Uno come sette: la famiglia Cervi
28 Décembre 2021 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana
28 Dicembre 1943. Sette fratelli Cervi, democratici e ferventi antifascisti vengono presi torturati e fucilati.
Questi sono i Patrioti!
Leggere e studiare la Storia per non dimenticare e non lasciare spazio a coloro che usano indegnamente la parola Patrioti.
«Uno era come dire sette, sette era come dire uno ». Sopra i sette l'autorità del padre, l'amore quieto della madre. La famiglia Cervi è la famiglia patriarcale che arriva al socialismo senza l'intermediazione borghese: dal medioevo al marxismo. La cascina dei Cervi è a Praticello, fra Campegine e Gattatico, nella provincia di Reggio Emilia. Il padre Alcide, la moglie Genoveffa Cocconi, i sette figli, le mogli, i nipoti: ventidue persone. Il più anziano dei figli, Gelindo, ha 24 anni, poi in ordine di età ci sono Antenore, Aldo, Ferdinando. Agostino, Ovidio, Ettore. Gli sposati sono quattro con dieci figli. La moglie di Gelindo sta aspettandone uno.
I Cervi sono dei bravi agricoltori: entrati come fittavoli nel fondo nel 1934, ci hanno trovato cinque fra vacche e vitelli; adesso nella stalla ce ne sono cinquanta, la terra rende. I Cervi sono istruiti, sono la campagna riscattata dalla predicazione socialista; nella piccola libreria della cascina ci sono opere di Dostoevskij, di Jack London, manuali di agricoltura, le raccolte della «Relazioni internazionali» e della «Riforma sociale» di Einaudi. Aldo è il più colto, con più vivi interessi politici. Nella famiglia ognuno ha la sua specialità, chi si occupa dei campi, chi degli alveari, chi delle macchine, chi della stalla, ma le decisioni importanti le prende babbo Alcide. I Cervi sono antifascisti. «Cosa vuole», dice il padre, «noi siamo fatti così, siamo per la libertà». Il 25 luglio quando è caduto il regime il vecchio Alcide ha raccomandato ai figli: «Ragazzi, niente vendette», e ha offerto tre quintali di farina e venticinque chili di burro e centinaia di uova per la gigantesca mangiata di tagliatelle a cui ha invitato tutto il paese. All'8 settembre i Cervi passano alla resistenza: non una resistenza armata come si fa sulla montagna, ma legata alla famiglia e al lavoro, che fa di ogni atto di vita un atto di guerra, che dà a ogni momento della giornata un significato di cospirazione. Aldo è salito sulla montagna, sul Ventasio e a Toano, a cercare i ribelli, che non ci sono o sono troppo deboli. Allora i Cervi si dedicano ai prigionieri di guerra fuggiti dai campi, ne passano ottanta dal settembre al novembre nella loro cascina.
Il 25 luglio babbo Cervi non ha voluto vendette: un fascista del paese lo ripaga con la spiata. I fascisti di Reggio arrivano al cascinale nella mattinata nebbiosa, lo circondano, bloccano le uscite. L'ufficiale che li comanda grida: «Cervi arrendetevi!». I Cervi corrono alle armi, rispondono sparando. Poi devono cedere: gli assalitori hanno dato fuoco al fienile, se la casa brucia muoiono anche le donne e i bambini. Prima di uscire Aldo dice: «Tutto quello che è accaduto è opera mia, io mi prendo tutta la responsabilità. Al massimo una parte della colpa può prendersela anche Gelindo. Almeno cinque devono tornare vivi». I Cervi escono dalla cascina: primo il padre a braccia alzate; seguono i prigionieri di guerra. I fascisti li fanno salire su un camion:' poi saccheggiano la cascina. Alla caserma del Servi, a Reggio Emilia, li interrogano, li invitano a passare alla repubblica fascista. «Crederemmo di sporcarci», dice Aldo a un Poliziotto che insiste.
La sera del 27 dicembre i gappisti Bagno in Piano uccidono il segretario del fascio Vincenzo Onfiani. La rappresaglia è immediata, il tribunale speciale, istituto ai primi del mese, giudica i Cervi senza farli comparire, li condanna a morte con una sentenza per cui non è occorsa la camera di consiglio. Si apre la porta della cella: «La .famiglia Cervi al completo» grida un milite. Escono ma il milite ferma babbo Alcide: «No, tu no, tu sei troppo vecchio». «Vi portano a Parma» dice un compagno di cella. «Ma che Parma», fa Aldo, «fra mezz'ora non siamo più vivi.». Antenore mentre cammina per il corridoio mormora: «Mi dispiace se ci fucileranno, non vedete che bel cappotto mi sono fatto?».
Babbo Alcide saprà della loro morte solo l’8 gennaio. Quel giorno gli Alleati bombardano Reggio, una bomba cade sul carcere, i prigionieri fuggono. Alcide torna a casa e la trova distrutta. I sopravvissuti tacciono e piangono., Il vecchio guarda le donne, i nipoti e dice: «Su, non c'e tempo da perdere, dopo un raccolto ne viene. un altro». Alla parete bianca della cucina sono appesi sette ritratti. La madre muore dopo un anno, di crepacuore. Babbo Alcide resiste, regge la famiglia.
Bibliografia:
Giorgio Bocca ”STORIA DELL'ITALIA PARTIGIANA”
Casa editrice G. Laterza & Figli, Bari gennaio 1980
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