Marzabotto
Dal sito ufficiale della presidenza della Repubblica
Roma, 29/09/2021
Dichiarazione del Presidente Mattarella nel 77° anniversario dell'eccidio di Marzabotto
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato la seguente dichiarazione:
«Marzabotto e Monte Sole furono teatro settantasette anni fa di un eccidio di civili spietato e feroce compiuto dalle SS nel nostro Paese. Si raggiunse in quei giorni, tra il 29 settembre e il 5 ottobre del ’44, pur nel contesto della ritirata delle truppe tedesche, il culmine di una strategia di annientamento che non risparmiò bambini e anziani, giungendo a sterminare persone del tutto incapaci di difendersi e fedeli riuniti all’interno della loro chiesa.
L’orrore di quella “marcia della morte” e il sangue innocente versato divennero simbolo della furia distruttrice della guerra, della volontà di potenza, del mito della nazione eletta. Un simbolo che la resistenza popolare e il desiderio di pace e libertà hanno saputo capovolgere nell’avvio di un percorso di costruzione democratica e civile, fondato sui diritti inviolabili della persona e della comunità.
Oggi Monte Sole e Marzabotto, insieme ai vicini Comuni di Monzano e Grizzana Morandi, sono luoghi di memoria e sacrari di pace, non soltanto per la Repubblica italiana ma per l’intera Europa. Sono segni indelebili, che troviamo nelle radici della Costituzione e che hanno dato origine al disegno di un’Europa unita nei suoi valori comuni.
Il ricordo di quanto avvenuto, che doverosamente si ripete in forme aperte e pubbliche, rinnova anche l’impegno che la Repubblica e le comunità locali assumono nei confronti delle giovani generazioni. Occorre avvertire la responsabilità di testimoniare ancora i sentimenti, i sacrifici, gli ideali che hanno spinto il nostro popolo, insieme agli altri popoli europei, a far prevalere la civiltà sulla barbarie e ad affermare la libertà, la democrazia, la giustizia sociale come pilastri irrinunciabili della nostra vita».
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La “cavalcata” del terrore iniziò all’alba del 29 settembre 1944, quando la 16a SS-Panzergrenadier-Division, agli ordini del maggiore Walter Reder, detto “il monco”, partì squarciando con il ferro e con il fuoco le valli attorno al Monte Sole. A far da cani-guida, un pugno di militi delle Brigate nere, per l’occasione in divisa SS col distintivo simile a un “44” sulle mostrine, che sapevano i sentieri, le case, i rifugi e additavano mogli, figli e padri dei partigiani della Brigata “Stella Rossa”.
Dall’eccidio non fu risparmiato nessun paese, villaggio o fattoria della zona che, a una ventina di chilometri da Bologna, è delimitata dal corso dei fiumi Reno e Setta: Marzabotto (il Comune più grande), Grizzana, Vado di Monzuno e tutte le altre località che punteggiano le vallate declinanti dall’acrocoro dominato dalla cima del Monte Sole.
Il 13 gennaio 2007, il tribunale militare di La Spezia ha condannato all’ergastolo in contumacia 10 dei 17 imputati ex nazisti ancora in vita. Sono tutti ultraottantenni e non conosceranno mai il carcere, la legge italiana non lo permette.
Il processo, infatti, non si è potuto celebrare prima perché i documenti in grado di inchiodare i responsabili del massacro sono rimasti chiusi per cinquant’anni nell’armadio della vergogna e nei sotterranei delle procure italiane. Ritrovate a metà degli Anni 90, quelle carte, con nomi e fatti, hanno potuto dare finalmente il via ai procedimenti penali.
Finora per la strage di Marzabotto esisteva un solo colpevole: il maggiore Walter Reder. Nel 1951 il tribunale militare di Bologna sentenziò per lui una condanna a vita, da scontare nel carcere militare di Gaeta. Ci passerà trentaquattro anni, malgrado un’ipocrita richiesta di perdono giunta nel 1967 agli abitanti di Marzabotto che, riuniti in Consiglio comunale, respinsero al mittente con 356 voti su 360 la petizione di clemenza sostenuta anche dalla Chiesa. Poi, nel 1980, arrivò la sentenza del Tribunale di Bari che disponeva un periodo di “prova” di cinque anni per il condannato, in attesa della scarcerazione. Fu l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nel gennaio 1985, a concedere la grazia e a spalancare le porte della galera a Walter Reder, morto nel 1991 nella sua residenza austriaca.
La testimonianza è tratta dal volume “Marzabotto parla” di Renato Giorgi, edito per la prima volta nel 1955, ristampato a cura dell’ANPI di Bologna nel 1991.
Località Casaglia, testimonianza di Lidia Pirini
«Era il 29 settembre, alle nove del mattino. (…) Quando a Casaglia fummo convinti che i nazisti stavano per arrivare perché si sentivano gli spari e si vedeva il fumo degli incendi, nessuno sapeva dove correre e cosa fare. Alla fine ci rifugiammo in chiesa, una chiesa abbastanza grande, piena per metà, e don Marchioni cominciò a recitare il rosario. Ho saputo in seguito che lo trovarono ucciso ai piedi dell’altare: allora non me ne accorsi e adesso riferisco solo quanto ricordo. Quando arrivarono i nazisti io non li vidi, avevo paura a guardarli in faccia. Chiusero la porta della chiesa e dentro tutti urlavano di terrore, specialmente i bambini. Dopo un poco tornarono ad aprire (…) e ci condussero al cimitero: dovettero scardinare il cancello con i fucili perché non riuscivano ad aprirlo. Ci ammucchiarono contro la cappella, tra le lapidi e le croci di legno; loro si erano messi negli angoli e si erano inginocchiati per prendere bene la mira. Avevano mitra e fucili e cominciarono a sparare. Fui colpita da una pallottola di mitra alla coscia destra e caddi svenuta. Quando tornai ad aprire gli occhi, la prima cosa che vidi furono i nazisti che giravano ancora per il cimitero, poi mi accorsi che addosso a me c’erano degli altri, erano morti e non mi potevo muovere; avevo proprio sopra un ragazzo che conoscevo, era rigido e freddo, per fortuna potevo respirare perché la testa restava fuori. Mi accorsi anche del dolore alla coscia, che aumentava sempre di più. Mi avevano scheggiato l’osso e non sono mai più riuscita a guarire bene, anche dopo mesi e anni di cura. (…) Intorno a me sentivo i lamenti di alcuni feriti. Così passò la notte e quasi tutto il giorno 30. (…) Verso sera, ci si vedeva ancora, trovai finalmente la forza di decidermi, riuscii a scostarmi i cadaveri di dosso e pian piano mi allontanai dal cimitero».
Marzabotto: è stato un inenarrabile martirio.
Non fu reazione senza limiti e controlli ad un episodio, non fu gesto sconsiderato di un singolo o di pochi, nel fuoco della guerra; fu il netto disegno, il proposito calcolato e deliberato di distruggere tutta una popolazione persino nelle nuove vite che sorgevano nel grembo delle madri.
Non fu gesto isolato per il numero delle formazioni militari germaniche che vi parteciparono e per la sua esecuzione condotta con metodo di guerra; guerra che si faceva sterminatrice contro una popolazione civile, dopo (ed era ben noto a chi lo comandava) che la eroica resistenza partigiana, costellata di sublimi sacrifici, era stata purtroppo in quel punto spezzata dalla forza schiacciante del numero e delle armi.
Non fu gesto isolato perché la ferocia brutale ed anche inutile agli stessi fini dell'invasore tedesco si abbatté su tante altre contrade del nostro Paese. Innumerevoli i delitti e gli orrori, terribili e gravissimi, ma nessuno che noi sappiamo di proporzioni così vaste come quello perpetrato dalla Wehrmacht e dalle SS a Marzabotto. Le vittime furono 1830 ed ebbero pace soltanto dopo la Liberazione; anzi, in certi casi nemmeno allora poiché le mine cosparse a perpetuare il delitto si accanirono contro le povere ossa senza riposo e contro i superstiti ritornati a compiere opera straziante e pietosa, a far rivivere la loro terra che quelli avrebbero voluta morta come le donne, i bambini, i vegliardi, i sacerdoti che avevano assassinato.
Non fu gesto isolato perché continuò nel tempo giorni e giorni: alla villa Colle Ameno, reso fosco dagli occupanti tedeschi, il 18 ottobre 1944 alcuni cittadini di Marzabotto venivano trucidati; lì era stato freddamente ucciso don Fornasini; e l'azione della Wehrmacht era incominciata il 28 settembre!
Siamo stati a Marzabotto. Siamo andati per "dare un futuro alla memoria, nella consapevolezza che la memoria è conoscenza e che la conoscenza è libertà e che solo nella conoscenza l'uomo può trovare le ragioni e le condizioni per qualsiasi scelta della sua vita, se vuole che possa essere veramente libera, senza condizionamenti".
Per i caduti di Marzabotto
Questa è memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di Von Kesselring
e dai loro soldati di ventura
dell’ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.
I milleottocentotrenta dell’altipiano
fucilati e arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto
il civile consenso
per governare anche il cuore dell’uomo,
non chiede compianto o ira
onore invece di libere armi
davanti alle montagne e alle selve
dove il “Lupo” e la sua brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.
La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini d’ogni terra
non dimenticano Marzabotto
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.
Salvatore Quasimodo
MARZABOTTO MEDAGLIA D'ORO
Incassata tra le scoscese rupi e le verdi boscaglie dell'antica terra etrusca, Marzabotto preferì ferro, fuoco e distruzioni piuttosto che cedere all'oppressore. Per quattordici mesi sopportò la dura prepotenza delle orde teutoniche che non riuscirono a debellare la fierezza dei suoi figli arroccati sulle aspre vette di monte Venere e di monte Sole sorretti dall'amore e dall'incitamento dei vecchi, delle donne e dei fanciulli. Gli spietati massacri degli inermi giovinetti, delle fiorenti spose, e dei genitori cadenti non la domarono ed i suoi 1830 morti riposano sui monti e nelle valli a perenne monito alle future generazioni di quanto possa l'amore per la patria.
Marzabotto, 8 settembre 1943 – 1° novembre 1944
Per quella “operazione” il feldmaresciallo Kesserling si complimentò con gli uomini della sedicesima divisione, in particolare con il maggiore Walter Reder.
Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l'impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli... un monumento. A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con una famosa epigrafe:
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi
non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti vide fuggire
ma soltanto col silenzio dei torturati
piú duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari s'adunarono
per dignità non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo
su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci troverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
resistenza.
Le Quattro Giornate di Napoli (27 – 28 – 29- 30 settembre 1943)
Un’insurrezione “spontanea”
La situazione del Mezzogiorno nelle tragiche giornate dell'autunno è la situazione della parte d'Italia su cui la guerra, l'urto fra i due opposti eserciti grava con tutto il suo peso aggiungendo lutti a lutti, rovina a rovina.
Tutto il peso della lotta si concentra nella Campania, e Napoli si trova al centro della formidabile pressione.
Il 12 settembre il colonnello tedesco Scholl assume il« comando assoluto» con un proclama in cui impone lo stato d'assedio, il coprifuoco e la consegna delle armi.
I nazisti a Napoli saccheggiano, distruggono: la loro furia, che travolge soldati sbandati, e cittadini inermi, raggiunge il culmine nell'incendio della Università. Gli edifici vengono invasi e dati alle fiamme, la popolazione rastrellata per le vie è costretta ad assistete in ginocchio all'esecuzione di un marinaio sulla soglia dell'Università; una lunga colonna di deportati viene avviata verso Aversa, quattordici carabinieri, rei d'aver resistito al palazzo delle Poste, vengono fucilati nel corso della tragica marcia. È dall'Università che s'inizia la distruzione metodica della città che secondo gli ordini di Hitler avrebbe dovuto essere ridotta « in fango e cenere»; e la scelta del punto di partenza del piano terroristico non è, probabilmente, casuale: era infatti nello stesso Ateneo che dopo il 2 luglio avevano risuonato più alte le parole della libertà, come nel proclama del l° settembre con cui il rettore magnifico Adolfo Omodeo ricordava ai giovani che ,« i loro maestri erano della generazione del Carso e del Piave e comprendevano il loro affanno ». S'inizia poi la sistematica distruzione delle zone industriali, del grande stabilimento ILVA di Bagnoli, mentre tutta la città è messa a sacco.
Napoli è ridotta alla disperazione per le condizioni selvagge in cui è stata ridotta Napoli, priva di cibo e d'acqua, sgombrata a viva forza e distrutta nei quartieri verso il porto (nello spazio di ventiquattro ore, dal 23 al 24 settembre, oltre 200000 persone restarono senza tetto).
Un antefatto delle Quattro Giornate di Napoli: l'abbandono da parte dei nazisti delle caserme e dei depositi militari contenenti ancora piccole quantità di armi e munizioni. Probabilmente i tedeschi ritennero che il suddetto materiale bellico non avesse importanza, né sarebbe stato utilizzato dalla popolazione contro di loro dopo gli infiniti esempi di terrore, dopo la deportazione di ottomila giovani come misura di rappresaglia per il mancato rispetto del bando Scholl.
Nella notte tra il 27 e il 28 settembre la popolazione si alternò in un incessante via vai fra le caserme e le abitazioni, le donne in cerca di viveri e d'indumenti, gli uomini in cerca d'armi e munizioni.
Molte armi erano state già nascoste e conservate gelosamente nei giorni dell'armistizio: ora la determinazione di usarle, di cercare dovunque nuove scorte di esse, di scendere finalmente ,« in istrada» era sbocciata improvvisa come l'unica possibile. Il popolo aveva« fatto la sua scelta », ma in senso opposto a quello richiesto dal proclama fascista. Già nel pomeriggio e nella sera del 27, sollecitati, sembra, dalla falsa notizia dell'arrivo degli Inglesi a Pozzuoli e a Bagnoli, si erano avuti i primi rapidi scontri, le prime scaramucce in più punti della città, episodi in apparenza casuali, certamente non collegati l'uno con l'altro (un gruppo di cittadini che reagisce al saccheggio della Rinascente, un altro gruppo che liberò a piazza Dante dei giovani razziati, due guastatori tedeschi inseguiti a furia di popolo al Vomero), ma altrettanto certamente rivelatori d'uno stato d'animo ormai comune.
All'alba del 28 settembre la rivolta esplose fulminea al Vomero e da Chiaia a piazza Nazionale. Non vi furono collegamenti fra un centro e l'altro dell'incendio, ma l'insurrezione cominciò ad ardere in decine di punti diversi.
Il 28 settembre è la giornata dell'ardimento popolare sfrenato e travolgente: Tra le decine e decine di combattimenti, tanti giovinetti.
Il dodicenne Gennaro Capuozzo funziona da servente a una mitragliatrice in via Santa Teresa presa sotto il fuoco di carri armati tedeschi, finché cade sfracellato, colpito in pieno da una granata sul posto di combattimento.
Filippo Illuminato e Pasquale Formisano, l'uno di tredici, l'altro di diciassette anni corrono incontro a due autoblinde che da via Chiaia cercano d'imboccare via Roma.« Lo scontro fu assai breve, ma impressionante; vi fu chi vide i due intrepidi giovanetti avanzare decisamente sotto le impetuose raffiche di mitragliatrice fino a quando caddero esanimi a pochi passi dalle autoblinde, nell'atto di scagliare ancora una bomba ».
Tutto si è svolto senza un piano, senza collegamenti fra i vari quartieri o gruppi d'insorti anche se talvolta l'azione degli uni ha contribuito al successo di quella degli altri. Esempio maggiore di questa naturale confluenza degli sforzi insurrezionali l'azione svolta da un gruppo di patrioti che a Moiarello di Capodimonte s'impossessano di una batteria da 37/54 e riescono a bloccare per tutta la giornata il tentativo di una colonna di carri Tigre e di autoblinde tedesche di scendere da Capodichino sulla città; probabilmente, se quel tentativo fosse riuscito, la lotta popolare avrebbe avuto un corso diverso o comunque più sfavorevole e cruento.
La rivolta popolare comincia ad organizzarsi, a individuare alcuni obiettivi da conseguire nella ininterrotta ondata del combattimento a viso aperto. Sorge la prima barricata a piazza Nazionale, vengono costituite postazioni d'arme presso il Museo, si chiarisce l'indirizzo principale sorto spontaneamente: impedire che il tedesco attraversi la città verso nord nel corso del ripiegamento e gettare cosi il disordine e il panico nelle sue truppe incalzate da vicino dagli alleati.
Nel corso della battaglia si determina un obiettivo principale: la conquista del « centro» del quartiere costringendo i tedeschi a ripiegare da via Luca Giordano che lo attraversa diagonalmente. L'attacco viene eseguito a squadre e a balzi successivi come in una manovra di guerra regolare. Poi, dopo la furia popolare, anche la furia degli elementi si abbatte sul Vomero: un violento uragano fa sospendere le operazioni e nella notte il nemico perlustra le strade alla caccia degli insorti dileguatisi con le prime ombre.
Il 29 segna il culmine dell'insurrezione napoletana e, mentre prosegue il generoso afflusso dei giovani e degli adolescenti fra le file degli insorti (muore sotto il fuoco d'un'autoblinda il non ancora ventenne Mario Menichini), affiorano i primi elementi organizzativi. Al Vomero si costituisce il Comando partigiano per iniziativa di Antonino Tarsia. In ogni rione emerge nel corso della lotta una figura di «capo-popolo» intorno a cui gravitano i gruppi degli insorti: a Chiaia si fa luce Stefano Fadda, Ezio Murolo in piazza Dante, Aurelio Spoto a Capodimonte. Ovunque gli scontri diventano più intensi e persistenti: nel solo settore Vincenzo Cuoco i patrioti perdono 12 morti e 32 feriti.
A Capodimonte è strenuamente difeso dai partigiani del rione l'unico serbatoio rimasto intatto dall'immane distruzione ed assicurato, in seguito al successo dell'azione, il rifornimento dell'acqua potabile ad alcuni rioni ancora per due o tre giorni.
L'episodio risolutivo si verifica infine al Vomero: il comandante del presidio maggiore Sakau chiede di trattare la resa. Accompagnato con bandiera bianca presso il Comando superiore germanico al Corso, lo Scholl, edotto della situazione, è costretto ad ordinare l'evacuazione del campo sportivo e la restituzione dei 47 ostaggi detenutivi, purché i partigiani garantiscano l'immunità al presidio tedesco. È, in sostanza, una capitolazione, la più grave umiliazione per lo Scholl che aveva creduto d'imporre il suo dominio alla città e che ora chiede salva la vita per i suoi soldati a un gruppo di « straccioni» ribelli.
Il 30, pur essendo stata evacuata in massima parte la città dai tedeschi, continuano i combattimenti. Il nemico si lascia dietro la lugubre scia delle rappresaglie: gruppi di guastatori tedeschi, attardatisi nella ritirata, massacrano alcuni giovani in località Trombino. Alla Pigna, nella masseria Pezzalunga, s'ingaggia l'ultimo combattimento delle Quattro Giornate, con violenti corpo a corpo fra i patrioti e i tedeschi, mentre nella città risuonano ancora le fucilate in via Duomo, via Settembrini, piazza San Francesco. Ancora il l° ottobre i tedeschi attuano l'ultima rappresaglia e aprono un violento fuoco sulla città con un gruppo di bombarde piazzate nel bosco di Capodimonte, portando lo sterminio fra la popolazione sino quasi a mezzogiorno: un'ora prima dell'entrata dei primi carri armati angloamericani nella città liberata.
Costretti alla fuga i nazisti sfogano la rabbia per il colpo ricevuto: distruggono le più preziose memorie di quel popolo che non ha piegato la testa sotto i suoi ordini, consumando un’atroce vendetta. A San Paolo Belsito, presso Nola, i tedeschi danno fuoco all' Archivio Storico di Napoli, cioè alla maggior fonte per la storia del Mezzogiorno dal Medioevo in poi.
Il bilancio dell'insurrezione napoletana: 152 combattenti caduti; 140 caduti civili, 162 feriti, 19 caduti ignoti (l'elenco delle perdlte continua ad accrescersi anche dopo la liberazione della città: nel pomeriggio del 7 ottobre il palazzo delle Poste, appena riattivato, saltò in aria a causa delle mine lasciatevi dai tedeschi, provocando la morte di molti cittadini.
Sulle barricate s'incontrarono i popolani generosi, le umili donne che offrivano cestini di bombe, come la« Lenuccia» (Maddalena Cerasuolo ) e gli esponenti della piccola borghesia meridionale: un Tarsia insegnante a riposo, un Fadda medicochirurgo, un Murolo impiegato.
Parteciparono alla lotta gli studenti del liceo Sannazzaro al Vomero, gli scugnizzi dei quartieri popolari, gli intellettuali come Alfredo Paruta che iniziò il l° ottobre la pubblicazione del giornale « Le barricate»; come gli operai delle fabbriche napoletane. E certo nell'ondata della collera popolare si erano inseriti - qua e là - gli elementi antifascisti consapevoli. Ma l'insurrezione rimase fino all'ultimo un fatto« spontaneo », senza cioè che potessero prevalere in essa gli elementi d'una guida unitaria e anche una chiara coscienza politica dell'accaduto.
Le Quattro Giornate di Napoli saranno sempre presenti nel ricordo di coloro che militeranno nelle file della Resistenza poiché avevano dimostrato la« possibilità» dell'insurrezione cittadina.
« Dopo Napoli la parola d'ordine dell'insurrezione finale acquistò un senso e un valore e fu d'allora la direttiva di marcia per la parte più audace della· Resistenza italiana» (Luigi Longo: dopo l'8 settembre del '43, diede vita alle Brigate Garibaldi. Vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà, stretto collaboratore di Parri, fu tra i principali organizzatori dell'insurrezione nel Nord Italia dell'aprile del '45)
Liberamente tratto dalle pagine di “Storia della Resistenza italiana – 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945” di Roberto Battaglia - Einaudi 1964
Le Quattro Giornate di Napoli in letteratura
da “Il giorno prima della felicità” di Erri De Luca
“Ci eravamo abituati a sentire le frottole della radio, dei giornali: la patria, l'eroica difesa dei confini, l'impero. Tenevamo l'impero, mancava il pane, il caffè ma tenevamo l'impero.
Il comandante tedesco Scholl ha fatto uscire un bando, gli uomini tra i 18 e i 33 anni devono consegnarsi in caserma o saranno fucilati. Su trentamila che se ne aspettavano si sono presentati in 120.
... I tedeschi e i fascisti erano più incanagliti perché la guerra si metteva male. Lo sbarco di Salerno era riuscito. Facevano saltare le fabbriche, saccheggiavano i magazzini per lasciare vuoto. La città negli ultimi giorni di settembre faceva paura per la fame e il sonno in faccia alle persone.
... Bombardavano tutte le notti ...
Gli scoppi delle bombe tedesche si confondevano con i bombardamenti americani, la sirena di allarme arrivava dopo che la contraerea si era messa a sparare.
Le persone uscivano dai ricoveri dopo l'attacco aereo e non trovavano più la casa.
Come venne a piovere cominciò la rivolta. Pare che la città aspettava un segno convenuto, che si chiudeva il cielo. E gli americani smisero di bombardare.
Una domenica di fine settembre, sento in bocca a tutti la stessa parola, sputata dallo stesso pensiero: mo' basta. Era un vento, non veniva dal mare ma da dentro la città: mo' basta, mo' basta.. La città cacciava la testa fuori dal sacco. Mo' basta, mo' basta, un tamburo chiamava e uscivano i guaglioni con le armi.
Fuori i giovani prendevano le armi dalle caserme e le nascondevano. Un gruppo con uno vestito da carabiniere aveva svuotato l' armeria del forte di Sant'Elmo.
I napoletani avevano preso le armi dalle caserme. A volte con le buone, i carabinieri avevano distribuito la loro dotazione per sentimento di fedeltà al re. In altre caserme la paura di una rappresaglia tedesca faceva respingere la richiesta di armi. Allora tornavano con le maniere spicce a requisirle.
L'assalto del primo giorno fu contro un camion tedesco che era andato a saccheggiare una fabbrica di scarpe. Negli ultimi giorni di settembre i tedeschi si erano messi a razziare quello che potevano dentro i negozi e pure nelle chiese. Cominciò con un assalto improvvisato a un loro camion carico di scarpe, la prima battaglia.
Intanto i tedeschi svaligiavano le chiese, facevano saltare il ponte di San Rocco a Capodimonte, quello della Sanità lo salvammo staccando le cariche esplosive, lo stesso facemmo per l'acquedotto. Volevano lasciare la città distrutta. La rivolta è stata una salvezza.
Il centro della rivolta si era piazzato nel liceo Sannazzaro, gli studenti erano stati i primi. Poi uscivano gli uomini nascosti sotto la città. Salivano da sottoterra come una resurrezione. 'Dalle 'ncuollo,' dagli addosso, le strade erano bloccate dalle barricate. Al Vomero tagliavano i platani e li mettevano a fermare il passaggio dei carri armati. Facemmo una barricata a via Foria incastrando una trentina di tram. La città scattava a trappola. Quattro giornate e tre nottate.
I carri armati tedeschi riuscirono a passare lo sbarramento di via Foria, scesero a piazza Dante e si avviarono per via Roma. Là sono stati fermati. Giuseppe Capano, di anni 15, si è infilato sotto i cingoli di un carro armato, ha disinnescato una bomba a mano ed è riuscito da dietro prima dell'esplosione. Assunta Arnitrano, anni 47, dal quarto piano ha tirato una lastra di marmo presa da un comò e ha scassato la mitragliatrice del carro armato. Luigi Mottola, 51 anni, operaio delle fogne, ha fatto saltare una bombola di gas spuntando da un tombino sotto la pancia di un carro armato. Uno studente di conservatorio, Ruggero Semeraro, anni 17, aprì il balcone e attaccò a suonare al pianoforte La Marsigliese, quella musica che fa venire ancora più coraggio. Il prete Antonio La Spina, anni 67, sulla barricata davanti al banco di Napoli gridava il salmo 94, quello delle vendette. Il barbiere Santo Scapece, anni 37, tirò un catino di schiuma di sapone sul finestrino di guida di un carro armato che andò a sbattere contro la saracinesca di un fioraio. La mira dei nostri cittadini era diventata infallibile nel giro di tre giorni. Le bottiglie incendiarie facevano il guasto ai carri armati, li accecavano di fiamme. Ero diventato esperto nel farle, ci mettevo dentro qualche scaglia di sapone per fare attaccare meglio il fuoco. Il diesel ce lo avevano dato i pescatori di Mergellina, che non potevano uscire per mare a causa del blocco del golfo e delle mine.
Sei persone in mezzo a una folla pronta inventavano la mossa giusta per inguaiare un reparto corazzato del più potente esercito che da solo aveva conquistato mezza Europa.
Prima di andarsene i tedeschi avevano lasciato in città bombe a tempo ritardato, una esplose alla posta centrale giorni dopo facendo una strage. Era una loro tecnica, ho saputo che l'hanno fatto anche altrovè. Non sapevano perdere.
A via Foria le barricate con i tram fermarono per ore i carri armati Tigre. Alla fine riuscirono a passare ma non a via Roma. Dai vicoli a monte scendevano all' assalto uomini e ragazzi a buttare bombe e fuoco in mezzo ai cingoli. Contro quei mucchi di spiritati, i corazzati non potevano niente, si ritirarono.
C'era un secondo fronte, i fascisti sparavano dalle case sulla folla insorta. Ci furono battaglie per le scale dei palazzi, sui tetti, fucilazioni sul posto.”