambolo enunciativo di dichiarazioni politico-giuridiche;
- i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa Cattolica e la recezione del Trattato e del Concordato del Laterano nella Costituzione;
- la introduzione dell'ordinamento regionale nella struttura dello Stato con la salvaguardia della sua unità;
- la istituzione di una seconda Camera, nel progetto chiamata «Camera dei senatori» e specialmente la sua composizione, che il progetto aveva collegata all'ordinamento regionale e ristretta a cittadini qualificati;
- la istituzione dell'Assemblea Nazionale, risultante dalle due Camere riunite, cui venivano commessi adempimenti politici di massima rilevanza, dalla elezione del Presidente della Repubblica alla investitura fiduciaria del Governo, alla mobilitazione e alla entrata in guerra, alla deliberazione dell'amnistia e dell'indulto;
- la istituzione di una Corte Costituzionale, con il compito precipuo di sindacare la costituzionalità delle leggi;
- il diritto di sciopero, dal progetto concesso senza limiti di sorta «a tutti i lavoratori», ma che si voleva limitare con riguardo precipuo ai pubblici servizi, e che si concluse con l'aggiunta «nei limiti della legge».
I verbali delle numerose sedute testimoniano che i «costituenti» seppero essere pari all'alto compito loro affidato. Non tutti i «costituenti» presero la parola, anzi la maggior parte non intervenne che con il voto; ma la presenza alle sedute fu quasi sempre elevata e sempre cospicua la partecipazione alle numerose votazioni. Furono ancora i componenti della Commissione che si distinsero nel dibattito accanto naturalmente ad altri «costituenti» e ai maggiori esponenti dei partiti politici, nonché ai ministri e al Presidente del Consiglio in carica, che peraltro tennero i loro discorsi dagli scranni dei deputati e non dal banco del Governo.
Situazione al settembre 1947
Nei primi giorni del mese passava in discussione la seconda parte del testo costituzionale, destinato all'ordinamento della Repubblica.
Proposte lasciate cadere:
- la proposta di una sola Camera, ma la seconda Camera, che tornò ad essere denominata Senato (della Repubblica) perdette quella composizione differenziata in ordine alla scelta dei suoi componenti, che il progetto aveva introdotto, e si assimilò alla Camera dei deputati;
- la proposta di una elezione direttamente popolare del Presidente della Repubblica, che i redattori del progetto avevano respinto;
- la istituzione dell’Assemblea Nazionale. Si previdero soltanto le Camere riunite in seduta comune con attribuzioni limitate.
Passarono:
- l'ordinamento regionale. Fu aggiunta la Regione del Friuli-Venezia-Giulia alle Regioni ad autonomia speciale e reintrodotte accanto ai Comuni le Province, che il progetto aveva degradato a sole circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale;
- la istituzione della Corte Costituzionale e il sistema per la revisione della Costituzione.
Approvate anche le disposizioni finali e transitorie, si volle anche sottoporre il testo costituzionale ad una politura letteraria ad opera di illustri linguisti, quali Antonio Baldini, Concetto Marchesi e Pietro Pancrazi.
Il giorno 22 dicembre 1947 il testo definitivo del progetto con i suoi 139 articoli e le disposizioni finali e transitorie, venne sottoposto al voto segreto di tutti i 515 «costituenti» presenti alla solenne seduta - anche il Presidente Terracini volle partecipare alla votazione, abbandonando il suo seggio a un Vice Presidente -, ed esso risultò approvato con 453 voti favorevoli e 62 contrari.
Proclamato l'esito della votazione fra generali applausi e conclusa la seduta in un'atmosfera di soddisfazione e anche di commozione, dopo i discorsi dell'on. De Gasperi e di Vittorio Emanuele Orlando, l'Assemblea Costituente non si sciolse ancora. Una disposizione transitoria della Costituzione stabiliva infatti che essa sarebbe stata convocata per deliberare, entro il 31 gennaio 1948, sulla legge per l'elezione del Senato, sugli Statuti regionali speciali e sulla stampa. Inoltre l'Assemblea avrebbe mantenuto, fino alla elezione delle nuove Camere, i compiti di controllo politico e di attività legislativa, che il decreto legislativo istitutivo del 1946 le aveva conferito; e in effetti le Commissioni permanenti, da essa costituite per l'esame dei progetti legislativi del Governo, rimasero a disposizione di questo.
Nel periodo residuo della sua attività di corpo politico, l'Assemblea Costituente approvò, con leggi costituzionali, gli Statuti della Sardegna, della Valle d'Aosta, del Trentino-Alto Adige e della Sicilia.
Infine approvò, completando la disposizione costituzionale sulla bandiera nazionale, l’emblema dello Stato: «La stella a cinque raggi di bianco bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota d'acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro rosso, con la scritta in bianco in carattere capitale: Repubblica Italiana».
Bibliografia:
Antonio Amorth, I lavori dell'Assemblea Costituente
in “Dal 25 luglio alla Repubblica. 1943-1946”, ERI 1966
Concetto Marchesi ed Egidio Meneghetti, due figure del mondo della cultura nella Resistenza
di Ezio Franceschini (*)
Da una conversazione tenuta il 23 gennaio 1975 nell'Aula magna dell'Università Cattolica di Milano
Fra le non molte figure di combattenti che l'Università italiana diede alla Resistenza due delle maggiori furono certamente quella di Concetto Marchesi e di Egidio Meneghetti, rettori dell'Università di Padova immediatamente prima e immediatamente dopo la liberazione: antifascisti da sempre, ma che solo le vicende del 1943-45 misero in piena luce.
Il primo, Concetto Marchesi, catanese ma padovano di elezione, appartenuto fin dalle origini (1921) al Partito Comunista Italiano, universalmente famoso, allora, per la sua Storia della letteratura latina (1925), diffusissima e strumento non ultimo dell'amore alla libertà nei pochi giovani che vi credevano; noto farmacologo l'altro, il Meneghetti. Entrambi nell'Università di Padova avevano tenuto deste le speranze in tempi migliori vivendo, per quanto riguarda il fascismo, in modo che curialescamente, in altro piano, si sarebbe detto passivo: cioè nulla facendo per il regime che li aveva relegati a Padova in una specie di domicilio coatto, ma che non impediva loro di insegnare, timoroso del loro prestigio, purché non gli dessero troppe noie. E, in verità, troppe noie non gli diedero fino al 25 luglio 1943.
La caduta del regime trovò i due, come tutti del resto, impreparati. Concetto Marchesi stava riposando nella casetta di Cavo all'isola d'Elba. Traversò in barca lo stretto di Piombino e cominciò, per il suo partito, una vita febbrile fra Pisa e Milano, Milano e Roma, Roma e Padova, finché il 1° settembre fu nominato Rettore dell'Università di Padova dal Governo Badoglio, essendo ministro della Pubblica Istruzione Leonardo Severi. Nel rinnovare il Senato Accademico volle accanto a sé uomini di sicuro passato antifascista; fra gli altri, Manara Valgimigli, preside di Lettere, e - appunto - Egidio Meneghetti, preside di Medicina, dal 1° novembre anche pro rettore.
Ma intanto gli eventi precipitavano. Entrati i tedeschi a Padova, il 15 settembre Marchesi presentava le dimissioni; ma essendo state respinte dal nuovo Ministro Biggini (28 settembre) decise di rimanere al suo posto, unico fra i rettori di nomina badogliana, fra il malumore e le dei suoi stessi compagni di partito: in realtà, come egli stesso dirà agli studenti nel proclama del 1° dicembre, sperava di mantenere l'Università immune dalla offesa fascista e dalla minaccia tedesca, e di poter difendere gli studenti da servitù politiche e militari.
E difatti nei mesi di ottobre e di novembre furono numerosi gli esempi di indipendenza e di fierezza che ancora si ricordano a Padova; non ultimo il discorso del 9 novembre con cui apriva l'anno accademico "in nome dell’Italia dei lavoratori, degli artisti, degli scienziati"; e in cui si dicevano, fra l'altro, ad una gran folla di studenti non mancavano militi fascisti e osservatori tedeschi (il ministro Biggini e il prefetto di Padova erano presenti in forma privata), parole come queste: "Sotto il martellare di questo immane conflitto cadono per sempre privilegi secolari e insaziabili fortune; cadono signorie, reami, assemblee che assumevano il titolo della perennità; ma perenne e irrevocabile è solo la forza e la podestà del popolo che lavora e della comunità che costituisce la gente invece della casta. Signori, in questa ora di angoscia, fra le rovine di guerra implacata, si riapre l'anno accademico della nostra Università. In nessuno di noi manchi, o giovani, lo spirito della salvazione. Quando questo ci sia, risorgerà tutto quello che fu malamente distrutto, si compirà tutto quello che fu giustamente sperato. Giovani, confidate nell'Italia. Confidate nella sua fortuna se sarà sorretta dalla vostra disciplina e dal vostro coraggio; confidate nell'Italia, che deve vivere per la gioia e il decoro del mondo, nell'Italia che non può cadere in servitù senza che si oscuri la civiltà delle genti”.
In questo periodo Marchesi aveva dato origine con Meneghetti e con un altro grande esule da Venezia, Silvio Trentin, rientrato dalla Francia, al primo centro operativo ed organizzativo del Comitato Veneto di Liberazione e delle forze che venivano armandosi contro i tedeschi e i fascisti. Operavano alla luce del sole: protetti dalla loro alta carica e dal loro personale prestigio.
Ma non poteva durare così. Alla fine di novembre i tedeschi avevano deciso l'arresto di Marchesi. Ma questi, avvisato, si diede alla macchia; in un primo tempo a Padova stessa, nascosto nella casa di un compagno di partito, per preparare alcuni documenti da diffondere nei giorni seguenti (la lettera di dimissioni da Rettore, in data 28 novembre, è di questo periodo; e così pure il proclama agli studenti datato 1° dicembre) e prendere tutte le misure per la sua vita clandestina. Doveva, infatti, mettere al riparo da ogni possibile rappresaglia la moglie e la figlia che trovavano, allora, alle Muraccia, sul crinale appenninico fra Pisa e Lucca. Esse, avvertite subito, si nascosero con falsi documenti prima a Sanremo, poi in un paesetto della Liguria (Apricale) vicino al confine francese, ove rimasero indisturbate fino alla fine del conflitto. Rassicurato sotto questo aspetto, il Marchesi lasciò di nascosto il suo rifugio e venne a Milano, dove già si trovava il 29 novembre.
Pochi giorni dopo (5 dicembre) a Padova veniva diffuso in migliaia di volantini il suo noto proclama agli studenti in data 1° dicembre, che segnò l'inizio ufficiale della Resistenza armata nel Veneto, e il suo centro animatore l’Università. Esso, ripetuto a varie riprese da Radio Londra, e pubblicato in seguito infinite volte, è troppo noto per si debba ripetere qui. Basti la parte finale.
«Studenti: non posso lasciare l'ufficio di rettore dell'Università di Padova senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine: voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede, l'impeto dell'azione, e ricomporre la giovinezza e la Patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi, insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell'Italia e costituire il popolo italiano. Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c’è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto o ha coperto con il silenzio e la codarda rassegnazione: c'è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina.
Studenti: mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi, maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno vi accende, non lasciate che l'oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l'Italia dalla servitù e dalla ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace mondo».
Dopo più di due mesi passati a Milano dove era facile restare nascosti, anche per molto tempo, ma non un uomo come lui, Marchesi prese contro voglia la via della Svizzera (9 febbraio 1944).
E gli altri? Silvio Trentin, che era stato arrestato alla fine del novembre 1943, moriva in un ospedale di Padova 12 marzo 1944 pronunciando parole che è bene ricordare "Che io muoia senza vedere la luce della faticata vittoria, dell'invocata giustizia, della riconquistata libertà ... che io chiuda. per sempre gli occhi in una camera d'ospedale … ch'io abbia perduto ogni bene e abbia veduto i migliori amici uccisi, dispersi, imprigionati, percossi dalle più disumane avventure, tutto questo non importa purché l’Italia si salvi".
Egidio Meneghetti aveva anch'egli una famiglia che adorava; ma questo caro legame di affetti gli fu crudelmente strappato dal bombardamento aereo del 16 dicembre 1943 che gli uccise la moglie e la figlia, già sue attive collaboratrici nella Resistenza.
Ecco dunque i due amici divisi: il Rettore, esule in Svizzera, dove i suoi amici, non lui, lo avevano voluto in salvo, l'altro, il prorettore, al suo posto di lotta, a Padova nella loro università, privo ormai anche di quei sacri affetti che rendono di solito titubanti, specialmente gli intellettuali davanti alle decisioni più gravi. Ora, a distanza di tanti anni, si capisce quanto sia stato giusto e provvidenziale che sia stato cosi: Marchesi, uomo dalle grandi visioni storiche, aveva come arma micidiale la parola, detta o scritta, ma era incapace di maneggiare una rivoltella, e non sapeva distinguere il nord dal sud; Meneghetti, uomo pratico per eccellenza, valoroso combattente della prima guerra mondiale, aveva il genio dell’organizzazione e sapeva scegliere gli uomini. Così, divisi materialmente, furono uniti quanto altri mai nella lotta, ciascuno a modo suo; e un frequentatissimo andare e venire clandestino di lettere ne coordinava l'azione: merito, questo, anche dell'industriale padovano Giorgio Diena (e della sorella Wanda) che, uomo di grande attività, era diventato in Svizzera il factotum di Marchesi.
Marchesi fu attivissimo presso i comandi alleati a Lugano, Zurigo, Berna; e tanto tempestò e fece che ottenne ogni aiuto possibile per il Comitato Veneto di Liberazione: armi, munizioni, esplosivi, materiali bellici di ogni genere, attraverso lanci aerei; per ottenere i quali quando gli pareva che fossero, come erano per necessità, troppo scarsi o lenti, egli scriveva lettere di questo tenore al Capo dei servizi tecnici alleati a Berna: "Le trasmetto con qualche esitazione una nuova richiesta di lancio. Una volta mi pareva che tali richieste riguardassero un'opera di comune utilità: e le presentavo con animo più sicuro. Ora comincio ad avere l'impressione di essere un mendico che continua a battere alla porta di un ricco signore che ci consigli di appartenere all'esercito della pazienza anziché a quello della Resistenza" (lettera del 20 luglio 1944, da Lugano).
Nella sua ansia di aiutare i partigiani non si accorgeva nemmeno, il Marchesi, di diventare ingiusto: perché gli Alleati avevano tutta l'Europa oppressa e angariata dai nazisti cui pensare e provvedere, non soltanto quella piccolissima parte che era il Veneto. Ma tale era il fascino della sua parola e della sua personalità che molto egli ottenne nei mesi che vanno dal maggio al dicembre di quel cruciale 1944; persino il tono dei "messaggi speciali bianchi" con i quali Radio Londra annunciava la venuta degli aerei sul Veneto e altrove, aveva il suo sigillo inconfondibile. È cessata la pioggia - il vento è spento - l'acqua va al mare - Nino legge il breviario - teorema di Pitagora - l'ippopotamo del Nilo: e cento altri.
E questo finché, cessati nel novembre i lanci, il 4 dicembre 1944 egli lasciò la Svizzera per Roma (via Francia) su invito del governo Bonomi, con alcuni altri illustri fuorusciti: Einaudi, Colonnetti, Boeri, Gasparotto, Facchinetti, Gallarati Scotti, Carnelutti, Jacini, Alessandrini (il viaggio, in aereo, da Lione ebbe luogo il 10 dicembre).
Cessava cosi la lunga parentesi svizzera e il rimorso Marchesi di non essere stato fra i combattenti veri della Resistenza: in realtà egli non fu mai, come in quel periodo, un vero combattente, con le sole armi che sapeva usare.
Ma torniamo ora nel Veneto, dove ferveva la lotta clandestina. Col passare del tempo le file degli umili si rinforzavano, quelle dei capi si diradavano; Norberto Bobbio era in prigione a Verona; Diego Valeri, condannato a trent’anni di reclusione, si era sottratto alla pena passando in Svizzera (5 aprile 1944). Restava imperterrito Meneghetti, capo indiscusso del movimento di Resistenza; dapprima a faccia scoperta; poi, dalla fine di settembre 1944 (aveva avuto l'incredibile abilità e audacia di resistere fino a quella data) ridotto a vita clandestina: "... lo e il fratello di Paola (prof. Zancan) ricercatissimi", scrive a quella data, "ordine di sparare a vista su di noi. Ma, aggiunge, "non ci vedono”.
Il 3 ottobre 1944 giungeva tuttavia un appello pressante: "Qui mi danno una caccia affannosa... ora stanno preparando un ricatto di questo genere. Se entro 15 giorni da oggi 3 ottobre non riescono a prendermi, i Tedeschi hanno deciso di prendere 200 ostaggi da mandare in Germania se io non mi consegnerò nelle loro mani. Bisognerebbe che Radio Londra trasmettesse che è felicemente arrivato in Svizzera il prof. M., farmacologo dell'Università di Padova e prorettore durante il rettorato Marchesi". Per opera di Marchesi, profondamente angustiato e preoccupato per le sorti dell'amico, che per evitare i 200 ostaggi si sarebbe certamente consegnato ai tedeschi, il desiderio venne prontamente accolto. Prima Radio Londra comunicò e poi tutti i giornali della Svizzera riportarono notizia dell'entrata nella Confederazione del prof. Meneghetti il 9 ottobre. Così i tedeschi, creduloni come sempre alle cose che avevano l'aspetto del vero, rinunciarono alla minaccia degli ostaggi e Meneghetti poté continuare a vivere e a operare a Padova. Aveva il tempo di pensare anche al futuro della città; ed era lieto di annunziare (9 ottobre) a Marchesi che per delibera del Comitato Veneto di Liberazione il primo prefetto di Padova libera sarebbe stato lui Marchesi, e il primo sindaco Lanfranco Zancan.
Ma poi fu la fine della stretta collaborazione Padova-Milano-Svizzera, proseguita ininterrottamente per dieci mesi. Il proclama Alexander (10 novembre 1944) poneva termine ai lanci; gli arresti del 20 novembre disperdevano il gruppo milanese, che non cessava tuttavia la sua attività; la cattura di Meneghetti a Padova, il 7 gennaio 1945, dava un duro colpo alla Resistenza veneta privandolo del suo capo. Meneghetti fu arrestato nella clinica del prof. Palmieri; condotto a Palazzo Giusti fu torturato, battuto con catene di ferro, tenuto costantemente ammanettato. Tenne sempre un contegno magnifico, ammirato dagli stessi nemici. Si era nel gennaio 1945 e i tedeschi, ormai sicuri della sconfitta vicina, erano favorevoli ai cambi di prigionieri. Così avvenne che attraverso vicende infinite Meneghetti ebbe salva la vita e in attesa di essere scambiato con un nipote del gen. Wolff, fatto prigioniero in Africa e portato in America, fu tenuto in Italia: prima a Padova, poi a Verona, poi nel campo di concentramento di Bolzano dove lo trovò la liberazione il 30 aprile 1945.
I due amici, Marchesi e Meneghetti, si rividero il mese dopo e ripresero il governo dell'Università: ma rivolgere agli studenti il loro saluto, essi avevano davanti agli occhi gli impiccati, i fucilati, i torturati, i non più tornati dai campi di sterminio della Germania, dell'Austria, della Polonia; pochissimi e non i professori, molti e dai nomi ignoti gli studenti: «Universitari padovani! Nel riprendere la direzione del vostro Ateneo, il nostro primo pensiero è rivolto a quelli che nella suprema battaglia di liberazione si offrirono alla Patria con l'eroico sacrificio. I loro nomi resteranno nella perpetuità della memoria. L'Università di Padova, che nel novembre 1943 iniziava il nuovo Risorgimento italiano e prima fra tutte sosteneva sino alla fine la lotta contro la più vile e feroce delle oppressioni, comincerà col nome dei suoi caduti i fasti della Sua gloria rinnovata.
Voi restituirete agli italiani il senso lieto della vita la coscienza della libertà che è la gioia di espandere il proprio pensiero e il proprio volere; restituirete la serenità dello spirito e delle opere a questo popolo nostro che nei tempi luminosi ha donato al mondo miracoli di arte e civiltà. La nuova Italia risorgerà con il lavoro che non si interrompe e con la fede che non vacilla; sorgerà dal lungo travaglio, calma e sicura come tutti i grandi sacrifici destinati a vivere nei secoli. "Il destino ha voluto fecondare dinanzi a voi tutti i germi del male. Quest'albero attossicato dalla terra lo conoscete voi nati e cresciuti alla sua ombra. Recidetene i rami, non dimenticate la radice. Questa bisogna estirpare e distruggere. È profonda ma è visibile: la rintraccerete se non avrete dimenticato il dolore della terra. E finché ci basti la vita noi maestri vi saremo compagni nel vostro cammino». (26 maggio 1945).
Il 12 novembre 1945 Ferruccio Parri, capo del primo governo dell'Italia libera, appuntava sul labaro dell'Università la medaglia d'oro al valor militare della Resistenza: unica fra le università italiane. La motivazione, dettata da Concetto Marchesi, dice:
«Asilo secolare di scienza e di pace, ospizio glorioso munifico di quanti da ogni parte d'Europa accorrevano ad apprendere le arti che fanno civili le genti, l'Università Padova nell'ultimo immane conflitto seppe, prima fra tutte, tramutarsi in centro di cospirazione e di guerra; né si piegò per furia di persecuzioni e di supplizi; dalla solennità inaugurale del 9 novembre 1943, in cui la gioventù padovana urlò la sua maledizione agli oppressori e lanciò aperta la sfida, sino alla trionfale liberazione della primavera 1945, Padova ebbe nel suo Ateneo un tempio di fede civile e un presidio di eroica resistenza; e da Padova la gioventù universitaria partigiana offriva all'Italia il maggiore e più lungo tributo di sangue. Al labaro dell’Università padovana, che conobbe altre insegne di virtù militari si aggiunga ora la più alta decorazione al valore, testimonianza di un sacrificio e di una vittoria che resteranno ammonimento ed esempio».
Concetto Marchesi morì a Roma il 12 febbraio 1957. L’11 febbraio 1961 ne fu tenuta la commemorazione ufficiale all’Accademia dei Lincei alla presenza di Luigi Einaudi, allora presidente della Repubblica, che gli era stato vicino in Svizzera e compagno nel volo Lione-Roma del 10 dicembre 1944. Meneghetti, senza dir nulla a nessuno, volle essere presente: e ritornò a Padova in silenzio come era venuto. Fu l'ultima volta che lo vidi: tre settimane dopo anch’egli moriva (4 marzo 1961).
In questi due uomini l'Università di Padova ebbe due Rettori di eccezione in tempi difficilissimi; la scuola italiana due esempi di vita; la Resistenza due combattenti valorosi. E merito loro, e di pochi altri, se il mondo dei docenti universitari, chiuso nei suoi egoismi e pavido nella avversità per i troppi beni, o creduti tali, che ha da difendere, non ha trascorso anche quest'ultimo Risorgimento avvolto nella nebbia dell'indifferenza, dell'assenteismo e della paura.
In conclusione dobbiamo amaramente dire che anche nella Resistenza del 1943-45 riscontriamo molto diffuso il fenomeno noto col nome di “tradimento degli intellettuali” Se ancora una volta gli umili non fossero assurti a guida della storia, le pecore accademiche starebbero ancora facendo la loro tranquilla siesta paghe di non essere disturbate e la loro abbondante lana fornirebbe l'orbace alle quadrate legioni.
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(*)Ezio Franceschini capitano degli Alpini, è stato partigiano combattente: il suo gruppo si chiamava FRAMA (dalle iniziali sue e di Concetto Marchesi), e operò dal novembre 1943 fino alla Liberazione. È stato professore ordinario all'Università Cattolica di Milano dopo esserne stato rettore dal 1965 al 1968, e per molti anni preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Bibliografia:
1945/1975 ITALIA. Fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento.
Conversazioni promosse dal Consiglio regionale lombardo nel trentennale della Liberazione.
Feltrinelli Editore aprile 1975
contro ogni fascismo: manifestazione nazionale 9 dicembre 2017 a Como
Dichiarazione della Presidente nazionale ANPI sulla manifestazione del 9 dicembre a Como
L'ANPI considera il fatto che i partiti e le istituzioni stiano prendendo attiva consapevolezza dell'attualità e dell'urgenza dell'antifascismo come un importante passo in avanti verso la costruzione di una democrazia piena e responsabile. Per questo motivo saremo presenti il 9 dicembre a Como. Nel solco della nostra iniziativa avviata con le giornate nazionali antifasciste del 27 maggio e del 28 ottobre continueremo nelle prossime settimane a sollecitare e costruire percorsi unitari. Nel nome della Resistenza da cui nacque la nostra Costituzione Repubblicana.
CARLA NESPOLO