Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Monumento alla pace

28 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #il secondo dopoguerra

Da un’intervista di ENZO BIAGI con KENZO TANGE

 Kenzo-Tange.jpegArchitetto e urbanista giapponese (Imabari 1913 - Tokyo 2005). Tra i più noti protagonisti dell'architettura contemporanea, svolse una intensa attività a livello internazionale, che lo vide presente con numerose realizzazioni sia in Giappone sia in Italia, Stati Uniti, Australia, Arabia, Asia e Singapore. In Italia progettò diverse opere tra cui l'urbanizzazione di Librino, Catania (dal 1970), il piano per la Fiera di Bologna (1971-74), il Centro direzionale di Napoli (dal 1982) e i quartieri S. Francesco e Affari a San Donato Milanese (dal 1991).

La prima opera importante affidata a Kenzo fu lo progettazione del Centro della pace sui resti della città di Hiroshima distrutta.

Come ricorda lo scoppio della seconda guerra mondiale?

«Il 1939 credo sia stato l'anno successivo a quello in cui io terminai i miei studi di architetto. A quel tempo pur essendo laureati, per gli architetti non c'era quasi lavoro. Era un'epoca in cui non si poteva costruire nient'altro che con legno, e non era possibile usare né cemento né ferro. Ma, noi, ci siamo resi conto della guerra praticamente solo quando il Giappone ha attaccato a Pearl Harbour. Molta gente rimase stupita chiedendosi perché il Giappone s'era gettato in un'impresa così stupida. Poi ci fu l'atomica su Hiroshima, e con ciò finì la guerra. Per caso i miei genitori vivevano ad Imabari, una piccola città sul mare che si trova dall'altra parte di Hiroshima; erano sfollati là per sfuggire alle conseguenze della guerra. Invece morirono entrambi: mio padre per le radiazioni e mia madre colpita da una bomba incendiaria. I miei fratelli si erano sistemati poco più lontano da Imabari presso nostri parenti, e là io mi diressi non appena seppi del lancio dell'atomica su Hiroshima. E fu lì, in quella piccola città di campagna, che ascoltai alla radio l'annuncio della fine della guerra. Per me fu come se l'estrema tensione dello spirito fosse all'improvviso scomparsa».

Quella dura vicenda che cosa ha insegnato ai giapponesi?

«Nel mio caso, la morte dei miei genitori e la bomba su Hiroshima si sono sovrapposti e mi hanno lasciato quindi una impressione estremamente forte. Ma penso che, in un certo senso, sono stati proprio questi due fatti luttuosi, terribili che mi hanno insegnato il valore della pace. Finita la guerra noi giovani architetti fummo mobilitati per tracciare i piani di ricostruzione delle città giapponesi distrutte nel conflitto. Però, ad Hiroshima erano pochi ad andarci, volentieri: si diceva che, ad andarci subito ci si sarebbe ammalati e si sarebbe morti certamente. Io, non ebbi paura e chiesi quella destinazione. Fu così che venni mandato ad Hiroshima».

Che cosa significa per lei il "Memorial" che ha progettato per ricordare la bomba di Hiroshima?

peace-memorial-park.jpg untitled.jpg

«Per Hiroshima vi fu una specie di concorso nazionale e quando seppi di avere vinto pensai che non fosse vero. Del resto, ritenevo che non ci sarebbe mai stato il finanziamento per un'opera del genere. Poco alla volta, tuttavia, nel giro di due anni i denari, furono trovati. Occorse poi quasi un decennio prima che la costruzione potesse essere completata. Per me, quindi, Hiroshima rappresenta la prima opera della mia carriera di architetto, ed è quindi qualcosa di molto importante come punto di partenza nella evoluzione della mia produzione».

Bibliografia

     Enzo Biagi - la Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti - Corriere della Sera 1990

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Roma 24 marzo 1944, l’eccidio delle Fosse Ardeatine

22 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

È il massacro compiuto dalle truppe di occupazione della Germania nazista, ai danni di 335 civili e militari italiani, come atto di rappresaglia in seguito all'attentato, avvenuto il giorno precedente, contro le truppe germaniche in via Rasella, che aveva provocato la morte di trentatré riservisti inquadrati nella Wehrmacht.

Scrive Carla Capponi, che aveva partecipato a quell'azione in via Rasella, nel suo libro Con cuore di donna- Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista”:

 Cuore-di-donna.jpg«Per noi quell'ordine assassino era un crimine contro il quale occorreva mobilitarsi, attaccare con maggiore durezza e determinazione. L'annuncio "questo ordine è già stato eseguito" con cui terminava il breve comunicato, suonava come una sfida: non avevano scritto "La sentenza è già stata eseguita", perché nessun tribunale avrebbe sancito una condanna così efferata, contro ogni legge, contro ogni morale, contro ogni diritto umano.

Dopo la liberazione di Roma, quando si indagò su quella strage si scoprì che solo tre delle vittime erano state condannate a morte con sentenza; neppure il tribunale tedesco installato a via Lucullo aveva avuto il coraggio o la possibilità di emettere una sentenza che desse appoggio legale a quel massacro. Volevano fare intendere che al di sopra di tutte le leggi del diritto e della morale, c'erano gli "ordini" del comando nazista, il "Deutschland über alles", della razza ariana, destinata a dominare tutte le altre considerate inferiori e per le quali non c'era bisogno né di tribunale né di sentenze.

Avevano assassinato in fretta gli ostaggi, occultato i cadaveri e lasciato le famiglie senza notizie, così che ciascuna potesse sperare che i propri cari non fossero nel numero dei destinati alla morte e aspettassero fiduciose. Per questo non fecero indagini, non cercarono i partigiani, non usarono il mezzo del ricatto chiedendo la resa dei GAP. L'eccidio doveva consumarsi per vendetta, non per cercare giustizia.

Volevano nascondere un altro crimine, l'avere ucciso quindici persone oltre i trecentoventi dichiarati, come scoprimmo quando, liberata Roma, furono riesumate le salme: trecentotrentacinque. I tedeschi uccisi erano stati trentadue, uno dei settanta feriti era morto durante la notte a seguito delle ferite: Kappler decise di sua iniziativa di aggiungere dieci vittime a quelle già predestinate e, nella fretta di dare immediata esecuzione all'eccidio, ne prelevarono dal carcere quindici, cinque in più della vile proporzione tra caduti tedeschi e prigionieri da assassinare, quindici in più di quelli autorizzati dal comando di Kesserling. Dell'" errore" si rese conto Priebke mentre svolgeva l'incarico di "spuntare" le vittime prima dell'esecuzione, rilevandole da un elenco all'ingresso delle cave Ardeatine, luogo prescelto per l'esecuzione e l'occultamento dei cadaveri. Lui stesso e Kappler decisero di assassinare anche quei cinque, rei di essere testimoni scomodi della strage».

1944-fosse-ardeatine-ingresso.JPG l'ingresso della cava dove avvenne l'esecuzione  

Alle undici e trenta del venticinque marzo, l'Agenzia Stefani emise un comunicato del Comando tedesco di Roma: "Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di Polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, trentadue uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto le indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento angloamericano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato siano fucilati dieci criminali comunisti badogliani. Quest'ordine è già stato eseguito".

1944-Unita-clandestina-30-marzo.jpg L'Unità clandestina del 30 marzo 1944 (in realtà gli ostaggi trucidati furono 15 in più) 

 

Giulia-Spizzichino.jpgNel libro La farfalla impazzita Giulia Spizzichino, scrive:

«Non ricordo come, ma a un certo punto si venne a sapere che alle Fosse Ardeatine c'era un numero impressionante di cadaveri. Non si sapeva esattamente chi vi fosse sepolto, ma era chiaro che si trattava di prigionieri prelevati dalle carceri dopo l'attacco di via Rasella. Erano loro gli scomparsi, e poi c'era stato l’annuncio sul giornale della rappresaglia eseguita. Il comando tedesco non aveva mai comunicato i nomi delle persone trucidate, ma le famiglie che non avevano notizie dei propri cari non si facevano illusioni circa loro sorte.

Chi andò alle cave a vedere riferì che era impossibile solo pensare di dare un nome alle vittime. Quei corpi erano rimasti là sotto per quasi tre mesi ed erano tutti ammassati, a formare un unico groviglio. Qualcuno propose di chiudere l'entrata, rendendo il luogo una grande tomba comune. Le famiglie degli scomparsi però non lo accettavano. Le figlie del generale Simoni, per esempio, si opposero violentemente, obiettando che in quel modo non avrebbero mai saputo se il loro padre fosse lì dentro.

Quando l'odio produce effetti tanto devastanti, per averne ragione non c'è che l'opera dell'amore. Chi si offrì di compierla fu un medico ebreo, il dottor Attilio Ascarelli. Un uomo stupendo, non ho altri modi per definirlo, che impegnò nella difficile impresa tutta la sua passione, la sua professionalità. Voleva attribuire un volto a ciascuno di quei miseri resti. Iniziò a separare i corpi uno per uno, dato che si erano attaccati. Attraverso i ritagli degli abiti e gli oggetti che avevano addosso - i documenti erano stati loro sottratti - riuscì un po’ alla volta a ottenere il riconoscimento di quasi tutti.

Naturalmente anche la mia famiglia fu coinvolta, tanti dei nostri cari mancavano all'appello, ma io andai sul posto poche volte, mia madre non voleva condurmi con sé. Ero sempre triste ogni volta che tornavo alle Fosse Ardeatine!

Ricordo che c'erano tanti pezzetti di stoffa lavati e sterilizzati, appesi a dei fili con le mollette. Erano numerati, per effettuare un riconoscimento bisognava annotarsi quei numeri. All’epoca i vestiti venivano fatti su misura dal sarto, non c'erano abiti confezionati come adesso, quindi le donne di casa tenevano da parte degli avanzi della stoffa per poterla utilizzare per le riparazioni. Per noi, come per tanti, è stata una fortuna. Solo così abbiamo potuto ritrovare i nostri familiari, li abbiamo riconosciuti attraverso la comparazione dei tessuti. Un pezzetto di stoffa per il nonno Mosè, un altro per lo zio Cesare. Mio cugino Franco, i suoi sogni e i suoi presentimenti: tutto in qualche lembo di tessuto! E ogni volta quanto dolore, quanto quanto dolore ... ».

Tra le vittime delle Fosse Ardeatine cinque insegnanti romani: Gioacchino Gesmundo, Pilo Albertelli, Salvatore Canalis, Paolo Petrucci e Fiorino Fiorini.

Vennero uccisi anche gli studenti Ferdinando Agnini (vent’anni), Ferruccio Caputo (ventidue anni), Romualdo Chiesa, (vent’anni), Pasquale Cocco (ventidue anni), Gastone De Nicolò (diciannove anni), Unico Guidoni (ventuno anni), Orlando Orlandi Posti (diciotto anni), Renzo Pensuti (ventiquattro anni) e Bruno Rodella (ventisei anni).

E anche dodici carabinieri:

Carabinieri uccisi alle Fosse Ardeatine 

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da "Lettere a Milano. 1939-1945" di Giorgio Amendola - Editori Riuniti 1981

La polemica sulle responsabilità dell'azione di via Rasella dell'eccidio delle Fosse Ardeatine continuò a lungo anche nel dopoguerra. Fummo accusati di essere stati noi comunisti i responsabili dell'eccidio perché dovevamo presentarci alle autorità naziste e dichiararci gli autori dell'attentato. In realtà non ci fu alcun invito rivolto dalle autorità tedesche agli organizzatori dell'attentati a presentarsi per essere fucilati al posto degli ostaggi. Il comando tedesco diede l'annuncio della rappresaglia ad esecuzione avvenuta. Ma, a parte questa circostanza di tempo, noi partigiani combattenti avevamo il dovere di non presentarci, anche se il nostro sacrificio avesse potuto impedire la morte di tanti innocenti. Noi costituivamo un reparto dell'esercito combattente, anzi facevamo parte del comando di questo esercito, e non potevamo abbandonare la lotta e passare al nemico con tutte le nostre conoscenze della rete organizzativa. Avevamo solo un dovere: continuare la lotta.

Quando fu celebrato, molti anni dopo, il processo contro il maggiore Kappler io, come teste di accusa, assunsi le mie responsabità di comandante delle brigate Garibaldi, per avere dato l’ordine dell'azione di guerra compiuta dai GAP contro il reparto tedesco a via Rasella. Sulla base di questa assunzione di responsabilità, un piccolo gruppo di famiglie di fucilati alle Fosse Ardeatine (soltanto cinque famiglie su 335) intentò un processo contro di me e contro gli esecutori dell'azione per essere dichiarati responsabili civili (visto che l'azione penale era estinta per amnistia) della strage delle Fosse Ardeatine. Soltanto molto tempo dopo fummo assolti dall'imputazione perché il Tribunale riconobbe che l’azione di via Rasella doveva essere considerata un'azione di guerra.

Sull'Unità clandestina fu pubblicato il seguente comunicato, redatto personalmente da Mario Alicata:

« 1. Contro il nemico che occupa il nostro suolo, saccheggia i nostri beni, provoca la distruzione delle nostre città e delle nostre contrade, affama i nostri bambini, razzia i nostri lavoratori, tortura, uccide, massacra, uno solo è il dovere di tutti gli italiani: colpirlo, senza esitazione, in ogni momento, dove si trovi, negli uomini e nelle cose. A questo dovere si sono consacrati i Gruppi di azione patriottica.

« 2. Tutte le azioni dei GAP sono dei veri e propri atti di guerra, che colpiscono esclusivamente obiettivi militari tedeschi e fascisti, contribuendo a risparmiare così altri bombardamenti aerei sulla capitale, distruzioni e vittime.

« 3. L'attacco del 23 marzo contro la colonna della polizia tedesca, che sfilava in pieno assetto di guerra per le strade di Roma, è stato compiuto da due gruppi di GAP, usando la tattica della guerriglia partigiana: sorpresa, rapidità, audacia.

« 4. I tedeschi, sconfitti nel combattimento di via Rasella hanno sfogato il loro odio per gli italiani e la loro ira impotente uccidendo donne e bambini e fucilando 320 innocenti. Nessun componente dei GAP è caduto nelle loro mani, né in quelle della polizia italiana. I 320 italiani, massacrati dalle mitragliatrici tedesche, sfigurati e gettati nella fossa comune, gridano vendetta. E sarà spietata e terribile! Lo giuriamo!

« 5. In risposta all'odierno comunicato bugiardo ed intimidatorio del comando tedesco, il comando dei GAP dichiara che le azioni di guerra partigiana e patriottica in Roma non cesseranno fino alla totale evacuazione della capitale da parte dei tedeschi.

« 6. Le azioni dei GAP saranno sviluppate sino all'insurrezione armata nazionale per la cacciata dei tedeschi dall'Italia, la distruzione del fascismo, la conquista dell'indipendenza e della libertà» (L’Unità, n. 6, 30 marzo 1944).

Il comunicato dei GAP fece una grande impressione. I comunisti sono i soli ad agire, ed anche a sapersi assumere in ogni circostanza le responsabilità delle loro azioni. In un momento difficile della guerra, quando le forze alleate non riuscivano né a superare lo scoglio di Cassino, né a spezzare la rete entro cui era costretto il corpo di spedizione sbarcato ad Anzio; in un momento di crisi del CLN, quando dal sud arrivavano notizie di una crescente impotenza del movimento antifascista di uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciato con il congresso di Bari; mentre la popolazione romana era alle prese, in una città assediata, con la fame e con le razzie, l'azione dei GAP di via Rasella aveva dimostrato che il tedesco non era, malgrado la sua tracotanza, invincibile, e che lo si poteva colpire duramente. Il sangue delle vittime innocenti fucilate ·alle Fosse Ardeatine sarebbe ricaduto sui responsabili della strage, sui nazisti e sui loro servi repubblichini. La popolazione romana comprese questo nostro atteggiamento non ci fece mancare la protezione della sua solidarietà. Cominciò, contro il comando delle brigate Garibaldi e dei GAP, una vera caccia all'uomo da parte dei nazisti. Sapevamo che erano intensificate le ricerche per giungere alla nostra cattura, ma potemmo continuare a muoverci e ad agire perché coperti sempre, come prima e più di prima, dall'appoggio popolare. 

 

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21 marzo 2024

21 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Memoria e dell'Impegno

21 marzo 2024

XXIX Giornata Nazionale della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime delle mafie

Oggi 21 marzo si è celebrata la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia.

Come ogni anno, anche il primo giorno di primavera è stata l’occasione per un rinnovato impegno contro l’indifferenza e l’illegalità, ma soprattutto è stato un giorno dedicato a chi si ribella a mafie e corruzione che distruggono beni comuni, impoveriscono territori e sottraggono la speranza di un presente più giusto.

Alla cerimonia erano a presenti Autorità civili, militari, religiose, le associazioni lissonesi e delle delegazioni studentesche cittadine. Sono state letti i nomi delle vittime di mafia. Sono state suonate musiche dall’Orchestra della Scuola Benedetto Croce.

 

21 marzo 2024
21 marzo 2024
21 marzo 2024
21 marzo 2024
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21 marzo 2024
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21 marzo 2024
21 marzo 2024
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dai diari di Pietro Nenni

20 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

«Tempo di guerra fredda. Diari e lettere 1943-1956»

di Pietro Nenni

1929 Nenni esilio Nizza

Pietro Nenni, esule in Francia con altri antifascisti italiani dal novembre 1926,

1942 Nenni confinato politico

viene arrestato dalla Gestapo a Saint Flour, villaggio dell’Auvergne ad un centinaio di chilometri da Vichy dove risiedeva con i suoi familiari, la sera dell’8 febbraio 1943, vigilia del suo cinquantaduesimo compleanno.

Dopo varie peregrinazioni in carceri francesi e tedesche, viene tradotto in Italia: il 24 aprile, a Roma, viene rinchiuso a Regina Coeli nel braccio riservato ai politici a disposizione del Tribunale speciale. Condannato, viene inviato al confino a Ponza, isola delle Pontine.

Il 26 luglio giunge sull’isola la notizia che Benito Mussolini era stato tratto in arresto per ordine del re, in seguito alla seduta del Gran consiglio, dove il “duce” era stato messo in minoranza (19 voti contro 6) su un ordine del giorno Grandi che suonava sconfessione della sua direzione della guerra e invito al sovrano a provvedere a norma della Costituzione.

 Dal diario di Nenni del 26 luglio 1943:

«Il giorno si spegne sul mare tranquillo in un pulviscolo d'oro e di azzurro che è un tramonto e potrebbe essere un'aurora. Io vado sul molo fra strette di mano e saluti di amici vecchi e nuovi. Mi commuove e mi esalta il pensiero di ciò che la breve notizia “Mussolini è caduto” rappresenta per migliaia di uomini sui quali si è accanita la persecuzione della polizia fascista e per migliaia di famiglie».

Scherzi del destino! Il 28 luglio viene condotto a Ponza anche Benito Mussolini.

 Dal diario di Nenni del 28 luglio 1943:

«Ed ecco, stasera il destino ci riunisce nella breve cerchia di un comune destino, ma Mussolini è un vinto, è l'eroe dannunziano che, ruzzolato dal suo trono di cartapesta, morde la polvere e non c'è attorno a lui che gente che lo rinnega per volgersi verso altre mangiatoie. Noi, i suoi avversari di venti anni, i «rottami» contro i quali egli ha avventato i suoi sarcasmi, noi siamo in piedi per altre tappe, altre lotte, altri cimenti, in piedi con la dignità della nostra vita, in piedi con la fierezza della parola mantenuta, italiani senza aureola di gloria o di successo, ma dei quali si dovrà pur dire che per essi la politica fu una cosa seria. Mentre è stata per Mussolini e per i suoi niente altro che farsa e impostura».

Il 4 agosto, un telegramma del direttore generale della PS Senise ordina la liberazione di Nenni. Il giorno dopo, con un peschereccio arriva a Terracina. Il 6 agosto è a Roma dopo un’assenza di diciassette anni.

«Eccomi a Roma dopo un'assenza di diciassette anni. Anche nella capitale le bandiere garriscono al vento e c'è nei volti e nei cuori della gente un'aria di festa. Le vie sono arcigremite e ciò che mi stupisce è il numero rilevante dei soldati tedeschi che vanno e vengono tra la folla cittadina. Da piazza dell'Esedra a via Nazionale, da piazza Venezia col suo storico palazzotto cinquecentesco ridivenuto silenzioso, al Corso, da piazza del Popolo a piazza Cavour ai lungotevere, vado tra la folla e ne ascolto i discorsi. Come il fascismo pare lontano, il fatto di un'altra epoca. Sui muri non sono che scritte di esecrazione a Mussolini e di evviva a Matteotti. I simboli del fascismo sono già stati scalpellati dai pubblici edifici e si direbbe che non abbiano mai avuto la mi­nima presa nei cuori. Anche la guerra sembra lontana, malgrado i quotidiani bollettini del comando supremo e l'incombente minaccia aerea.

A San Lorenzo una folla chiassosa si aggira fra le rovine del recente bombardamento. Si parla di migliaia di vittime  tuttora insepolte. Ma già il pensiero è volto ad altre cure e chi giace giace.

Il telegrafo mi porta i primi saluti dei miei concittadini e dei compagni di Milano e di Genova. Il comitato provvisorio di riorganizzazione del partito mi nomina direttore dell'« Avanti! ».

Sono di nuovo immerso nell'azione. Che importano più oggi gli anni tetri dell'esilio, i rischi della lotta, le difficoltà della prigionia?».

Nel viaggio verso Milano passa da Faenza:

«Faenza, la mia città natale, da dove si può dire che manco dall'adolescenza, mi ha accolto con affetto. Per quanto il giorno e l'ora del mio arrivo fossero noti a pochi intimi, una folla di centinaia di persone mi ha accolto alla stazione. Per le strade sono oggetto di una curiosità generale e simpatica. A casa delle mie cognate è una ininterrotta processione di amici. Non inutile dunque è stato resistere. Per anni è sembrato che noi fossimo soli e Mussolini ha potuto dileggiarci come rottami. Ma in ogni cuore era un palpito per noi, in ogni mente un pensiero di affetto. Il fascismo era per alcuni una camiciola di forza e per i più una vernice. Raschiata la vernice, strappata la camicia di forza, ecco l'anima popolare prorompere verso le usate convinzioni, socialista, comunista, repubblicana, liberale, democratico-cristiana, tutto fuorché fascista.

Mi ci vuole uno sforzo per sottrarmi alla gioia di questo ritorno e all'affetto di tanti amici. Qui è tutta la mia giovinezza che mi viene incontro. In questo vicolo che si chiama dei Mendicanti sono nato cinquantadue anni or sono e se appena socchiudo gli occhi, in una vecchierella che prende il fresco all'ombra della chiesa di Sant'Agostino posso immaginare mia madre, infagottata di stracci e curva sotto il peso di molti guai e di molta miseria. Questo palazzo dalla facciata severa, che fu dei conti Ginnasi, mi ricorda mio padre che vi era come inserviente e vi chiuse gli occhi alla vita quando io avevo appena cinque anni. In corso Porta Imolese, l'orfanotrofio dove fui per quasi dieci anni, la mia prima prigione, la prigione che battezzano beneficienza. Davanti alla scuola comunale mi assale il ricordo della grande febbre di sapere che mi divorava e che mi fu impossibile appagare. E queste strade che si aprono sui campi, questo fiumiciattolo che sembra un rigagnolo, questi canali mi ricordano i primi passi verso la vita, i primi sogni, le prime lotte, il primo sciopero nel 1908, il primo incontro con Carmen.

Allora la mia giovinezza era protesa alla conquista di un mondo ideale e la povertà mi era di stimolo. Ma il cinquantenne può volgersi indietro e dire all'orfanello di un tempo, al monello che queste viuzze hanno conosciuto indisciplinato e ribelle: «lo non ti ho tradito e sotto i capelli grigi sono sempre quello che fui».

 

L’arrivo a Milano:

«Il treno che mi porta a Milano si ferma a Rogoredo. I binari sono invasi da una folla di fuggiaschi. Intere famiglie aspettano qui da giorni un convoglio che li porti da qualche parte, lungi dalla città devastata.

Imbocco un corso XXVIII Ottobre che è stato ribattezzato corso della Libertà.

Ogni passo verso Milano è una pena e uno schianto. Davanti ai miei occhi esterrefatti si stende un'immensa rovina. Personalmente non ho mai visto niente del genere, per quanto dall'agosto. 1936, da Madrid a Valenza a Barcellona, alla guerra mondiale a Parigi a Tours a Bordeaux lo spettacolo delle città sventrate dal cannone o dalle bombe mi sia diventato abituale. Al centro la desolazione ancora più grande che alla periferia. Corso Vittorio Emanuele, via Manzoni, l'ex Verziere sono ridotti a cumuli di macerie. Un fumo acre avvolge la città. Si respira il fuoco che cova sotto le rovine. Non c'è un tram che funzioni, non un telefono.

Tra le case in rovina si aggirano donne vecchi fanciulli inebetiti. In molti fabbricati si devono ancora iniziare gli scavi per estrarre i cadaveri. Si sente parlare di sepolti vivi che per giorni hanno implorato un soccorso impossibile.

La Scala, Palazzo Marino, la Galleria sono duramente colpiti.

In piazza San Fedele la statua di Manzoni si erge quasi intatta fra i cumuli di rovine. Lungo corso XXII Marzo le deva stazioni sono meno impressionanti. La casa dove ho abitato è in piedi. Di qui sono partito verso l'esilio nei primi giorni del novembre 1926. La mattina dell'1 novembre il mio appartamento era stato saccheggiato con molti altri a titolo di rappresaglia per l'attentato di Bologna contro Mussolini.

Rivedo con gli occhi della memoria le stanze messe a soqquadro, i mobili spezzati, i libri sparpagliati sul selciato della strada, le fotografie dei miei genitori crivellate di colpi, le carte lacerate, le stoviglie infrante, le poche misere cose di una famiglia povera, ma che hanno tutte un pregio inestimabile, calpestate ... Ricordo la crisi di lacrime di mia figlia Vittoria che era rientrata per cercare i suoi quaderni e che un «bravaccio» aveva messo alla porta dicendole: «E considerati fortunata se non mettiamo le mani su tuo padre e non gli facciamo fare la fine di Matteotti ». Oggi questa mia figliola è internata in Germania senza che io sappia esat­tamente dove... e in quali condizioni. E oggi la visione del piccolo sopruso individuale sofferto tanti anni or sono si allarga alla visione della distruzione dell'intera città.

Come sottrarsi al pensiero di un intimo legame fra due fatti così diversi nelle loro proporzioni? Dal delitto contro il singolo il fascismo è passato con la guerra al delitto contro la nazione.

Ma dove sono i giovani fascisti che venti anni fa muovevano baldanzosi all'assalto dell'"Avanti!”, della Camera del lavoro, delle nostre case e delle nostre persone? Dove sono i tremebondi borghesi che acclamavano l'occupazione fascista di Palazzo Marino? Non si vede in Milano una divisa fascista né una scritta fascista né un distintivo del littorio. Tutti sono rientrati nell'ombra. Ci restino per il bene dell'Italia».

Bibliografia:

 

Pietro Nenni -Tempo di guerra fredda. Diari e lettere 1943-1956 - Sugarco Ed. 1981

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Ambrogio Avvoi

12 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #storie di lissonesi

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Oggi lo ricordiamo.
 12.4.1894 Lissone (Mi) – 12.3.1945 Flossenbürg

 

Nato a Lissone il 12/4/1894, da Ambrogio e Galimberti Giuseppina.

Sposato con Dassi Alessandrina Bice il 5 maggio 1921.

Professione: falegname ebanista.

Comunista, cinquantenne, viene arrestato a Monza nei primi giorni di marzo 1944 e portato nel carcere di Monza. Il 20 marzo 1944 è trasferito a Milano nel carcere di San Vittore. Da qui viene inviato al campo di Fossoli (MO) il 9 giugno 1944 per poi essere mandato, nei primi giorni di agosto 1944, nel lager di Bolzano. Durante il trasporto in treno da Bolzano al lager nazista di Flossembürg, il 18 dicembre 1944, a Vipiteno riesce a fuggire insieme a dieci compagni di sventura (7 sono operai delle industrie di Sesto San Giovanni). Sfortunatamente sono ripresi a Bressanone e rinchiusi nel carcere locale, dove rimangono per qualche giorno, per poi essere nuovamente trasferiti al campo di Bolzano.

Con un nuovo trasporto sono portati a Flossembürg, lager “di frontiera”, situato nel nord-est della Baviera vicino al confine con la regione dei Sudeti, luogo di “sterminio attraverso il lavoro”. Come negli altri lager era in funzione il forno crematorio.

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Ambrogio Avvoi, triangolo rosso di deportato politico, è registrato con numero di matricola 43841. Per il suo tentativo di fuga gli viene riservato un “trattamento particolare”.  
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Muore l’8 marzo 1945. 
Il lager fu liberato il 23 aprile 1945.

 

Nel cimitero di Lissone una lapide lo ricorda.   

 

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Nel 1963, l’Amministrazione Comunale, sindaco Fausto Meroni, ha dedicato ad Ambrogio Avvoi una via di Lissone.

 

 

 

Dati forniti dall’ANED

via dedicata ad Ambrogio Avvoi

via dedicata ad Ambrogio Avvoi

Pietra d'Inciampo 2024
Pietra d'Inciampo 2024

Pietra d'Inciampo 2024

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Anni da Apocalisse

11 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #I guerra mondiale

Nella cittadina siriana di Kafr Zita la nuvola è arrivata all'improvviso, subito dopo l'esplosione di alcune granate. Silenziosa, invisibile, soltanto l'odore acre ne ha tradito la presenza. A quel punto però era troppo tardi per scappare: almeno due persone sono morte e altre duecento hanno dovuto farsi curare per i danni ai polmoni. In quel venerdì di aprile l'aria è diventata veleno: l'effetto di una singola bomba riempita di cloro, sganciata tra le case, che ha scatenato un'onda di terrore. Nell'aprile 1917 furono 150 tonnellate di cloro affidate al vento belga di Ypres a segnare la nuova frontiera della capacità omicida: l'arma chimica. E come se l'eco dello stesso urlo disperato avesse continuato a risuonare lungo tutto un secolo: «Gas! Gas!». «Improvvisamente il grido terrificante "Gas!" percorse le fila», ha scritto il soldato britannico Gladen nel diario della primavera 1917. «Il nemico stava cannoneggiando con granate chimiche che uggiolavano in alto per poi infrangersi sul terreno con il loro caratteristico tonfo soffocato. Un odore disgustoso incominciò ad arrivare alle narici. La paura del gas era la più grande delle paure».

Non è l'unica che la prima guerra mondiale ci ha lasciato in eredità. È stato anche il primo conflitto dell'era industriale, con una gara tra scienza, tecnologia e aziende per migliorare senza sosta qualità e quantità degli strumenti di morte: aerei, carri armati, sottomarini, corazzate ma soprattutto cannoni e mitragliatrici sempre più letali.

Anni da Apocalisse
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La rivoluzione è proprio nella velocità degli aggiornamenti e nel volume della produzione. Nel 1915 si usano su tutti i fronti solo 3.600 tonnellate di sostanze chimiche belliche, quasi sempre composti derivati del cloro a bassa tossicità; l'anno dopo diventano 15 mila con una predominanza di testate all'arsenico, molto più aggressive; nel 1917 le tonnellate sono 35 mila e negli arsenali entra l'iprite, capace di uccidere attraverso la pelle, e prima che le ostilità cessino le forniture salgono al record di 59 mila tonnellate. Quando sono cominciati i combattimenti, gli aeroplani erano macchine volanti per temerari: trabiccoli di legno e tela, scarsamente affidabili e con prestazioni modeste.

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I bombardamenti dal cielo li avevamo inventati noi italiani, durante lo sbarco in Libia del 1911: quattro granate a mano da due chili ciascuna, tirate contro i turchi dal tenente Giulio Gavotti. Nel 1918 invece tut­te le potenze avevano squadriglie di plurimotori come il Gotha o il Caproni in grado di sganciare più di una tonnellata di ordigni a 500 chilometri di distanza. La linea del fronte si era allargata a dismisura, trasformando le città in bersagli: da Parigi a Milano, da Liegi a Londra, duramente colpita per mesi con centinaia di vittime civili. Non esistono più zone franche. Con un'antici­pazione del futuro, piovono bombe su metropoli lontanissime dalle trincee, persino su Napoli, centrata da un dirigibile Zeppelin germanico.

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Con i progressi della meccanica tutto può trasformarsi in campo di battaglia, anche la profondità del mare. I sommergibili, fino ad allora, erano stati vascelli dalle incerte prestazioni: fantasie da Jules Verne, buone più per i feuilleton che per combattere. I cantieri del Kaiser li rendono mezzi micidiali, affidandoli il compito di stroncare i rifornimenti diretti in Gran Bretagna: l'assedio che non era riuscito a Napoleone viene tentato colpendo senza emergere. Con risultati clamorosi: solo negli ultimi due anni di ostilità i 345 U-Boote in servizio colarono a picco 9,5 milioni di tonnellate di naviglio alleato. Tra le prede, la più nefasta rimane il transatlantico americano Lusitania, il cui affondamento provocò l’entrata in guerra degli Stati Uniti.

 

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La minaccia proveniente dagli abissi - oltre ai sommergibili, le mine ma anche i siluri dei motoscafi d'assalto - ha cambiato la natura degli scontri marini. Nel 1915 la poderosa flotta anglo britannica spedita davanti a Gallipoli perse tre corazzate senza nemmeno vedere una nave nemica. L'orgoglio della marina austro-ungarica rimase intrappolato nei porti adriatici con i piccoli Mas. italiani pronti ad aggredirla come quello di Luigi Rizzo che affondò prima la Wien e poi la Szent Istvàn. Le colossali navi da battaglia, mostri d'acciaio irti di batterie di grosso calibro, persero il ruolo di dominatori dei mari e furono costrette a rimanere sulla difensiva.

D'altronde con nuovi strumenti ed esplosivi avanzati si arrivò a stravolgere anche le profondità della terra, decapitando le montagne: sfruttando gli antenati dei martelli pneumatici, italiani e austriaci scavarono nella roccia fino a posizionare mine gigantesche sotto i capisaldi nemici costruiti sulle vette. Lo scoppio era sconvolgente: massi enormi venivano scagliati in aria, le fiamme si infilavano nelle reti di gallerie, tutto il paesaggio veniva sconvolto con voragini larghe cinquanta metri. «L'intero massiccio sembrò un mare di fiamme, dal quale emergevano vampe fino a trenta metri d’altezza», scrisse il generale Moritz Brunner descrivendo la detonazione sul Pasubio, chiamata "la montagna dei diecimila morti".

Alcune innovazioni restarono d'importanza poco più che psicologica, finché non si riuscì a sviluppare le tattiche per renderle determinanti. La forza dei primi carri armati era tutta nell'immagine di macchine demoniache: parallelepipedi di metallo rumorosi e lenti (la velocità era inferiore ai quattro chilometri l'ora), da cui spuntavano cannoni e mitragliatrici, che grazie ai cingoli superavano qualunque ostacolo. Lunghi poco meno di dieci metri, pesanti più di 27 tonnellate, stritolavano i reticolati e varcavano le trincee. La loro apparizione il 15 settembre 1915 nella Somme fu uno choc, sessanta Mark 1 britannici che travolgevano ogni cosa: pareva che nulla potesse fermarli. Ma lo spavento è durato poco: i bestioni di metallo andavano in panne facilmente e avevano troppi punti deboli. Solo nell’estate 1918 inglesi e francesi cominciarono a inscenare offensive coordinate di carri e aeroplani, creando il binomio che ha poi dominato i campi di battaglia.

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I caccia smisero di duellare tra loro, come nelle tenzoni tra nobili del medioevo: la leggen­da alata delle sfide tra biplani, come il mito delle ottanta vittorie del Barone Rosso Manfred von Richthofen e l'epopea nazionale dci Cavallino Rampante di Francesco Baracca, fu sostituita da un impiego di massa degli stormi, con intere formazioni che agivano compatte. Spiega il celebre storico militare Basil Liddell Hart: «In tal modo gli aerei divennero la cavalleria dell'aria, e la somiglianza fu accentuata dall'ennesimo tipo di azioni adottato con grande efficacia nelle ultime fasi della guerra: l'attacco contro truppe di terra. Fintantoché gli eserciti rivali erano al riparo delle trincee, l’attacco aereo aveva scarse possibilità di incidere sulla situazione. Ma quando nel marzo del 1918 il fronte britannico fu travolto, tutti i gruppi da caccia disponibili furono concentrati per colpire il nemico in avanzata».

Eppure tutte queste invenzioni e questa tecnologia hanno dato un contributo assolutamente secondario al massacro della Grande Guerra, che ha provocato otto milioni di morti e ventitré milioni di feriti. Aerei sommergibili, carri armati sono stati carnefici minori. Persino le bombe chimiche hanno avuto bassa letalità: considerando gli eserciti francese, britannico, tedesco e americano gli vengono attribuiti circa 20 mila caduti e meno di mezzo milione di feriti, ossia il 3,4 percento delle vittime.

La strage è figlia di armi più semplici; mitragliatrici e cannoni, però costantemente perfezionate e prodotte in stock mai visti prima. È grazie a loro che il fronte viene letteralmente inondato di pallottole d'ogni calibro. Questo volume di fuoco stravolge qualunque tradizione militare, annienta i tradizionali schieramenti, rende suicida l'azione della cavalleria e finisce per obbligare le armate a rintanarsi nelle trincee.

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Na­scono le mimetizzazioni, gli ufficiali nascondono gradi e simboli: un'ideale del guerriero scom­pare dopo millenni di retorica bellica. Come ha raccontato Sandro Pertini, tenente decorato per azioni eroiche e poi ferito dai gas: «Ricordo quei massacri. Per prendere una collina, mandavano all'assalto i battaglioni inquadrati, ufficiali in testa con la sciabola sguainata. La sciabola brilla­va alla luce del sole e quegli ufficiali diventavano sagome per un tragico tiro al bersaglio. Ma in luogo di adottare una più intelligente tattica di assalto, fu deciso di brunire le sciabole». Ogni offensiva è un'ecatombe: 600 mila tra morti e feriti a Verdun, 280 mila solo nell'undicesima delle battaglie dell'Isonzo. «La raffica della mitragliatrice è l'unica che non risparmia letteralmente nessuno», sentenziò Marcel Bloch. In Italia nel 1915 se ne producevano 600 l'anno, al momen­to di Vittorio Veneto il ritmo delle fabbriche era arrivato a quasi 20 mila. Ognuna era in grado di sparare tra i 400 e i 600 proiettili al minuto.

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Ancora peggio hanno fatto i cannoni, diventati a "tiro rapido". In un singolo attacco del luglio 1916 gli inglesi scaricano sui tedeschi un milione e mezzo di granate: una pioggia ininterrotta di schegge, a cui viene attribuito il 70-80 per cento dei feriti e una proporzione appena inferiore di caduti. Negli ultimi mesi di guerra si confrontano batterie sterminate di obici: in ogni offensiva vengono schierati dagli alleati tra i 5 e gli 8 mila pezzi. Il cannone da 75 francese, forse il migliore costruito nel conflitto, sparava otto colpi al minuto: potete immaginare che tempesta di tritolo e metallo arrivava sulle trincee nemiche. Qualcosa di infernale. Il tiro di sbarramento faceva impazzire. Gabriel Chevalier ne La Paura ricorda: «Gli uomini non furono più altro che prede, animali senza dignità, il cui corpo si muoveva inseguendo l'istinto. Ho visto i miei compagni, pallidi e con gli occhi folli, spingersi e ammucchiarsi per non essere colpiti da soli, o, scossi come marionette dai soprassalti della paura, strisciare al suolo, nascondendosi il viso».

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I fiori nelle Fiandre

9 Mars 2024 , Rédigé par anpi-lissone

Flanders Fields" è una poesia di guerra a forma di rondeau, scritta durante la prima guerra mondiale dal medico canadese tenente colonnello John McCrae. Fu ispirato a scriverlo il 3 maggio 1915, dopo aver presieduto il funerale dell'amico e commilitone tenente Alexis Helmer, morto nella seconda battaglia di Ypres.

Nei campi delle Fiandre spuntano i papaveri
tra le croci, fila dopo fila,
che ci segnano il posto; e nel cielo
le allodole, cantando ancora con coraggio,
volano appena udite tra i cannoni, sotto.

Noi siamo i Morti. Pochi giorni fa
eravamo vivi, sentivamo l'alba, vedevamo
risplendere il tramonto, amavamo ed eravamo amati.
Ma ora giacciamo nei campi delle Fiandre.

Riprendete voi la lotta col nemico:
a voi passiamo la torcia, con le nostre
mani cadenti, e sian le vostre a tenerla alta.
e se non ci ricorderete, noi che moriamo,
non dormiremo anche se i papaveri
cresceranno sui campi delle Fiandre

I fiori nelle Fiandre

Dormi sepolto in un campo di grano Non è la rosa non è il tulipano Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi Ma sono mille papaveri rossi

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Le donne e le conquiste dal dopoguerra ad oggi

4 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #La Resistenza delle donne

La Costituzione repubblicana aveva stabilito l’uguaglianza formale fra i sessi, ma la conquista dei diritti civili si intrecciava da parte delle donne con la percezione, che divenne via via più nitida negli anni Sessanta e Settanta, di aver raggiunto diritti non completi, di avere di fronte consuetudini sociali e culturali che ancora non riconoscevano loro una reale parità.

Dal dopoguerra ad oggi, la condizione sociale e giuridica delle donne si è lentamente ma radicalmente modificata.

Ecco alcune tappe fondamentali di tale cammino:

1948

Entra in vigore la Costituzione. Gli articoli 3, 29, 31,37,48 e 51 sanciscono la parità tra uomini e donne.

Angela Maria Cingolani Guidi è la prima donna sottosegretario (Industria e commercio con delega all'artigianato).

1950

Varata la legge 26 agosto 1950, n. 860, «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri».

1956

Le donne possono accedere alle giurie popolari col limite massimo di tre su sei (la norma rimarrà in vigore fino al 1978) e ai tribunali minorili.

Le funzioni riconosciute alle donne sono ancora quelle legate alla figura materna. Il loro intervento viene giudicato opportuno in quei casi in cui i problemi vadano risolti, «più che con l'applicazione di fredde formule giuridiche con il sentimento e la conoscenza del fanciullo che è proprio della donna».

1958

La legge Merlin chiude definitivamente le case di tolleranza: legge 20 febbraio 1958, n. 75, «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui».

1959

Viene istituito il Corpo di polizia femminile.

1963

Il matrimonio non è più ammesso come causa di licenziamento: legge 9 gennaio 1963, n. 7, «Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e modifiche della legge 26 agosto 1950, n. 860».

Marisa Cinciari Rodano è eletta vicepresidente della Camera. Le donne sono ammesse alla magistratura: legge 9 febbraio 1963, n. 66, «Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni».

Un ulteriore passo avanti nell'effettiva attuazione dell'art.51 della Costituzione: le donne possono accedere a tutti i pubblici uffici senza distinzione di carriere né limitazioni di grado.

1968

L'adulterio femminile non è più considerato reato.

L'art. 559 del Codice penale recitava: «La moglie adultera è punita con la reclusione fino ad un anno. Con la stessa pena è punito il correo». Per il marito non esisteva nulla del genere: la disparità di trattamento non rispettava le norme fondamentali della Costituzione. Con due senten­ze del 19 dicembre 1968, la Corte costituzionale abroga l'articolo sul diverso trattamento dell'adulterio maschile e femminile e quello analogo del Codice penale.

1970

Viene approvata la legge sul divorzio: legge  dicembre 1970, n. 898, «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio».

L'introduzione del divorzio in Italia era stata collegata alla questione del voto alle donne. In sede costituente, il PCI, per una scelta di fondo sfociata nell'approvazione dell'art. 7, non aveva sollevato la questione. La Commissione dei 75 avrebbe voluto includere l'indissolubilità del matrimonio nel testo della carta costituzionale, ma, dopo un'aspra battaglia in aula, la parola «indissolubile» non era stata inserita, bocciata con un esiguo margine di voti.

Nel 1965, il socialista Loris Fortuna avanzò la prima proposta di legge, sulle orme del collega Renato Sansone, che negli anni Cinquanta aveva proposto a più riprese e senza successo una legge di «piccolo divorzio», per i casi estremi di ergastolani, malati di mente, scomparsi, divorziati all'estero.

Dopo l'approvazione della nuova normativa, nel 1974 sarebbe stato indetto un referendum abrogativo, ma in seguito alla vittoria del fronte del NO col 59% dei voti la legge sarebbe rimasta in vigore.

1971

La Corte costituzionale cancella l'articolo del Codice civile che punisce la propaganda di anticoncezionali.

Dall'inizio degli anni Sessanta la pillola contraccettiva era in commercio in molti Paesi europei, ma nel 1968 la Chiesa condannò aspramente la contraccezione. Nel 1969 la pillola cominciò, tuttavia, a essere venduta anche in Italia, come farmaco per le disfunzioni del ciclo mestruale. Nel 1971 la Corte costituzionale, dopo un'aspra battaglia, abrogò l'art. 535 del Codice penale che vietava la propaganda di qualsiasi mezzo contraccettivo e puniva i trasgressori col carcere.

Viene approvata la legge sulle lavoratrici madri: legge 30 dicembre 1971, n. 1204, «Tutela delle lavoratrici madri».

Sono istituiti gli asili nido comunali: legge 6 dicembre 1971, n. 1044, «Piano quinquennale per l'istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato».

1975

Riforma del diritto di famiglia: legge 19 maggio 1975, n. 151, «Riforma del diritto di famiglia».

Fino a questa riforma, il peso dell'educazione dei figli gravava, di fatto, sulle madri, ma tale impegno non aveva un adeguato riconoscimento giuridico. La patria potestà spettava ad entrambi i genitori, ma il suo esercizio toccava al padre, secondo l'art. 316 del Codice civile.

Col nuovo diritto di famiglia, la legge riconosce parità giuridica tra i coniugi che hanno uguali diritti e responsabilità e attribuisce ad entrambi la patria potestà.

1976

Per la prima volta una donna, Tina Anselmi, viene nominata ministro (Lavoro e previdenza sociale).

1977

È riconosciuta la parità di trattamento tra donne e uomini nel campo del lavoro: legge 9 dicembre 1977 n. 903, «Parità fra uomini e donne in materia di lavoro».

1978

Viene approvata la legge sull'aborto.

Nel 1974 i radicali avevano iniziato una campagna per un referendum al fine di abrogare le norme che penalizzavano l'aborto. Gli articoli dal 546 al 551 del Codice penale stabilivano, infatti, che la donna che si procurava un aborto dovesse essere punita con la reclusione da uno a quattro anni (ma, se l'aborto era effettuato per "salvare l'onore", era prevista una riduzione, che andava da un terzo alla metà della pena).

Dopo l'approvazione della legge, un referendum abrogativo del maggio del 1981 non avrebbe avuto successo.

1979

Nilde Jotti è la prima donna presidente della Camera.

1981

Il motivo d'onore non è più attenuante nell'omicidio del coniuge infedele.

1983

La Corte costituzionale stabilisce la parità tra padri e madri circa i congedi dal lavoro per accudire i figli.

1984

Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è costituita la Commissione nazionale per la realizzazione delle pari opportunità, presieduta da Elena Marinucci.

1986

La commissione nazionale per la parità uomo e donna elabora il «Programma azioni positive»: aziende e sindacati devono tutelare accesso, carriera e retribuzioni femminili.

1989

Le donne sono ammesse alla magistratura militare.

1991

Legge 10 aprile 1991, n. 125, «Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro».

La legge dovrebbe essere in grado di intervenire nel rimuovere le discriminazioni e valorizzare la presenza e il lavoro delle donne nella società. Purtroppo, è ancora poco applicata.

1992

Legge, 25 febbraio 1992, n. 215, «Azioni positive per l'imprenditorialità femminile».

La legge sull'imprenditoria femminile favorisce la nascita di imprese composte per il 60% da donne, società di capitali gestiti per almeno 2/3 da donne e imprese individuali.

1993

Con la legge 25 marzo 1993, n. 81 per la prima volta vengono introdotte le "quote rosa" in merito alle elezioni dei rappresentanti degli enti locali.

Si stabilisce che per le elezioni regionali e comunali, i candidati dello stesso sesso non possano essere inseriti nelle liste in misura superiore ai due terzi: ciò riserva, di fatto, un terzo dei posti disponibili al sesso sottorappresentato (cioè le donne). Per le elezioni nazionali, viene introdotta l'alternativa obbligatoria di uomini e donne per il recupero proporzionale ai fini della designazione alla Camera dei deputati.

Nel 1995 questa serie di interventi legislativi è stata annullata con la sentenza n. 422 della Corte costituzionale, avendo il giudice stabilito che, in materia elettorale, debba trovare applicazione solo il principio di uguaglianza formale e che qualsiasi disposizione tendente ad introdurre riferimenti al sesso dei rappresentanti, anche se formulata in modo neutro, sia in contrasto con tale principio.

1996

La legge 15 febbraio 1996, n. 66, «Norme contro la violenza sessuale», punisce lo stupro come delitto contro la persona e non contro la morale come in precedenza.

Il governo nomina un ministro per le pari opportunità, Anna Finocchiaro.

2000

Legge 8 marzo 2000, n. 53, «Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città».

Sia il padre che la madre possono chiedere l'aspettativa, da sei a dieci mesi, entro gli otto anni di vita del bambino. La cura dei figli smette di essere, dal punto di vista legislativo, esclusiva prerogativa delle madri.

2003

Legge costituzionale 30 maggio 2003, n. l, «Modifica dell'art. 51 della Costituzione».

L’art. 51 della Costituzione («Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge») viene modificato, con l'aggiunta: «A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».

2004

La legge sulle elezioni dei membri del Parlamento europeo introduce una norma in materia di "pari opportunità": legge 8 aprile 2004, n. 90, «Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell'anno 2004».

L’art. 3 prescrive che le liste circoscrizionali, aventi un medesimo contrassegno, debbano essere formate in modo che nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati.

2019

La legge n.69 prevede, a fronte di notizie di reato relative a delitti di violenza domestica e di genere: che la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisca immediatamente al pubblico ministero, anche in forma orale; alla comunicazione orale seguirà senza ritardo quella scritta.

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L'emancipazione femminile: il lungo cammino verso il voto delle donne

3 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #La Resistenza delle donne

La decisione di ammettere le donne al voto venne presa formalmente a poco più di due mesi dalla conclusione del conflitto, ma essa era maturata fin dal 1944. Soprattutto i leader dei più importanti partiti di massa, DC e PCI, erano infatti ormai convinti, nonostante le resistenze della base, della necessità di un provvedimento che avrebbe incluso nella dialettica tra cittadini e forze politiche una componente essenziale alla vita del Paese e avrebbe inevitabilmente modificato contenuti e metodi dell’organizzazione del consenso.

Alcune formazioni di punta del movimento femminile fecero sentire la loro voce, oltre che per sollecitare le cose, per ribadire che un simile risultato non si configurava nei termini di una pura e semplice concessione. Nell’ottobre 1944 l’UDI, insieme a due associazioni che avevano alle spalle una storia gloriosa, e cioè l’Alleanza femminile pro suffragio e la FILDIS (Federazione italiana laureate e diplomate istituti superiori), inviò un promemoria al capo del governo Bonomi, affinché l’estensione alle donne del voto e dell’eleggibilità fosse tenuta presente nell’elaborazione delle leggi elettorali da introdurre per le future consultazioni. Nello stesso mese, più esattamente il 25, sempre l’UDI indisse a Roma un incontro con le esponenti di DC, PRI, PCI, PSIUP, Partito d'Azione, PLI, Sinistra cristiana, Democrazia del lavoro e delle due associazioni già nominate. Dalla riunione nacque un Comitato pro voto, che il 27 sottopose un promemoria al CLN nazionale. Il 15 novembre un gruppo di donne presentò una mozione al CLN e nello stesso mese il Comitato pro voto si fece promotore di altre iniziative, come la stampa di un opuscolo e la stesura di una petizione, diffusa dal Comitato di iniziativa dell’UDI, per raccogliere il maggior numero possibile di firme.

Parallelamente venne indetta una settimana nazionale di mobilitazione, che in realtà non ebbe luogo in seguito alle decisioni adottate in seno al governo. In un’Italia ancora divisa in due, con il Centro-Sud liberato e la Repubblica di Salò nel Nord occupato dai tedeschi, a Roma su richiesta di De Gasperi e Togliatti la questione venne infatti esaminata dal Consiglio dei ministri il 24 gennaio 1945. Il 30 si ebbe l’approvazione, ratificata con il decreto luogotenenziale n. 23, datato febbraio 1945, un breve testo il quale stabiliva all’art. 2 che, vista l’imminente formazione nei Comuni delle liste elettorali, nelle suddette si iscrivessero in liste separate le elettrici.

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Decreto luogotenenziale febbraio 1945, n. 23

DECRETO LEGISLATIVO LUOGOTENENZIALE febbraio 1945

Estensione alle donne del diritto di voto

UMBERTO DI SAVOIA

PRINCIPE DI PIEMONTE

LUOGOTENENTE GENERALE DEL REGNO

 In virtù dell'autorità a Noi delegata;

Visto il decreto legislativo Luogotenenziale 28 settembre 1944, n. 247, relativo alla compilazione delle liste elettorali;

Visto il decreto-legge Luogotenenziale 23 giugno 1914, n. 151;

Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri;

 Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, Primo Ministro Segretario di Stato e Ministro per l'interno, di concerto con il Ministro per la grazia e giustizia;

Abbiamo sanzionato e promulgato quanto segue:

 Art. 1

Il diritto di voto è esteso alle donne che si trovino nelle condizioni previste dagli articoli 1 e 2 del testo unico della legge elettorale politica, approvato con R. decreto 2 settembre 1919 n. 1495.

 Art. 2

È ordinata la compilazione delle liste elettorali femminili in tutti i Comuni. Per la compilazione di tali liste, che saranno tenute distinte da quelle maschili, si applicano le disposizioni del decreto legislativo Luogotenenziale 28 settembre 1944 n. 247, e le relative norme di attuazione approvate con decreto del Ministro per l'interno in data 24 ottobre 1944.

 Art. 3

Oltre quanto stabilito dall'art. 2 del decreto del Ministro per l'interno in data 24 ottobre 1944, non possono essere iscritte nelle liste elettorali le donne indicate nell'art. 354 del Regolamento per l'esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R. decreto 6 maggio 1940 n. 635.

 Art. 4

Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Regno.

Ordiniamo, a chiunque spetti, di osservare il presente decreto e di farlo osservare come legge dello Stato.

 Data a Roma, addì febbraio 1945

UMBERTO DI SAVOIA

BONOMI - TUPINI


Paura del voto femminile

 Alla vigilia delle prime elezioni in cui anche le donne vennero chiamate ad esprimere il proprio parere, nes­suna forza politica poté ignorare quale enorme importanza avrebbe assunto l’elettorato femminile, che, con 14.610.845 persone che acquisirono il diritto a recarsi per la prima volta in una cabina elettorale, costituiva circa il 53% del totale.

De Gasperi e Togliatti erano fondamentalmente concordi sull’estensione del suffragio, ma dovettero scontrarsi con la diffidenza che il provvedimento suscitò, per motivi diversi, all’interno dei loro partiti.

Nel PCI i dubbi circa i risultati delle urne erano legati al timore che le donne si lasciassero troppo influenzare dai loro parroci e dalla Chiesa.

Le perplessità democristiane erano invece legate alla possibilità che, con la nuova partecipazione alla vita politica, esse si allontanassero progressivamente dai valori tradizionali, incrinando così l’unità della famiglia.

Per Nenni e per i socialisti il voto femminile era sicuramente un fatto positivo, ma potenzialmente pericoloso. Il Partito Liberale, il Partito Repubblicano e il Partito d'Azione si mostrarono a volte indifferenti, a volte diffidenti verso il voto alle donne, per timore che risultasse un vantaggio per i partiti di massa.

In più casi venne addirittura rinfacciato alle italiane di essere arrivate al diritto di voto senza aver fatto gran che per ottenerlo, di non aver avuto un movimento suffragista veramente combattivo e consapevole, come ad esempio quello inglese, e molti ribadirono che le donne erano assolutamente impreparate a compiere il loro dovere elettorale

 2 giugno 1946 file ai seggi     


Alle urne

In Italia le donne cominciarono ad esercitare il diritto di voto a partire dalle elezioni amministrative che si tennero in tutta la Penisola fra marzo e aprile 1946. Il 2 giugno dello stesso anno si recarono di nuovo alle urne per il referendum monarchia-repubblica e l’elezione dell’Assemblea Costituente.

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"IN ITALIA SI VOTA

CASTELGANDOLFO - Per fa prima volta dopo ventiquattro anni si sono avute libere elezioni in Italia. Tanto nelle città come nei piccoli centri tutti hanno votato in un ambiente assolutamente calmo. In molti casi le donne, specialmente le contadine, sono state le prime a recarsi alle urne". L'Europeo, 25 marzo 1946


Il 2 giugno 1946, su 556 membri totali vennero elette 21 donne all'Assemblea Costituente.

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La DC, che aveva ottenuto il 35,2% dei voti e 207 costituenti, aveva fra i suoi rappresentanti 9 donne.

Il PSIUP aveva il 20,7%, 115 seggi e 2 donne. Il PCI ottenne il 19% dei consensi, 104 costituenti e fra di essi 9 donne.

40 seggi andarono a vari gruppi moderati, 30 seggi al Partito dell’Uomo Qualunque, di cui uno assegnato a una donna. 23 seggi furono assegnati ai repubblicani e 7 al Partito d'Azione: fra le loro fila nessuna donna.

Le ventuno costituenti appartenevano prevalentemente alla classe media. Tredici erano laureate, soprattutto in materie umanistiche; c'erano poi un’impiegata e una casalinga; due delle comuniste erano state operaie. Avevano nel complesso una buona cultura e provenivano, per la maggior parte dal Centro-Nord del Paese, dove lo sviluppo economico era stato più precoce e dove si era vissuta la Resistenza.


 I lavori dell’Assemblea Costituente 

L’Assemblea Costituente si riunì per la prima volta nel Palazzo di Montecitorio il 25 giugno 1946. Nel corso di quella seduta venne eletto presidente dell’Assemblea Giuseppe Saragat, in seguito dimissionario e sostituito, l’8 febbraio 1947, da Umberto Terracini.

Il 28 giugno 1946 l’Assemblea procedette all’elezione del Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, il quale avrebbe esercitato le sue funzioni fino a quando non fosse stato nominato il Capo dello Stato a norma della Costituzione che sarebbe stata approvata dall’Assemblea.

Ai fini di un più efficiente svolgimento del proprio lavoro, l’Assemblea deliberò la nomina di una Commissione per la Costituzione, composta di 75 membri scelti dal presidente sulla base delle designazioni dei vari gruppi parlamentari in modo da garantire la partecipazione della totalità delle forze politiche, con l’incarico di predisporre un progetto di Costituzione da sottoporre al plenum dell’Assemblea. La Commissione, nominata il 19 luglio 1946 e presieduta da Meuccio Ruini, procedette nei suoi lavori articolandosi in tre sottocommissioni: la prima sui diritti e doveri dei cittadini; la seconda sull’ordinamento costituzionale della Repubblica (divisa a sua volta in due sezioni, per il potere esecutivo e il potere giudiziario, più un comitato di dieci deputati per la redazione di un progetto articolato sull’ordinamento regionale); la terza sui diritti e doveri economico-sociali.

Le donne fra i 75 membri della Commissione furono:

Maria Federici, per la DC, Lina Merlin, per il PSl, Teresa Noce e Nilde lotti, per il PCI; il 6 febbraio 1947 si aggiunse Angela Gotelli (DC).

Una volta terminato il lavoro delle sottocommissioni, la Commissione dei 75 affidò l’incarico di redigere un progetto organico e unitario ad un comitato di redazione, composto di 18 membri. Il comitato approntò il progetto di Costituzione e lo sottopose alla Commissione per la Costituzione, che approvò a sua volta il testo con lievi modifiche e lo presentò il 31 gennaio 1947 all’Assemblea Costituente. Il comitato di redazione ebbe anche l’incarico di rappresentare la Commissione dei 75 durante la discussione presso l’Assemblea plenaria, che si svolse dal 4 marzo al 20 dicembre 1947; il testo definitivo venne presentato all’Assemblea che lo votò il 22 dicembre 1947. La Costituzione venne promulgata il 27 dicembre dal Capo provvisorio dello Stato ed entrò in vigore il gennaio 1948.


La-Costituzione-della-Repubblica-italiana.JPG

La parità tra uomini e donne è affermata in particola­re negli articoli 3, 29, 31, 37, 48 e 51 della Costituzione italiana.

Art. 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 29

La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.

Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.

Art. 31

La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.

Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.

Art. 37

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.

La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.

Art. 48

Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.

Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.

Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.

Art. 51

Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.

La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica.

Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario alloro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro. 

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