4 Novembre
Giorno dell'Unità d'Italia e Festa delle Forze Armate
Il 4 novembre del 1918, il giorno della Vittoria dell’Italia sull'Austria nella Prima guerra mondiale, simbolicamente si completò il processo dell'unificazione italiana. Un processo lungo e difficile, che aveva avuto i suoi albori con l'età napoleonica e si era sviluppato attraverso cospirazioni, movimenti politici, moti rivoluzionari e guerre. Dagli otto stati pre-unitari nasceva una nazione indipendente. Dai moti del 1820-21 a quelli del 1831, dalle insurrezioni del 1848 alla campagna dello stesso anno ed a quella dell'anno successivo, poi la II Guerra d'Indipendenza, i plebisciti, la spedizione dei Mille, l'Esercito Meridionale, l'intervento nelle Marche e nell'Umbria fino alla proclamazione del Regno d'Italia nel 1861. E poi i successivi tasselli per completare l'unità, con la guerra del 1866 e la presa di Roma. La Prima guerra mondiale diventa quindi la tappa conclusiva dell’unità dell’Italia. E per questo il 4 novembre è stato scelto come giorno in cui si celebrano le Forze armate e appunto l’Unità della nazione. I numeri della Prima guerra mondiale furono questi: oltre 5 milioni di mobilitati, di cui oltre 4 milioni assegnati all'esercito, 680.000 caduti, 270.000 mutilati, un milione di feriti, 600.000 prigionieri, 64.000 dei quali morti per stenti in mano nemica. Nato come "festa della Vittoria", con il tempo il 4 Novembre è diventato "Giorno dell'Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate" ».
Anniversario di Vittorio Veneto
“Vittorio Veneto” è la località nei cui pressi si svolse l'ultimo scontro armato tra Italia e impero austro-ungarico durante la prima guerra mondiale, con la vittoria dell'esercito italiano e segnò la fine della guerra sul nostro fronte.
Nel 1914 l'Europa appariva ormai come una polveriera sul punto di esplodere, ma l'opinione pubblica europea sembrava del tutto inconsapevole del pericolo imminente.
Sarebbe bastata una piccola scintilla - il 28 giugno del 1914, l'assassinio a Sarajevo in Serbia dell'erede al trono degli Asburgo, l'arciduca Francesco Ferdinando, e di sua moglie - per innescare il grande incendio della prima guerra mondiale.
L'Europa nel 1914 risultava divisa in due schieramenti contrapposti che facevano capo ad altrettante alleanze militari: la Triplice Intesa e la Triplice Alleanza. La prima vedeva l'adesione di Francia, Inghilterra e Russia; la seconda quella di Germania, Austria e Italia. Le aree di maggior tensione nello scenario europeo erano: l'Alsazia-Lorena tra Francia e Germania, il Trentino e la Venezia-Giulia tra Italia e Austria. Ma la vera zona calda erano i Balcani, verso i quali si concentravano le mire espansionistiche delle grandi nazioni.
Le dichiarazioni di guerra: Austria contro Serbia (28 luglio 1914), Germania contro Russia (1° agosto 1914), Germania contro Francia (3 agosto 1914), Gran Bretagna contro Germania (4 agosto 1914), Austria contro Russia (6 agosto 1914), Francia contro Austria (11 agosto 1914), Gran Bretagna contro Austria (12 agosto 1914).
Dopo alcuni mesi dall'inizio della guerra il conflitto si estende a buona parte dell'Europa, coinvolgendo anche paesi extra-europei come il Giappone. A scendere in guerra a fianco degli Imperi centrali furono Impero ottomano e Bulgaria, mentre con l'Intesa si schierarono Grecia, Romania e, nel 1915, l'Italia.
Quei fatidici quindici giorni dell'estate del 1914, che segnarono l'avvio e il dilagare delle ostilità, sarebbero rimasti impressi nella memoria degli europei.
Il 1914 rimane una data che marca profondamente la storia del mondo ed ecco perché il primo conflitto mondiale viene correntemente definito la Grande Guerra: iniziava in quel momento un processo destinato a cambiare il destino non solo delle popolazioni del vecchio continente, ma anche dei popoli colonizzati nel resto del pianeta.
la "Grande" Guerra
Nel novembre 1918 fa finiva la prima guerra mondiale. Nel mondo niente era più come prima della guerra. All’est la rivoluzione bolscevica aveva trionfato, la Germania era in ginocchio, l’Austria-Ungheria era scomparsa, nasceva una nuova Europa con nuovi paesi: gli Stati baltici, la Polonia, la Cecoslovacchia; a sud l’impero ottomano era disintegrato, ad ovest la Francia aveva ripreso l’Alsazia e la Lorena, passavano all’Italia il Trentino-Alto Adige e Trieste.
Più di 9 milioni di uomini avevano perso la vita sui campi di battaglia.
La guerra in Europa, iniziata nell’estate 1914, è stata la prima "guerra totale" che aveva opposto diverse nazioni, coinvolgendo le forze economiche.
Una guerra totale è una guerra dove la distinzione tra militari e civili tende a ridursi e dove i civili ci vanno di mezzo come i soldati. Certo le atrocità commesse dalle truppe tedesche in Belgio e nel nord della Francia nell’estate del 1914 o ancora i bombardamenti di Reims sono diverse da quelle di Hiroshima e della distruzione di Desdra, ma la differenza tra le due guerre mondiali è una differenza di scala, dovuto ai limiti della tecnologia. Se i tedeschi avessero disposto di più “Grande Bertha”, i Parigini avrebbero sofferto di più. D’altro canto il genocidio degli Armeni preannuncia in un certo senso quello degli Ebrei.
Una novità della prima guerra mondiale é la nozione del "fronte". Nel XIX secolo le guerre erano fatte da armate in movimento. La guerra, 1914-1918, all’inizio era come quelle dell’800, con delle armate mobili che si cercano, ma nel giro di qualche settimana, il fronte si stabilizza su centinaia di chilometri.
Si ha dapprima la trincea, che è la conseguenza di questa guerra di "fronte". Poi entra in gioco l’artiglieria: la novità sta nell'uso massiccio dell'artiglieria.
Nessuna guerra nella storia aveva avuto un tale impiego esagerato di artiglieria: nella battaglia di Verdun (su un fronte di 17 Km di lunghezza e 3 di laghezza) è caduto un obice di grosso calibro (105 mmm o più) su ciascun metro quadrato. Per trasportare un così ingente quantitativo di munizioni erano stati necessari 872 treni e 26.000 vagoni. L’artiglieria distrugge tutto e stravolge completamente il paesaggio.
Alcune innovazioni fanno di questa guerra la prima guerra industriale: le mitragliatrici, i gas, i lanciafiamme, ma anche i carri armati, i sottomarini e gli aeroplani, con i quali si entra veramente nel XX secolo.
La morte in massa non si era mai vista prima: i morti raggiungeranno la cifra di 9.400.000, di cui 1.397.000 in Francia (pari a una media di 829 morti al giorno nei 1560 giorni di guerra), a cui si devono aggiungere altrettanti feriti e prigionieri, la maggior parte catturati nel 1914 e a Verdun). In Italia i morti furono 578.000 (mediamente 460 morti al giorno in 1258 giorni di guerra).
Con la prima guerra mondiale si entra nell’era della violenza industriale, di una violenza cieca. La guerra del 1914-1918 è una guerra dove è raro che si uccida guardandosi negli occhi. La “pulizia delle trincee” sicuramente é esistita, ma resta marginale in quanto l’arrivo dei soldati in una trincea nemica è preceduto da una tale preparazione dell’artiglieria che gli uomini, di fatto, sono già morti o non sono in grado di opporre resistenza.
Nel 1918 il mondo non assomiglia più a quello del 1914: la principale conseguenza della Grande Guerra è lo spostamento del centro di gravità dell’economia mondiale dall’Europa verso gli Stati Uniti d’America. Nel 1914 l’Europa era il banchiere del mondo; nel 1918 non più. Per finanziare la guerra i paesi europei si erano indebitati: ormai Wall Street supera la City di Londra o la borsa di Parigi.
Gli Stati Uniti d’America erano entrati in guerra contro la Germania nell’aprile del 1917, al fianco dell’Intesa: per questo intervento fu ristabilita la coscrizione obbligatoria che era stata abolita dopo la guerra di secessione (1861-1865) . I soldati americani arrivarono in massa sul continente europeo: 300.000 nel marzo 1918, un milione nel mese di luglio, il doppio alla vigilia dell’armistizio. 114.000 caddero sui campi di battaglia.
Oltre all’apporto dei militari statunitensi alla vittoria dell’Intesa, non va dimenticato l’aiuto americano nel campo economico: durante la guerra, gli alleati ricevettero materie prime, alimenti, macchine utensili, materiale ferroviario, benzina.
(Liberamente tratto da un’intervista al prof. Antoine Prost, insegnante alla Sorbona di Parigi, esperto in Storia dell’Educazione e di Storia sociale)
La Grande Guerra: una guerra totale
1918 – 2024. A 106 anni dalla fine della “Grande Guerra” , riportiamo alcune considerazioni di Marcello Flores sulla prima Guerra mondiale, tratte dal suo libro “Il genocidio degli Armeni”.
La “Grande Guerra” è la prima guerra “totale”, che anticipa, prefigura e apre la strada alle violenze più drammatiche dell'intero XX secolo.
Quando la guerra del 1914 non riuscì a produrre rapidamente un risultato, quando diventò una forma di guerra d'assedio tra potenze industriali i cui domini si estendevano da un capo all'altro del pianeta, questa si trasformò in un altro tipo di guerra, più grande, più letale e più corrosiva di qualsiasi conflitto precedente. È a questa nuova tipologia di guerra che si applica propriamente l’etichetta di «guerra totale».
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C’è larga convergenza tra gli storici, ormai, sul carattere di cesura epocale rappresentata dalla prima guerra mondiale.
In poco più quattro anni muoiono nove milioni di persone, quasi tutte fra i venti e i trent'anni, tanto che si darà il nome di «generazione perduta» ai giovani nati nell'ultimo decennio dell'Ottocento e che erano entrati nell'adolescenza mentre il mondo festeggiava con fiducia l'ingresso nel XX secolo.
È un risultato che nessuno, neppure i più pessimisti, aveva minimamente ipotizzato, mentre era largamente diffusa, in entrambi gli schieramenti, la convinzione che il conflitto sarebbe stato breve.
Le intere economie dei paesi in guerra si piegano alle necessità militari, la mobilitazione della società perché partecipi allo sforzo bellico è continua e si cerca di ottenerla con la forza della propaganda e dell'infiammazione patriottica o, quando entrambe si dimostrano inefficaci, con irreggimentazione e la disciplina coatta, la limitazione delle libertà e la minaccia della repressione.
Se questo avviene nelle democrazie più evolute - dove ogni principio, interesse, istituzione sono subordinati al «valore» dell’efficacia bellica -la situazione negli Stati autocratici o semidittatoriali è ancora più drammatica, in modo particolare e tragico per le minoranze nazionali, considerate in blocco inaffidabili e pericolose.
Il ruolo e il peso dei militari nelle decisioni politiche si accompagna alla creazione di un clima plumbeo nell'intera vita sociale e culturale. L'amor di patria si presenta spesso con caratteristiche del sacrificio convinto e accettato delle proprie e altrui libertà.
Siamo di fronte, come è stato ripetuto più volte e come è orma quasi diventato un luogo comune che non suscita particolare emozione, alla prima guerra “totale”, che anticipa, prefigura e apre la strada alle violenze più drammatiche dell'intero XX secolo.
È l’intreccio della produzione industriale con la società di massa a generare un nuovo tipo di guerra, anche se la guerra totale non è mai letteralmente totale. È «totalizzante» nel senso che, quanto più si prolunga, tanto più cresce l'ammontare delle risorse umane e materiali inesorabilmente inghiottite nel suo vortice.
Quando la guerra del 1914 non riuscì a produrre rapidamente un risultato, quando diventò una forma di guerra d'assedio tra potenze industriali i cui domini si estendevano da un capo all'altro del pianeta, questa si trasformò in un altro tipo di guerra, più grande, più letale e più corrosiva di qualsiasi conflitto precedente. È a questa nuova tipologia di guerra che si applica propriamente l’etichetta di «guerra totale».
Il primo anno di guerra si dimostra il più costoso, in termini di vite umane e di battaglie sanguinose, perché entrambi gli schieramenti sono ancora convinti della possibilità di vincere rapidamente il conflitto.
Le regole di guerra, che pure in passato non avevano certo impedito spargimento di sangue e inutili carneficine, sembrano cambiate per sempre.
Il fatto che circa la metà degli uomini tra i diciotto e i quarantanove anni fosse coinvolta nella guerra e che la mobilitazione raggiungesse l'80 per cento di quella fascia l'età - il cuore pulsante e produttivo di ogni nazione - spiega adeguatamente il sentimento di novità - speranza prima e paura dopo - che accompagna il conflitto.
La percentuale dei morti, al termine, fu ancora più impressionante. Più di un serbo su tre che aveva indossato l'uniforme venne ucciso, e per bulgari, rumeni e turchi la percentuale fu di uno su quattro, per tedeschi e francesi di uno su sei e per gli italiani e per gli inglesi di uno su otto.
L'ingresso in questo che si sarebbe dimostrato un massacro collettivo fu accompagnato all'inizio da una mobilitazione in gran parte spontanea ed entusiasta. La volontà bellica degli alti comandi e di non pochi politici fu rafforzata dalla spinta dal basso che ebbe la partecipazione alla guerra, l'entusiasmo patriottico per entrarci, il disprezzo e l'oltraggio per chiunque mostrasse qualche ragionevole dubbio o auspicasse la pace o la neutralità.
Il processo di demonizzazione del nemico, che costituisce uno degli aspetti salienti della guerra mondiale, rende particolarmente virulento il concreto scatenamento di quell' educazione all'odio che i diversi nazionalismi stavano diffondendo da anni in ogni paese.
È la guerra che crea le condizioni perché un sentimento come l’odio nazionale, etnico e razziale - più o meno presente ad ogni latitudine - possa trasformarsi in massacri e crimini di guerra e sia capace di innalzare oltre misura il livello di tolleranza alla violenza delle popolazioni coinvolte.
Nel contesto del conflitto ogni gruppo nazionale o etnico si sente - ed è realmente, visto che la guerra coinvolge e sconvolge tutti - vittima, ed è incapace di guardare alla realtà altrimenti che con il filtro del nazionalismo, del proprio interesse collettivo o della propria paura.
Bibliografia:
Marcello Flores – Il genocidio degli Armeni – Società Editrice il Mulino
La Grande Guerra, “immenso impero regno della morte”
Le ricorrenze, quando non sono occasioni vuote o retoriche, possono servire da stimolo al ricordo e alla riflessione.
Costretti a morire per quella che papa Benedetto XV nel 1917 aveva definito "Un'inutile strage"
Ad centodieci anni dall'inizio della Prima guerra mondiale, l’orrore racchiuso nei numeri a cinque zeri, riguardanti le vittime i cui nomi restano, in ogni piccola frazione, incisi sui gelidi monumenti ai caduti, sembra dissolversi in una dimensione della memoria dai contorni sfuocati; come se quella tragedia in bianco e nero appartenesse alla storia di un altro pianeta, nonostante che abbia investito violentemente il passato di ogni famiglia e comunità, segnando l’esistenza di milioni di individui risucchiati dentro quello spazio estremo che nel 1917 un caporale dei bersaglieri di Asti definì «immenso impero, regno della morte», venendo condannato a due mesi di carcere per lettera denigratoria.
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smitizzare il mito della Prima Guerra Mondiale
«Ogni due o tre generazioni, quando la memoria si indebolisce e gli ultimi testimoni dei massacri precedenti scompaiono, la ragione si offusca e degli uomini ricominciano a diffondere il male». (Olivier Guez)
Il 4 novembre 1918, in Italia finiva la prima guerra mondiale.
A “Vittorio Veneto” si svolse l'ultimo scontro armato sul nostro fronte, tra Italia e impero austro-ungarico, con la vittoria dell'esercito italiano.
La prima guerra mondiale è conosciuta anche con il termine di “Grande Guerra” perché così apparve alle popolazioni che vi si trovarono coinvolte. Fu una guerra “Grande” non solo per estensione dei fronti e per numero degli stati coinvolti: mai prima c'erano stati tanti soldati in trincea, tante armi in dotazioni agli eserciti, tante industrie impegnate a sostenere lo sforzo bellico.
Quella carneficina insanguinò l’Europa, un’Europa che, dalla sua fondazione negli anni Cinquanta, ci ha consentito di vivere anni di pace; un’unità europea che ora è minacciata dal rinascere dei nazionalismi, nazionalismi che furono una delle cause della Grande Guerra.
Benché avesse fatto parte della Triplice Alleanza, con la Germania e l’Austria-Ungheria fino allo scoppio del conflitto e fosse entrata in guerra contro i suoi ex alleati, l’Italia fu tra i vincitori della Prima Guerra mondiale.
Per avere un’idea della dimensione di quel conflitto che stravolse il mondo dal 1914 al 1918, caratterizzato da una violenza senza precedenti, si devono citare dei numeri: i numeri non hanno un’anima, ma quelli della guerra contengono tutto il dolore degli uomini.
Le cifre sono implacabili: complessivamente 9,7 milioni di uomini trovarono la morte, circa due milioni di tedeschi, un milione e ottocento mila russi, un milione e quattrocentomila francesi, un milione e centomila austroungarici, 885.000 britannici, 650.000 italiani e 116.000 americani e tanti di altri stati belligeranti.
20 milioni furono i feriti (12 milioni per i paesi dell’Intesa e 8 milioni per quelli della Triplice Alleanza).
L’Italia ebbe un milione di feriti, tra cui 500.000 mutilati, 74.620 storpi, 21.200 rimasti senza un occhio, 1.940 senza occhi, 120 senza mani, 3260 muti, 6.760 sordi, invalidi la cui vita fu definitivamente spezzata.
I civili che persero la vita raggiunsero la considerevole cifra di 8,9 milioni.
Dal 1915, a causa di ogni sorta di penuria, la vita diventò difficile in Europa.
In tutte le nazioni coinvolte nel conflitto, le donne, incoraggiate dalla propaganda ufficiale, sostituirono gli uomini, partiti per il fronte, nelle loro occupazioni professionali d’anteguerra.
La durata del lavoro aumentò, le condizioni igieniche si degradarono, i bisogni per il riscaldamento diventarono insoddisfacenti e le epidemie aumentarono di intensità.
La tubercolosi, malattia legata alla degradazione delle condizioni di vita, ancora virulenta all’inizio del XX secolo, guadagnò terreno in tutta Europa.
Le malattie veneree aumentarono anch’esse di intensità a causa delle numerose truppe sui territori dei paesi belligeranti, creando preoccupazioni sull’avvenire delle future generazioni.
Nel 1918 scoppiò una gigantesca epidemia di influenza spagnola che agendo su organismi indeboliti, fece circa 20 milioni di morti nel mondo.
350.000 furono gli italiani morti di spagnola, 500.000 se si considerano le complicazioni legate all’influenza.
Alla fine delle ostilità si contarono circa 7,5 milioni di soldati prigionieri e dispersi.
La Prima guerra mondiale generò un fenomeno inedito nella storia dei conflitti: 4,2 milioni di vedove. Il numero degli orfani si aggirò sugli 8 milioni.
La fine della guerra vide una pace precaria e un’Europa destabilizzata: il carattere radicale dei trattati conclusi con gli imperi centrali, in piena disintegrazione, generò dei sentimenti di rancore e di rivincita che faranno da substrato ai movimenti estremistici di sinistra e di destra.
La carta dell’Europa venne profondamente ridisegnata per la creazione di nuovi paesi, come la Polonia, la Cecoslovacchia, il regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, nocciolo della futura Jugoslavia.
I ritagli territoriali produssero grandissimi spostamenti di popolazioni e un numero considerevole di rifugiati.
Le perdite in vite umane durante la guerra produssero anche un deficit di natalità.
Le economie dei paesi belligeranti uscirono devastate dalla guerra. L’inflazione subì un’impennata catastrofica.
L’Italia, firmataria dei trattati con gli imperi centrali vinti, rimase delusa dei compensi territoriali ottenuti. Gabriele D'Annunzio coniò il termine “vittoria mutilata”, definizione che diventò un vero e proprio mito politico. All’Italia resterà un sentimento di amarezza e di frustrazione che in parte sarà la causa dell’ascesa del fascismo di Mussolini.
Appena conclusa la guerra, prese il via una sorta di “frenesia commemorativa” fatta di monumenti ai caduti, grandi sacrari militari, fino alla trasformazione del Vittoriano in monumento al Milite Ignoto. In un primo momento la necessità dell’elaborazione del lutto, anche collettiva, da parte dei famigliari e degli amici delle vittime ha avuto un ruolo importante, e lapidi e monumenti ai caduti hanno svolto anche questa funzione. Ma subito dopo, e in particolare dopo la presa del potere da parte del fascismo, è stata attuata una vera e propria “politica della memoria” per costruire una sorta di religione della patria fondata sul “sacrificio eroico” dei soldati.
A partire dal 1928, poi, il regime iniziò la progettazione e la costruzione di grandi monumenti e sacrari nazionali. Il sacrario militare di Redipuglia è l’emblema di questo uso politico della morte e della memoria: 22 giganteschi gradoni di marmo bianco, che contengono le spoglie di oltre 100mila soldati, su ciascuno dei quali è scolpita ossessivamente la parola «Presente», come nel rito dell’appello durante i funerali o le commemorazioni dei cosiddetti “martiri fascisti”.
Demistificare la narrazione apologetica e celebrativa della Prima guerra mondiale significa porre le basi per creare una più solida coscienza critica non solo del perché fu orrore quella guerra, ma di come lo sono state anche altre guerre.
Bibliografia:
AA. VV.- La guerre des affiches - Editions Prisma Paris 2018
Aldo Cazzullo - La guerra dei nostri nonni. 1915-1918: storie di uomini, donne, famiglie – Mondadori 2017
Valerio Gigante, Luca Kocci, Sergio Tanzarella - La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla I guerra mondiale - Ed. Dissensi, Viareggio 2015
La crisi del 1929
Il 24 ottobre 1929, i titoli della Borsa di New York crollano, provocando un crac che è il più doloroso della storia.
Il “martedì nero”
Dovuta ad una speculazione sfrenata, l’aumento dei titoli accelera dal 1927. Culmina il 19 settembre 1929 e s’innesca una svolta il 3 ottobre. Le transazioni quotidiane di Borsa sono in media circa 4 milioni di titoli, mentre il 24 ottobre sono venduti 13 milioni di titoli. L’intervento immediato delle grandi banche limita tuttavia il ribasso dei titoli, ma il sogno di un arricchimento illimitato si allontana. Lo choc decisivo avrà luogo il “martedì nero” il 29 ottobre: 16 milioni di titoli sono venduti e i titoli affondano; l’eccessiva fiducia derivante dalla prosperità del dopoguerra è sostituita da un’ondata di panico che fa piombare l’America nel pessimismo.
«Come guadagnare un milione di dollari alla Borsa di New York? Semplice, è sufficiente investirne due!».
Questa battuta circola dopo il crollo del mercato dei titoli il 24 e il 29 ottobre 1929, ma gli Americani non sono in vena di ridere. Ancora i più ottimisti, come il loro Presidente repubblicano Hoover, credono che si tratti di una semplice recessione e che “la prosperità si trovi dietro l’angolo“. Al contrario, il crollo della Borsa provoca una crisi senza precedenti, con una serie di effetti domino: fallimento di molte banche, diminuzione dei consumi, difficoltà alle industrie, disoccupazione, che a sua volta, alimenta la depressione, riducendo in modo catastrofico i redditi di milioni di potenziali investitori. Peggio, l’onda di choc, nata negli Stati Uniti, si propaga dappertutto dove gli investitori americani avevano piazzato i fondi brutalmente ritirati. La Grande Depressione rivela così la complessità del moderno capitalismo internazionale.
Il 29 ottobre 1929, detto il “martedì nero“ il panico si impadronisce della Borsa di New York e 13 milioni di titoli cambiano di mano. Cinque giorni dopo, il crollo è confermato dalla vendita di 6 milioni di titoli. Gli Stati Uniti cadono nella crisi trascinando il mondo con loro.
Il New York Times dedica la sua prima pagina della sua edizione del 30 ottobre 1929 al crollo nazionale: il rialzo speculativo delle quotazioni che avviene tra il 1926 e il 1929 è annullato in cinque giorni. Benché non tocchi più di un milione di Americani (su una popolazione di 123 milioni), il crollo borsistico ha un impatto considerevole sul piano psicologico. La crescita cieca in un avvenire economico radioso è spazzata via.
L’America sotto choc
Molto rapidamente la recessione tocca il sistema bancario; il ritiro massiccio effettuato dai risparmiatori fa fallire 640 banche nel 1929. L’anno seguente 1300 e più di 2200 nel 1931. Questa brutale paralisi del credito blocca tutti gli investimenti e frena i consumi. La caduta delle vendite accresce gli stock e fa crollare i prezzi: diversi industriali sono rovinati. Dal 1929 al 1932, la produzione americana diminuisce del 46 per cento.
La chiusura delle industrie provoca un tasso di disoccupazione fino ad allora sconosciuto. Il 3% degli attivi nel 1929, il 24% nel 1932.
I colletti blu, - gli operai – per primi, poi i colletti bianchi – gli impiegati e i quadri delle classi medie – perdono il lavoro. Non beneficiando di alcun aiuto piombano nella miseria. Non sono i soli.
Le quotazioni agricole si abbassano della metà durante lo stesso periodo; gli agricoltori, incapaci di pagare i loro debiti, emigrano in California.
Lo choc sociale si ripercuote sulla vita politica: la distruzione delle derrate deperibili, quando milioni di persone soffrono la fame, la nascita di bidonville, ribattezzate “hoverville” dove abitano famiglie una volta agiate, incitano gli elettori a respingere i discorsi del presidente repubblicano, il cui indefettibile ottimismo sembrava molto inadatto alla gravità della situazione.
Nel novembre 1932, Hover cede il posto al democratico Franklin Delano Roosevelt. Contrario ad idee preconcette, questi non ha dei programmi ben definiti né soluzioni miracolose per ristabilire la situazione, ma si impegna tuttavia – questa è un’innovazione – a far intervenire lo Stato nella vita economica.
La depressione del mercato americano tocca rapidamente il Giappone e l’America latina; le loro esportazioni crollano e sono costretti a stabilire un controllo sui cambi a partire dal 1930.
Nello stesso anno il marasma arriva nell’Europa centrale. Il ritiro massiccio dei capitali americani provoca il fallimento di numerose banche che avevano spesso investito a lungo termine le somme di denaro a loro disposizione.
Anche se Hover aveva proposto, per la durata di un anno, la moratoria della riparazione dei danni di guerra dovuti dalla Germania, tuttavia la Germania mise ugualmente, nel luglio 1931, il controllo dei cambi, quando ormai l’orizzonte politico è oscurato dall’accresciuto seguito dei partiti estremisti.
Due mesi più tardi, vista la rapida riduzione della giacenza di oro nelle sue casse, il Regno Unito sospende la convertibilità della lira sterlina, che perde quasi il 30% del suo valore. Quaranta paesi seguono questa svalutazione e formano la “zona sterling”; i prodotti britannici diventano così più competitivi, ma la crisi si estende in tutta l’Europa occidentale e ai suoi fornitori africani o asiatici. Solo l’Unione Sovietica sembra sfuggire al disastro: la collettivizzazione nelle campagne è in pieno sviluppo, la pianificazione industriale ed agricola è esaltata dalla propaganda staliniana, che vuole dimostrare, per mezzo delle statistiche, la superiorità del sistema comunista su un capitalismo senza scampo.
La produzione industriale del globo conosce una diminuzione eccezionale: nel 1929, 120 milioni di tonnellate di acciaio escono dagli altoforni, contro i 50 milioni di tre anni dopo. Le industrie dei beni di consumo sono colpite di riflesso. 1,9 milioni i veicoli fabbricati nel 1932 contro i 6,3 milioni nel 1929.
La disoccupazione esplode; il numero dei disoccupati nei paesi industrializzati è valutato sui 30 milioni nel 1932, di cui 12 milioni di Americani (il 24% della popolazione attiva) e più di 6 milioni di Tedeschi il 17% della popolazione attiva).
Ad eccezione della Gran Bretagna, dove dal 1908 è stato introdotto un sussidio di disoccupazione, gli aiuti ufficiali sono pressoché inesistenti; gli altri paesi sopperiscono come possono alla miseria improvvisa. Molti disoccupati sono costretti a mendicare e sopravvivono unicamente grazie alle mense popolari e ai dormitori.
Una superproduzione agricola fa cadere le quotazioni di oltre la metà o più; ciò spinge a distruggere le scorte con grande scandalo per chi soffre la fame: i Brasiliani utilizzano il caffè invenduto come combustibile per le locomotive a vapore.
Una parte della società trae profitto dagli sconvolgimenti economici: così i risparmiatori vedono aumentare il loro potere d’acquisto man mano che i prezzi diminuiscono; i proprietari di terreni o di immobili beneficiano di un aumento reale delle rendite. Il periodo è nello stesso tempo favorevole a chi conserva il proprio lavoro poiché i salari diminuiscono meno rapidamente dei prezzi. Ma queste disuguaglianze attirano la collera contro i governanti: i regimi parlamentari sono minacciati dal sorgere di movimenti estremisti (partito nazista e comunista in Germania), formazioni di tipo fascista in Europa centrale, leghe in Francia.
Per gli economisti liberali il solo modo di favorire la ripresa è di risanare l’economia con dei rimedi classici: riduzione delle spese pubbliche per ristabilire l’equilibrio del bilancio, la difesa della parità monetaria accompagnata da una diminuzione dei prezzi e dei salari per rilanciare le esportazioni (deflazione).
La deflazione è combattuta con vigore da un economista inglese, John Keynes, autore della “Teoria generale del lavoro, dell’interesse e della moneta”. Apparsa nel 1936, quest’opera attribuisce la crisi ad una insufficienza della domanda. I disoccupati sono costretti a consumare meno, questo aggrava le difficoltà dell’industria. Per uscire da questo circolo vizioso, lo Stato ha un ruolo fondamentale da giocare, con il ricorso sistematico al deficit di bilancio, alla diminuzione del tasso d’interesse e, se necessario alla svalutazione.
Conosciute dopo la loro pubblicazione, le idee di Keynes ispirano in parte le politiche economiche delle democrazie: nel 1934 Roosevelt svaluta il dollaro, instaura un deficit di bilancio e mette in moto una politica di grandi lavori pubblici per assorbire la disoccupazione.
La risposta migliore alle difficoltà del momento sembra venire dalle dittature, che basano il rilancio sul riarmo, sull’esclusione dal mondo del lavoro delle donne e sull’autarchia.
Dei successi spettacolari, amplificati dalla propaganda, rasentano dei fallimenti lampanti: l’industria tedesca del 1936 supera quella del 1929, ma l’agricoltura non è autosufficiente. La massa dei disoccupati è quasi interamente riassorbita, tuttavia il Paese è sottomesso al terrore, mentre il riarmo indica la volontà dei dirigenti di conquistare uno “spazio vitale” con la forza.
Le scelte dell’Italia di Mussolini vanno in questa direzione: lo Stato controlla un’ulteriore parte dell’economia, esalta l’autarchia, procede alla bonifica delle terre per uso agricolo, come la celebre “battaglia del grano”. La conquista dell’Etiopia è conclusa nel 1935 e 1936; in quest’occasione, l’avversione inglese e l’indecisione francese creano delle ostilità con le democrazie occidentali e spingono così il Duce nelle braccia di Hitler.
La dittatura militare giapponese impone dal 1931 un protettorato sulla Manciuria, ricca di minerali, prima di attaccare la Cina nel 1937. La ripresa economica del Giappone, favorita dalla caduta dello yen, si orienta verso le industrie strategiche.
L’arretramento generale delle economie suscita delle guerre commerciali e monetarie che non migliorano le relazioni internazionali. Dal 1930 gli Stati Uniti aumentano i loro dazi doganali più del 50%; nel 1932, la Gran Bretagna interrompe un secolo di libero scambio per il protezionismo. In base agli accordi di Ottawa, stabilisce dei rapporti di preferenza con il Commonwealth, cioè i territori dell’impero britannico.
La Francia agisce allo stesso modo con le colonie e contingenta le sue importazioni.
La Germania e l’Italia si proclamano “nazioni proletarie” e cercano di essere autosufficienti. In un tale contesto, il valore degli scambi commerciali si riduce di due terzi e il volume totale diminuisce del 30% tra il 1929 e il 1932. A tutto ciò si aggiunge una divisione delle nazioni in aree monetarie: la “zona sterling” esiste dal 1931; l’influenza del dollaro si estende al Canada e all’America latina; il marco domina tutta l’Europa centrale e fin al 1936, l’Unione latina (o “blocco oro”) raggruppa i paesi che si rifiutano di svalutare (Francia, Italia, Belgio, Svizzera, Polonia e Olanda).
Al di là dei suoi effetti destrutturanti immediati, la crisi del 1929 segna la fine del liberalismo economico, di cui i teorici non hanno saputo prevedere ne guarire i danni: molti di loro hanno voluto credere che la crisi si sarebbe assorbita spontaneamente. L’intervento regolatore dello Stato si attua in modo empirico, ben prima di essere legittimato dall’analisi di Keynes. I contemporanei assistono così all’apparizione dello Stato-previdenza: i poteri pubblici aiutano le industrie in difficoltà, combattono l’aggravarsi del disagio degli agricoltori e soccorrono i disoccupati. In modo paradossale i gravi problemi dell’economia capitalista conducono alla realizzazione di una legislazione sociale molto spinta. La crisi del 1929 ha così contribuito a mettere a punto un nuovo capitalismo che trionferà dopo il 1945, che associa la libera impresa, il ruolo in economia dello Stato e la solidarietà sociale.
28 ottobre 1922
Il 23 marzo 1919, a Milano in un locale al primo piano di Piazza San Sepolcro, nasceva il movimento dei "Fasci italiani di Combattimento", destinato a diventare poi il P.N.F. (Partito Nazionale Fascista). Quel giorno passò alla storia per la nascita del fascismo ed anche per la nascita dello squadrismo.
Dopo pochi giorni, gli arditi di Ferruccio Vecchi, colui che aveva presieduto la riunione dei "Sansepolcristi", aggredirono un corteo socialista e incendiarono la redazione dell' "Avanti" nel centro di Milano.
Il 24 ottobre 1922 a Napoli si tenne una massiccia adunata di squadre fasciste, alle quali Mussolini annunciò il proposito di calare su Roma se entro poco tempo non gli fosse stato affidato il governo dell'Italia. Mentre il capo del governo Facta si dimetteva il 26 Ottobre, le squadre con la complicità di prefetti e sindaci bloccarono molti uffici pubblici e ferrovie, nonostante fossero mal armate rispetto all'esercito. Occuparono e si ammassarono in città come Civitavecchia, Mentana e Tivoli, ma le loro condizioni si facevano abbastanza precarie: mancavano viveri, le armi erano spesso insufficienti o non adatte.
Il re decise inizialmente la mobilitazione militare: Mussolini fu anche arrestato dal prefetto, ma il sovrano, temendo una guerra civile e la fine del suo regno, all'improvviso mutò atteggiamento non firmando il proclama di stato d'assedio del 28 Ottobre proposto da Facta. Mussolini che si era previdentemente ritirato a Milano (a pochi chilometri dalla neutrale Svizzera, possibile rifugio in caso di fallimento...), e da lì rifiutò anche le ultime mediazioni. Vittorio Emanuele sotto la spinta dei maggiori esponenti della classe industriale affidò la sera del 29 il compito di formare un nuovo governo a Benito Mussolini.
La marcia su Roma del 28 ottobre 1922 fu un evento che simbolicamente rappresenta l'ascesa al potere del Partito Nazionale Fascista (PNF), attraverso la nomina a capo del governo del Regno d'Italia di Benito Mussolini.
Dall’ottobre 1922 l’Italia è governata da Benito Mussolini, a cui il re Vittorio Emanuele III aveva dato l’incarico dopo la marcia su Roma.
il primo Consiglio dei Ministri del ministero Mussolini
La scuola italiana nell’ottobre 1922
La scuola italiana appariva, alla vigilia dell'ascesa del fascismo al potere, in preda ad una grande confusione, mentre da più parti si chiedeva un cambiamento sostanziale di tutto l'ordine scolastico ed educativo. Tanti erano i dibattiti, le proposte, ma alla fine i tentativi di riforma, ultimo quello di Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione tra il 1920 e il 1921, erano sempre falliti, per l'opposizione di questa o quell'altra forza.
Il 28 ottobre del 1922 era un sabato. Le scuole erano aperte da quasi un mese, ma in molte città italiane, Milano, Torino, Bologna, Ferrara e Roma, i giorni di effettiva lezione non erano stati molti. Le violenze fasciste nei confronti di persone e sedi dei partiti avversari e dei loro giornali, avevano consigliato i genitori, al minimo sentore di disordini, di tenere i figli a casa. In molte scuole quel 28 ottobre mancavano anche molti maestri e professori pendolari, impossibilitati a raggiungere il posto di lavoro per la quasi totale paralisi delle ferrovie.
Nella capitale si temeva, più che in ogni altra città, la guerra civile, lo scontro tra i 28 mila soldati in assetto di guerra e i 25 mila fascisti armati che stavano giungendo da ogni parte d'Italia per operare il colpo di Stato con la cosiddetta “marcia su Roma”.
Benito Mussolini, convocato dal re con un telegramma, “marciò” in treno, approfittando di uno spiraglio nello sciopero dei ferrovieri, giungendo a Roma da Milano, il 30 ottobre, in vagone letto, ghette chiare e bombetta, come da cerimoniale di Corte. Il re si era rifiutato di firmare il decreto per lo stato d'assedio. Mussolini, appena giunto a Roma, si dichiarò “fedele servitore” della monarchia. La formazione del governo fascista venne ufficialmente ratificata dal re Vittorio Emanuele III lo stesso giorno dell'arrivo di Mussolini a Roma, mentre gli squadristi fascisti imperversavano per la città distruggendo sedi di giornali e di partiti e bastonando giornalisti e deputati.
A Milano, il "Corriere della Sera" si era piegato di fronte alla minaccia di Mussolini che se il giornale fosse uscito a commentare la rivoluzione fascista avrebbe dovuto fare i conti con le sue squadracce. Era stato “autorizzato” ad uscire, invece, il giornale nemico, il socialista l’“Avanti!”, già devastato alcuni giorni prima, ma era solo una trappola: un alibi preventivo al sadico piacere di bruciarne, poi, le copie e completare la distruzione della sede del quotidiano.
Al ministero della Pubblica Istruzione venne chiamato il filosofo idealista Giovanni Gentile.
20 ottobre 1944: Milano, quartiere di Gorla
Il bombardamento aereo del 1944 distrusse la locale scuola elementare uccidendone tutti gli alunni e gli insegnanti.
Se sono scarse, sui giornali, le notizie dei bombardamenti, mancano del tutto servizi che spieghino alla popolazione cosa fare in caso di bombardamenti pesanti. La stampa su indicazione dell'apposito ministero, preferisce non affrontare l'argomento. Bisogna, contro ogni evidenza, che la gente sia convinta che tutto va, ancora, per il meglio. La “Domenica del Corriere” come l' “Illustrazione Italiana” non ospitano mai fotografie di macerie né tantomeno di cadaveri, ma soltanto immagini rassicuranti, di monumenti protetti da impalcature, muretti di mattoni e sacchi di sabbia.
Il tentativo di «minimizzare» acquista toni di inaudito cinismo nelle parole di alcuni commentatori. Su “Critica Fascista” del dicembre del 1942 Emilio Canevari scrive: «Quale danno è stato poi prodotto dai famosi bombardamenti? Lo ha detto Mussolini: sono state buttate a terra alcune centinaia di case e ciò favorirà il rinnovamento edilizio contro il cattivo gusto antico e nuovo e sono state uccise meno di duemila persone. È doloroso perché si tratta in genere di donne, vecchi e bambini. Ma dobbiamo anche ricordare che queste cifre valgono sì e no alle perdite per incidenti automobilistici di un anno nelle metropoli moderne. Ma se il timore bombardamenti riuscisse a frenare l'urbanesimo con tutte le sue piaghe, ciò sarebbe certo un beneficio. Finalmente i borghesi se ne andranno nei loro poderi e li cureranno maggiormente».
16 ottobre 1943: il "sabato nero" del ghetto di Roma
La sinagoga di Roma
Ghetto di Roma, 16 ottobre 1943: alle 5.15 del mattino le SS rastrellano 1.024 persone. Due giorni dopo, diciotto vagoni piombati partono dalla stazione Tiburtina diretti al campo di concentramento di Auschwitz: solo sedici persone faranno ritorno.
È il 16 ottobre del 1943, il "sabato nero" del ghetto di Roma. Alle 5.15 del mattino le SS invadono le strade del Portico d’Ottavia e rastrellano 1024 persone, tra cui oltre 200 bambini. Due giorni dopo, alle 14.05 del 18 ottobre, diciotto vagoni piombati partiranno dalla stazione Tiburtina. Dopo sei giorni arriveranno al campo di concentramento di Auschwitz in territorio polacco.
Solo quindici uomini e una donna (Settimia Spizzichino) ritorneranno a casa dalla Polonia. Nessuno dei duecento bambini è mai tornato.
Documenti emersi dagli archivi americani fanno luce su una verità inquietante: il corso degli eventi poteva essere cambiato. Gli alleati sapevano dell’imminente rastrellamento, ma non fecero nulla per impedirlo.
Il 25 settembre del 1943, il tenente colonnello Herbert Kappler, capo delle SS a Roma, riceve l’ordine da Berlino di procedere al rastrellamento del Ghetto della capitale italiana. Il capitano decide però di non eseguire subito l’ordine. Insieme al console tedesco, Eitel Friedrich Moellhausen, assume sin dal principio un comportamento molto strano. I due uomini si rivolgono, all’indomani dell’ordine ricevuto da Berlino, al Feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante delle truppe tedesche in Sud Italia, che non concede immediatamente l’appoggio militare all’operazione.
L’oro di Roma
La sera stessa Kappler convoca a Villa Volkonsky, sede del comando tedesco a Roma, i massimi rappresentanti della comunità ebraica Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma e Dante Almansi, Presidente della Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, per ricattarli. La richiesta è cinquanta chili d’oro in cambio della salvezza. La consegna dell'oro avviene non già a Villa Volkonsky ma a Via Tasso, e precisamente al numero 155, che non era ancora il famigerato carcere delle SS, luogo di torture e terrore che diventerà in seguito, ma formalmente “l'Ufficio di Collocamento dei Lavoratori italiani per la Germania” (è ora sede del Museo Storico della Liberazione).
Kappler non si presenta. Non vuole abbassarsi alla formalità di ricevere quell'oro che ha estorto. Si fa sostituire da un ufficiale di grado inferiore, il capitano Kurt Schutz. La pesatura viene eseguita con una bilancia della portata di 5 chili. Ogni pesata viene registrata contemporaneamente da Dante Almansi e da un ufficiale tedesco, che si trovano alle due estremità del tavolo. Alla fine dell'operazione, mentre Almansi ha segnato dieci pesate, il capitano Schutz dichiarava risentito che le pesate sono nove. Le proteste di tutti gli ebrei presenti irritano ancor di più il capitano che si oppone anche a quella che era la via più semplice per sciogliere ogni dubbio, cioè ripetere l'operazione. Finalmente, di fronte alle vive insistenze da parte ebraica, il capitano Schutz dà l'ordine di ripetere le pesate. I chili sono 50.
La retata
La comunità non è, ovviamente, al corrente dell’accordo che i due hanno già fatto con Kesserling. Non può sapere che già è stato deciso di non portare avanti l’ordine di Berlino, almeno fino a quel momento. Kappler mente a tutti, mentirà anche durante il processo a suo carico. La città e il Vaticano si mobilitano per aiutare gli ebrei, l’oro è consegnato nei tempi prestabiliti e la comunità si sente finalmente al sicuro. Ma ai primi di ottobre il governo tedesco invia a Roma il Capitano delle SS Theo Dannecker per procedere alla deportazione e velocizzare i tempi. Dannecker è un “esperto” di fiducia di Eichmann che aveva dato il via ai rastrellamenti di Parigi. Grazie ai documenti ritrovati negli archivi degli Stati Uniti, si scopre ora che Kappler e Moellhausen temevano la reazione dei carabinieri se si fosse proceduto al rastrellamento. Ma a Dannecker questo aspetto non spaventa e organizza la retata. Oggi, però, sempre grazie ai documenti segreti, si scopre che milleduecento persone avrebbero ancora potuto salvarsi, anche dopo l’intervento di Dannecker: gli americani erano entrati in possesso di una trasmittente che decifrava i messaggi nazisti. Per quale motivo allora non alzarono un dito per fermare la strage? E Pio XII perché si limitò solo a protestare? Il Papa, in realtà, era sottoposto ad un tacito ricatto: più di 800mila ebrei si erano rifugiati nelle chiese e nei conventi di tutta Europa, in gran parte occupata dai nazisti.
Cosa ne fu allora degli ebrei del ghetto di Roma? Abbandonati al loro destino, non ebbero più scampo. Dal Collegio Militare su Via della Lungara furono tradotti alla stazione Tiburtina, e da lì ad Auschwitz.
Il rapporto di Kappler sulla deportazione degli ebrei romani
Quei duemila carabinieri deportati dalla Capitale
Sono migliaia i carabinieri che hanno combattuto nelle file della Resistenza o sono morti nei campi di prigionia,dopo aver rifiutato l’adesione alla repubblica di Mussolini. Di loro si è sempre parlato troppo poco, anche se si trovano carabinieri in tutte le grandi formazioni partigiane in Italia e all’estero. Come non si ricordano mai abbastanza i carabinieri che presero parte alle Quattro giornate di Napoli o i giovani “allievi” che a Porta San Paolo, a Roma, con i soldati e la popolazione, opposero una eroica resistenza armata all’invasione nazista della Capitale. E come non ricordare Salvo D’Acquisto, gli eroici carabinieri di Fiesole (Firenze) massacrati dai fascisti e dai nazisti, o gli ufficiali e militari uccisi alle Ardeatine?
C’è un episodio poco noto, ma dolorosissimo, che si svolse a Roma, durante l’occupazione nazista: la deportazione di oltre duemila carabinieri poi trasferiti nei lager e sottoposti, come al solito, ad ogni tipo di tortura, alla fame, al freddo per poi finire nelle camere a gas.
La studiosa e storica Anna Maria Casavola ha condotto una straordinaria inchiesta su quella deportazione dei carabinieri e ne ha ricavato un bel libro dal titolo: 7 ottobre 1943 - La deportazione dei carabinieri romani nei lager nazisti (Edizioni Studium, Roma).
Abbiamo ripreso dal volume, autorizzati gentilmente da Anna Maria Casavola, che ringraziamo, il racconto del viaggio dei carabinieri verso la prigionia e alcune terribili testimonianze.
LA DEPORTAZIONE RIMOSSA
Il libro di Anna Maria Casavola fa finalmente luce sull'internamento da Roma dei Carabinieri catturati dai nazisti con l'acquiescenza delle autorità fasciste
Per 60 anni gli archivi storici dell'Arma dei Carabinieri hanno gelosamente custodito in silenzio la memoria del concentramento e della cattura di circa 2.500 Carabinieri presenti a Roma e della loro deportazione nei campi di internamento militare il 7 ottobre 1943, nove giorni prima della razzia nel Ghetto di Roma e della deportazione di 1.024 ebrei. Essi costituivano un patrimonio di forza addestrata, di conoscenza investigativa e di capacità organizzativa di uomini che, per la loro lealtà istituzionale, non apparivano affidabili agli occupanti nazisti e ai loro collaborazionisti della RSI. Un potenziale che, affiancato alla Resistenza - armata e non - del Fronte militare clandestino e dei partiti interni ed esterni al Comitato di Liberazione Nazionale, avrebbe reso difficilmente controllabile la Capitale.
Grazie all'accesso a documenti non più secretati di archivi militari italiani, tedeschi ed alleati e, soprattutto, a diari e testimonianze dirette di giovani allievi e maturi sottufficiali, ufficiali di carriera e militari volontari, il volume segue la vicenda da prima della cattura all'estenuante viaggio su carri ferroviari, all'internamento nei Lagere indaga sulle ragioni del rifiuto che - al pari degli altri 600.000 militari italiani - anche i Carabinieri provenienti da Roma (ma originari di ogni parte d'Italia) opposero alle lusinghe di chi li allettava ad arruolarsi nella RSI e ad entrare a far parte della Guardia Nazionale Repubblicana, di fatto sottoponendosi all'inquadramento e agli ordini della Milizia fascista e scegliendo di reprimere la rivolta di altri italiani contro l'occupante nazista.
L'occasione e la ricchezza documentaria delle testimonianze raccolte ha offerto all’Autrice la possibilità di affrontare anche altri aspetti della partecipazione dei Carabinieri alla Resistenza, fatto corale e non di singoli. Nuova e sorprendente luce, infine, viene fatta anche sulla liberazione di Mussolini dalla custodia di Campo Imperatore.