Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Il 25 luglio: gli aspetti politici

22 Juillet 2020 , Rédigé par Renato Publié dans #il fascismo

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 Ormai conosciamo quasi ogni dettaglio, ora per ora, della giornata del 25 luglio 1943 o, per dir meglio, di quegli eventi che si svolsero dall'inizio, in Palazzo Venezia, della riunione del Gran Consiglio del fascismo, nel tardo pomeriggio di sabato 24 luglio, sino alla notizia dell' arresto di Mussolini diramata la sera successiva.

Il ritmo drammatico di quelle ore continua ad eccitare la fantasia degli scrittori mentre gli storici - in base alla abbondanza di dati che, pur tra ombre residue, permettono ora la conoscenza delle azioni dei grandi protagonisti (il fascismo, la Corona, le forze armate, l'antifascismo, i tedeschi e gli anglo-americani) - cercano di valutarne le cause, il significato e le conseguenze.

Lo smarrimento da cui era pervasa tutta la classe dirigente fascista, Mussolini compreso, di fronte all'inevitabile disastro; il completo disfacimento di quella totalitaria organizzazione fascista, dalla milizia alle corporazioni, che aveva per tanti anni soggiogato il Paese; la prova di fedeltà allo Stato, impersonato dal re, fornita dalle forze armate, dalla polizia e dalla burocrazia; i limiti oggettivi dell'azione del monarca; la larga base popolare dell'antifascismo dimostrata dalle spontanee esplosioni di giubilo che ripulirono in una notte tutte le nostre città dai simboli fascisti e dettero segni non equivoci di avversione alla guerra nazista; la follia hitleriana che trascinava a totale rovina la Germania e pretendeva pari assurdo sacrificio dal proprio alleato; la diffidenza anglo-americana e la difficoltà di contatti tra i belligeranti: sono questi i dati di un avvenimento storico che non può essere rimpicciolito alle proporzioni di una congiura di palazzo.

Mussolini, entrato in guerra con confessata impreparazione e con la sicurezza di una rapidissima conclusione, si trovò legato alla Germania più che non desiderasse, e obbligato ad una guerra di lunga durata in cui ogni giorno marcava la sproporzione tra le risorse di ogni altro belligerante e le possibilità di resistenza italiane.

Accecato dalle vittorie tedesche non si rese conto - come invece ai più attenti osservatori fu chiaro prestissimo, prima ancora della incredibile campagna di Grecia, del crollo dell'Impero di Etiopia e della clamorosa denuncia di Graziani sulle insufficienze militari in Africa Settentrionale - che la nostra guerra era perduta.

Gli avvenimenti africani dell'autunno 1942 (offensiva di El-Alamein, sbarco alleato in Africa Settentrionale) e le notizie di Stalingrado e della controffensiva sovietica che provocò il disastro dell'ARMIR non lasciarono però dubbi a nessuno e seminarono il panico nelle file fasciste.

Fu vano il tentativo di rianimarlo con «l'ultima ondata », con la segreteria Scorza e con un nuovo capo della polizia. Facendosi eco degli umori dei loro camerati anche i più alti gerarchi, sia pure in modi e toni diversi, non nascondevano più malcontento e critiche al loro capo.

Mussolini intanto, alla ricerca di una via di uscita, si dibatteva tra i più disparati progetti: portare la guerra in Spagna; indurre Hitler alla pace con l'Unione Sovietica per concentrare le forze dell'”asse” contro gli anglo-americani; lanciare una politica di europeismo che attenuasse l'avversione dei popoli contro l'egemonia tedesca; tentare sondaggi presso gli Alleati attraverso l'ambasciatore a Madrid; imbastire una azione congiunta con Romania e Ungheria per trattare con gli anglo-americani prospettando i pericoli della penetrazione sovietica nella zona danubiana. Infine tentò l'ultima carta a Feltre sperando di convincere Hitler a concedergli forti aiuti in aerei e in carri armati od autorizzarlo a sganciarsi.

Hitler Mussolini al Brennero

In questa crescente ansietà, che era la probabile causa del male che affliggeva Mussolini dall'autunno 1942, gli sembrò forse una via di uscita accettare la convocazione del Gran Consiglio. Vi trovò, e non lo ignorava, la ribellione dei suoi gerarchi più fedeli, sia di quelli, come Farinacci, che si sapevano strettamente legati ai tedeschi, sia di quelli come Grandi, Federzoni, Bottai e Ciano che denunciarono la slealtà dell'alleato e che, con la maggioranza, rivolsero al re l'invito a riassumere «per l'onore e la salvezza della patria, con l'effettivo comando delle forze armate, quella suprema iniziativa di decisione attribuitagli dalle istituzioni».

A poche ore dalla fine di quella seduta, Mussolini era in stato di arresto, la sua milizia aveva accettato il fatto compiuto e tutte le organizzazioni fasciste si erano dileguate prima ancora di essere disciolte.

Se mai dunque v'era stato tra i membri del Gran Consiglio un programma di successione, i fatti ne dimostrarono subito l'assurdità e l'impossibilità. Il fascismo aveva dichiarato il proprio fallimento.

Sollecitazioni ad agire erano state rivolte da mesi al monarca sia da parte fascista come da parte antifascista; interventi non equivoci ci furono anche da parte di militari. Il re ascoltava tutti senza parlare, ma evidentemente annotava tutto; nel più rigoroso segreto predisponeva le tessere di un mosaico che si rivelò solo alla fine e dopo molte apparenti incertezze e ambiguità. Bisogna riconoscere che si trattava di una decisione né facile né agevole ad eseguirsi. Avendo accettato per tanti anni di condividere le responsabilità del fascismo e anche quella della guerra, al re non rimaneva altra giustificazione per il suo intervento all'infuori dello stato di necessità. I suoi scrupoli, la sua prudenza e quel che fu chiamato il suo gretto costituzionalismo gli impedivano di muoversi prima di avere avuto certezza di comune consenso e gli facevano rifuggire vie che fossero fuori dell'ambito degli ordinamenti esistenti.

Il re conosceva bene il travaglio del mondo fascista, ma sapeva anche disorganizzato, impotente e diviso il campo antifascista verso il quale si dirigeva ormai la massa dei cittadini.

Aveva motivo di preoccuparsi per la coalizione formatasi a Milano tra un forte movimento socialista, il Partito Comunista e il Partito d'Azione che vi portava la sua intransigente pregiudiziale rivoluzionaria e repubblicana e cercava di ostacolare i tentativi della coalizione delle correnti di democrazia liberale, socialista e cristiana che, formatasi a Roma intorno a Bonomi, si adoperava a sollecitare l'intervento della monarchia considerata in quel momento la sola forza in grado di affrontare la liquidazione del fascismo e il ritiro dell'Italia dalla guerra dell'”asse”.

Contribuì a migliorare la situazione lo spregiudicato senso della realtà dei comunisti che, fallito l'appello a qualche capo militare e allo stesso Badoglio, constatate le difficoltà di risolutivi moti popolari, pur senza sottovalutare l'importanza e il significato degli scioperi del marzo 1943, dettero mandato a Concetto Marchesi di trattare con la coalizione delle democrazie e intanto, per il tramite di Carlo Antoni e la principessa di Piemonte, fecero pervenire al Quirinale assicurazioni sul loro contegno in caso d'intervento regio.

Finalmente il 4 luglio 1943, raggiunta una intesa generale tra i partiti antifascisti, i delegati delle organizzazioni clandestine riunitisi a Milano, decisero:

- di costituire un unico comitato di coordinamento delle correnti antifasciste;

- di non ostacolare, ed anzi facilitare l'eventuale intervento regio per la fine del fascismo e della guerra;

- di impegnarsi tutti insieme sul piano rivoluzionario se l'intervento regio non si fosse verificato;

- di collaborare in ogni caso lealmente al ristabilimento di libere istituzioni democratiche e di non riprendere la propria libertà di azione se non dopo aver raggiunto questo obbiettivo comune.

Così, solo dopo il 4 luglio, al Quirinale poté pervenire la certezza della collaborazione di tutte le correnti antifasciste.

sbarco alleato Sicilia 27 sbarco alleato Sicilia 4

Il 10 luglio lo sbarco degli Alleati in Sicilia fornì l'evidenza dello stato di necessità. Ancora una battuta di arresto per il convegno di Feltre e l'illusione che Mussolini riuscisse a carpire il consenso di Hitler per lo sganciamento dall'alleanza. Con il fallimento di quel convegno, non esistevano più giustificazioni possibili per altri indugi e la decisione del re fu infine presa. La deliberazione del Gran Consiglio del fascismo gli offrì la legittimazione formale per l'intervento e l'occasione per anticiparlo di 24 ore.

Il più rigoroso segreto aveva accompagnato i preparativi dell'intervento regio. I contatti con Grandi e gli altri gerarchi della fronda fascista; quelli con Bonomi, Soleri e altri esponenti antifascisti; le predisposizioni per cui da mesi si assicuravano al Comando dei Carabinieri, allo Stato Maggiore, alla polizia uomini convinti della necessità di liberare l'Italia da Mussolini e dalla soggezione tedesca; i piani che il generale Castellano preparava in continuazione per l'arresto del dittatore: restarono, cosa davvero rarissima, sconosciuti alle varie polizie segrete tedesche e ai servizi d'informazione fascisti. Nessuno, e forse neanche il ministro della Real Casa Acquarone, fu in grado, fino agli ultimissimi giorni o addirittura fino all'ultimo giorno, di conoscere le vere intenzioni del re.

«Non esiste segreto in Italia» aveva detto Vittorio Emanuele a Bonomi nel colloquio del 2 giugno. Ed egli mantenne il suo segreto al punto che ognuno poté poi parlare di esitazioni, di cinismo, di ambiguità e di tradimento, ma nessuno poté prima conoscere e far fallire i suoi piani.

Dispiacque agli antifascisti che la revoca di Mussolini fosse legata alla deliberazione del Gran Consiglio fascista quasi a riconfermare la continuità del regime. Dispiacque la formazione di un governo in cui, oltre i militari, non v'erano che funzionari iscritti al partito fascista.

«Il modo - aveva sostenuto Bonomi riflettendo le aspirazioni e il patriottismo della parte antifascista - non può essere che questo: abbattimento della dominazione fascista e instaurazione di un governo nettamente antifascista che separi l'Italia, l'Italia del Risorgimento e di Vittorio Veneto, dalla Germania di Hitler e del nazismo. Gli uomini complici del fascismo, gli assertori, sino a ieri, della vittoria dell'”asse”, gli antichi nemici delle democrazie non sono qualificati a concludere una pace di dignità. Essi possono chiedere la resa incondizionata, non possono ricondurre l'Italia nel consesso delle libere nazioni».

1943 25 luglio messaggio Badoglio

Strideva dunque la frase del proclama reale:

«Ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede, di combattimento; nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione può essere consentita».

E sconcertante apparve il proclama di Badoglio:

«La guerra continua. L'Italia, duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data».

Queste frasi permisero, dopo l'8 settembre, alla propaganda nazista di denunciare il “tradimento italiano”. Ma i documenti ritrovati negli archivi del ministero degli Esteri e del ministero della Guerra tedeschi provano che già da mesi, prima del 25 luglio 1943, Hitler, mentre parlava il linguaggio della solidarietà e dell'amicizia, predisponeva i piani e le Divisioni per l'occupazione dell'Italia.

Purtroppo non era un compito difficile e Vittorio Emanuele lo sapeva quando, il 15 maggio 1943, redigeva in malinconici appunti l'inventario delle forze armate italiane disponibili nella Penisola: 

«Abbiamo ora tre Divisioni in Piemonte ed in Liguria che non si possono spostare perché sono la riserva delle scarse truppe che occupano la Provenza; una Divisione paracadutisti in costituzione a Firenze; tre Divisioni presso Roma; una Divisione in Calabria; una Divisione in Puglia; sette o otto Divisioni da ricostituire nella Valle Padana. Delle Divisioni che sono nella penisola solo due sono complete e cinque efficienti... tutte queste Divisioni sono di sei battaglioni scarsamente provveduti di armi di accompagnamento, le artiglierie divisionali sono antiquate, non vi sono unità di carri armati salvo i pochi carri dei tedeschi. Questo stato di cose è certamente noto agli anglo-americani a cui sono anche note le misere condizioni della nostra flotta (ridotta a tre navi di linea, quattro incrociatori leggeri e dodici cacciatorpediniere) e della nostra aeronautica ». 

Anche i tedeschi sapevano che il nerbo dell'esercito italiano era stato distrutto in Africa, in Grecia ed in Russia; non si facevano illusioni sulle possibilità di ulteriore resistenza italiana.

I rapporti tra italiani e tedeschi non erano mai stati improntati, nel corso della guerra, alla migliore confidenza: decisioni di capitale importanza rese note all'ultimo secondo; condotta di guerre autonome e parallele più che concertata condotta di una guerra globale; geloso segreto sulle notizie fornite dallo spionaggio anche se riguardanti l'alleato; segreto ancor più severo non solo sulle armi in preparazione, ma anche su quelle possedute (come il radar di cui rimase priva la marina italiana) furono le caratteristiche di quella strana alleanza.

Quando poi fu chiaro che la strapotenza anglo-americana, con eccezionale concentrazione di armi e di unità modernissime, si sarebbe rovesciata sull'Italia individuata come il punto debole della fortezza europea, la situazione italiana non fu più vista se non in funzione della difesa della Germania. Sarebbe stato impossibile contestare all'Italia il diritto di ritirarsi da una guerra che non era più in grado di sostenere e i cui scopi erano ormai irraggiungibili. Ma la follia hitleriana vietava ai tedeschi, così come ai loro alleati, di dubitare della vittoria finale; ogni proposito di pace era considerato tradimento.

Così tra il 10 ed il 16 maggio, proprio nello stesso tempo in cui Vittorio Emanuele III tracciava il triste inventario delle residue forze italiane, venne preparato per lo Stato Maggiore Generale tedesco un «panorama della situazione nell'eventualità del ritiro dell'Italia dalla guerra », e si preparò il piano “Alarico” per le necessarie contromisure. Rommel fu destinato a tale compito. Perché le armi tedesche fornite agli italiani non potessero essere usate contro la Germania, nel caso di un colpo di Stato a Roma seguito dal ritiro dell'Italia dalla guerra, Hitler evitò di soddisfare le richieste di Mussolini. Il 20 maggio dette addirittura ordine di ridurre al minimo i rifornimenti di munizioni alle batterie antiaeree italiane. Ai primi di giugno, in esecuzione del piano “Alarico”, furono date disposizioni per lo spostamento dall'ovest delle Divisioni destinate al controllo dei passi alpini e al disarmo delle Divisioni italiane in Francia, nonché all'occupazione dell'Italia Settentrionale. Per garantirsi da ogni indiscrezione Hitler conservò sui movimenti del piano “Alarico” il massimo segreto possibile riservandosi personalmente ogni decisione.

Il 25 luglio, quando scattò il piano di Vittorio Emanuele, i tedeschi avevano in Italia otto Divisioni di cui quattro poderose Divisioni corazzate, e tutte munite di una ricchissima dotazione di mezzi automobilistici che rendeva loro facile qualsiasi concentramento, mentre almeno altre otto Divisioni tedesche erano concentrate nella zona di Innsbruck pronte a scendere in pochi giorni in Italia come cominciarono a fare dal 26 luglio.

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Si è a lungo discusso sulla mancanza di previe intese con gli anglo-americani o almeno sulla rapidità di decisioni riguardo alla cessazione della guerra.

È difficile dire se la prima cosa sarebbe stata possibile mantenendo il rigoroso segreto che era indispensabile per il successo del colpo di Stato. È stata inoltre proprio una caratteristica di questa guerra lo strano isolamento per cui, malgrado i soliti servizi di spionaggio negli stati neutrali, non vi fu possibilità di contatti ufficiosi o almeno di contatti utili con le potenze dell'altro campo. La diffidenza dominò sino alla fine e anche i fatti successivi all'armistizio provarono quanto difficile fosse influire sui propositi politici e ancor più sui piani militari predisposti dagli angloamericani. Non era facile neppure superare l'avversione e il sospetto contro quel che era chiamato il machiavellismo monarchico fascista.

Ora sappiamo che, subito dopo il 25 luglio, Hitler predispose il piano “Student” per l'occupazione di Roma e la restaurazione del governo fascista. Dovette sembrare a Badoglio che occorresse anzitutto guadagnare tempo, neutralizzare i fascisti, riorganizzare l'esercito, far rientrare in Patria i nostri soldati dislocati fuori dai confini e preparare in qualche modo agli eventi il popolo italiano. Per un po' dovette durare anche l'illusione di potere ottenere da Hitler, con Guariglia, quel consenso allo sganciamento che inutilmente aveva sperato Mussolini.

Ma il tempo giovava anche ai tedeschi che fecero affluire altre Divisioni al di qua del Brennero e le predisposero in modo da impedire ogni libertà di movimento delle nostre truppe.

Le accese polemiche tra coloro che si aspettavano l'immediata denuncia dell'alleanza e coloro che per quarantacinque giorni, mantennero con i tedeschi quei rapporti di reciproco inganno, possono ora considerarsi con maggiore consapevolezza del rischio che si correva. Una denuncia improvvisa e clamorosa, per le ripercussioni che avrebbe potuto avere nei paesi satelliti e in Germania, avrebbe scatenato subito le contromisure tedesche. L'episodio avrebbe potuto non avere né durata né effetti maggiori di quelli che ebbe in Germania, un anno dopo, il 20 luglio 1944, la congiura dei generali.

Fu generosa, ma ingenua illusione di alcuni, e perciò scottante fu la delusione e acerbe furono le critiche, che si potesse raggiungere l'immediato ritiro dell'Italia dal conflitto e che la tragica situazione in cui eravamo stati trascinati con la guerra a fianco della Germania potesse risolversi senza pagare un duro prezzo di riscatto.

Delle due operazioni: liquidazione del fascismo e ritiro dalla guerra, cui era diretto l'atto del 25 luglio, la prima fu sostanzialmente compiuta almeno quanto bastava per consentire al popolo italiano di conoscere finalmente la verità e di riacquistare coscienza di sé e delle proprie responsabilità; la seconda, dati gli uomini e la situazione, non poteva avere altre prospettive che la resa incondizionata, la reazione tedesca e la prosecuzione delle ostilità sul nostro territorio.

Potrebbe sembrare un disastroso bilancio, ma dalla liquidazione del fascismo sorsero nuove energie e nuove situazioni che in definitiva salvarono l'Italia anche dal disastro finale.

Il 25 luglio non fu fatto di popolo, ed in ciò aveva i suoi limiti; ma segnò la fine di una politica autoritaria che affidava a pochi e ad uno solo ogni decisione. Quella sera stessa il popolo fece sentire la sua voce e da allora, di fatto, riprese in mano il proprio destino. Se lo forgiò con la Resistenza e con la guerra partigiana che dettero testimonianza non discutibile del vero animo degli italiani.

Questo primo vero miracolo italiano ci permise di riguadagnare dignità e fiducia nell'avvenire, di salvare l'unità fondamentale e l'indipendenza della Patria, di assicurarci liberi ordinamenti democratici e di rientrare con onore nel consesso delle nazioni.

 

 

Bibliografia:

Leone Cattani in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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Il 25 luglio: come lo seppero gli italiani

22 Juillet 2020 , Rédigé par Renato Publié dans #il fascismo

Il 25 luglio 1943 era una domenica. I romani la ricordano come una giornata greve, afosa, senza un filo di vento, di quelle da passare in casa, in attesa del ponentino serale.

Al caldo si aggiungono le preoccupazioni del momento.

Il Paese è in guerra da tre anni. È stanco. Le cose vanno sempre peggio. Batoste militari, bombardamenti sulle città, la baracca fascista che fa acqua da tutte le parti. Forse mai dall'inizio della guerra, c'è stato un divorzio così completo tra l’azione del governo e la volontà del popolo. Mentre Mussolini, i gerarchi, i giornali continuano a parlare di guerra fascista, mete fasciste e cosi via, il popolo, stanco di chiacchiere, di luoghi comuni, di mistificazioni, identifica sempre più fascista con tutto ciò che è frusto irritante, grottesco.

Si sente che qualcosa deve succedere, ma che cosa e come, nessuno lo sa. Quando il giorno prima, nel pomeriggio del 24, si è sparsa la voce della riunione del Gran Consiglio del fascismo, la cosa, al grosso pubblico, non ha fatto né caldo né freddo.

Si è pensato ad una riunione di “routine”, una delle solite parate per dar polvere negli occhi alla gente. Nessuno si illude che ne possa uscire qualcosa di nuovo. Nessuno crede più a niente. Più le cose vanno male, e più l'Italia si adagia in un inerte torpore. E le cose, da qualche tempo, non basta dire che vanno male. Vanno. a precipizio, con una accelerazione, un moto sempre più vorticosi, che sembrano il preannuncio di una catastrofe imminente.

Quindici giorni prima, nella notte fra il 10 e l'11 di luglio, le truppe anglo-americane erano sbarcate in Sicilia. La linea del “bagnasciuga” non aveva tenuto. Il 19 luglio nella Villa Gaggìa di Feltre, Mussolini si era incontrato con Hitler, con l'intenzione, a quanto pare, di parlargli chiaro. Ma poi, a tu per tu con lui, e nonostante gli incitamenti di Ambrosio, Bastianini e Alfieri che lo accompagnavano, aveva fatto scena muta, e lasciato che Hitler parlasse ininterrottamente per tre ore.

Lo stesso giorno dell'incontro di Feltre, intanto, Roma ha subìto il primo bombardamento aereo. I quartieri Tiburtino e Prenestino sono sconvolti. Il re non si fa vivo. Mussolini, tornato da Feltre, ha altre gatte da pelare. Solo il Papa troverà per la gente una parola di conforto.

papa-Pio-XII.jpg Roma bombardata 19 luglio 1943

Il solco tra regime e Paese si approfondisce ancora, diventa un abisso.

Questa è l'atmosfera di Roma all'alba del 25 luglio.

Un'atmosfera fatta di odio del presente e di paura del futuro. Una cappa di piombo, di rabbia impotente. Il senso che così non si va avanti e insieme che non si sa come uscirne.

Quello che i romani non sanno ancora, mentre si girano nel letto sotto i morsi della calura, è che quella notte, mentre il cielo si tingeva delle prime luci fra Pincio e Aventino, il regime è finito. Dopo dieci ore di dibattito, il Gran Consiglio ha messo in minoranza Mussolini su un ordine del giorno Grandi che restituisce al re la suprema iniziativa delle decisioni.

È stata una “notte dei lunghi coltelli”. Un'acre, spietata requisitoria contro il loro capo da parte di coloro che per vent'anni l'hanno servito come un idolo. Ma la nave affonda e i topi cercano di salvarsi.

Dirà più tardi Mussolini:

«Sentii subito nell'aria un'ostilità dura. Parlai senza entusiasmo, a bassa voce. Mi dava un tremendo fastidio la luce delle lampade elettriche. Mi sembrava di assistere al processo contro di me. Mi sentivo imputato e nello stesso tempo spettatore. Ogni energia dentro di me si era spenta». 

Quando Mussolini ha finito di parlare, comincia il fuoco di fila delle contestazioni.

De Bono: «C'è soprattutto una responsabilità politica: la tua responsabilità nella scelta dei capi militari». 

Bottai: «È la tua relazione a darci la sensazione che una difesa tecnicamente efficace della penisola è impossibile».

De Vecchi: «Non ci si venga a raccontare frottole. Nessuno ha tradito. Se abbiamo preso batoste, è perché si andava allo sbaraglio contro un nemico cento volte più forte di noi». 

Grandi: «Fra le molte frasi vacue o ridicole che hai fatto scrivere sui muri di tutta Italia, ce n'è una che hai pronunciato dal balcone di Palazzo Chigi nel 1924: - Periscano le fazioni, perisca anche la nostra, purché viva la nazione -. È giunto il momento di far perire la fazione».

Ciano: «Voi, duce, non nascondeste mai nulla all'alleato. Ma l'alleato non ci ripagò con la stessa lealtà. Ogni accusa di tradimento che i tedeschi muovessero all'Italia potrebbe essere ritorta. Noi non saremmo in ogni caso dei traditori, ma dei traditi». 

De Marsico: «Le democrazie di tipo parlamentare assicurano ai governi una vita più lunga di quanto non ne abbiano, se la fortuna li abbandona, i governi autoritari. Questi ultimi implicano una delega di autorità fondata sulla fiducia e la fiducia è fondata a sua volta sulla utilità dei risultati; quando questa viene meno, cade la fiducia, cade la delega e automaticamente rinasce il diritto-dovere del popolo all'attività politica». 

Federzoni: «L'impopolarità della guerra è dovuta in gran parte alla formula della guerra fascista che ha diviso gli italiani più profondamente di quanto non avesse già fatto il partito con la sua politica organizzativa».

Alfieri: «Duce, come vi ho detto a Feltre, avete ancora una carta nelle mani, l'ultima. Dovete persuadere Hitler che l'Italia è giunta al limite massimo della sua fedeltà e del suo sacrificio». 

Bastianini: «Quello che si veniva facendo da tempo era di dividere gli italiani in pacchetti, per farne oggetto uno alla volta di rampogne e di percosse: i giovani, la borghesia, gli industriali, gli intellettuali, l'aristocrazia, l'Azione Cattolica, gli ebrei e così via. Il risultato di questa severità è che oggi si riscontra una frattura profonda fra Paese e partito ». 

«Sta bene - conclude Mussolini - mi pare che basti. Possiamo andare. Avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta». 

Il duce è distrutto. Si intrattiene ancora un po' a chiacchierare con i tre o quattro che lo hanno difeso. Domanda a Scorza che valore può avere l'ordine del giorno approvato, se di parere o di deliberazione. Poi torna a casa, a Villa Torlonia, dove sua moglie ha vegliato in attesa.

«Quella mattina - racconta Rachele Mussolini - tornò a casa verso le tre o le quattro. Non ricordo l'ora precisa, ma era tardi, albeggiava. Sentii le macchine, a quell'ora non ci sono molte macchine in giro, e io e Irma, la cameriera, gli andammo incontro. Aprii lo sportello della macchina e gli domandai: "Bene, come è andata?". "Abbiamo fatto il Gran Consiglio", mi rispose. "Non li hai almeno fatti arrestare tutti?". "Beh, lo faremo", replicò. Bevve una tazza di camomilla, poi andammo a riposare. Alla mattina si alzò presto e alle otto era già a Palazzo Venezia ».

A Roma, intanto, nessuno sa nulla. Quello che è successo la notte prima è noto solo a poche persone che si guardano bene dal divulgarlo. È una domenica come tante altre. La città è immersa nel torpore di un pomeriggio di luglio. Strade deserte e noia. Stasera, per svagarsi, si può scegliere tra Ferruccio Tagliavini che canta nell'Elisir d'amore al teatro Brancaccio e il film Ti voglio bene, al Giardino Quattro Fontane, seguito da un documentario sull'imminente crollo dell'Inghilterra: La fine di John Bull.

Anche le redazioni dei giornali sono vuote. Domani, lunedì, i giornali non escono. Solo nel palazzo della Stefani, l'agenzia ufficiale di stampa, si cerca disperatamente di sapere che cosa è successo. Dall'estero tempestano di telefonate per sapere notizie. La situazione comincia a diventare grottesca. 

Mussolini va a casa, beve una tazza di brodo e un caffè, spiega a Donna Rachele, che se ne preoccupa, che non ha fame, e aggiunge che alle 5 deve andare dal re a Villa Savoia. La moglie è già informata. Hanno telefonato anche lì, pregandola di avvertirlo, caso mai non avessero potuto parlargli, precisando che deve andare «in borghese». «Guarda - dice a Mussolini - che ti vogliono in borghese per far prima quello che vogliono ... ». «E cioè? .. ». Ma non c'è bisogno di spiegazioni. Entrambi hanno capito perfettamente che cosa significa. Mussolini cerca di illudersi. «Dopotutto - dice - la guerra non sono stato solo io a dichiararla, anche il re è responsabile». Ma è lui il primo a non credere alle sue parole.

Il colloquio di Villa Savoia durò in tutto una ventina di minuti. «Trovai un uomo - racconterà più tardi Mussolini - con il quale ogni ragionamento era impossibile, perché aveva già preso le sue decisioni e lo scoppio della crisi era imminente».

Vittorio Eman III e Mussolini

Il re gli disse: «Così non si va avanti. L'Italia è in tocchi. L'esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono più battersi ». E aggiunse che l'uomo richiesto dalle circostanze era a suo giudizio Badoglio, che avrebbe costituito un ministero di tecnici per l'amministrazione dello Stato e per continuare la guerra.

«Allora tutto è finito?» domandò Mussolini. Il re non rispose. Pochi minuti dopo l'ex capo del fascismo veniva arrestato.

L'operazione dell'arresto ebbe gli stessi caratteri di improvvisazione e di confusione che furono propri di tutto il 25 luglio. Per far sapere, per esempio, al questore Morazzini che alle 4 avrebbe dovuto trovarsi al Quirinale per assumervi il comando del personale di polizia, gli si fece telefonare, con un'evidente riduzione della via gerarchica, da un suo inferiore, che lì per lì non gli spiegò nulla, gli disse solo di trovarsi ad una certa ora nella caserma dei carabinieri di viale Liegi, e quando Morazzini arrivò a viale Liegi, gli spiegò finalmente di che cosa si trattava. Al Quirinale, poi, la confusione, raggiunse il “diapason”. L'arresto di Mussolini doveva essere eseguito dal generale Ceriga, comandante generale dell'Arma dei carabinieri. Ma Ceriga, quando già Mussolini era arrivato a Palazzo Reale ed era a colloquio col re, chiese di parlare con Acquarone, ministro della Real Casa, e gli disse chiaro e tondo che lui non l'avrebbe fatto, non se la sentiva e che anzi, a scanso di equivoci, se ne sarebbe andato. Come infatti fece. Fu dato allora il contrordine: Mussolini non sarebbe più stato arrestato; tutta l'operazione rischiò per un momento di andare in fumo. Qualcuno osservò, tuttavia, che anche il contrordine presentava dei rischi. Che cosa sarebbe successo, infatti, se qualcuno avesse parlato e Mussolini fosse venuto a sapere che il re voleva arrestarlo? Ci fu tra gli astanti un momento di panico. Per cui Acquarone, alla fine, diede un altro contrordine, che si procedesse senz'altro all'arresto di Mussolini, anche se ancora non era chiaro chi e come l'avrebbe arrestato.

Mussolini scese dalla scalinata di Villa Savoia accompagnato da De Cesare, il suo segretario particolare. E quando fu alla fine della scalinata si trovò di fronte un ufficiale dei carabinieri, il capitano Vigneri, che si mise sull'attenti, gli fece un gran saluto, fece tintinnare gli speroni e gli disse: «duce, siete pregato per ordine di sua maestà il re imperatore di venire con noi, perché abbiamo gravi apprensioni per la vostra incolumità personale ». «Non credo», rispose Mussolini. «Dovete proprio crederlo, duce, perché è cosi ». Allora Mussolini si convinse, o finse di convincersi, e disse: «Bene, andate pure avanti, vi seguirò con la mia macchina». «No, duce, replicò Vigneri, dovete venire con noi», e gli indicò l'autoambulanza.

Mussolini, allora, fece un largo gesto con le braccia, come a dire che si arrendeva, che facessero quel che volevano, e montò sull'autoambulanza seguito da tre o quattro carabinieri, dal capitano Vigneri e da un altro ufficiale. L'autoambulanza uscì da Villa Savoia, da un cancello secondario, sboccò in via Salaria, passò sotto il naso della scorta di Mussolini, che era lì ad aspettarlo, e sparì nel traffico romano.

Quasi nello stesso momento, dal cancello principale di Villa Savoia arrivò Badoglio, il quale era stato convocato dal re che gli voleva affidare l'incarico del nuovo governo. Il colloquio durò poco, non più di un quarto d'ora. Il re disse a Badoglio che avrebbe dovuto formare un governo di tecnici (il maresciallo, a quanto pare, non era d'accordo, avrebbe preferito un governo di politici, di cui facessero parte Bonomi, Einaudi, Soleri e Orlando, ma il sovrano, su questo punto, fu irremovibile), gli fece leggere il famoso proclama de «la guerra continua », scritto da Orlando e che Badoglio avrebbe dovuto leggere la sera stessa alla radio, e lo licenziò. L'operazione 25 luglio, che aveva causato tanta ansia e che era stata più di una volta sul punto di fallire, era finalmente conclusa.

Intanto la notizia dell' arresto di Mussolini comincia a trapelare, a girare per Roma come una miccia accesa che però, invece di panico, suscita entusiasmo.

Roma 26 luglio 1943

Verso le 22,15, e cioè sette ore dopo l'arresto di Mussolini e l'incarico di Badoglio, le notizie vengono finalmente trasmesse a italiani e stranieri.

La massa degli italiani, intanto, è ancora all'oscuro di tutto. La radio, che nella giornata domenicale è l'unica fonte di notizie, non dette, fino a sera inoltrata, una parola dell'accaduto.

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Tra coloro che attesero quella sera il giornale radio delle 22,45, pochi, probabilmente, si saranno accorti che qualcosa non funzionava. Finito infatti alle 22,45 un programma di musica, invece del giornale radio fu messo in onda il disco del segnale d'intervallo (l'”uccellino” della radio), che si protrasse per qualche minuto.

«Qualche istante prima delle 22,45 - spiegherà l'addetto di quella sera alle trasmissioni - fui avvertito di non partire col giornale radio, ma di fare del segnale-intervallo in attesa di ordini superiori. E così feci. Dopo un minuto chiesi se c'erano novità. Mi fu risposto di proseguire col segnale-intervallo. La cosa andò avanti fino alle 22,48, 22,49, quando mi fu dato l'ordine di partire col giornale radio. In testa al giornale radio, preceduto da "Attenzione, attenzione", era il comunicato sulla sostituzione di Mussolini. "Sua maestà il re e imperatore - diceva il comunicato - ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e segretario di Stato presentate da sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini e ha nominato Capo del Governo, Primo ministro e segretario di Stato sua eccellenza il cavaliere maresciallo d'Italia Pietro Badoglio"». 

Dopo il comunicato alla radio, comincia la lunga “kermesse” nella quale gli italiani manifestano, quella notte e nei giorni seguenti, la loro gioia per tutto ciò che il 25 luglio rappresenta o si illudono che rappresenti per loro: la caduta del fascismo, la libertà ritrovata, la fine della guerra, la conclusione delle loro sofferenze. Da domani questa gioia esploderà su tutte le piazze, per il momento è solo una minoranza a rendersi conto e a cercare di dare un significato a quello che è successo. A Roma e a Milano sono infatti gli intellettuali antifascisti, le avanguardie popolari, a dare il tono a questa “kermesse”. E in entrambe le città sono i grandi giornali, il Messaggero a Roma e il Corriere della Sera a Milano, a fornire il punto di ritrovo più immediato. Perché è qui, con le leggi sulla stampa del 1925, che è cominciato il fascismo. Ed è qui, di conseguenza, che bisogna esorcizzarlo, riconnettendo idealmente il filo della libertà spezzato da vent'anni. Su questa rinascita della libertà di stampa in Italia abbiamo le testimonianze dei tre giornalisti (Arrigo Benedetti, Mario Pannunzio e Gaetano Afeltra) che curarono l'edizione straordinaria del Messaggero e del Corriere della Sera la notte del 25 luglio 1943. Val la pena di riascoltarle. 

25 luglio 1943 balcone Corriere della Sera

Arrigo Benedetti: «Uscimmo da Aragno cantando l'inno di Mameli e gridando "Abbasso il duce!". La gente, che era numerosa e camminava lungo il corso in cerca di fresco, ci salutava romanamente e non sapeva che cosa fosse successo. Svoltammo l'angolo verso il Messaggero. A un certo punto si spalancò una finestra a via del Tritone e una donna si affacciò urlando piena di gioia: "Tutto è finito, tutto è finito, se Dio vuole!"». 

Gaetano Afeltra: «All'improvviso, dalla stanza di fronte, uno stenografo gridò: "Venite, venite!". Era la radio che in quel momento trasmetteva il comunicato straordinario: " ... il cavaliere Benito Mussolini ... Badoglio Capo del Governo ... il re assume tutti i poteri".

I telefoni cominciarono a squillare. La gente chiedeva che cosa era successo: se la notizia era vera e quanto altro, eventualmente, sapessimo. Ma noi non sapevamo niente di più di quanto la radio aveva trasmesso».

Mario Pannunzio: «Non so chi propose di andare al Messaggero. Risalimmo il Tritone ed entrammo nella sede del giornale. A quell'ora il giornale era deserto, perché era domenica e i giornali il lunedì non uscivano. Trovammo un redattore che chiamò alcuni operai che erano a casa. Di lì a pochi minuti gli operai arrivarono ed io, insieme con Benedetti ed alcuni altri amici, cominciammo a preparare un'edizione straordinaria». 

Arrigo Benedetti: «Allora Pannunzio ed io ci mettemmo a scrivere una specie di articolo di fondo, una noticina che praticamente dava notizia di quello che era successo, cercando di dare subito un'impostazione politica precisa, in modo che fossero chiare le cause della sconfitta e di tutto quello che stava avvenendo».

Mario Pannunzio: «Mentre io e Benedetti buttavamo giù l'articolo di fondo, sentimmo un vocìo che veniva dal pianterreno e qualcuno ci avvertì che la folla stava penetrando nella sede del Messaggero per occuparlo. Scendemmo giù di corsa, cercammo di fronteggiare insieme con i redattori la folla che stava già mareggiando dentro la sede del giornale e, spiegando che non c'era più il direttore Alessandro Pavolini e che coloro che stavano li erano degli antifascisti che l'avevano occupato prima di loro, riuscimmo a calmarli e a rimandarli indietro». 

Arrigo Benedetti: «Per precauzione, andai nella stanza delle "linotypes", sempre con quell'aria di essere in casa altrui perché eravamo lì senza il permesso di nessuno, e per prudenza dettai l'articolo al linotipista. Così eravamo sicuri».

Mario Pannunzio: «Uscimmo dal Messaggero verso le tre di notte. L'edizione straordinaria era già diffusa tra la folla che in quel momento era enorme. Molti erano andati al Quirinale e tornavano verso il centro della città. Ricordo che il titolo del giornale era "Viva l'Italia libera". Il giornale fu poi appeso nei tram, negli autobus, alle cantonate. Naturalmente l'edizione straordinaria fu soppressa. Le autorità militari giudicarono infatti l'articolo di fondo troppo audace e pericoloso per l'ordine pubblico in un momento così delicato per il Paese».

Gaetano Afeltra: «Albeggiava. Anche noi però volevamo vedere con i nostri occhi quel che stava accadendo a Milano. Sapevamo di bandiere, inni di Mameli, inni di Garibaldi, soldati al braccio di borghesi, una festa, la gente che si abbracciava. Stavamo per scendere in strada quando ci dissero che un corteo si dirigeva al Corriere; centinaia di persone con alla testa Gasparotto, il vecchio parlamentare dimenticato per lunghi anni, che appariva quel mattino fresco come una recluta. Si sentivano evviva, applausi. I dimostranti chiedevano che il Corriere si facesse interprete della folla per l'immediata scarcerazione dei detenuti politici. In quei giorni San Vittore, infatti, era zeppo di antifascisti, c'erano state retate senza pietà. Il tumulto e le grida crescevano. Si aprì il balcone e, non so come, fui spinto innanzi. Parlai. Dissi che il Corriere aveva già chiesto dalle sue colonne l'immediata scarcerazione di tutti gli antifascisti e che quello era il primo giorno di libertà per tutti: per quelli che erano fuori e per quelli che ingiustamente erano dentro. Fu come un urlo. Buttai dal balcone le prime copie del giornale ancora calde di inchiostro e la libertà di stampa apparve sotto gli occhi di tutti».

La notizia, ormai, vola di bocca in bocca e accende di gioia i cuori di milioni di uomini. Il Paese è in festa. Il futuro riserverà ancora giornate di amarezza e di lutto. Ma oggi è una giornata di festa, un culmine di commozione e di gioia, sufficiente ad illuminare tutti i dolori che verranno e a dar la forza di affrontarli e sopportarli. La dittatura è unita. La gente riassapora finalmente il gusto dimenticato della libertà. 

«Il 25 luglio - scriverà Filippo Sacchi sul Corriere della Sera - per la prima volta in vent'anni l'Italia ha sorriso».

25 luglio 1943 Roma 

 

Bibliografia:

Tito De Stefano in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

 

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FASCISMO FOIBE ESODO 1918 1956: Le tragedie del confine orientale

14 Juillet 2020 , Rédigé par Renato Publié dans #episodi di storia del '900

13 luglio 2020: Il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella a Trieste.

Nell’incontro con il Presidente della Repubblica di Slovenia Borut Pahor e la visita del Narodni Dom, è stato firmato un Protocollo di intesa che prevede un percorso che si concluderà con la restituzione del Narodni Dom, incendiato il 13 luglio del 1920, alla minoranza linguistica slovena in Italia.

Nel suo discorso il Presidente Sergio Mattarella ha detto:

«Oggi, qui a Trieste - con la presenza dell’amico Presidente Borut Pahor -segniamo una tappa importante nel dialogo tra le culture che contrassegnano queste aree di confine e che rendono queste aree di confine preziose per la vita dell’Europa».

L’incontro con i rappresentanti delle comunità slovene e italiane, la deposizione di una corona presso la Foiba di Basovizza e, successivamente, presso il monumento ai Caduti sloveni, rendono di attualità i problemi che hanno interessato il confine orientale.

Per comprendere il perché delle foibe o dell’esodo di molti italiani che risiedevano lungo i confini orientali dell’Italia, occorre inquadrare questi avvenimenti in un più vasto contesto storico.  È quello che si è tentato di fare nei capitoli successivi.


Le vicende del confine orientale 

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1918 1922  
 Dopo la vittoria arriva il fascismo

La conclusione della prima guerra mondiale con il conseguente disfacimento dell’Impero asburgico, consegnarono all’Italia la Venezia Giulia e Zara. Nel 1924 venne annessa anche la città di Fiume. Il Regno d’Italia si estese così su terre abitate sia da popolazioni di origine italiana, soprattutto nelle zone costiere, sia da sloveni e croati, in prevalenza nei paesi dell’interno.

In questa mescolanza di etnie e nel complesso intreccio di vicende storiche locali, trovò alimento un nazionalismo fascista particolarmente virulento e aggressivo. Già all’inizio del 1919 vengono costituiti forti gruppi di squadristi che – come si legge in un documento dell’epoca – «insegnarono a tutti i Fasci d’Italia il metodo più efficace di lotta contro l’Antinazione e inaugurarono per prime, come divisa ufficiale, la gloriosa Camicia nera».

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Gli effetti della violenza fascista non tardarono a farsi sentire. Non solo gli antifascisti furono presi di mira, come avvenne in quegli anni nel resto d’Italia, ma le squadracce fasciste si accanirono soprattutto contro la popolazione di etnia slovena e croata. Gli squadristi, capeggiati da Francesco Giunta, incendiarono a Trieste il 13 luglio 1920 l’hotel Balkan, sede del “Narodni Dom”, il più importante e moderno centro culturale delle organizzazioni slovene in città.

Questo gravissimo episodio verrà definito da Mussolini «il provvidenziale incendio del Balkan». Dopo questo autorevole avallo, la violenza fascista dilaga con l’obiettivo della completa italianizzazione delle popolazioni di etnia non italiana che abitavano quelle terre da tempo immemorabile. 

 

Casa della Nazione in fiamme Trieste

Così racconta un testimone di allora, lo scrittore Boris Pahor, nel libro “Necropoli”:

“Già in gioventù ogni illusione ci era stata spazzata via dalla coscienza a colpi di manganello e ci eravamo gradualmente abituati all' attesa di un male sempre più radicale, più apocalittico. Al bambino a cui era capitato in sorte di partecipare all' angoscia della propria comunità che veniva rinnegata e che assisteva passivamente alle fiamme che nel 1920 distruggevano il suo teatro nel centro di Trieste, a quel bambino era stata per sempre compromessa ogni immagine di futuro. Il cielo color sangue sopra il porto, i fascisti che, dopo aver cosparso di benzina quelle mura aristocratiche, danzavano come selvaggi attorno al grande rogo: tutto ciò si era impresso nel suo animo infantile, traumatizzandolo. E quello era stato soltanto l'inizio, perché in seguito il ragazzo si ritrovò a essere considerato colpevole, senza sapere contro chi o che cosa avesse peccato. Non poteva capire che lo si condannasse per l'uso della lingua attraverso cui aveva imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo. Tutto divenne ancora più mostruoso quando a decine di migliaia di persone furono cambiati il cognome e il nome, e non soltanto ai vivi ma anche agli abitanti dei cimiteri.”


1922 1940  Proibita anche la messa in sloveno      

Su un intreccio perverso di antislavismo e antisocialismo si incardina la politica del fascismo negli anni successivi alla presa del potere. «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone», si legge in un proclama diffuso dal fascismo in quegli anni.

Gli abitanti di etnia slovena e croata, definiti “allogeni” (termine neutro dal punto di vista scientifico, ma caricato in quegli anni da un forte senso di estraneità, di disprezzo e di inferiorità), sono sottoposti a una serie inaudita di angherie: si chiudono i circoli culturali sopravvissuti alle devastazioni squadristiche , si obbligano le popolazioni alla italianizzazione dei loro cognomi, altrettanto avviene per i nomi slavi dei paesi, e soprattutto si impone l’obbligo della lingua italiana in qualsiasi luogo pubblico (ne soffriranno soprattutto i bambini a scuola, costretti a studiare in una lingua che non conoscono affatto).

Si arriva a proibire l’uso della lingua persino in chiesa, durante le funzioni religiose.

Il clero cerca di resistere, ma inutilmente.

Nel 1928 il vescovo Fogar così si rivolgeva al clero e ai fedeli commentando le decisioni del governo italiano che colpivano anche la Chiesa: «Cosa possiamo fare noi sacerdoti, combattuti tante volte da quelli stessi che dicono di credere in Gesù Cristo?

Dove l’empietà comincia a trionfare, ivi non tarderà a scatenarsi la persecuzione».

 

1941  L’aggressione alla Jugoslavia

occupazione jugoslavia 

 Il 6 aprile 1941 cinquantasei divisioni tedesche, italiane, ungheresi e bulgare attaccano da ogni parte il Regno di Jugoslavia. La debole resistenza del paese aggredito viene subito sopraffatta. Lo stato crolla, l’esercito si scioglie e la Jugoslavia viene smembrata.
La Slovenia settentrionale è assegnata alla Germania nazista, quella meridionale viene annessa all’Italia con la denominazione “Provincia di Lubiana”. L’Italia ingrandisce, a spese della Croazia, la provincia di Fiume e quella di Zara annettendosi anche la parte centrale della Dalmazia. La Croazia viene dichiarata formalmente uno stato indipendente: si insedia al governo il capo degli ustascia  Ante Pavelic, un criminale di ideologia nazifascista, mentre Aimone di Savoia viene designato re con il nome di Tomislavo II. Il regime di occupazione della Jugoslavia da parte della Germania e dei suoi alleati fu spietato. Migliaia di persone vennero uccise e centinaia di villaggi incendiati. La resistenza all’occupazione si sviluppò sin dall’estate 1941, cominciando dal Montenegro ed estendendosi ben presto a Serbia, Croazia e Slovenia.

Nell’ottobre del ’41 si ebbero le prime condanne a morte. Nei 29 mesi di occupazione italiana nella sola provincia di Lubiana vennero fucilati circa 5.000 civili e altre 7.000 persone, in gran parte anziani, donne e bambini, trovarono la morte nei campi di concentramento italiani. Tristemente noti sono quelli di Gonars (Udine) e Rab in Croazia.

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1943  L’occupazione tedesca

L’annessione di fatto al Terzo Reich dei territori del confine orientale sottratti alla sovranità italiana è la prima reazione da parte nazista alla dissoluzione dell’esercito italiano dopo la caduta del fascismo del 25 luglio e l’armistizio dell’8 settembre 1943.

La perdita di controllo dei territori entro i confini dello Stato italiano e anche di quelli sottoposti a occupazione militare, risultato del collasso politico-militare del regime fascista, offre alla Wehrmacht la possibilità di occupare rapidamente l’area della Venezia Giulia, della provincia di Lubiana e del territorio dalmata.

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Dal settembre del 1943 all’aprile del 1945 le province di Trieste, Gorizia, Udine, Pola, Fiume e Lubiana furono riunite nella speciale zona di operazione definita Adriatisches Küstenland (litorale adriatico) che venne inclusa nelle strutture amministrative della Germania nazista. Analoga sorte subì la zona comprendente le province di Trento, Bolzano e Belluno.

L’Adriatisches Küstenland sopravvivrà per più di venti mesi. La Repubblica di Salò nasce come struttura amministrativa di collaborazione voluta dai tedeschi. Queste mutilazioni regionali la screditarono ulteriormente. L’Italia è privata brutalmente della sovranità su un’area in cui aveva profuso l’ambizione nazionalistica di una grande espansione nei Balcani e del controllo totale dell’Adriatico. Il Gauleiter Rainer, incaricato da Hitler per le soluzioni amministrative e di gestione, impone condizioni durissime alle popolazioni con l’obiettivo finale di abbattere ogni resistenza e di annettere in via definitiva questi territori al Grande Reich. Le violenze e gli eccidi che vengono perpetrati nell’Adriatisches Küstenland, con la complicità delle “bande nere” di Salò, aggravano ulteriormente le tensioni nazionali nell’area giuliana, che nel dopoguerra conosceranno una nuova stagione di violenze di massa, questa volta a danno degli italiani.

 

1943 1945  La Resistenza e la Risiera

La Resistenza ha inizio in Istria sin dagli anni successivi alla presa fascista del potere. Sono del 1929 le condanne del Tribunale Speciale, insediato per l’occasione a Pola, di 5 antifascisti croati: uno fu condannato a morte e gli altri a trent’anni di reclusione. L’anno successivo il Tribunale Speciale riunito a Trieste condannò a morte 4 sloveni imputati di cospirazione contro l’Italia.

Con l’occupazione nazista della Venezia Giulia (Adriatisches Küstenland) tra il 1943 e il 1945, i tedeschi cercano di accattivarsi le simpatie della popolazione locale recuperando i miti asburgici.

Ma il volto del nazismo aveva ben altre sembianze.

Nell’estate-autunno 1941 iniziò in Jugoslavia la Resistenza contro l’occupazione italo-tedesca. A seguito dell’annessione della Slovenia all’Italia, lo Stato fascista si trovò con la guerriglia in casa. Venne istituito un tribunale straordinario e introdotta la pena di morte non solo per coloro che fossero stati sorpresi armati, ma anche per chi avesse posseduto materiale di propaganda o partecipato a riunioni  o assembramenti giudicati di carattere eversivo.

Anche per questo nella Venezia Giulia la Resistenza ebbe inizio con netto anticipo rispetto al resto d’Italia.

Infatti già nei primi mesi del 1943 la guerriglia partigiana, sempre più estesa in Jugoslavia, travalicò il vecchio confine e cominciò a lambire la stessa città di Trieste. Alla data dell’8 settembre il Movimento di liberazione jugoslavo era già presente nella regione ed era in grado di proporsi come contropotere rispetto al regime instaurato

dalle forze nazifasciste.

Parallelamente si sviluppò l’organizzazione della Resistenza da parte italiana. A Udine, tra il febbraio e l’aprile del 1945, avvenne la fucilazione di 52 partigiani. Questi eccidi vennero compiuti dai nazisti con la collaborazione attiva dei fascisti di Salò. L’asprezza del contrasto tra partigiani italiani e le mire espansionistiche jugoslave, portò a uno dei più tragici episodi della Resistenza: nel febbraio del 1945 nelle malghe di Porzus, nel Friuli orientale, un gruppo di fanatici garibaldini massacrò, cogliendolo di sorpresa, l’intero comando della Brigata Osoppo, composta in prevalenza da partigiani che si riconoscevano nel movimento “Giustizia e Libertà”, accusato ingiustamente di tradimento. Forti furono anche i contrasti tra il CNL triestino che tendeva a marcare la propria italianità e la resistenza slovena che si batteva per l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia.


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Il Polizeihaftlager (campo di detenzione di polizia), della Risiera di San Sabba, destinato a detenuti politici ed ebrei
 è l’unico campo di concentramento nell’intera area dell’Europa occidentale provvisto di forno crematorio. È il luogo dal quale si conduce contro la popolazione civile, sospettata di appoggiare il Movimento di liberazione, una vera e propria campagna di deportazione, di violenze e di uccisioni. La Risiera fu innanzitutto una istituzione dedicata all’attività di cattura e deportazione degli ebrei e di tutti gli oppositori sia italiani che slavi. Qui si applicarono le tecniche di uccisione di massa, proprie della logica SS: abbattimento, gassazione, fucilazione, strangolamento; l’invio di deportati nei campi di sterminio in Germania. Nella Risiera furono deportate circa 20.000 persone, di cui, secondo calcoli approssimati ben 5.000 persero la vita.Oggi l’edificio della Risiera è monumento nazionale. Fascismo

Infatti già nei primi mesi del 1943 la guerriglia partigiana, sempre più estesa in Jugoslavia, travalicò il vecchio confine e cominciò a lambire la stessa città di Trieste. Alla data dell’8 settembre il Movimento di liberazione jugoslavo era già presente nella regione ed era in grado di proporsi come contropotere rispetto al regime instaurato dalle forze nazifasciste.

 

 

1943 1945  L’orrore delle foibe

Quando si parla di "foibe" ci si riferisce alla violenza di massa nei confronti di militari e di civili, in prevalenza italiani, in diverse zone della Venezia Giulia. La prima ondata di violenze si ebbe dopo l'8 settembre 1943 in Istria contro cittadini italiani. Nel maggio 1945 con l'occupazione della Venezia Giulia da parte dell'esercito jugoslavo, la violenza riprese con maggior vigore. Ne furono vittime migliaia di persone civili e militari. Tra di esse vi erano anche esponenti antifascisti che si opponevano al passaggio di queste terre alla Jugoslavia.

Almeno 5.000 persone scomparvero nelle stragi chiamate “foibe”, dal nome delle voragini tipiche dei terreni carsici in cui spesso venivano gettati i cadaveri, anche se non tutte trovarono la morte in tale modo.

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Tra le foibe più note vanno ricordate quella di Vines, presso Albona, in Istria, e il pozzo della miniera di Basovizza - monumento nazionale - nei pressi di Trieste. Più numerosi furono i deceduti nelle carceri e nei campi di concentramento jugoslavi. Tuttavia l'immagine simbolo delle stragi è rimasta quella della sparizione in un abisso del Carso.

Dopo l'8 settembre 1943 l'Istria interna, avendo i tedeschi occupato subito solo i centri di Trieste, Pola e Fiume, divenne temporaneamente terra di nessuno.Approfittando di questa situazione gli antifascisti sloveni e croati, legati al movimento di liberazione jugoslavo, occuparono le posizioni chiave senza opposizione, avviarono la raccolta delle armi abbandonate dalle truppe italiane e proclamarono l'annessione di quel territorio alla Jugoslavia.

Cominciarono subito arresti di rappresentanti dello Stato, podestà, segretari comunali, carabinieri, guardie, esattori, uffici postali, con l'evidente volontà di rimuovere tutta l'amministrazione italiana, odiata per le prevaricazioni del passato e anche soltanto perché rappresentative di un nazionalismo profondamente avversato. Nelle campagne furono considerati "nemici" anche i proprietari di terra italiani, visti, per un chiuso antagonismo di classe, come contrapposti ai coloni e ai mezzadri croati. Così avvenne anche per i commercianti, gli insegnanti, i farmacisti, i veterinari, i medici condotti, le levatrici, per tutti coloro che rappresentavano il ceto italiano preminente delle comunità.

Drammatico fu l'uso, per le esecuzioni, delle foibe istriane. L'eco del settembre 1943 si ripercosse nella propaganda dei nazisti e dei fascisti della repubblica sociale italiana, al fine di dilatare le diffidenze e i timori dei giuliani di sentimenti italiani nei confronti di un movimento partigiano egemonizzato dai comunisti jugoslavi.

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Zona A

1943 1945  Obiettivo: i “nemici del popolo”

Nel maggio del 1945 le truppe jugoslave, partigiani del 9° corpo d'armata e unità regolari della 4a armata, occuparono tutto il territorio della Venezia Giulia e, come un esercito vittorioso, procedettero all'internamento di tutti i militari e di tutti gli appartenenti alle forze di polizia catturate e dei cittadini ritenuti ostili all'annessione del territorio alla Jugoslavia.

Il trattamento inflitto ai prigionieri fu durissimo. Molti perirono di stenti o furono liquidati nei campi di concentramento, come nel famigerato campo di Borovnica.

Molti perirono durante marce di trasferimento che divennero marce della morte. Centinaia furono le esecuzioni sommarie, decise senza l'accertamento di effettive responsabilità personali in atti criminosi.

Fra gli uccisi vi erano anche i responsabili di violenze, protagonisti di rappresaglie e sevizie, spie, sloveni e croati, aguzzini del famigerato ispettorato speciale di polizia di sicurezza per la Venezia Giulia. Il criterio degli arresti e delle esecuzioni si fondava su una ipotetica responsabilità collettiva e a essere travolti dalla repressione furono in maggior misura i quadri intermedi che non i vertici delle strutture politiche o militari della occupazione nazista. In questa logica rientra anche la deportazione delle guardie di finanza, che pure non avevano partecipato ad azioni antipartigiane e di molti membri della guardia civica di Trieste, che era stata dipendente dai comandi tedeschi, ma che non era stata impiegata in attività repressive. Persino alcuni membri delle brigate partigiane italiane, dipendenti dal Comitato di liberazione nazionale di Trieste, furono considerati alla stregua dei militari germanici e della repubblica sociale.

L'esercito jugoslavo non risparmiò le strutture politiche e le forze militari facenti capo al Comitato di liberazione nazionale italiano, solo perché non erano disponibili ad accettare la subordinazione al movimento di liberazione jugoslavo ed erano impegnati a cercare, mediante l'insurrezione armata, una autonoma legittimazione antifascista agli occhi della popolazione e degli angloamericani. L’obiettivo principale dei massacri fu quindi l’eliminazione dei “nemici del popolo”, cioè di chiunque si opponesse all’annessione della Venezia Giulia e dell’Istria alla Jugoslavia e alla costruzione di un regime comunista.

 

1946 1956  L’esodo dei 250.000

Alla fine della guerra la Jugoslavia rivendicò nei confronti dell’Italia una consistente espansione territoriale, che comprendeva anche la città di Trieste. In attesa della definizione di questo contrasto, il territorio giuliano venne diviso in due parti: la Zona A, comprendente Trieste, sottoposta ad un governo militare anglo-americano, e la Zona B, governata dall’autorità militare jugoslava. Soltanto nel 1954 la Zona A passò definitivamente all’Italia, mentre la Zona B rimase alla Jugoslavia. Con il 1956, data convenzionale della fine dell’esodo, il 90% della comunità italiana di Fiume e dell’Istria aveva dovuto abbandonare la propria terra.

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Negli anni 1946-1956 si compì il tragico esodo degli italiani dalle loro terre. La quasi totalità degli italiani che vivevano nei territori passati sotto il definitivo controllo della Jugoslavia, fu costretta ad abbandonare i paesi nei quali vivevano da molte generazioni. Un’intera comunità nazionale, calcolata sulle 250.000 persone, si disperse nel mondo. Solo una parte degli esuli trovò ospitalità in Italia, mentre gli altri furono costretti a emigrare soprattutto nelle Americhe, in Australia o in Nuova Zelanda.

Lasciarono una terra sconvolta: borghi, soprattutto quelli costieri, ridotti a città fantasma, gravemente spopolate anche le campagne, completamente disarticolata la società locale con la scomparsa di interi ceti sociali (possidenti e artigiani), spezzati i legami con aree tradizionalmente unite da una fitta rete di legami, come Trieste e l’Istria. 
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La prima città a svuotarsi fu Zara, abbandonata da larga parte della popolazione in seguito ai bombardamenti anglo-americani del 1944, che recarono gravissime distruzioni alla città dalmata.

Subito dopo la fine della guerra iniziò a svuotarsi Fiume, stabilmente occupata dagli jugoslavi fin dalla primavera del 1945.

Il governo di Tito avviò nei confronti degli italiani una politica assai dura, fatta di espropri mirati a colpire le posizioni economiche della piccola e media borghesia, di arresti e uccisioni, con lo scopo di eliminare qualsiasi embrione di dissenso politico. Gli esodi di massa si intensificarono dopo il 1946, con la firma del trattato di pace, che sancì il passaggio dell’Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia.

Simile a Fiume fu la situazione di Pola, dopo che le truppe anglo-americane lasciarono la città. Uguale fu il comportamento degli italiani residenti in altri territori dell’Istria, il cui esodo fu diluito nel tempo.

 

1946 1956  L’amara accoglienza

Il rancore e l’odio accumulati da sloveni e croati per la criminale oppressione fascista spiega solo in parte l’asprezza dei comportamenti degli jugoslavi nei confronti della popolazione italiana, che veniva identificata in blocco come nemico storico del nazionalismo sloveno e croato.

Per le decine di migliaia di profughi che trovarono rifugio in Italia la vita fu all’inizio estremamente dura. Il governo italiano era del tutto impreparato ad accogliere una massa così imponente di profughi e una vera e propria politica di accoglienza venne approntata purtroppo con gravi ritardi. 

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Inoltre nel 1948 la condanna di Stalin contro Tito aveva modificato la posizione della Jugoslavia nello scacchiere internazionale, con la conseguenza di azzerare i toni della denuncia contro il governo di Belgrado anche in riferimento alle condizioni dei 250.000 profughi. I campi di assistenza allestiti in diverse parti d’Italia (nel Bergamasco, in Toscana, in Sardegna e nel Meridione) erano privi di tutto.

Ecco come un profugo descrive la vita in uno di questi campi: «Questo infame campo era situato in una vallata a fianco del fiume Arno e noi dovevamo accontentarci di vivere in casematte usate dai prigionieri di guerra con una coperta militare e un sacco di paglia. Il cibo era razionato e gli abitanti della zona ci trattavano peggio dei delinquenti».

Altrettanto dure furono, almeno nei primi tempi le condizioni di vita di coloro che furono costretti ad emigrare in paesi lontani. Quella dei 250.000 italiani costretti a lasciare le terre passate sotto il controllo del governo jugoslavo è una tragedia troppo spesso ignorata, provocata dalla guerra e dall’esplodere di un nazionalismo che anche in tempi più recenti ha causato distruzioni, sofferenze e morte nelle popolazioni che hanno avuto la sventura di esserne coinvolte.

 

Documenti tratti da “Fascismo, foibe, esodo. Una mostra della Fondazione Memoria della Deportazione”

e per un approfondimento si possono consultare gli Atti del convegno "Fascismo, foibe, esodo" tenutosi a Trieste nel settembre 2004 che la Fondazione Memoria della Deportazione ha anche pubblicato, disponibili anche online.

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