Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

10 giugno 1940: l’attacco alla Francia

29 Mars 2012 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

"Il colpo di pugnale nella schiena" lo chiamerà il presidente americano Roosevelt.

Nel giugno 1940 l’esercito italiano attacca la Francia sul confine alpino: i francesi sono già prostrati dalla disfatta appena subita a opera dei tedeschi, ma i fanti italiani avanzano con enorme fatica. L’equipaggiamento inadatto miete più vittime per assideramento delle pallottole nemiche. “Alla prova della montagna il fascismo era già finito”.

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Ha scritto Giorgio Bocca:

giorgio bocca

«Quello che capimmo in quei frenetici, straccioni, deludenti anni trenta, fu che la guerra era persa prima di cominciare. Dai richiami del 1938, dal Vallo Littorio del 1939 fino all'intervento contro la Francia del 1940, uno spettacolo sconsolante di incuria, di impreparazione, di azzardo e di stupidità. Non eravamo antifascisti, ma il fascismo se ne stava andando da solo con quella sua pretesa di essere un gigante mentre era un nano, con il suo bluff scoperto, con quel suo confrontarsi con le grandi nazioni. Se ne stava andando e non potevi far finta di non vederlo, di non capirlo. Il peggio furono i richiami alle armi di un esercito senza mezzi, senza un vero comando. Ti svegli un mattino nella tua piccola città alpina Cuneo, indossi abiti pesanti perché ha già nevicato sull'incombente montagna, esci per andare a scuola al ginnasio, liceo Silvio Pellico, che sta nella città vecchia vicino al collegio dei Salesiani, dove c'è la piazzetta in cui Garibaldi riunì i primi Cacciatori delle Alpi che solo l'armistizio di Villafranca poté fermare mentre stavano marciando su Trento. Esci di casa e vedi che è in corso uno strano esodo, una lunga fila di poveracci vestiti da poveracci, con il vestito brutto che indossi quando vai sotto le armi e con le valigie di cartone che tiri giù dal solaio quando ti arriva la cartolina rossa, la cartolina precetto del richiamo alle armi, e arrivato in piazza Vittorio, fra la città nuova e quella vecchia, ti chiedi: ma questi dove vanno? Perché le caserme stanno nella città nuova e questi invece si dirigono sui portici di quella vecchia. E quando, come ogni mattino, stai per entrare nei portici li trovi occupati dai poveracci. Le caserme non sono pronte, le brande e i materassi non sono arrivati, hanno buttato uno strato di paglia sotto i portici e lì i richiamati devono dormire. Non si sa neppure come dare loro da mangiare. I mulini privati non hanno scorte sufficienti, quelli dell'esercito sono lontani, fra Piacenza e Alessandria, bisogna aggiustarsi con i panettieri borghesi, pagare i prezzi che chiedono, oppure lasciare che i richiamati si arrangino; vendano ai civili i farsetti a maglia o i teli tenda che hanno appena ricevuto. Quello fu il primo inverecondo spettacolo di un regime che voleva conquistare il mondo avendo le toppe ai pan­taloni. Poi arrivò il caos cementifero del Vallo Littorio, che vedevamo sbalorditi con i nostri occhi, noi ragazzi che ogni domenica continuavamo ad andare in montagna. I francesi avevano fin dalla Prima guerra mondiale, da quando l'Italia faceva parte della Triplice, l'alleanza con gli imperi centrali, una linea fortificata che copriva l'intero confine dal mare al Monte Dolent in Valle d'Aosta.

L’ordine di costruire il Vallo Littorio arriva tardi, nel 1938, ed è una corsa disordinata agli appalti di quattrocento aziende senza un preciso piano, con fortificazioni distribuite a caso. I lavori prendono un ritmo frenetico, arrivano dal biellese e dalla bergamasca impresari famelici, alcuni con mezzi ridicoli, un camion e qualche badile, saltano tutti i controlli. Alcune fortificazioni sono prive degli impianti di aerazione, appena si spara i locali si riempiono di gas, i soldati svengono, alcuni si arrangiano mettendo le maschere antigas; in altre mancano i rivestimenti ai muri, l'acqua della neve filtra e può arrivare a metà gamba. I fossati anticarro sono poco profondi.

Anche in montagna le cucine da campo non funzionano, il rancio non arriva. I soldati rimediano come possono, sparano sui camosci delle riserve reali, pescano nei laghi Sella con le bombe a mano, un boato e le trote morte vengono a galla. Camminiamo per le nostre montagne e vediamo come si disfa un regime che si pretende militare e imperiale. Al Colle della Maddalena stanno stendendo i reticolati e il maggiore che dirige i lavori telefona al comando che sta a Bra: "Mi mancano i paletti". Dal comando rispondono: "Cercheremo di farteli avere. Intanto possiamo dire che li state mettendo?". Un giorno mentre siamo al Colle di Tenda, vediamo una lenta carovana militare salire sul colle. Non può usare il traforo: troppo stretto e basso per farci passare i camion giganti da 420 presi agli austriaci nella guerra del 1915-18. Li portano in Val Ruja per una rivista del principe del Piemonte che comanda pro forma la nostra armata. Uno dei cannoni giganti sparerà un unico colpo, sfasciando la canna. La posta non funziona, gli alpini ci danno delle lettere da imbucare giù in pianura. Mancano le pile per i telefoni da campo, le radio sono pesanti, intrasportabili in alta montagna. Gli alpini che incontriamo ci dicono che il loro battaglione conta più muli che soldati. Gli autieri del Genio che devono percorrere tratturi impervi hanno trovato un modo per cavarsela: fingono un incidente, fanno uscire di strada la camionetta.

Come funzioni il comando dell'armata lo vediamo con i nostri occhi. Il comando sta a Bra, sistemato in alcuni vagoni letto delle ferrovie e nei locali del ristorante Alli due buoi rossi; le comunicazioni non funzionano e allora ogni comando di divisione spedisce i suoi al fronte per vedere quel che succede. Succede che le auto si bloccano negli ingorghi all'imbocco delle valli, dove le salmerie non riescono a proseguire e i reparti avanzati non ricevono i rifornimenti.

Due nostre armate sono schierate lungo le Alpi, ventidue divisioni, trecentomila uomini con tremila pezzi di artiglieria. E nessuno capisce perché si debba fare la guerra alla Francia dove lavorano un milione di nostri immigrati. L’eccidio di lavoratori italiani ad Aigues-Mortes è stato dimenticato, i nostri sono accolti fraternamente. Perché fare guerra a un paese già vinto, perché "il colpo di pugnale nella schiena" come lo chiamerà Roosevelt? Lo schieramento francese è ormai ridotto al minimo, dai cinquecentomila uomini dell'inizio della guerra con la Germania si è scesi ai pochi del 10 maggio, quando le ultime riserve sono state mandate al Nord per fronteggiare l'offensiva della Wehrmacht. Restano quarantasei battaglioni per complessivi ottantatremila soldati, ma il morale di questi pochi è ancora buono; la linea fortificata è ottima, e come ha scritto lo stratega Clausewitz: "Attaccare la Francia sulle Alpi è come pretendere di alzare un fucile afferrandolo per la punta di una baionetta". Il nostro comando lo sa: anche in caso di sfondamento, dato lo stato delle strade e il numero dei valichi, non potremo avanzare che per pochi chilometri mentre lo spazio alpino francese è di centinaia di chilometri.

il popolo d italia giornale

Quando il 10 giugno 1940 entriamo in guerra, la tacita intenzione del nostro comando affidato al maresciallo Badoglio è di aspettare che i tedeschi abbiano sconfitto le armate franco-inglesi, cioè il tacito "se io non attacco, voi non attaccate". Ma si può star fermi se a Roma c'è un Mussolini che vuole a ogni costo "qualche migliaio di morti per sedersi al tavolo della pace"? Bisogna attaccare, costi quel che costi. Il prezzo è ancora alto, ce ne accorgiamo noi che stiamo nelle immediate retrovie, gli ospedali non bastano ad accogliere le migliaia di soldati congelati perché mancano le divise invernali di lana e si combatte con quelle estive di tela, perché gli scarponi sono spesso di cartone e non di cuoio e nella notte del 21 c'è stata un'abbondante nevicata. Le notizie che arrivano dal fronte sono catastrofiche: le divisioni che attaccano il valico del Piccolo San Bernardo finiscono in un intasamento generale, è bastata una frana sulla strada e la resistenza di una compagnia di chasseurs des Alpes perché si formasse una colonna di chilometri, impossibile risalirla con le autoambulanze e con le cucine da campo. I reparti che attaccano in direzione di Briançon sono inchiodati dalle artiglierie del fronte Chaberton, i nostri carri leggeri, le "scatole di sardine" come li chiamano i soldati, si fermano nei reticolati o per avarie al motore; in un vallone un battaglione di fanteria finisce sotto una postazione di mitragliatrici francese. Il massacro è evitato dal comandante francese, il maggiore Renard, che scende a farli prigionieri: trecentotrentacinque che si arrendono senza colpo ferire. Ma sono le notizie che arrivano da Genova e da Torino a farci capire che da questa guerra siamo in pratica già usciti, se ci staremo fino al settembre del 1943 sarà solo perché tenuti in piedi dai tedeschi. Quali notizie da Genova e da Torino? Nel mare di Genova in pieno giorno è comparsa una squadra francese con quattro incrociatori pesanti e venti caccia e si è messa a cannoneggiare indisturbata le fabbriche di Sestri e di Vado, ritirandosi solo nel tardo pomeriggio: la nostra aviazione non si è vista, i piloti dormivano e nessuno ha pensato a svegliarli. E il 15 giugno l'aviazione inglese arriva su Torino, bombarda la Fiat senza che la nostra contraerea intervenga. E non interviene perché non c'è. Nel Mar Ligure la nostra flotta è arrivata tre giorni dopo l'attacco. Mussolini telefona a Hitler perché gli mandi delle batterie, un Hitler generoso e paziente ritarderà l'armistizio con la Francia fino a quando non sarà accettato anche quello con l'Italia. Dicono che all'ingresso dei plenipotenziari francesi il maresciallo Badoglio trattenesse a stento le lacrime della vergogna. Ma il Vallo Littorio avrà almeno una parte preziosa nella guerra partigiana, ci troveremo le centinaia di mitragliatrici abbandonate dal regio esercito. 

In Val d'Aosta invece di preparare la guerra il regime si era preoccupato di italianizzare i valdostani, cambiando i nomi dei paesi: al posto di Morgex, Valdigna, di Courmayeur, Cormaiore, di La Thuile, Porta Littoria. Cambio insensato come e più della guerra. I valdostani non erano italianizzabili per la semplice ragione che, nel corso millenario della loro storia, l'Italia in Val d'Aosta non esisteva. Prima che arrivassero i romani diretti in Gallia, nella valle abitavano i celti che erano avanzati fino al Canavese e oltre. Finché erano stati tranquilli e non avevano ostacolato l'avanzata dei romani, li avevano lasciati campare; una volta ribellatisi un console li aveva fatti prigionieri e venduti in gran parte come schiavi sul mercato d'Ivrea; allora Eporedium. Quelli rimasti in valle si erano mescolati con i coloni romani, che poi erano in gran parte legionari arrivati da chi sa dove o patrizi come Aimus e Avilius, impadronitisi delle terre migliori con una fattoria all'inizio della Val di Cogne, precisamente ad Aimaville, come li ricorda il nome. Insomma, la solita mescolanza di stirpi e di storie. La Val d'Aosta aveva seguito per un migliaio di anni i Savoia partecipando alle loro guerre al di qua come al di là delle Alpi, ed è impossibile dire se fossero pro o contro l'attuale Francia. Possiamo solo affermare che la parte più alta della valle attorno al Monte Bianco si chiamava Harpitania dalla parola Harp che significa "montagna" nella lingua parlata dagli indigeni, un patois simile a quelli occitani, derivanti dalla langue d'oc.

Fronte alpino 20Giu 40Fare una guerra sulle Alpi era un'idea balorda, ma farla sul massiccio del Bianco pura follia. Si era nella catena più alta d'Europa, con montagne sopra i quattromila metri, con nevi eterne, e ghiacciai che portavano ad altri ghiacciai. Per la Val d'Aosta si arrivava nell'Alta Savoia, cioè in villaggi lontani dalla valle del Rodano per un'ipotetica riunione con i tedeschi che scendevano dal Nord. Per fare quella guerra assurda, cioè per simularla, si pensò di usare gli alpini che stavano in valle, del III reggimento e della Scuola alpina. Divisi in quattro gruppi operativi. Uno che per la Val Veny puntava al Col de la Seigne, da cui scendere a Bourg Saint Maurice, altri tre sul Bianco, cioè su un territorio proibitivo anche per dei buoni alpinisti. Quello del Col du Bonhomme era affidato agli uomini della scuola alpina di Aosta comandati da Giusto Gervasutti detto "il fortissimo". Il gruppo di assalto era comandato dal capitano Fabre e dal tenente Lamberti. Alla loro destra un battaglione alpino sul Colle del Gigante, al comando dell'accademico del Club alpino Renato Chabod, famoso scalatore. Nella zona delle Grandes Jorasses c'era la compagnia dell'accademico Boccalatte e all'estrema destra, al Col Ferret, al confine con la Svizzera, i reparti comandati dall'alpinista torinese Emanuele Andreis. Più che un esercito è un raduno dei migliori alpinisti e sciatori italiani. Non esiste un piano militare per la ragione che non esistono veri obiettivi militari, ma dei villaggi che una volta conquistati restano lontanissimi dai nodi strategici. L'obiettivo del gruppo Gervasutti è il villaggio di Les Contamines sotto il Col du Bonhomme da cui si può arrivare a Megève, una stazione elegante di sci. Dal Colle del Gigante per arrivare a Chamonix bisognerebbe scendere per i quattordici chilometri della Mer de Glace e per i suoi crepacci. Così gli altri due settori. E allora perché mandare su quelle rocce, su quei ghiacciai la crème dei nostri alpini se lì la guerra è impossibile?

La ragione di uso comune nel regime di cartapesta: se non ci sono, se non posso, devo almeno far finta di esserci.

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Gli alpini del resto sono abituati alle assurdità dell'esercito, hanno inventato la parola "naja" che vuol dire: questo è il nostro destino, di sacrifici, di fame, di freddo, di morte, il destino che non si discute dei montanari poveri. Non ha senso fare una guerra per la quale non si è preparati nei luoghi dove farla è una follia. Ma bisogna farla. È naja. Anche in Val d'Aosta i magazzini sono vuoti. Il reparto d'assalto della Scuola alpina non ha una radio da campo e neppure un eliografo, cioè una bandiera a lampo di colore. Per i collegamenti dovrebbe usare una muta di cani lupo addestrati al traino di slitte inutilizzabili sui ghiacciai del Bianco. I nostri arrivano in Val Veny e finalmente vengono informati del loro obiettivo insensato. Hanno gallette e carne in scatola per due giorni, non hanno un medico da campo, solo un infermiere improvvisato con uno zainetto con qualche pastiglia di aspirina, della garza, delle bende e una bottiglietta scura con su scritto "veleno" che è tintura di iodio. Finché si sale per le pietre del cono di deiezione la fatica è sopportabile, ma dove comincia il ghiacciaio e bisogna portare a spalle il treppiede della mitragliatrice Beretta che pesa una ventina di chili, bisogna darsi il cambio ogni cento metri di dislivello. Gli uomini si muovono in un silenzio surreale per una guerra, rotto solo dalle scariche di pietre e dalle piccole slavine. Nell'opposto vallone della Lex Blanche salgono gli alpini del battaglione Duca degli Abruzzi, anche loro diretti al nulla del ghiacciaio di Lechaud. E tutti sanno che se arriveranno sul tetto di ghiaccio non troveranno dei nemici veri, ma i loro simili, i chasseurs des Alpes, incontrati ogni anno nei rifugi, con i quali si è gareggiato ogni anno sugli sci e magari festeggiato, come la volta che gli alpini del sergente Prenn, ribattezzato Perenni, hanno vinto la gara di pattuglie alle Olimpiadi di Garmisch. Gli amici diventati nemici sono pochi, quello che resta dell'armata francese delle Alpi, ma ci sono; sono armati e hanno dei buoni binocoli con cui osservano le nostre mosse, dal Col du Bonhomme, dal rifugio del Col du Midi.

L'ordine di operazione è come i discorsi dei gerarchi e dei generali: euforico e ineseguibile, i nostri reparti dovrebbero superare il tetto del Bianco, le sue calotte di ghiaccio, le sue guglie di roccia per tagliare la ritirata a una difesa francese che si è già sciolta da sola, lasciando solo un velo di retroguardia. Nel silenzio che perdura mentre il gruppo di Lamberti si avvicina al colle, qualcuno pensa che non esista più il nemico, che i francesi siano tornati a casa quando hanno saputo della disfatta del fronte nord. Ma non sono tornati tutti a casa. Sul Col du Bonhomme è rimasto con i suoi éclaireurs-skieurs il tenente Jean Bulle, lui con il suo binocolo segue tutto ciò che si muove dal Col de la Seigne al Bianco; e quando vede che gli alpini stanno affondando fino al ginocchio nella neve marcita dalla nebbia apre il fuoco. Le raffiche zampillano davanti ai nostri, ma bisogna defilarsi. Lamberti, che ha una memoria buona, annoterà nel suo diario: "Finché le pallottole fischiano sulla tua testa non sono pericolose. Quella che ti uccide non la senti". Arrivano anche dei colpi di artiglieria che partono da postazioni in caverna, nei pressi di Bourg Saint Maurice. Il capitano Fabre si salva per miracolo da una slavina, Lamberti che è più alto lo vede appeso alla piccozza.

Il tenente Bulle e la sua pattuglia hanno fatto il loro dovere fino alla fine, scendono a Les Contamines e finalmente i nostri dal colle possono vedere sotto di loro le quattro case per cui hanno rischiato la vita, per cui alcuni sono morti, come un fratello di Zeno Colò. Il gruppo di assalto viene sciolto, Lamberti e Fabre tornano ad Aosta. Lamberti annota: "È stata una prima esperienza di guerra. Il meno che se ne possa dire: demoralizzante".

l nostri hanno conquistato Bourg Saint Maurice, che dista dal confine una decina di chilometri. Mentre la banda .suona per festeggiare la vittoria arrivano dei colpi di artiglieria. Li hanno sparati i francesi del forte di Traversette. Anche loro tornano a casa. Almeno non facciamo prigionieri.

Verso il mare nella Val Roya l'avanzata della divisione Modena è stata subito bloccata, la divisione Cosseria si è praticamente persa nell'entro terra di Sospel, i soldati hanno camminato per trenta ore e al primo contatto con i francesi si sono fermati sfiniti. "Sono giorni," osserva il ministro Bottai, "di combattimenti tentati più che compiuti". Il treno armato con quattro cannoni da 152 esce dalla galleria sotto i giardini Hambury e viene subito centrato dalle batterie francesi di Cap Saint Martin e retrocedendo s'incastra con un cannone nella muraglia. Il generale Gambara, comandante del XV corpo di armata, ha deciso di fare due sbarchi a Mentone. I mezzi da sbarco stanno nel porto di Sanremo, sono dei barconi con motori fuoribordo. Dopo una prova ne rimangono utilizzabili solo otto, e mentre nella notte navigano verso Mentone vengono sospinti dal mare grosso sul promontorio della Mortola. Si rinuncia allo sbarco, nessuno capisce perché si siano impiegati dei reparti della Milizia senza addestramento quando c'è a Imperia il Battaglione san Marco, fanteria di marina. Forse Gambara ha voluto crearsi dei meriti presso il partito. Il giorno 23 una colonna scesa dalle montagne occupa Mentone. Osserva un ufficiale dello stato maggiore: "Solo venendo a contatto con la linea difensiva francese ci sarebbe stata una vera battaglia di rottura, la quale invece non ci fu né poteva esserci". Come a dire: non abbiamo fatto una guerra vera perché non eravamo in grado di farla.

Abbiamo avuto seicentotrentuno morti e seicento sedici dispersi. Chi sono questi dispersi, se il campo di battaglia è tutto percorso da strade e ferrovie? Sono dei disertori, a migliaia come ce ne furono in tutte le guerre. I francesi hanno perso trentasette uomini e quarantadue feriti.

Già la mattina del 17 giugno il plenipotenziario Baudoin (gli stessi nomi appena aggiustati da una parte come dall'altra di un confine inventato: Baudoin è Baudino, Giraud è Giraudo, Serrat è Serrati) ha presentato al nunzio apostolico monsignor Valeri le proposte francesi. Due le con­dizioni: l'impossibilità di consegnare la flotta che è già pronta ad autoaffondarsi e "la ricerca comune di una pace durevole" cioè che la Francia venga trattata come una grande potenza. Gli italiani accettano pur di fare in fretta. Giunge a Roma per concludere il generale Hutzinger, gli italiani chiedono di poter presidiare il territorio conquistato, praticamente nulla. Mai nella storia si sono visti dei vincitori così pieni di vergogna di fronte ai vinti. I delegati francesi non hanno ancora finito la lettura, che i nostri gli vanno incontro per stringer loro le mani; Ciano, Badoglio, Pricolo e Roatta sono turbati e affettuosi. Hutzinger ha ancora da chiedere se possiamo lasciargli i pochi aerei rimasti, Badoglio acconsente. Poi c'è da risolvere la spinosa questione dei fuoriusciti antifascisti, i francesi chiedono che si capisca il loro stato d'animo: non possono consegnarci persone cui hanno dato ospitalità. In nessuna clausola dell'armistizio si parlerà dei fuoriusciti. All'Italia fascista va bene che se ne taccia, l'opinione pubblica scoprirebbe che migliaia d'italiani sono riparati all'estero. La firma avviene alle 19:16, Hutzinger si congratula con Badoglio "per l'alto stile con cui ha diretto le trattative", Badoglio risponde: "La Francia è una grande nazione con una grande storia e sono sicuro che non le potrà mancare l'avvenire". Già appare la trama della grande alleanza conservatrice che si formerà nell'Europa occupata dai nazisti, la Francia è pronta al petainismo, l'Italia ha già rinunciato alla Tunisia e alle altre colonie francesi dimostrando di non avere in mente alcuna strategia: nei giorni che seguiranno tenterà timidamente in Libia un'offensiva contro gli inglesi, che sono comunque un osso duro, e lascerà tranquilla la Tunisia praticamente indifesa, che ci assicurerebbe il controllo del Canale di Sicilia e delle comunicazioni fra il Mediterraneo orientale e quello occidentale, che poi dovremo difendere con perdite pesantissime. Non sappiamo vincere neppure per finta, il Duce ha la pessima idea di visitare i campi di battaglia. Hitler si fa fotografare sotto l'Arc de Triomphe e alla tomba di Napoleone, e Mussolini va su e giù per le valli alpine dove non c'è quasi traccia della battaglia. Che pensano gli italiani di questa guerra? Si rendono conto che sono bastati quei pochi giorni a segnare il nostro declassamento sullo scenario mondiale, la fine della nostra propaganda imperiale? Molti capiscono, ma si adattano; dopotutto ci siamo schierati dalla parte del vincitore tedesco, raccoglieremo le briciole della sua vittoria, comunque sempre meglio che niente».

 

Bibliografia:

Giorgio Bocca - Le mie montagne. Gli anni della neve e del fuoco – Feltrinelli 2006

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