e per chi si opponeva al fascismo?
Contro i delitti fascisti perpetratisi a danno delle opposizioni durante la campagna elettorale per le elezioni tenutesi nell’aprile del 1924 e che vede la vittoria del listone di cui fa parte il partito fascista, il 30 maggio 1924, alla seduta inaugurale della Camera si alza la voce di Giacomo Matteotti per chiedere l’abolizione del responso delle urne. Pochi giorni dopo, il 10 giugno Matteotti viene rapito e ucciso dai sequestratori fascisti sui sedili posteriori di una macchina su cui è stato caricato con la forza. Il cadavere di Matteotti verrà rinvenuto nei dintorni di Roma il 16 agosto. Ancora morti. Antonio Gramsci, arrestato, morirà per gli stenti e la durezza della pena subito dopo essere stato dimesso dal carcere. Nel 1937 saranno uccisi, a Bagnoles de l’Orne in Francia, i fratelli Carlo e Nello Rosselli.
Da sinistra:
GIOVANNI AMENDOLA fondatore dei gruppi della sinistra liberale. Esiliato morirà a Cannes a seguito delle aggressioni fasciste.
PIERO GOBETTI fondatore della rivista "Rivoluzione liberale". Perseguitato e colpito più volte da squadre fasciste morirà a Parigi il 6 febbraio 1926.
ANTONIO GRAMSCI fondatore del PCI. Arrestato nel 1926, condannato a 22 anni e 9 mesi. Ammalatosi in carcere cesserà di vivere il 27 aprile 1937.
GIACOMO MATTEOTTI dopo il memorabile discorso alla Camera contro le violenze fasciste nel corso delle elezioni del 1924, fu rapito e assassinato il IO giugno 1924.
Don GIOVANNI MINZONI parroco di Argenta (Fe). Perseguitato dai fascisti. Aggredito e ucciso dagli squadristi di Italo Balbo il 23 agosto 1923.
CARLO ROSSELLI condannato a 10 anni per attività antifascista evade e emigra a Parigi. Animatore del movimento Giustizia e Libertà. Trucidato in Francia con il fratello Nello il 15 giugno 1937.
La Camera dei Deputati, il 28 novembre 1925, fu chiamata a discutere, cioè ad approvare, un progetto di legge, il quale puniva con la perdita della cittadinanza chi " commettesse o concorresse a commettere, all'estero, fatti diretti a disturbare l’ordine pubblico nel Regno, o a, diminuzione del buon nome o del prestigio dell'Italia, anche se il fatto non costituiva reato."
Secondo la stampa fascista, ai fuoriusciti italiani oppositori del regime doveva essere riservato un trattamento speciale. Di seguito alcuni articoli di stampa tratti da alcuni giornali.
Il vice-segretario del Partito fascista, Melchiorri, nel Popolo d'Italia del 20 settembre 1926, proclamò che:
"i fuorusciti dovevano essere rintracciati dovunque si trovavano, e la vita doveva essere resa loro impossibile" (nel gergo fascista queste parole significavano che dovevano essere uccisi; mentre "rendere la vita difficile" significava bastonare di santa ragione finché il bastonato non avesse messo giudizio); un giorno o l'altro, qualche fascista potrebbe andare a cercarli nei loro covi di Parigi."
Lo stesso Melchiorri nel Popolo di Roma del 28 settembre 1926, diede alle stampe un'altra bella pensata:
"Ogni segretario comunale dovrebbe affiggere una lista di tutti coloro che sono andati all'estero per qualsiasi ragione, con gli indirizzi delle loro famiglie nella città. Forse il pericolo di rappresaglie sulle famiglie sconsiglierà quei bastardi da ulteriori attività contro la patria."
E il settimanale di Milano Il Torchio del 19 giugno 1927, pubblicò un appello veramente eroico:
“Avanti, fascisti, che amate il Duce con dedizione appassionata: attraversate le frontiere. Attraversatele a decine, a centinaia, a migliaia. Percorrete tutte le strade del mondo. Perquisite ogni paese. Affondate ovunque le punte delle vostre baionette. Le vostre armi saranno sporcate di fango, di veleno, di sangue. Nei sacri nomi d'Italia e del Duce, colpite, senza pietà, senza tregua, senza rimorsi. Date la caccia una volta per sempre ai falsi italiani, ai finti italiani, agli ex-italiani. Debbono essere abbattuti ovunque si trovano. Lo sterminio deve essere inesorabile ed assoluto. Non deve sopravvivere neanche la loro memoria. Solo così l'Italia sarà liberata da un incubo permanente; solo così essere salvata dall'abisso. La salvezza del Duce lo esige. Avanti, fascisti, uccidete!”
(da “Memorie di un fuoriuscito” di Gaetano Salvemini)
Un intellettuale perseguitato dal fascismo: Antonio Gramsci
Dalla Sardegna a Torino
La formazione politica e culturale
Dall’«Ordine Nuovo» alla fondazione dell’ ”Unità”
Deputato, l’arresto, il processo e il carcere
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Bibliografia:
- Antonio Gramsci “Lettere dal carcere” Volume primo Edizioni L’Unità 1988
- Armando Saitta “Dal fascismo alla resistenza” La Nuova Italia Firenze 1965
- Antonio Gramsci “Lettere dal carcere” Giulio Einaudi Torino 1971
- Giuseppe Fiori “Processo Gramsci” Edizioni L’Unità 1994
- Antonio Gramsci “Socialismo e Fascismo” Giulio Einaudi Torino 1978
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Dalla Sardegna a Torino
Quarto dei sette figli di Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias, Antonio - Nino, come è chiamato in famiglia - nasce nel paese di Ales, in provincia di Cagliari, il 22 gennaio del 1891. Il padre, che è figlio di un colonnello della gendarmeria borbonica, di origine albanese, fa il procuratore distrettuale a Ghilarza. In questo centro, situato su un altipiano tra il Gennargentu, i monti del Marghine e la catena di Montiferru, Antonio vivrà la sua fanciullezza. Anche la madre è della stessa condizione sociale del padre, borghesia di provincia non agiata ma neppure misera. È una donna colta, sensibilissima, che vive per i figli. Lo sviluppo del bambino è gravemente compromesso da una caduta a quattro anni: la schiena andrà lentamente incurvandosi e invano le cure sanitarie cercano di arrestare la deformazione. Non per questo, però, Antonio cresce gracile o malaticcio: si mischia impetuosamente ai giochi dei coetanei, figli di contadini e pastori, ha un amore per la natura di cui troviamo gli echi più delicati e tenaci nella cattività; nelle sue lettere egli ricorderà anche una sorta di ossessione di schiettezza nei rapporti umani che non escludeva il riserbo («orso» si definirà). Ha una passione inesauribile per i libri. A sette anni si entusiasma di Robinson Crusoé: «Non uscivo di casa mia senza avere in tasca dei chicchi di grano e dei fiammiferi avvolti in pezzettini di tela cerata, per il caso che potessi essere sbattuto in un'isola deserta e abbandonato ai miei soli mezzi».
Nel 1897 il padre, in seguito a una triste vicenda giudiziaria che lo travolge, è sospeso dall'impiego e Antonio, come i fratelli, dovrà presto cercare un lavoro qualsiasi. Poco più che undicenne sbriga faccende («me la passavo a spostare registri che pesavano più di me ... ») in un ufficio, e deve interrompere gli studi appena conseguita la licenza elementare, per due anni, anni inquieti. «Che cosa mi ha salvato - rammenterà - dal diventare completamente un cencio inamidato? L'istinto della ribellione che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie alla scuola elementare, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti ... » Poi, grazie all'aiuto della madre e delle sorelle, frequenta il ginnasio a Santu Lussurgiu, vivendo in casa di una contadina. Nel 1908 si iscrive al Liceo classico di Cagliari, alloggiato col fratello più grande, Gennaro, che è impiegato in una fabbrica di ghiaccio e funge da cassiere della locale Camera del Lavoro. Antonio fa il suo garzonato studentesco senza brillare particolarmente; rivela una propensione per le scienze esatte, legge di tutto con accresciuta avidità. Anche se da «triplice e quadruplice provinciale», il movimento culturale a cui s'accosta è quello vociano e salveminiano; segue la «Critica» di Croce e qualche giornale socialista che in casa porta il fratello. Antonio è autonomista, la sua prima ribellione si esprime nel grido: «Al mare i continentali!» Sarà lui invece a traversare il mare, nell'autunno del 1911: ha conseguito la maturità liceale alla fine di un anno di difficoltà e di stenti ed è riuscito a superare un esame supplementare per il conferimento di una borsa di studio di 70 lire mensili che gli apre le porte dell'Università torinese. Si iscrive alla facoltà di lettere, vive in una stanzetta sulle rive della Dora, dove «la nebbia gelata mi distruggeva».
La formazione politica e culturale
Torino, dal 1912 al 1922: è il decennio decisivo nella formazione politica e culturale di Antonio Gramsci. La città più industriale e più operaia d'Italia, la città dell'automobile, determina largamente quella formazione facendo del ventenne studente sardo un militante e poi un dirigente socialista. Egli vede nell'anteguerra i primi grandi scioperi dei metallurgici, entra nelle file della gioventù socialista nel 1913, collabora al foglio della sezione locale, «Il grido del popolo», nel 1916 è assunto alla redazione torinese dell'«Avanti!», come cronista e critico teatrale. Le sue note di costume (Sotto la Mole) e le sue cronache teatrali, lo segnalano come una personalità nuova in un ambito che va al di là dei lettori abituali del quotidiano socialista. Ma è il numero unico redatto per conto della federazione giovanile piemontese, dal titolo significativo de “La città futura”, nel febbraio del 1917, a darci il primo segno morale e culturale di questa personalità, espressione della nuova generazione socialista intellettuale.
Fervore idealistico, crocianesimo per ribellione al positivismo della generazione socialista precedente e come modello del saper vivere senza religione rivelata ma con la stessa tensione etica; passione di giustizia sociale unita a un rinnovamento del costume: questi i valori che Gramsci introduce nel suo modo nuovo di fare propaganda tra gli operai non appena, nello stesso anno, passa a dirigere il «Grido del popolo». Il suo primo accostarsi a Marx passa per una riscoperta di Hegel e della filosofia classica tedesca. Essere volontari significa intanto per lui avere fede nella spontaneità che alimenterà l'organizzazione, intrattenere un rapporto con la classe operaia che non sia più di tutela paternalistica ma di diretta solidarietà. «Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette; vuole comprensione, intelligenza e simpatia piena d'amore», scrive in polemica con il riformista Claudio Treves dopo la sommossa operaia che sconvolge la città nell'agosto del 1917, appena divelte le barricate sulle quali sono caduti, invocando la pace e la rivoluzione, cinquanta proletari torinesi.
La rivoluzione è scoppiata ad Oriente e Gramsci saluta l'Ottobre appunto come la vittoria della volontà degli uomini sulle forze meccaniche della storia, come unità di economia e politica, come atto di libertà e di creazione. Di qui l'esaltazione delle masse e dei loro dirigenti «consapevoli» come Lenin, di qui il suo interesse alla forma del «soviet», l'istituto di democrazia che la rivoluzione ha espresso e che Gramsci studia nella sua dimensione «universale». Finita la guerra, il giovane, che non si è laureato, abbandona l'Università per scegliere definitivamente la strada della milizia rivoluzionaria.
Il l° maggio del 1919 fonda con altri tre coetanei, Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti, a cui si è legato di amicizia negli anni precedenti, una rivista settimanale, l'«Ordine Nuovo», rassegna di cultura socialista. Nel clima incandescente del primo dopoguerra, questa rivista di giovani (Gramsci ha ventotto anni, come Tasca, Togliatti ventisei, Terracini ventiquattro) è, in un primo tempo, soltanto una delle tante in cui si esprime l'ansia di rinnovamento sociale e culturale che accompagna la crisi della società italiana uscita dalla guerra, in un'Europa in cui il mito del bolscevismo è operante sia per le masse operaie che per le fresche coscienze della nuova intellighenzia.
Dopo qualche mese, però, per impulso diretto di Gramsci, l'«Ordine Nuovo» passa dallo stadio di rassegna culturale a quello di palestra, di strumento di discussione e di ricerca per una grande idea-forza, quella dei Consigli di fabbrica. È l'idea che gli «ordinovisti» ricavano da tutta l'esperienza russa ed europea dei Consigli, e di consimilari organismi operai autonomi, e trasferiscono nel vivo del «laboratorio sociale» dei grandi stabilimenti metallurgici torinesi. Si tengono riunioni con i lavoratori nella stanza in cui ha sede la rivista: Gramsci discute con loro sulla possibile trasformazione della Commissione interna in un sistema di commissari di reparto, eletti da tutta la maestranza che costituiranno il Consiglio di fabbrica. «L'orso» non è diventato un tribuno, non lo diventerà mai, non ha nulla del cliché tradizionale del capo socialista: preferisce alle grandi assemblee e ai comizi questi contatti personali e in essi è meticoloso, curioso di ogni particolare, tanto generoso quanto è ironico, addirittura sarcastico, con i suoi collaboratori da cui esige sempre la massima modestia e precisione.
Il movimento dei Consigli di fabbrica attecchisce a Torino, si realizza in decine di stabilimenti, dalla Fiat alla Lancia. Nel giro di pochi mesi, verso l'autunno del 1919, più di centocinquantamila operai sono organizzati nel Consigli, nonostante lo scetticismo della federazione sindacale metallurgica di orientamento riformista. Allo sviluppo pratico corrisponde un'elaborazione teorica di Gramsci, accentrata su una particolare sottolineatura della lezione leninista. Egli opera intensamente perché sorgano «nuove creazioni rivoluzionarie», che affondino le loro radici nel momento della produzione, che partano dal luogo di lavoro e formino istituti proletari, primi pilastri di una macchina statale nuova, dello Stato operaio. Il lavoratore è da lui considerato prima come produttore che come salariato.
"VENTO DEL NORD"
Di seguito un articolo, firmato da Pietro Nenni, sull’AVANTI! - Quotidiano del Partito Socialista, di venerdì 27 aprile 1945.
“Vento del Nord.
Vento di liberazione contro il nemico di fuori e contro quelli di dentro”.
VENTO DEL NORD
Quando parlammo per la prima volta del vento del Nord, i pavidi, che si trovano sempre al di qua del loro tempo, alzarono la testa un poco sgomenti. Che voleva dire? Era un annuncio di guerra civile? Era un incitamento per una notte di San Bartolomeo? Era un appello al bolscevismo?
Era semplicemente un atto di fiducia nelle popolazioni che per essere state più lungamente sotto la dominazione nazifascista, dovevano essere all’avanguardia nella riscossa. Era il riconoscimento delle virtù civiche del nostro popolo, tanto più pronte ad esplodere quanto più lunga ed ermetica sia stata la compressione. Era anche un implicito omaggio alle forze organizzate del lavoro ed alla loro disciplina rivoluzionaria.
Ed ecco il vento del Nord soffia sulla penisola, solleva i cuori, colloca l’Italia in una posizione di avanguardia.
Nelle ultime 48 ore le notizie dell’insurrezione e quelle della guerra si sono succedute con un ritmo vertiginoso. La guerra da Mantova dilagava verso Brescia e Verona, raggiunte e superate nel pomeriggio di ieri. L’insurrezione guadagnava Milano e da Torino si propagava a Genova.
Nell’ora in cui scriviamo tutta l’Alta Italia al di qua dell’Adige, è insorta dietro la guida dei partigiani. A Milano a Torino a Genova i Comitati di Liberazione hanno assunto il potere imponendo la resa dei tedeschi e incalzando le brigate nere fasciste in vittoriosi combattimenti di strada.
Sappiamo il prezzo della riscossa. A Bologna ha nome Giuseppe Bentivogli. Quali nomi porterà la testimonianza del sangue a Torino e Milano? La mano ci trema nel dare un dettaglio dell’insurrezione milanese. Ieri mattina alle cinque, secondo una segnalazione radiotelegrafica, il posto di lotta e di comando di Alessandro Pertini e dell’Esecutivo del nostro partito era circondato dai tedeschi e in grave pericolo. Nessuna notizia è più giunta in serata per dissipare la nostra inquietudine o per confermarla. Ma sappiamo, ahimè!, che ogni battaglia ha le sue vittime e verso di esse, oscure od illustri, sale la nostra riconoscenza.
Perché gli insorti del Nord hanno veramente, nelle ultime quarantotto ore, salvato l’Italia. Mentre a San Francisco, assente il nostro paese, si affrontano i problemi della pace, essi hanno fatto dell’ottima politica estera, facendo della buona politica interna, mostrando cioè che l’Italia antifascista e democratica non è il vaniloquio di pochi illusi o di pochi credenti, ma una forza reale con alla sua base la volontà l’energia il coraggio del popolo.
In verità il vento del Nord annuncia altre mete ancora oltre l’insurrezione nazionale contro i nazifascisti. Gli uomini che per diciotto mesi hanno cospirato nelle città, che per due lunghi inverni hanno dormito sulle montagne stringendo fra le mani un fucile, che escono dalle prigioni o tornano dai campi di concentramento, questi uomini reclamano, e all’occorrenza sono pronti ad imporre, non una rivoluzione di parole ma di cose. Per essi il culto della libertà non è una dilettantesca esasperazione dell’«io» demiurgico, ma sentimento di giustizia e di eguaglianza per sé e per tutti. Alla democrazia essi tendono non attraverso il diritto formale di vita, ma attraverso il diritto sostanziale dell’autogoverno e del controllo popolare. Non si appagheranno quindi di promesse, né di mezze misure. La rapidità stessa e l’implacabile rigore delle loro rappresaglie sono di per sé sole un indice della loro maturità, perché se la salvezza nel paese è nella riconciliazione dei suoi figli, alla riconciliazione si va non attraverso l’indulgenza e la clemenza, ma l’implacabile severità contro i responsabili della dittatura fascista e della guerra.
In codesta primavera della patria che consente tutte le speranze, c’è per noi un solo punto oscuro; si tratta di sapere se gli uomini che qui a Roma scotevano sgomenti il capo all’annuncio del vento del Nord, che vedevano sorgere dal passato l’ombra di Marat o quella di Lenin se qualcuno osava parlare di comitato di salute pubblica, che trovavano empio e demagogico il nostro grido: «tutto il potere ai Comitati di Liberazione», si tratta di sapere se questi uomini intenderanno o no la voce del Nord e sapranno adeguarsi ai tempi. Ad essi noi ripetiamo quello che ieri, da queste stesse colonne, dicevamo agli Alleati – Abbiate fiducia nel popolo, secondatene le aspirazioni, scuotete dalle ossa il torpore che vi stagna, rompete col passato, non fatevi trascinare, dirigete.
A queste condizioni oggi è finalmente possibile risollevare la nazione a dignità di vita nuova, nella concordia del più gran numero di cittadini.
Vento del Nord.
Vento di liberazione contro il nemico di fuori e contro quelli di dentro.
Pietro Nenni
erano le 16,30 del 28 aprile 1945 ...
Il 27 aprile 1945. Mussolini venne catturato a Dongo (Como). Aveva abbandonato Milano nel tardo pomeriggio del 25 aprile e, con gli ultimi fedelissimi e il codazzo di gerarchi in fuga, aveva raggiunto Como sotto la vincolante custodia di una trentina di SS.
Da Menaggio nella notte tra il 26 e il 27 aprile, si accodò con i suoi gerarchi ad una autocolonna della Luftwaffe che puntava su Chiavenna per raggiungere Merano attraverso il passo dello Stelvio.
La mattina seguente la colonna venne bloccata dai partigiani in quel di Musso, abbandonò il suo seguito, indossò un cappotto dell’aviazione tedesca e cercò di superare i controlli partigiani nascondendosi in un camion tedesco. Riconosciuto, venne fermato dai partigiani della 52ª brigata Garibaldi.
Il 28 aprile 1945 Walter Audisio ufficiale addetto al Comando generale del CVL, col nome di battaglia di "Colonnello Valerio", ricevette l’ordine di recarsi a Dongo, per eseguire la sentenza capitale decretata dal CVL nei confronti di Benito Mussolini, sulla base del decreto emesso, il 25 aprile 1945, dal CLN Alta Italia. L’art. 5 del decreto diceva: " I membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo colpevoli di avere contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il fascismo, compromessa e tradita la sorte del Paese e d’averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi, con l’ergastolo".
Sull’esecuzione del capo del fascismo a Giulino di Mezzegra, il Colonnello Valerio ebbe a raccontare:
"… cominciai a leggere il testo della sentenza di condanna a morte del criminale di guerra Benito Mussolini: Per ordine del Comando generale del Corpo volontari della Libertà, sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano. ..”
La morte di Antonio Gramsci
Dopo undici anni di detenzione nelle carceri fasciste, Gramsci si spegne nella clinica Quisisana, all’alba del 27 aprile 1937. Ha appena compiuto quarantasei anni. Quarto di sette figli di Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias, Antonio - Nino, come era chiamato in famiglia – era nato ad Ales, in provincia di Cagliari, il 22 gennaio del 1891.
Quando muore è in corso la guerra di Spagna. Una batteria di artiglieri garibaldini porta il suo nome.
Negli scritti che gli vengono dedicati sulla stampa comunista viene sempre definito capo del partito.
Nel parco di cultura Gor'kij a Mosca, campeggia il ritratto di Gramsci e il suo figliolo minore, Giuliano (che il padre non ha mai potuto vedere), allora sui dieci anni, lo scopre con sorpresa e vuole sapere dalla madre Giulia «tutto ciò che si riferisce» alla sua vita e alla sua sorte.
La fama internazionale, la solidarietà antifascista, non leniscono molto l’isolamento di Gramsci, che non è stato meno profondo negli ultimi anni di semiprigionia, di vigilanza poliziesca strettissima, immutata, anzi rafforzatasi nel passaggio dalla clinica di Formia a quella Quisisana di Roma.
Il malato si trova, fino alla vigilia della morte, in «libertà condizionale», piantonato e sorvegliato. Le sue condizioni di salute sono gravi anche se non ci si aspetta che possano da un momento all'altro diventare gravissime.
Gramsci era stato trasferito alla clinica di Roma (accompagnato da un commissario di PS e da due agenti) il 23 agosto 1935. Ciò è avvenuto soltanto perché, dopo reiterati solleciti della cognata Tatiana e il certificato medico del professor Puricelli, appariva urgente sottoporre il malato ad un intervento chirurgico di ernia. Era stata scelta la clinica Quisisana di Roma, «presi gli ordini da S.E. il capo del governo» e dopo attenti sopralluoghi, perché, secondo il capo della polizia «si presta(va) a una più efficace vigilanza».
Oltre alle visite assidue del fratello Carlo, e a quelle periodiche di Sraffa (Piero Sraffa, antifascista torinese, vicino ai comunisti, quelli dell'«Ordine Nuovo», che ha conosciuto nella prima giovinezza, insegna a Cambridge ed è un economista di grande valore), egli è assistito senza posa dalla cognata Tatiana. La moglie, Giulia Schucht, è stata lunghi anni ammalata, ricoverata in una clinica per malattie nervose. A Gramsci é stata taciuta la gravità dello stato di salute della sua compagna.
Giulia non verrà a trovarlo, probabilmente perché non è in grado di affrontare tale viaggio, e sarà un nuovo motivo di dolore per il prigioniero (che indirizza in questo ultimo periodo frequenti, affettuosissime lettere ai due figli). La sua esistenza nella clinica Quisisana è meno tormentata di quella passata a Formia ma le forze declinano di mese in mese.
Durante il 1936, Gramsci comincia a progettare di trasferirsi in Sardegna non appena finirà il periodo della «libertà vigilata », cioè nell’aprile del 1937.
La sera del 25 aprile 1937 sopravviene improvvisamente un'emorragia cerebrale. Neppure in questa estrema circostanza è assistito adeguatamente dal punto di vista clinico (mentre le suore della clinica gli mandano un sacerdote).
Gramsci si spegne all'alba del 27 aprile, alle 4,10.
La cognata è al suo capezzale: poco dopo arriverà il fratello Carlo. Soltanto questi due congiunti possono vedere la salma, «circondati da una folla di agenti e di funzionari del Ministero degli Interni», ricorda Tatiana. Un fonogramma del questore di Roma, il 28 aprile, dà conto dei funerali: «Comunico che questa sera, alle 19,30, ha avuto luogo il trasporto della salma noto Gramsci Antonio seguito soltanto dai familiari. Il carro ha proceduto al trotto dalla clinica al Verano dove la salma è stata posta in deposito in attesa di essere cremata».
Il cadavere sarà cremato il 5 maggio. I giornali italiani dànno la notizia della morte di Gramsci in poche righe attraverso un dispaccio dell’agenzia Stefani: «É morto nella clinica privata Quisisana di Roma, dove era ricoverato da molto tempo, l'ex deputato comunista Gramsci». L’eco all’estero, sui giornali democratici in Europa e in America, nella stampa comunista e antifascista, sarà grandissima.
Il 22 maggio 1937 (18 giorni prima di venire ucciso con il fratello Nello), Carlo Rosselli, in una commemorazione alla sala Huyghens di Parigi, ricordava Gramsci come uomo «intimo, riservato, razionale, severo, nemico dei sensitivi e delle cose facili, fedele alla classe operaia nella buona come nella cattiva sorte, agonizzante in una cella, con tutto un esercito di poliziotti che cercano di sottrarlo al ricordo e all’amore di un popolo ...». Per Gramsci «conta(va) solo la coerenza e la fedeltà a un ideale, a una causa, che vive di se stessa, indipendentemente da ogni carriera e da ogni interesse personale».
La notizia del sacrificio e l'esaltazione della figura del capo comunista vengono divulgate sulle onde dell'etere da una trasmissione di «Radio Milano», cioè dall’emittente che i comunisti hanno in Spagna e che in Italia viene ascoltata tutte le sere, verso le ore ventitre, da numerossimi radioascoltatori nostante divenga di mese in mese più intensa la caccia della polizia a quanti captano la voce della Spagna. Sulla base dell'intercettazione fatta dalla stazione di Imperia dei carabinieri apprendiamo che la trasmissione speciale in onore di Gramsci, con la partecipazione di oratori comunisti, socialisti e di “Giustizia e Libertà” italiani, ebbe luogo il 22 maggio 1937. In essa si descrive la vita del rivoluzionario, si cita il “processone” del 1928, si dà conto della solidarietà dei combattenti spagnoli per la libertà, si ricordano gli altri prigionieri politici del fascismo e si conclude: «Il nome di Antonio Gramsci sta scritto a lettere d'oro sulla bandiera dei lavoratori italiani».
Bibliografia: Paolo Spriano - Storia del Partito comunista italiano – Einaudi 1970
Senza memoria non c'è futuro
"Senza memoria non c'è futuro" ha detto il Presidente della Repubblica ieri 25 aprile 2024 a Civitella in Val di Chiana a "ottanta anni dalla terribile e disumana strage nazifascista perpetrata sull'inerme popolazione" che fece 244 vittime.
Alcuni momenti della celebrazione a Lissone
fotografie di Gianni Redaelli
Intervento del prof. Giovanni Missaglia nella celebrazione della Festa di Liberazione dal nazifascismo
La Costituzione è antifascista dall’inizio alla fine
Il Presidente della Repubblica invita a "una doverosa unità popolare sull'antifascismo"
Il 25 aprile 1945 a Lissone
Mostra Schiavi di Hitler Internati Militari italiani Altra Resistenza
Dopo l'8 settembre del 1943, data dell'armistizio, oltre 600 mila soldati italiani vengono facilmente catturati dalle truppe tedesche. Tuttavia, non mancano gli episodi di resistenza, come, ad esempio, la battaglia che si combatté a Cefalonia.
Subito dopo la cattura, ai soldati italiani viene posta l'alternativa tra collaborare con i tedeschi o essere deportati in Germania. Secondo gli storici, il 70% dei prigionieri rifiutò ogni forma di collaborazione. Stipati sui treni merci, i militari italiani viaggiarono verso i campi di prigionia nazisti.
Catturati come prigionieri di guerra, i militari italiani vengono successivamente classificati come Internati Militari Italiani: IMI. Fu questo un modo per sottrarli al controllo della Croce Rossa internazionale e avviarli con più facilità al lavoro coatto.
Tra i primi provvedimenti che i nazisti presero nei confronti degli IMI ci fu quello di dividere i soldati semplici dagli ufficiali. Gli ufficiali furono rinchiusi in appositi campi di prigionia mentre i soldati furono destinati ai campi di lavoro obbligatorio.
I militari italiani vennero impiegati in tutti i diversi settori dell'economia di guerra nazista: dal lavoro nei campi alle fabbriche di armi. Le condizioni di vita e di lavoro era molto dure. Gli IMI lavoravano 12 ore al giorno e ricevevano una scarsissima razione di cibo.
Spesso gli IMI furono accusati di sabotaggio e per questo severamente puniti. Addormentarsi per la stanchezza sul posto di lavoro, ad esempio, veniva sanzionato con diverse settimane di detenzione nei terribili campi di punizione.
Per tutto il periodo della loro detenzione, gli ufficiali italiani prigionieri in Germania furono sottoposti alla continua richiesta di collaborazione. Ma la maggior parte dei militari internati, o per spirito di fedeltà al Re o per odio nei confronti dei nazisti, rifiutò di giurare fedeltà a Hitler e Mussolini
Nell'estate del 1944 gli IMI furono trasformati d'imperio in liberi lavoratori civili. Molti militari italiani si opposero a questa imposizione. Un rifiuto che sarà pagato con la detenzione nei campi di rieducazione.
Nella primavera del 1945, con l'avanza dell'esercito sovietico e di quello alleato, i militari italiani internati in Germania riacquistano la libertà.
La testimonianza di MICHELE BONFIGLIO: "Una part di me suferenz"
poesia in dialetto
in attesa della Festa della Liberazione
A.N.P.I. A S S O C I A Z I O N E N A Z I O N A L E P A R T I G I A N I D ’ I T A L I A
VIVA LA REPUBBLICA ANTIFASCISTA
Appello dell’ANPI per uno straordinario 25 aprile
La data del 25 aprile è simbolo dell’Italia libera e liberata, dopo venti mesi di Resistenza e uno straordinario tributo di sangue e di dolore. Fine dell’occupazione tedesca. Fine del fascismo. Fine del conflitto. Si abbatteva lo Stato fascista, ma anche il vecchio Stato liberale, e si avviava la costruzione di un nuovo Stato e di una nuova società. Il 2 giugno del 1946 il popolo sceglieva la Repubblica e con la Costituzione del 1948 nasceva l’Italia democratica che si fonda sul lavoro e che ripudia la guerra. Oggi tutto è in pericolo. C’è un governo che comprende una destra estrema che ha le sue radici nel ventennio fascista e nelle sue nostalgie, che per questo intende cambiare la Costituzione. Con un uomo solo (o una donna sola) al comando – il cosiddetto “premierato” - ed un Paese frantumato in tante regioni in competizione fra di loro, con diritti diversi dei cittadini – l’autonomia differenziata delle regioni -. Una destra estrema che in vari modi tende a reprimere qualsiasi dissenso, qualsiasi protesta. Una destra estrema aggressiva, vendicativa e rivendicativa. Tutto è in pericolo perché ci sono milioni di poveri, dilaga il lavoro precario, con un governo che taglia la sanità e la scuola pubblica, con l’intera Europa che rischia la recessione economica. C’è una grande solitudine sociale, il futuro viene visto come una minaccia. Tutto è in pericolo perché c’è la guerra, e se ne parla spesso in modo irresponsabile, come se fosse una dura necessità o, peggio, una nuova e accettabile normalità. Mentre il mondo intero si riarma come prima dei due conflitti mondiali, si dichiara possibile una guerra convenzionale ad alta intensità in Europa. Siamo alla follia. Ha ragione il Presidente Mattarella quando sottolinea che il compito del nostro Paese è "costruire ponti di dialogo, di collaborazione con le altre nazioni, nel rispetto di ciascun popolo". È urgente un 25 aprile 2024 di liberazione dalla guerra. Cessate il fuoco ovunque. Diciamolo: va lanciato un allarme. Sono in discussione democrazia, libertà, uguaglianza, lavoro, solidarietà, pace, cioè la repubblica democratica fondata sulla Costituzione e nata dalla Resistenza. Questo 25 aprile non può essere come gli altri. Dev’essere il giorno in cui si ritrova nelle piazze di tutte le città, a cominciare da Milano, l’Italia antifascista e democratica, le famiglie, le donne, i giovani, il nostro grande popolo illuso e deluso, a cui va restituita una speranza vera di futuro, fatta di un buon lavoro, di una retribuzione sufficiente per una vita libera e dignitosa, di una pace stabile e duratura. Costruiamolo insieme questo 25 aprile, costruiamolo come un appuntamento straordinario a cui non si può mancare, come una insormontabile e pacifica barriera contro qualsiasi attacco alla democrazia e alle libertà. Costruiamolo insieme sventolando le bandiere del Paese migliore, la bandiera della Costituzione antifascista, la bandiera dell’Italia fondata sul lavoro e che ripudia la guerra, la bandiera di coloro dal cui sacrificio sorsero i semi di una nuova Italia.
FACCIAMO DI QUESTO 25 APRILE UNA GIORNATA INDIMENTICABILE. INSIEME.
LA SEGRETERIA NAZIONALE ANPI 11 aprile 2024
7 APRILE 2024 SANTA MARGHERITA DI FOSSA LUPARA
Discorso di Renato Pellizzoni, membro del direttivo di ANPI Lissone, pronunciato a Sestri