Marzabotto 1944 2024
Berlino 27 settembre 2024: "Sono grato che, subito dopo la visita di Stato del presidente Mattarella, andremo insieme a Marzabotto per partecipare alle commemorazioni. Ottanta anni fa, reparti delle SS trucidarono centinaia di civili":
lo ha detto il presidente tedesco, Frank-Walter Steinmeier, nella conferenza stampa tenuta oggi a Berlino con il presidente della Repubblica. Steinmeier ha rimarcato che "il massacro di Marzabotto e altri massacri compiuti in Italia hanno lasciato profonde ferite". "Sono pieno di umiltà nel poter partecipare alla commemorazione delle vittime dei crimini commessi a Marzabotto. E sono grato che ci sia un fondo italiano-tedesco per il futuro (*), che segue molti progetti di elaborazione del nostro passato comune. Un fondo che contribuisce in modo importante, perché ci sia conoscenza del passato da parte dei giovani", ha aggiunto.
Marzabotto Domenica 29 settembre 2024
I due presidenti insieme a Monte Sole per l'ottantesimo anniversario della strage di Marzabotto: note del 'Silenzio' e la deposizione di una corona in memoria dei caduti nella strage, adagiata tra i ruderi della chiesetta di San Martino a Monte Sole. E' iniziata così la visita del presidente della Repubblica italiana e di quello della Repubblica federale tedesca, Sergio Mattarella e Frank-Walter Steinmeier sull'Appennino bolognese, in occasione delle celebrazioni ufficiali, a Marzabotto, dell'80/o anniversario della strage compiuta dalle truppe naziste guidate dal maggiore Walter Reder tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 e che causò la morte di 770 civili tra cui donne, bambini e anziani nei territori tra i comuni di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno.
dal discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella:
"Siamo qui - afferma Mattarella - per chinare insieme il capo davanti a tante vite crudelmente spezzate, per riempire con i sentimenti più intensi di solidarietà quelle voragini che la disumana ferocia nazifascista ha aperto in queste terre, in queste comunità.
Siamo qui per ricordare, perché la memoria richiama responsabilità. Nella Seconda guerra mondiale si toccò il fondo dell'abisso. La barbarie, la cancellazione di ogni dignità umana. Vorrei rammentarlo molto consapevolmente anche perché viviamo un momento in cui anche nel mio Paese assistiamo a una recrudescenza delle forze nazionaliste e di estrema destra. Forze che intendono indebolire o minare la democrazia - proprio nel mio Paese. Questo mi preoccupa. Ma mi dà anche determinazione".
dal discorso del presidente della Repubblica federale tedesca Frank-Walter Steinmeier:
"Le parole in questo luogo - afferma il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier - si fanno piccole. Non bastano per descrivere quanto accadde qui a Monte Sole ottanta anni fa. Così tanta crudeltà. Così tanta sofferenza. Così tanto dolore. Così tante persone la cui vita venne qui annientata".
"Cari familiari, cari discendenti, che io possa parlare qui oggi è possibile solo perché Voi tutti avete concesso a noi tedeschi la riconciliazione. Che preziosissimo dono! Questa riconciliazione la vivete molto concretamente qui a Marzabotto e nei comuni limitrofi. Nella Vostra Scuola di Pace, in stretto scambio con giovani tedeschi, nel gemellaggio con Brema-Vegesack e nella sua Scuola Internazionale di Pace".
"Siamo qui oggi uniti nel dolore, ma anche in profonda amicizia. Fivizzano, Marzabotto, le Fosse Ardeatine, Sant'Anna di Stazzema, Civitella, in tutte queste località le truppe naziste perpetrarono crimini disumani in Italia, accecate dall'odio e dal fanatismo. Questi luoghi ne rappresentano tanti altri meno noti, che soprattutto in Germania sono quasi sconosciuti. Anche per questo sono qui oggi. Cari ospiti, oggi sono qui davanti a Voi come Presidente Federale tedesco e provo solo dolore e vergogna. Mi inchino dinnanzi ai morti. A nome del mio Paese oggi Vi chiedo perdono".
Al termine delle parole del presidente tedesco e della commemorazione, la banda municipale ha fatto partire le note di 'Bella Ciao'.
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Anpi: La strage nazifascista di Marzabotto memoria dell'Italia intera
"Oggi, 80 anni fa la strage nazista, con l'attiva collaborazione dei fascisti, a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno: 770 vittime. La più efferata d'Europa nel corso della seconda guerra mondiale. Oggi questa memoria è dell'Italia intera, la storia oggi interroga tutte le coscienze, chiede vigilanza, partecipazione democratica, senso di responsabilità per il presente e il futuro. Il nazi-fascismo ha distrutto milioni di vite, calpestato i diritti umani, criminalizzato, torturato e insanguinato il dissenso, segnato vergognosamente il mondo. E allora, mai più. Tutti con e per la Costituzione, faro e guida di civiltà, democrazia, diritti. Antifascismo, in una parola".
Lo affermano in una nota il presidente nazionale dell'Anpi, Gianfranco Pagliarulo, e quella di Bologna, Anna Cocchi
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(*) Con il Fondo italo-tedesco per il Futuro viene finanziato l'Albo degli IMI Caduti dove ricercatori italiani e tedeschi hanno registrato tutti gli IMI che morirono nei campi tedeschi tra il 1943 e il 1945.
La Commissione storica italo-tedesca era stata istituita nel 2008 in occasione del Vertice bilaterale tenutosi a Trieste, con il mandato di un approfondimento comune sul passato di guerra italo-tedesco. Nel dicembre 2012 è stato pubblicato il Rapporto finale della commissione, che esamina in particolare anche il destino degli ex internati militari italiani, e che contiene tra l’altro concrete raccomandazioni per la costruzione di una comune cultura della memoria.
Per mettere in pratica le raccomandazioni il Governo Federale ha stanziato un Fondo italo-tedesco per il Futuro per finanziare progetti. Questi progetti vengono scelti in stretta collaborazione con il Ministero italiano degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Sulla pagina, a cui si accede dal seguente link, sono presentati i progetti e altre iniziative.
vedi: Cultura della memoria - Ministero Federale degli Affari Esteri (diplo.de)
Marzabotto
La “cavalcata” del terrore iniziò all’alba del 29 settembre 1944, quando la 16a SS-Panzergrenadier-Division, agli ordini del maggiore Walter Reder, detto “il monco”, partì squarciando con il ferro e con il fuoco le valli attorno al Monte Sole. A far da cani-guida, un pugno di militi delle Brigate nere, per l’occasione in divisa SS col distintivo simile a un “44” sulle mostrine, che sapevano i sentieri, le case, i rifugi e additavano mogli, figli e padri dei partigiani della Brigata “Stella Rossa”.
Dall’eccidio non fu risparmiato nessun paese, villaggio o fattoria della zona che, a una ventina di chilometri da Bologna, è delimitata dal corso dei fiumi Reno e Setta: Marzabotto (il Comune più grande), Grizzana, Vado di Monzuno e tutte le altre località che punteggiano le vallate declinanti dall’acrocoro dominato dalla cima del Monte Sole.
Il 13 gennaio 2007, il tribunale militare di La Spezia ha condannato all’ergastolo in contumacia 10 dei 17 imputati ex nazisti ancora in vita. Sono tutti ultraottantenni e non conosceranno mai il carcere, la legge italiana non lo permette.
Il processo, infatti, non si è potuto celebrare prima perché i documenti in grado di inchiodare i responsabili del massacro sono rimasti chiusi per cinquant’anni nell’armadio della vergogna e nei sotterranei delle procure italiane. Ritrovate a metà degli Anni 90, quelle carte, con nomi e fatti, hanno potuto dare finalmente il via ai procedimenti penali.
Finora per la strage di Marzabotto esisteva un solo colpevole: il maggiore Walter Reder. Nel 1951 il tribunale militare di Bologna sentenziò per lui una condanna a vita, da scontare nel carcere militare di Gaeta. Ci passerà trentaquattro anni, malgrado un’ipocrita richiesta di perdono giunta nel 1967 agli abitanti di Marzabotto che, riuniti in Consiglio comunale, respinsero al mittente con 356 voti su 360 la petizione di clemenza sostenuta anche dalla Chiesa. Poi, nel 1980, arrivò la sentenza del Tribunale di Bari che disponeva un periodo di “prova” di cinque anni per il condannato, in attesa della scarcerazione. Fu l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nel gennaio 1985, a concedere la grazia e a spalancare le porte della galera a Walter Reder, morto nel 1991 nella sua residenza austriaca.
La testimonianza è tratta dal volume “Marzabotto parla” di Renato Giorgi, edito per la prima volta nel 1955, ristampato a cura dell’ANPI di Bologna nel 1991.
Località Casaglia, testimonianza di Lidia Pirini
«Era il 29 settembre, alle nove del mattino. (…) Quando a Casaglia fummo convinti che i nazisti stavano per arrivare perché si sentivano gli spari e si vedeva il fumo degli incendi, nessuno sapeva dove correre e cosa fare. Alla fine ci rifugiammo in chiesa, una chiesa abbastanza grande, piena per metà, e don Marchioni cominciò a recitare il rosario. Ho saputo in seguito che lo trovarono ucciso ai piedi dell’altare: allora non me ne accorsi e adesso riferisco solo quanto ricordo. Quando arrivarono i nazisti io non li vidi, avevo paura a guardarli in faccia. Chiusero la porta della chiesa e dentro tutti urlavano di terrore, specialmente i bambini. Dopo un poco tornarono ad aprire (…) e ci condussero al cimitero: dovettero scardinare il cancello con i fucili perché non riuscivano ad aprirlo. Ci ammucchiarono contro la cappella, tra le lapidi e le croci di legno; loro si erano messi negli angoli e si erano inginocchiati per prendere bene la mira. Avevano mitra e fucili e cominciarono a sparare. Fui colpita da una pallottola di mitra alla coscia destra e caddi svenuta. Quando tornai ad aprire gli occhi, la prima cosa che vidi furono i nazisti che giravano ancora per il cimitero, poi mi accorsi che addosso a me c’erano degli altri, erano morti e non mi potevo muovere; avevo proprio sopra un ragazzo che conoscevo, era rigido e freddo, per fortuna potevo respirare perché la testa restava fuori. Mi accorsi anche del dolore alla coscia, che aumentava sempre di più. Mi avevano scheggiato l’osso e non sono mai più riuscita a guarire bene, anche dopo mesi e anni di cura. (…) Intorno a me sentivo i lamenti di alcuni feriti. Così passò la notte e quasi tutto il giorno 30. (…) Verso sera, ci si vedeva ancora, trovai finalmente la forza di decidermi, riuscii a scostarmi i cadaveri di dosso e pian piano mi allontanai dal cimitero».
Marzabotto: è stato un inenarrabile martirio.
Non fu reazione senza limiti e controlli ad un episodio, non fu gesto sconsiderato di un singolo o di pochi, nel fuoco della guerra; fu il netto disegno, il proposito calcolato e deliberato di distruggere tutta una popolazione persino nelle nuove vite che sorgevano nel grembo delle madri.
Non fu gesto isolato per il numero delle formazioni militari germaniche che vi parteciparono e per la sua esecuzione condotta con metodo di guerra; guerra che si faceva sterminatrice contro una popolazione civile, dopo (ed era ben noto a chi lo comandava) che la eroica resistenza partigiana, costellata di sublimi sacrifici, era stata purtroppo in quel punto spezzata dalla forza schiacciante del numero e delle armi.
Non fu gesto isolato perché la ferocia brutale ed anche inutile agli stessi fini dell'invasore tedesco si abbatté su tante altre contrade del nostro Paese. Innumerevoli i delitti e gli orrori, terribili e gravissimi, ma nessuno che noi sappiamo di proporzioni così vaste come quello perpetrato dalla Wehrmacht e dalle SS a Marzabotto. Le vittime furono 1830 ed ebbero pace soltanto dopo la Liberazione; anzi, in certi casi nemmeno allora poiché le mine cosparse a perpetuare il delitto si accanirono contro le povere ossa senza riposo e contro i superstiti ritornati a compiere opera straziante e pietosa, a far rivivere la loro terra che quelli avrebbero voluta morta come le donne, i bambini, i vegliardi, i sacerdoti che avevano assassinato.
Non fu gesto isolato perché continuò nel tempo giorni e giorni: alla villa Colle Ameno, reso fosco dagli occupanti tedeschi, il 18 ottobre 1944 alcuni cittadini di Marzabotto venivano trucidati; lì era stato freddamente ucciso don Fornasini; e l'azione della Wehrmacht era incominciata il 28 settembre!
Siamo stati a Marzabotto. Siamo andati per "dare un futuro alla memoria, nella consapevolezza che la memoria è conoscenza e che la conoscenza è libertà e che solo nella conoscenza l'uomo può trovare le ragioni e le condizioni per qualsiasi scelta della sua vita, se vuole che possa essere veramente libera, senza condizionamenti".
Per i caduti di Marzabotto
Questa è memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di Von Kesselring
e dai loro soldati di ventura
dell’ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.
I milleottocentotrenta dell’altipiano
fucilati e arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto
il civile consenso
per governare anche il cuore dell’uomo,
non chiede compianto o ira
onore invece di libere armi
davanti alle montagne e alle selve
dove il “Lupo” e la sua brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.
La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini d’ogni terra
non dimenticano Marzabotto
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.
Salvatore Quasimodo
MARZABOTTO MEDAGLIA D'ORO
Incassata tra le scoscese rupi e le verdi boscaglie dell'antica terra etrusca, Marzabotto preferì ferro, fuoco e distruzioni piuttosto che cedere all'oppressore. Per quattordici mesi sopportò la dura prepotenza delle orde teutoniche che non riuscirono a debellare la fierezza dei suoi figli arroccati sulle aspre vette di monte Venere e di monte Sole sorretti dall'amore e dall'incitamento dei vecchi, delle donne e dei fanciulli. Gli spietati massacri degli inermi giovinetti, delle fiorenti spose, e dei genitori cadenti non la domarono ed i suoi 1830 morti riposano sui monti e nelle valli a perenne monito alle future generazioni di quanto possa l'amore per la patria.
Marzabotto, 8 settembre 1943 – 1° novembre 1944
Per quella “operazione” il feldmaresciallo Kesserling si complimentò con gli uomini della sedicesima divisione, in particolare con il maggiore Walter Reder.
Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l'impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli... un monumento. A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con una famosa epigrafe:
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi
non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti vide fuggire
ma soltanto col silenzio dei torturati
piú duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari s'adunarono
per dignità non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo
su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci troverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
resistenza.
Le Quattro Giornate di Napoli (27 – 28 – 29- 30 settembre 1943)
Un’insurrezione “spontanea”
La situazione del Mezzogiorno nelle tragiche giornate dell'autunno è la situazione della parte d'Italia su cui la guerra, l'urto fra i due opposti eserciti grava con tutto il suo peso aggiungendo lutti a lutti, rovina a rovina.
Tutto il peso della lotta si concentra nella Campania, e Napoli si trova al centro della formidabile pressione.
Il 12 settembre il colonnello tedesco Scholl assume il« comando assoluto» con un proclama in cui impone lo stato d'assedio, il coprifuoco e la consegna delle armi.
I nazisti a Napoli saccheggiano, distruggono: la loro furia, che travolge soldati sbandati, e cittadini inermi, raggiunge il culmine nell'incendio della Università. Gli edifici vengono invasi e dati alle fiamme, la popolazione rastrellata per le vie è costretta ad assistete in ginocchio all'esecuzione di un marinaio sulla soglia dell'Università; una lunga colonna di deportati viene avviata verso Aversa, quattordici carabinieri, rei d'aver resistito al palazzo delle Poste, vengono fucilati nel corso della tragica marcia. È dall'Università che s'inizia la distruzione metodica della città che secondo gli ordini di Hitler avrebbe dovuto essere ridotta « in fango e cenere»; e la scelta del punto di partenza del piano terroristico non è, probabilmente, casuale: era infatti nello stesso Ateneo che dopo il 2 luglio avevano risuonato più alte le parole della libertà, come nel proclama del l° settembre con cui il rettore magnifico Adolfo Omodeo ricordava ai giovani che ,«i loro maestri erano della generazione del Carso e del Piave e comprendevano il loro affanno». S'inizia poi la sistematica distruzione delle zone industriali, del grande stabilimento ILVA di Bagnoli, mentre tutta la città è messa a sacco.
Napoli è ridotta alla disperazione per le condizioni selvagge in cui è stata ridotta Napoli, priva di cibo e d'acqua, sgombrata a viva forza e distrutta nei quartieri verso il porto (nello spazio di ventiquattro ore, dal 23 al 24 settembre, oltre 200000 persone restarono senza tetto).
Un antefatto delle Quattro Giornate di Napoli: l'abbandono da parte dei nazisti delle caserme e dei depositi militari contenenti ancora piccole quantità di armi e munizioni. Probabilmente i tedeschi ritennero che il suddetto materiale bellico non avesse importanza, né sarebbe stato utilizzato dalla popolazione contro di loro dopo gli infiniti esempi di terrore, dopo la deportazione di ottomila giovani come misura di rappresaglia per il mancato rispetto del bando Scholl.
Nella notte tra il 27 e il 28 settembre la popolazione si alternò in un incessante via vai fra le caserme e le abitazioni, le donne in cerca di viveri e d'indumenti, gli uomini in cerca d'armi e munizioni.
Molte armi erano state già nascoste e conservate gelosamente nei giorni dell'armistizio: ora la determinazione di usarle, di cercare dovunque nuove scorte di esse, di scendere finalmente ,«in istrada» era sbocciata improvvisa come l'unica possibile. Il popolo aveva« fatto la sua scelta», ma in senso opposto a quello richiesto dal proclama fascista. Già nel pomeriggio e nella sera del 27, sollecitati, sembra, dalla falsa notizia dell'arrivo degli Inglesi a Pozzuoli e a Bagnoli, si erano avuti i primi rapidi scontri, le prime scaramucce in più punti della città, episodi in apparenza casuali, certamente non collegati l'uno con l'altro (un gruppo di cittadini che reagisce al saccheggio della Rinascente, un altro gruppo che liberò a piazza Dante dei giovani razziati, due guastatori tedeschi inseguiti a furia di popolo al Vomero), ma altrettanto certamente rivelatori d'uno stato d'animo ormai comune.
All'alba del 28 settembre la rivolta esplose fulminea al Vomero e da Chiaia a piazza Nazionale. Non vi furono collegamenti fra un centro e l'altro dell'incendio, ma l'insurrezione cominciò ad ardere in decine di punti diversi.
Il 28 settembre è la giornata dell'ardimento popolare sfrenato e travolgente: Tra le decine e decine di combattimenti, tanti giovinetti.
Il dodicenne Gennaro Capuozzo funziona da servente a una mitragliatrice in via Santa Teresa presa sotto il fuoco di carri armati tedeschi, finché cade sfracellato, colpito in pieno da una granata sul posto di combattimento.
Filippo Illuminato e Pasquale Formisano, l'uno di tredici, l'altro di diciassette anni corrono incontro a due autoblinde che da via Chiaia cercano d'imboccare via Roma.« Lo scontro fu assai breve, ma impressionante; vi fu chi vide i due intrepidi giovanetti avanzare decisamente sotto le impetuose raffiche di mitragliatrice fino a quando caddero esanimi a pochi passi dalle autoblinde, nell'atto di scagliare ancora una bomba ».
Tutto si è svolto senza un piano, senza collegamenti fra i vari quartieri o gruppi d'insorti anche se talvolta l'azione degli uni ha contribuito al successo di quella degli altri. Esempio maggiore di questa naturale confluenza degli sforzi insurrezionali l'azione svolta da un gruppo di patrioti che a Moiarello di Capodimonte s'impossessano di una batteria da 37/54 e riescono a bloccare per tutta la giornata il tentativo di una colonna di carri Tigre e di autoblinde tedesche di scendere da Capodichino sulla città; probabilmente, se quel tentativo fosse riuscito, la lotta popolare avrebbe avuto un corso diverso o comunque più sfavorevole e cruento.
La rivolta popolare comincia ad organizzarsi, a individuare alcuni obiettivi da conseguire nella ininterrotta ondata del combattimento a viso aperto. Sorge la prima barricata a piazza Nazionale, vengono costituite postazioni d'arme presso il Museo, si chiarisce l'indirizzo principale sorto spontaneamente: impedire che il tedesco attraversi la città verso nord nel corso del ripiegamento e gettare cosi il disordine e il panico nelle sue truppe incalzate da vicino dagli alleati.
Nel corso della battaglia si determina un obiettivo principale: la conquista del « centro» del quartiere costringendo i tedeschi a ripiegare da via Luca Giordano che lo attraversa diagonalmente. L'attacco viene eseguito a squadre e a balzi successivi come in una manovra di guerra regolare. Poi, dopo la furia popolare, anche la furia degli elementi si abbatte sul Vomero: un violento uragano fa sospendere le operazioni e nella notte il nemico perlustra le strade alla caccia degli insorti dileguatisi con le prime ombre.
Il 29 segna il culmine dell'insurrezione napoletana e, mentre prosegue il generoso afflusso dei giovani e degli adolescenti fra le file degli insorti (muore sotto il fuoco d'un'autoblinda il non ancora ventenne Mario Menichini), affiorano i primi elementi organizzativi. Al Vomero si costituisce il Comando partigiano per iniziativa di Antonino Tarsia. In ogni rione emerge nel corso della lotta una figura di «capo-popolo» intorno a cui gravitano i gruppi degli insorti: a Chiaia si fa luce Stefano Fadda, Ezio Murolo in piazza Dante, Aurelio Spoto a Capodimonte. Ovunque gli scontri diventano più intensi e persistenti: nel solo settore Vincenzo Cuoco i patrioti perdono 12 morti e 32 feriti.
A Capodimonte è strenuamente difeso dai partigiani del rione l'unico serbatoio rimasto intatto dall'immane distruzione ed assicurato, in seguito al successo dell'azione, il rifornimento dell'acqua potabile ad alcuni rioni ancora per due o tre giorni.
L'episodio risolutivo si verifica infine al Vomero: il comandante del presidio maggiore Sakau chiede di trattare la resa. Accompagnato con bandiera bianca presso il Comando superiore germanico al Corso, lo Scholl, edotto della situazione, è costretto ad ordinare l'evacuazione del campo sportivo e la restituzione dei 47 ostaggi detenutivi, purché i partigiani garantiscano l'immunità al presidio tedesco. È, in sostanza, una capitolazione, la più grave umiliazione per lo Scholl che aveva creduto d'imporre il suo dominio alla città e che ora chiede salva la vita per i suoi soldati a un gruppo di « straccioni» ribelli.
Il 30, pur essendo stata evacuata in massima parte la città dai tedeschi, continuano i combattimenti. Il nemico si lascia dietro la lugubre scia delle rappresaglie: gruppi di guastatori tedeschi, attardatisi nella ritirata, massacrano alcuni giovani in località Trombino. Alla Pigna, nella masseria Pezzalunga, s'ingaggia l'ultimo combattimento delle Quattro Giornate, con violenti corpo a corpo fra i patrioti e i tedeschi, mentre nella città risuonano ancora le fucilate in via Duomo, via Settembrini, piazza San Francesco. Ancora il l° ottobre i tedeschi attuano l'ultima rappresaglia e aprono un violento fuoco sulla città con un gruppo di bombarde piazzate nel bosco di Capodimonte, portando lo sterminio fra la popolazione sino quasi a mezzogiorno: un'ora prima dell'entrata dei primi carri armati angloamericani nella città liberata.
Costretti alla fuga i nazisti sfogano la rabbia per il colpo ricevuto: distruggono le più preziose memorie di quel popolo che non ha piegato la testa sotto i suoi ordini, consumando un’atroce vendetta. A San Paolo Belsito, presso Nola, i tedeschi danno fuoco all' Archivio Storico di Napoli, cioè alla maggior fonte per la storia del Mezzogiorno dal Medioevo in poi.
Il bilancio dell'insurrezione napoletana: 152 combattenti caduti; 140 caduti civili, 162 feriti, 19 caduti ignoti (l'elenco delle perdlte continua ad accrescersi anche dopo la liberazione della città: nel pomeriggio del 7 ottobre il palazzo delle Poste, appena riattivato, saltò in aria a causa delle mine lasciatevi dai tedeschi, provocando la morte di molti cittadini.
Sulle barricate s'incontrarono i popolani generosi, le umili donne che offrivano cestini di bombe, come la« Lenuccia» (Maddalena Cerasuolo) e gli esponenti della piccola borghesia meridionale: un Tarsia insegnante a riposo, un Fadda medicochirurgo, un Murolo impiegato.
Parteciparono alla lotta gli studenti del liceo Sannazzaro al Vomero, gli scugnizzi dei quartieri popolari, gli intellettuali come Alfredo Paruta che iniziò il l° ottobre la pubblicazione del giornale « Le barricate»; come gli operai delle fabbriche napoletane. E certo nell'ondata della collera popolare si erano inseriti - qua e là - gli elementi antifascisti consapevoli. Ma l'insurrezione rimase fino all'ultimo un fatto« spontaneo », senza cioè che potessero prevalere in essa gli elementi d'una guida unitaria e anche una chiara coscienza politica dell'accaduto.
Le Quattro Giornate di Napoli saranno sempre presenti nel ricordo di coloro che militeranno nelle file della Resistenza poiché avevano dimostrato la« possibilità» dell'insurrezione cittadina.
«Dopo Napoli la parola d'ordine dell'insurrezione finale acquistò un senso e un valore e fu d'allora la direttiva di marcia per la parte più audace della· Resistenza italiana» (Luigi Longo: dopo l'8 settembre del '43, diede vita alle Brigate Garibaldi. Vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà, stretto collaboratore di Parri, fu tra i principali organizzatori dell'insurrezione nel Nord Italia dell'aprile del '45)
Liberamente tratto dalle pagine di “Storia della Resistenza italiana – 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945” di Roberto Battaglia - Einaudi 1964
Le Quattro Giornate di Napoli in letteratura
da “Il giorno prima della felicità” di Erri De Luca
“Ci eravamo abituati a sentire le frottole della radio, dei giornali: la patria, l'eroica difesa dei confini, l'impero. Tenevamo l'impero, mancava il pane, il caffè ma tenevamo l'impero. Il comandante tedesco Scholl ha fatto uscire un bando, gli uomini tra i 18 e i 33 anni devono consegnarsi in caserma o saranno fucilati. Su trentamila che se ne aspettavano si sono presentati in 120.... I tedeschi e i fascisti erano più incanagliti perché la guerra si metteva male. Lo sbarco di Salerno era riuscito. Facevano saltare le fabbriche, saccheggiavano i magazzini per lasciare vuoto. La città negli ultimi giorni di settembre faceva paura per la fame e il sonno in faccia alle persone.... Bombardavano tutte le notti ...Gli scoppi delle bombe tedesche si confondevano con i bombardamenti americani, la sirena di allarme arrivava dopo che la contraerea si era messa a sparare. Le persone uscivano dai ricoveri dopo l'attacco aereo e non trovavano più la casa. Come venne a piovere cominciò la rivolta. Pare che la città aspettava un segno convenuto, che si chiudeva il cielo. E gli americani smisero di bombardare. Una domenica di fine settembre, sento in bocca a tutti la stessa parola, sputata dallo stesso pensiero: mo' basta. Era un vento, non veniva dal mare ma da dentro la città: mo' basta, mo' basta.. La città cacciava la testa fuori dal sacco. Mo' basta, mo' basta, un tamburo chiamava e uscivano i guaglioni con le armi. Fuori i giovani prendevano le armi dalle caserme e le nascondevano. Un gruppo con uno vestito da carabiniere aveva svuotato l' armeria del forte di Sant'Elmo. I napoletani avevano preso le armi dalle caserme. A volte con le buone, i carabinieri avevano distribuito la loro dotazione per sentimento di fedeltà al re. In altre caserme la paura di una rappresaglia tedesca faceva respingere la richiesta di armi. Allora tornavano con le maniere spicce a requisirle. L'assalto del primo giorno fu contro un camion tedesco che era andato a saccheggiare una fabbrica di scarpe. Negli ultimi giorni di settembre i tedeschi si erano messi a razziare quello che potevano dentro i negozi e pure nelle chiese. Cominciò con un assalto improvvisato a un loro camion carico di scarpe, la prima battaglia. Intanto i tedeschi svaligiavano le chiese, facevano saltare il ponte di San Rocco a Capodimonte, quello della Sanità lo salvammo staccando le cariche esplosive, lo stesso facemmo per l'acquedotto. Volevano lasciare la città distrutta. La rivolta è stata una salvezza. Il centro della rivolta si era piazzato nel liceo Sannazzaro, gli studenti erano stati i primi. Poi uscivano gli uomini nascosti sotto la città. Salivano da sottoterra come una resurrezione. 'Dalle 'ncuollo,' dagli addosso, le strade erano bloccate dalle barricate. Al Vomero tagliavano i platani e li mettevano a fermare il passaggio dei carri armati. Facemmo una barricata a via Foria incastrando una trentina di tram. La città scattava a trappola. Quattro giornate e tre nottate. I carri armati tedeschi riuscirono a passare lo sbarramento di via Foria, scesero a piazza Dante e si avviarono per via Roma. Là sono stati fermati. Giuseppe Capano, di anni 15, si è infilato sotto i cingoli di un carro armato, ha disinnescato una bomba a mano ed è riuscito da dietro prima dell'esplosione. Assunta Arnitrano, anni 47, dal quarto piano ha tirato una lastra di marmo presa da un comò e ha scassato la mitragliatrice del carro armato. Luigi Mottola, 51 anni, operaio delle fogne, ha fatto saltare una bombola di gas spuntando da un tombino sotto la pancia di un carro armato. Uno studente di conservatorio, Ruggero Semeraro, anni 17, aprì il balcone e attaccò a suonare al pianoforte La Marsigliese, quella musica che fa venire ancora più coraggio. Il prete Antonio La Spina, anni 67, sulla barricata davanti al banco di Napoli gridava il salmo 94, quello delle vendette. Il barbiere Santo Scapece, anni 37, tirò un catino di schiuma di sapone sul finestrino di guida di un carro armato che andò a sbattere contro la saracinesca di un fioraio. La mira dei nostri cittadini era diventata infallibile nel giro di tre giorni. Le bottiglie incendiarie facevano il guasto ai carri armati, li accecavano di fiamme. Ero diventato esperto nel farle, ci mettevo dentro qualche scaglia di sapone per fare attaccare meglio il fuoco. Il diesel ce lo avevano dato i pescatori di Mergellina, che non potevano uscire per mare a causa del blocco del golfo e delle mine. Sei persone in mezzo a una folla pronta inventavano la mossa giusta per inguaiare un reparto corazzato del più potente esercito che da solo aveva conquistato mezza Europa. Prima di andarsene i tedeschi avevano lasciato in città bombe a tempo ritardato, una esplose alla posta centrale giorni dopo facendo una strage. Era una loro tecnica, ho saputo che l'hanno fatto anche altrove. Non sapevano perdere. A via Foria le barricate con i tram fermarono per ore i carri armati Tigre. Alla fine riuscirono a passare ma non a via Roma. Dai vicoli a monte scendevano all' assalto uomini e ragazzi a buttare bombe e fuoco in mezzo ai cingoli. Contro quei mucchi di spiritati, i corazzati non potevano niente, si ritirarono. C'era un secondo fronte, i fascisti sparavano dalle case sulla folla insorta. Ci furono battaglie per le scale dei palazzi, sui tetti, fucilazioni sul posto.”
25 settembre: anniversario della nascita di Sandro Pertini
La nostra associazione, in un “Viaggio della Memoria” si è recata a Stella, in provincia di Savona, per visitare la casa natale di Pertini, oggi trasformata in un piccolo museo e ha depositato dei fiori sulla tomba dove il “partigiano Pert” è sepolto con la moglie Carla Voltolina.
Alessandro Pertini è nato a Stella (Savona) il 25 settembre 1896.
Laureato in giurisprudenza e in scienze politiche e sociali.
Coniugato con Carla Voltolina.
Ha partecipato alla prima guerra mondiale; ha intrapreso la professione forense e, dopo la prima condanna a otto mesi di carcere per la sua attività politica, nel 1926 è condannato a cinque anni di confino.
Sottrattosi alla cattura, si è rifugiato a Milano e successivamente in Francia, dove ha chiesto e ottenuto asilo politico, lavorando a Parigi.
Anche in Francia ha subito due processi per la sua attività politica.
Tornato in Italia nel 1929, è stato arrestato e nuovamente processato dal tribunale speciale per la difesa dello Stato e condannato a 11 anni di reclusione.
Scontati i primi sette, è stato assegnato per otto anni al confino: ha rifiutato di impetrare la grazia anche quando la domanda è stata firmata da sua madre.
Lettera di Pertini, scritta dal confino di Pianosa, il 23 febbraio 1933, in cui rinuncia alla domanda di grazia presentata dalla madre.
Tornato libero nell'agosto 1943, è entrato a far parte del primo esecutivo del Partito socialista. Catturato dalla SS, è stato condannato a morte.
La sentenza non ha luogo. Nel 1944 è evaso dal carcere assieme a Giuseppe Saragat, ed ha raggiunto Milano per assumere la carica di segretario del Partito Socialista nei territori occupati dal Tedeschi e poi dirigere la lotta partigiana: è stato insignito della Medaglia d'Oro.
Il discorso di Sandro Pertini, segretario del Partito Socialista nell'Italia occupata, pronunciato la sera del 27 aprile 1945 dal microfono di Radio Milano, liberata dalle formazioni “Matteotti”.
I Maggio 1945: Pertini parla a Milano per la prima festa del Lavoro nell'Italia libera
Conclusa la lotta armata, si è dedicato alla vita politica e al giornalismo.
E' stato eletto Segretario del Partito Socialista Italiano di unità proletaria nel 1945. E' stato eletto Deputato all'Assemblea Costituente.
E' stato eletto Senatore della Repubblica nel 1948 e presidente del relativo gruppo parlamentare.
Direttore dell'"Avanti" dal 1945 al 1946 e dal 1950 al 1952, nel 1947 ha assunto la direzione del quotidiano genovese "Il Lavoro".
E' stato eletto Deputato al Parlamento nel 1953, 1958, 1963, 1968, 1972, 1976.
E' stato eletto Vice-Presidente della Camera dei Deputati nel 1963.
E 'stato eletto Presidente della Camera dei Deputati nel 1968 e nel 1972.
Dopo il fallimento della riunificazione tra P.S.I. e P.S.D.I,. aveva rassegnato le dimissioni, respinte da tutti i gruppi parlamentari.
E' stato eletto Presidente della Repubblica l'8 luglio 1978 (al sedicesimo scrutinio con 832 voti su 995). Ha prestato giuramento il giorno successivo.
Ha rassegnato le dimissioni il 29 giugno 1985: è divenuto Senatore a vita quale ex Presidente della Repubblica. E' deceduto il 24 febbraio 1990.
20 settembre dedicato agli IMI-Internati Militari Italiani
e in memoria di mio padre Arnaldo, uno dei 600.000 militari italiani a cui fu data la possibilità di non subire il lager se avessero accettato di continuare la guerra a fianco della Germania nazista o se avessero aderito alla Repubblica sociale italiana.
Il 20 settembre 1943, dopo la liberazione di Mussolini e poco prima della proclamazione del nuovo stato fascista (la Repubblica Sociale Italiana), Hitler ordinò di trasformare i prigionieri italiani in “internati militari”.
Dal sito internet della Camera dei Deputati
Su Iniziativa dei Deputati:
FABBRI, NACCARATO, CUPERLO, CARLO GALLI, FIANO, RICHETTI, GIORGIS, ROBERTA AGOSTINI, ALBINI, D'OTTAVIO, FAMIGLIETTI, FERRARI, GASPARINI, GRIBAUDO, INCERTI, LATTUCA, LAURICELLA, MARCO MELONI, MOGNATO, PAGANI, POLLASTRINI, FRANCESCO SANNA, SCHIRÒ, TARICCO, TULLO
Istituzione della Giornata dell'internato militare italiano
Onorevoli Colleghi! – La Seconda guerra mondiale fu causa di sofferenze materiali e morali per tutta l'umanità. Bombardamenti devastarono città e campagne, causando milioni di morti e di feriti.
Il potere della Germania nazista tenne in scacco tutta l'Europa occupata, con strategie terroristiche, rappresaglie e deportazioni in massa. Anche l'Italia, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, ne fece le spese, in quanto l'armistizio non pose fine alla guerra come si sperava ma, al contrario, intensificò le sofferenze del Paese e i primi a esserne colpiti furono i militari, in particolare quelli che si trovavano fuori del territorio nazionale, abbandonati a sé stessi.
La proposta di istituire la «Giornata dell'internato militare italiano» nasce per non disperdere il patrimonio storico, culturale e umano legato al grande dramma che, tra l'8 settembre 1943 e il maggio 1945, coinvolse più di 600.000 uomini delle Forze armate; i quali, catturati su più fronti dalle truppe tedesche dopo l'armistizio dell'Italia con gli alleati, subirono la deportazione, l'internamento nei lager e il lavoro coatto nei territori del Terzo Reich o da esso controllati.
Il regime nazista, dopo averli considerati in un primo tempo prigionieri di guerra, il 20 settembre 1943, nel disprezzo delle norme di diritto internazionale, modificò il loro status in «internati militari», per utilizzarli coattivamente come forza lavoro. Il termine «internato militare» ricorre infatti nel diritto internazionale solo con riferimento ai militari di uno Stato belligerante che si trovino sul territorio, inteso in senso lato, di uno Stato neutrale (articoli 57 e seguenti della Convenzione dell'Aia del 1899 sulle leggi e sugli usi della guerra terrestre).
Agli oltre 600.000 militari italiani fu data la possibilità di non subire il lager se avessero accettato di continuare la guerra a fianco della Germania nazista o se avessero aderito alla Repubblica sociale italiana.
Il rifiuto di continuare la guerra a fianco della Germania fu, sia per gli ufficiali che per i soldati, una scelta individuale; lontani dall'Italia e dalle loro famiglie, si trovarono a dover prendere una decisione autonomamente. La risposta, quasi unanime, fu un rifiuto a qualsiasi collaborazione con l'asse. Dopo l'8 settembre 1943, in tutti questi italiani, nati e cresciuti durante il fascismo, cominciò a formarsi una coscienza civile che portò, dopo la fine della guerra, alla nascita della Repubblica italiana e della sua Costituzione democratica.
Gli internati militari italiani (IMI) preferirono, quindi, restare nei lager ed essere sottoposti per venti lunghi mesi a un trattamento durissimo: subirono umiliazioni, fame, le più pesanti vessazioni e il lavoro coatto, in una Germania particolarmente ostile che li considerava traditori. Circa 50.000 non fecero più ritorno e quelli che tornarono furono segnati per sempre.
Anche il rientro in Italia degli internati nei lager a fine guerra fu causa di ulteriori pene e umiliazioni, in quanto essi furono considerati come reduci da una normale prigionia di guerra, quando addirittura non furono sospettati di aver lavorato «volontariamente» per il regime nazista. Molti di loro si chiusero nel più assoluto silenzio, in pubblico e in famiglia, e non ebbero la forza di raccontare i patimenti subiti.
Una coltre di silenzio ha coperto per molti decenni la vicenda degli IMI, «resistenti senza armi», ma da qualche tempo molte famiglie ricercano le storie che hanno coinvolto i loro padri o i loro nonni.
Nel vertice bilaterale italo-tedesco, tenutosi il 18 novembre 2008, i due Governi, nel ribadire la loro fedeltà agli ideali di riconciliazione, solidarietà e integrazione, che sono alla base del processo di costruzione europea, hanno convenuto di dare vita a una Commissione costituita da storici italiani e tedeschi, con il mandato di un approfondimento comune sul passato di guerra italo-tedesco e in particolare sugli IMI, come contributo alla costruzione di una comune cultura della memoria.
A conclusione dei suoi lavori, la Commissione ha presentato, il 19 dicembre 2012, presso il Ministero degli affari esteri, un articolato rapporto, che dedica un intero capitolo alla drammatica storia degli IMI, segnalando i momenti salienti della complessa vicenda individuale e collettiva. Il racconto degli storici sintetizza situazioni, stati d'animo, cause e concause che determinarono certe scelte, sia da parte dei militari italiani, sia da parte delle autorità del Terzo Reich. Si accenna, in un veloce excursus, alle condizioni di vita e di lavoro, al rapporto con gli organi di controllo, alle violenze fisiche e morali perpetrate verso quanti avevano deciso di non collaborare con il nazionalsocialismo, pronunciando ripetutamente il loro «no» di fronte alle offerte che avrebbero potuto alleggerire la loro condizione. Ben delineati, inoltre, sono gli interessi economici tedeschi legati all'uso dei militari italiani come forza lavoro e le modalità attraverso le quali, per una politica di sfruttamento si arrivò all'arbitrario cambiamento di status: da prigionieri di guerra a internati militari e a lavoratori coatti, tra il luglio e il settembre 1944.
Per perpetuare la memoria degli IMI che furono deportati e costretti al lavoro per l'apparato bellico tedesco, è necessario far conoscere i fatti che furono alla base della ricostruzione morale e materiale della nazione. A tal fine è opportuno affiancare alla concessione della medaglia d'onore, disposta dall'articolo 1, comma 1272, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, iniziative che promuovano il ricordo di quei tragici eventi, soprattutto presso i giovani, coinvolgendo in particolare le istituzioni universitarie e scolastiche di ogni ordine e grado.
Le associazioni storiche combattentistiche, l'Associazione nazionale ex internati (ANEI) e l'Associazione nazionale reduci dalla prigionia, dall'internamento e dalla Guerra di liberazione (ANRP), enti morali costituiti con decreto del Presidente della Repubblica, posti sotto la vigilanza del Ministero della difesa, con i rispettivi impegni e in coerenza con le proprie finalità statutarie, provvedono a «mantenere viva la memoria di coloro che immolarono la loro vita per la salvezza della patria e a tributare loro ogni onoranza», nonché a «conservare e custodire il patrimonio morale che gli IMI, con le loro sofferenze e la loro partecipazione morale e materiale alla lotta di Liberazione hanno acquisito, con l'impegno di trasmetterlo alle nuove generazioni». In particolare, con l'opera dell'ANEI – attraverso il Museo dell'internamento di Padova – e dell'ANRP – attraverso la realizzazione e l'aggiornamento dell'Albo degli IMI caduti nei lager nazisti 1943-1945, la Mostra permanente – Vite di IMI – e il Centro studi, documentazione e ricerca con biblioteca specializzata di Roma, hanno permesso di mantenere e diffondere la memoria degli eventi e delle vicende che coinvolsero oltre 600.000 militari italiani internati nei lager tedeschi.
Pensiamo sia utile che tale ricordo resti nella coscienza dei popoli, perché l'uomo di oggi e di domani non consideri inevitabile la guerra e chiunque possa vedersi riconosciuta la piena dignità umana, ma soprattutto perché gli orrori e l'infamia che hanno disonorato il nostro tempo siano risparmiati alle future generazioni.
A tale scopo si propone di istituire, come data commemorativa degli IMI, la Giornata dell'internato militare italiano, il giorno 20 settembre che nel 1943 fu la data in cui il regime nazista, nel disprezzo delle norme di diritto internazionale, modificò il loro status da prigionieri di guerra a «internati militari», per utilizzarli come forza lavoro. Gli IMI si sacrificarono per raggiungere quella pace di cui oggi, a distanza di oltre settantatré anni, l'Europa ancora può godere. La denominazione di IMI, voluta dal nazismo, a violazione di tutte le leggi di guerra, dei diritti inalienabili della persona e quale atto di coercizione, deve trasformarsi in un messaggio di pace. Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del settantesimo anniversario della liberazione, il 25 aprile 2015, ha affermato, tra l'altro che: «alla lotta di liberazione è finalmente pienamente riconosciuto l'apporto decisivo dei 600.000 soldati internati nei campi di concentramento perché negarono ogni collaborazione agli occupanti intendendo con questo loro atto di compiere un dovere verso l'Italia».
PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
1. La Repubblica riconosce il 20 settembre quale Giornata dell'internato militare italiano al fine di conservare e di rinnovare la memoria degli oltre 600.000 militari italiani internati nei lager nazisti i quali, a causa della loro decisione di non collaborare con il nazionalsocialismo e del loro rifiuto, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, di continuare a combattere a fianco del Terzo Reich e della Repubblica sociale italiana, in quanto regimi dittatoriali che consideravano la guerra uno dei loro obiettivi, subirono volontariamente violenze fisiche, morali e lavoro coatto.
2. La Giornata dell'internato militare italiano è considerata solennità civile ai sensi dell'articolo 3 della legge 27 maggio 1949, n. 260. Essa non determina riduzioni dell'orario di lavoro degli uffici pubblici né, qualora cada in giorni feriali, costituisce giorno di vacanza o comporta riduzione di orario per le scuole di ogni ordine e grado, ai sensi degli articoli 2 e 3 della legge 5 marzo 1977, n. 54.
Art. 2.
1. Ogni anno, in occasione della celebrazione della Giornata dell'internato militare italiano, con cerimonie pubbliche, è conferita, con diploma a firma del Presidente della Repubblica, la medaglia d'onore, di cui all'articolo 1, comma 1272, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, da concedersi ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti.
2. Nella Giornata di cui all'articolo 1 sono previste iniziative per diffondere la conoscenza della drammatica vicenda degli internati militari italiani, soprattutto presso i giovani delle università e delle scuole di ogni ordine e grado, al fine di costruire, conservare e rinnovare una memoria storica condivisa. È altresì favorita
la promozione di manifestazioni pubbliche, di incontri, di dibattiti, di momenti comuni di ricordo e di riflessione, di ricerche e pubblicazioni organizzate dall'Associazione nazionale ex internati e dall'Associazione nazionale reduci dalla prigionia, dall'internamento dalla Guerra di liberazione.
In memoria di FRANCESCO NAPPO
7 settembre 2024
Francesco ci ha lasciati.
La nostra Sezione è onorata di averlo avuto come membro del direttivo e di lui sentiremo la mancanza.
Durante la cerimonia in forma civile che si è svolta sabato 7 settembre, Giovanni Missaglia, vicepresidente della nostra Sezione, così lo ha ricordato:
«Siamo qui oggi a dare un ultimo saluto a un grande militante, a un cittadino esemplare; e poi, certo, anche a un compagno, nel senso più politicamente connotato del termine. Ma prima di tutto è giusto ricordare Franco come militante e come cittadino; l’appartenenza e lo schieramento, il compagno, vengono dopo.
Franco ha militato, ha militato tutta la vita. È stato un soldato, un combattente, ma un soldato e un combattente di pace, per la pace, per la giustizia sociale, per l’uguaglianza, per i grandi valori scolpiti nella nostra Costituzione. Franco sapeva che in qualche modo vivere in società significa lottare e che il conflitto è un momento ineliminabile della crescita personale e collettiva. Ma Franco è stato anche la testimonianza vivente che si può benissimo lottare e vivere il conflitto con gentilezza, con pulizia, con trasparenza, nel pieno rispetto delle regole democratiche e delle persone.
Franco è stato perciò un cittadino esemplare, se è vero che essere cittadini significa soprattutto partecipare. Il cittadino consapevole non si isola, non si rifugia nel privato, ma, appunto, partecipa, prende parte. Franco sapeva, come cantava Giorgio Gaber, che la libertà non è “star sopra un albero”, non è “il volo di un moscone”, ma è partecipazione. L’articolo 3 della Costituzione impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che impediscono – è scritto proprio così – “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E davvero la partecipazione di Franco è stata effettiva: non ha mai fatto mancare né la sua testa né le sue mani, né le idee né l’impegno concreto e fattivo per realizzarle. E lo ha fatto fino alla fine, senza mai smettere, neppure quando sono cominciati i problemi di salute. Era sempre e comunque in prima fila: nel proporre, nel realizzare, nel sostenere.
Partecipare, prendere parte, parteggiare anche. Il militante, il cittadino, il compagno. Lascio per ultima questa dimensione, non perché sia meno importante, ma perché non deve essere equivocata. Certamente Franco era un uomo di parte, un uomo schierato, un uomo di sinistra, un compagno. Prendere parte, schierarsi, non far finta di essere al di sopra delle parti è doveroso. Ma c’è modo e modo di parteggiare e di schierarsi. Lo si può fare in modo cieco e fazioso, dogmatico, oppure in modo intelligente e aperto, come Franco ha sempre fatto: il compagno non ha mai accecato il cittadino. Franco aveva capito davvero la lezione dei partigiani, che si sono schierati contro un avversario tremendo e hanno scelto una parte ben precisa, ma non lo hanno fatto solo per sé, per la propria parte, ma per tutti, per un Paese intero. Non per niente Franco conosceva l’arte del prendere parte. Lui, uomo di sinistra, militante del PCI e poi di qualcuno dei partiti che sono derivati dalla fine di quella storia, della CGIL e dell’ANPI, ha sempre saputo distinguere con acume queste appartenenze. Io ne sono stato testimone diretto, perché ho avuto la fortuna di vederlo all’opera nel partito, nel sindacato, la FLC-CGIL (Franco era un insegnante. E non per caso: sapeva che è velleitario pensare di cambiare il mondo senza passare in primo luogo attraverso l’educazione dei giovani) e nell’Anpi. Su uno sfondo comune di valori democratici e antifascisti, bisogna poi sapere che fare politica in un partito è una cosa, l’impegno sindacale è una cosa diversa e quello associazionistico è una cosa ancora diversa. Bisogna ogni volta saper individuare alleati e avversari, bisogna avere il senso dell’opportunità, del contesto, bisogna ogni volta capire dove stanno i punti di mediazione e le linee che non possono invece essere varcate. Franco possedeva quest’arte.
L’ha condivisa per una vita con Graziella, di cui è stato in ogni senso, nuovamente, compagno. Compagni nelle gioie e nelle fatiche della quotidianità privata e compagni nelle lotte collettive. Il marito, il padre, però, appartengono a voi, Graziella, Roberta. Noi, insieme a voi, vogliamo rendere onore al militante, al cittadino, al compagno. Grazie, Franco, dal profondo del cuore».
E così ha scritto Walter Consonni, che è stato collega di scuola di Francesco:
«Cara Graziella, cari amici dell'ANPI di Lissone.
Ho saputo della morte di Franco e sono davvero costernato e triste, ancora incredulo anche se ero informato delle sue tribolazioni di salute.
Franco non è stato soltanto un docente, serio e autorevole con gli studenti, allegro e disponibile con noi colleghi, ma un amico vero. Da buon partigiano era sempre attento alle esigenze del sociale e fu lui a portarmi alla "Diligenti", con mio grande piacere. Sapeva che avrei potuto partecipare alla vita della Sezione in modo sporadico, a distanza forzata. Ma lui mi è sempre stato molto vicino.
Franco continuerà a vivere nel mio cuore e nel nostro ideale più bello e supremo.
Non potendo essere presente alla funzione laica, invio un abbraccio affettuoso a Graziella e a tutti voi. Con sincera affezione».
E massimo Martinengo così lo ricorda:
Francesco l'ho conosciuto prima dell'ANPI.
Prima del militante e del compagno lo ricorderò per una caratteristica sempre più rara oggi: il garbo.
Un modo di porsi civile mai disgiunto dalla fermezza delle idee e delle azioni.
Una fortuna averlo incontratogli Italiani e l’8 settembre del 1943
L’8 di settembre 1943 la collettività italiana usciva da vent’anni di fascismo e di diseducazione politica, con l’aggravante, non secondaria, di una guerra irresponsabilmente mossa in uno scenario internazionale che congiurava a sfavore del nostro paese, intrapresa in condizioni estremamente precarie sul piano militare e con un consenso passivo, manifestato sotto il balcone del palazzo di piazza Venezia, da una folla incosciente del baratro che andava così aprendosi.
L’8 settembre è sospeso tra la tragedia di un collasso politico-istituzionale e la farsa che fece da corredo al disfacimento di quel che rimaneva di un regime che si voleva totale e totalitario.
Una intera generazione ne visse più direttamente gli effetti: i giovani coscritti, impegnati nella leva e dislocati nei diversi reparti militari, operanti in tutto lo scenario del Mediterraneo, subirono per primi le conseguenze del cambiamento di alleanze e della vacanza di comando.
Avviene lo sbandamento dei militari, il concreto esautoramento e il dissolversi delle figure di comando, la comprensione che i vecchi alleati diventavano i nuovi invasori, l’avvio di una vendetta per parte tedesca che sarebbe durata fino alla conclusione della guerra e che si sarebbe esercitata in prima battuta contro l’esercito ed immediatamente dopo contro la stessa popolazione.
Vi è come una linea di continuità tra date diverse: il periodo tra settembre e novembre del 1938, con l’emanazione e l’introduzione dei provvedimenti legislativi e amministrativi meglio conosciuti come “leggi razziali”, che segnarono la radicalizzazione del regime fascista; il 10 di giugno 1940, che segna l’entrata in guerra dell’Italia; il marzo del 1943 con i ripetuti scioperi, a carattere corale e con spiccata connotazione politica, nelle fabbriche del Nord; il 25 luglio 1943, con il ribaltone nel Gran Consiglio del fascismo, la caduta di Mussolini e l’eclissi del regime, l’abbandono e il tradimento che le classi dirigenti operarono nei confronti di coloro che avevano considerato sempre e solo come sudditi.
La fuga del re e dei suoi più stretti collaboratori, preceduta dalla scomparsa del fascismo-regime, l’abbandono al suo destino di Roma capitale per parte delle Forze Armate fu il totale fallimento di una politica di guerra faticosamente perseguita da Mussolini e dalla casa regnante.
Una varietà di reazioni ebbero reparti e uomini, chiamati dalla latitanza colpevole dei governanti alla scelta individuale: la resistenza o la resa, la collaborazione con i tedeschi o la fedeltà al re.
Da una parte vi è l’inettitudine e l’irresponsabilità di quanti erano alla guida politica e militare del paese, dal basso un esercito lasciato sì allo sbando, ma pronto in molti casi ad assumersi il peso delle scelte e, come nell’eccidio di Cefalonia o in tanti altri episodi, a pagarle fino in fondo. La reazione armata di questi militari si rivela una componente fondamentale della Resistenza italiana.
L’8 settembre è un vero e proprio spartiacque nella coscienza nazionale con episodi quali il rifiuto per parte delle nostre truppe di arrendersi all’ex-alleato, la reazione popolare contro la presenza tedesca in Roma, negli stessi giorni – soprattutto a Porta San Paolo, dove si ebbero scontri armati tra paracadutisti germanici e elementi militari e civili nostrani.
Il rapporto che i tedeschi stabilirono con il nostro paese dopo l’8 settembre fu l’asservimento della popolazione civile, lo sfruttamento e la rapina sistematica delle risorse e l’eliminazione fisica degli individui presi in ostaggio in totale spregio di qualsivoglia residuo diritto.
Due gli schieramenti che si formarono, interni alla guerra che era in atto nella nostra penisola: i neofascisti repubblichini da un lato, i partigiani dall’altro.