Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Luigi Gelosa, un lissonese caduto nella seconda guerra mondiale

26 Décembre 2007 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi

Caporal Maggiore Luigi Gelosa

(Il suo nome sul monumento ai caduti nel cimitero di Lissone è al posto sbagliato; Luigi Gelosa non è disperso ma è sepolto nel cimitero militare italiano di Zonderwater, località presso Pretoria, in Sudafrica)


undefinedNato a Lissone, in via Galileo Galilei, il 15 maggio 1917 da Carlo Gelosa e Adele Calloni, sesto di otto figli, ebbe la sfortuna, come tanti altri suoi coetanei, di essere in età di leva a ridosso dello scoppio del secondo conflitto mondiale, questo evento gli fu fatale.

Luigi, come moltissimi giovani lissonesi, dopo aver conseguito la licenza elementare, era stato impiegato a tempo pieno nell’attività famigliare: la bottega di falegname, dove lavorava col padre Carlo ed il fratello maggiore Paolo. Una bottega al piano terra della loro abitazione di via Galilei, dalla quale possiamo immaginare, il giovane Luigi difficilmente si era mai allontanato di tanto.

Ma il giorno della chiamata alla leva arrivò, raccogliendo al distretto miltare di Monza tutti i ragazzi abili ed arruolabili dell’anno 1917. Nessuno di loro poteva immaginare quello che sarebbe accaduto in seguito, finito il periodo di ferma tornarono tutti, congedati nel 1937, alle loro case.

Il 9 giugno del 1937 Luigi poteva così riabbracciare la mamma, il papà e tutti i fratelli e le sorelle.

Ma la normalità quotidiana ristabilita dopo due anni di servizio militare, la vita laboriosa della bottega, la tranquillità della famiglia, le domeniche pomeriggio con gli amici, fu presto interrotta di nuovo: il 22 maggio del 1938, una settimana dopo il suo ventunesimo compleanno, era di nuovo chiamato al distretto militare di Monza (in base alla Circ. N° 174 G.M. 1938).

A Monza aveva sede il III battaglione del 1° Reggimento Fanteria Carristi, Luigi venne aggregato a questa unità di carri d’assalto ed iniziò l’addestramento, ottenendo il 28 dicembre del 1938 il fregio di “carrista scelto”, e successivamente, il 30 aprile del 1939 il grado di Caporale.

Il 22 novembre del 1939 , a seguito della Circolare 40001 del 24.08.39, venne trattenuto alle armi. Ed il 31 Luglio del 1940 nominato Caporale Maggiore.

Successivamente, il 20 giugno 1940,  venne trasferito in ”territorio dichiarato in stato di guerra” ed il 28 giugno 1940 trasferito al 4° Rgt. Ftr. Carrista, (il cambio di Reggimento era la conseguenza della riorganizzazione della giovanissima ed inesperta Arma del regio esercito), con sede a Roma nel forte Tiburtino e dotato di carri L3/35 d’assalto. Il primo comandante di questo glorioso reparto fu il Col. Lorenzo D’Avanzo (M.O.V.M.)

Il 6 luglio del 1940 Luigi fu imbarcato a Napoli con destinazione Bengasi, su quel carico c’erano due battaglioni, uno di carri medi ed uno di carri M11/39; in tutto 600 uomini, 72 carri, 56 automezzi, 37 motocicli e 76 rimorchi, che si andavano ad aggiungere ai 324 carri L3/35 già presenti in Libia. Il convoglio arrivò incolume a destino e l’8 luglio Luigi sbarcò a Bengasi. 
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Per meglio comprendere la condizione in cui si venne a trovare Luigi, con tutti i suoi commilitoni, occorre fare una breve descrizione della situazione bellica in Africa Settentrionale nel 1940.

All’inizio della guerra ( 10 giugno 1940 ) l’organizzazione del Regio Esercito Italiano era la seguente: la X Armata al comando del Gen. Mario Berti era schierata in Cirenaica, mentre in Tripolitania era schierata la V Armata. Dopo la morte di Italo Balbo (abbattuto per errore dalla nostra contraerea sui cieli di Tripoli) il Gen. Rodolfo Graziani assunse il comando di tutte le forze nell’Africa Settentrionale ed il governatorato della Libia il giorno 30 giugno. Dopo una serie di rinvii, dovuti principalmente al fatto che Graziani, sul posto, si rendeva conto delle difficoltà di un’avanzata di truppe per la massima parte appiedate, nel deserto, il 13 settembre del 1940 le forze disponibili ( della X Armata e parte della V Armata disimpegnatasi dal confine Tunisino dopo la resa della Francia) attraversarono il confine con l’Egitto, superando il 15 settembre il passo di Halfaya ed occupando il 16 Sidi el Barrani, dove l’offensiva fu fermata. Mentre la X Armata si riorganizzava a Sidi el Barrani, le unità britanniche si preparavano per una controffensiva. Il giorno 9 dicembre iniziava l’Operazione Compass (bussola), destinata a respingere la X Armata dall’Egitto.

La X Armata disponeva di 328 carri armati, di cui 256 leggeri di modello L 3/35 e 72 medi M11/39 e M13/40, l’appoggio aereo era fornito dalla V Squadra aerea.

Il generale britannico (Generale O’Connor) attaccò subito Sidi el Barrani, undefined catturata nel pomeriggio del 10 proseguendo poi, nei giorni seguenti, fino a Bardia. Al termine dell’Operazione Compass la X Armata non esisteva più, 130.000 soldati italiani erano stati catturati, tra loro anche Luigi.

Molti di loro vennero imbarcati su piroscafi inglesi con destinazione Sud Africa. Li attendeva, dopo molti giorni di navigazione e di trasferimenti forzati, il campo di concentramento di Zonderwater, località presso Pretoria.

A Zonderwater  dal 1941 cominciarono ad affluire i prigionieri di guerra italiani provenienti dal Nord Africa, gli arrivi si intensificarono dopo la sconfitta di El Alamein. In quel campo trovarono ospitalità circa 100.000 soldati italiani di truppa con i loro assistenti spirituali. I prigionieri non ebbero certo una vita agiata, ma tutti sono concordi nel riconoscere che furono trattati con umanità e che il comandante inglese fece di tutto per alleviarne le sofferenze. A coloro che lo desideravano, veniva consentito di uscire per lavorare nelle fattorie della zona. Questo è quanto mi ha riferito l’attuale Presidente dell’Associazione Zonderwater Blok, che è responsabile e custode morale del cimitero dove riposano 252 ragazzi italiani, deceduti durante il periodo di prigionia. E’ grazie al contributo del gentilissimo Emilo Coccia che ora sono in grado di dare una conclusione alla storia del Caporal Maggiore  Gelosa Luigi.

Durante la prigionia a Zonderwater Luigi probabilmente era impiegato presso una fattoria all’esterno del campo, e probabilmente lì contrasse una grave forma di Tubercolosi. Fu ricoverato presso l’Ospedale Civile di Vereeninging ( 50 km. A sud di Johannesburg) il 27 febbraio del 1943 con diagnosi “Sospetta Enterite”, morì il giorno 8 marzo 1943 a causa di “Peritonite Tubercolare”.

Fu sepolto nel Cimitero Militare Italiano di Zonderwater – IV Fila, Tomba 89 – e lì riposa.

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Da poco al cimitero di Lissone è stato realizzato un nuovo monumento che raccoglie i nomi di tutti i caduti  lissonesi nelle due guerre mondiali. Il nome di Luigi Gelosa è stato messo tra i dispersi, ma non lo è; sappiamo dove riposa e sappiamo la storia della sua breve e travagliata esistenza.

Questo racconto è dedicato a Lui ed a tutti i ragazzi che come lui partirono per non tornare più. Le loro vite sono state sacrificate per ideali che noi non condividiamo, ma il nostro ricordo li vuole appagare per quello che è stato loro strappato: la gioia di una vita serena.

A Luigi, tuo nipote Vittorio


 

Documento di propaganda inglese: il Cap. Maggiore Gelosa Luigi è nell'ultima colonna a destra alla 15a riga 

prigionieri catturati in Egitto e Libia


Prima di arrivare nel campo di concentramento di Zonderwater, in Sudafrica, generalmente i militari italiani catturati dagli inglesi nel Nord Africa passavano da Alessandria d’Egitto, in una caserma-prigione.

Dopo la conquista del villaggio egiziano di Sidi El Barrani, da parte delle truppe italiane al comando del generale Graziani, in una prima controffensiva britannica, che si era conclusa il 7 febbraio 1941 alle porte di Bengasi, erano cadute Tobruk, Bardia, Derna e gran parte della Cirenaica. Lo scontro conclusivo era stato combattuto a Beda Fomm: sette giorni di furiosi combattimenti al termine dei quali gli inglesi avevano avuto la meglio. Il campo di battaglia presentava una scena desolante: trenta chilometri di deserto coperto di carri sventrati, cannoni e autocarri abbandonati, centinaia di caduti e un'immensa colonna di prigionieri in marcia verso Alessandria.

Arrivavano a gruppi, stipati dentro cassoni degli autocarri, al centro di raccolta prigionieri di Alessandria. Stanchi e impolverati quelli che erano stati catturati in prima linea, più presentabili, con lo zaino o qualche fagotto, quelli che si erano arresi in condizioni diverse, ma tutti mesti, spaesati e storditi. Un sergente inglese, scortese, procedeva alla conta e alla registrazione dei dati essenziali: generalità e provenienza. Poi cominciava l'attesa, per tre o quattro giorni, dell'interrogatorio (spesso senza mangiare e bere). Ciascun soldato doveva affrontarlo davanti alla commissione di controllo, coadiuvata dall'interprete, quasi sempre un maltese: i più insidiosi, i più carogna.

Con l'arrivo di un numero sempre più grande di prigionieri italiani, la loro sistemazione divenne un problema di non poco conto. La caserma di Alessandria traboccava e gli inglesi decisero di risolvere la questione deportando i detenuti in due grandi campi recintati da filo spinato, frettolosamente allestiti per la bisogna nei pressi di Ismailia e precisamente in una località desertica chiamata Geneifa, situata nelle vicinanze dei Laghi Amari del Canale di Suez.

Dalla stazione ferroviaria di Alessandria era un susseguirsi di partenze sotto scorta.

Il treno per Geneifa attraversava i quartieri periferici della città per poi immergersi nel verde della valle del Nilo che, a poco a poco, col passare delle ore, si allontanava dal fiume e si scolorava per trasformarsi in una landa sabbiosa con qualche palmizio e qualche povero villaggio. Ovunque polvere, miseria e tante mosche. A tarda notte, il treno, dopo avere costeggiato il Canale, raggiungeva la sua definitiva destinazione, Geneifa, una località deserta e desolata: non una casa, non un albero, soltanto la baracca di legno della stazione. Accovacciati sulla sabbia, i prigionieri si guardavano intorno avviliti. Solo la linea ferrata che si perdeva nel buio sembrava essere rimasta l'unico legame con il mondo civile.

Occorrevano poi alcune ore di autocarro per raggiungere il campo che si profilava all'improvviso, nell'oscurità. Un quadrato lucente, luminosissimo, con potenti riflettori puntati verso l'interno e circondato da un doppio recinto di filo spinato. Dopo la conta, che diventerà un' ossessione per due volte al giorno, i prigionieri venivano alloggiati nelle piccole tende allineate sulla sabbia e subito erano assaltati da quelli che li avevano preceduti. «Chi siete? Da dove venite?».

A tutti i prigionieri, dopo le rituali perquisizioni e gli interrogatori, veniva fatta indossare una uniforme provvisoria di tela kaki con una grossa losanga blu cucita nel fondo dei pantaloni. Una toppa che, per qualche tempo, diventerà il marchio della prigionia.

Il comando dei campi era affidato a ufficiali britannici, ma la vigilanza veniva svolta dai sikh, sentinelle indiane in uniforme britannica, con l'immancabile turbante in cui attorcigliavano i lunghi capelli. I prigionieri erano accampati alla meglio sotto le tende, mentre tutto intorno le sabbie desertiche offrivano un panorama squallido e desolato.

Con i militari prigionieri, gli inglesi si comportavano nel rispetto della convenzione di Ginevra, ossia dell'accordo internazionale che stabiliva in che modo dovevano essere trattati i prigionieri di guerra (ciò non succederà per i 600.000 internati militari italiani rinchiusi nei campi di concentramento nazisti dopo l’8 settembre 1943).

Aumentando il loro numero, gli inglesi decisero di dirottarli verso altri campi che nel frattempo erano stati allestiti per la bisogna. Le prime destinazioni furono la Palestina, poi l'India e il Sudafrica. I trasferimenti iniziarono nel novembre 1940, senza date fisse perché tutto dipendeva dalla disponibilità delle navi che, scaricati a Suez i rifornimenti per le truppe, tornavano vuote ai porti di partenza. I prigionieri venivano imbarcati un migliaio alla volta e ristretti nelle stive. La traversata per l'India durava una quindicina di giorni, meno di una settimana quella diretta a Durban, in Sudafrica. All'inizio, quando le navi costeggiavano l'Etiopia ancora italiana, la tentazione di gettarsi in mare per raggiungere la costa era molto forte e poiché qualcuno poteva anche lasciarsi tentare, gli inglesi, per prudenza, serravano gli oblò e tutte le aperture. D'altra parte, altri convogli erano stati attaccati dai nostri sommergibili e gli allarmi erano frequenti, soprattutto nelle acque meridionali del Mar Rosso. «Sta' a vedere che va a finire che ci ammazzano i nostri» commentavano preoccupati i prigionieri. E infatti accadde più di una volta.

I prigionieri destinati al Sudafrica sbarcavano nella città portuale di Durban. Il Sudafrica è il paese che ha accolto il maggior numero di prigionieri italiani. Già nel gennaio 1941 ne ospitava 60.000 ma triplicheranno nel giro di pochi mesi.

Da Durban, dopo essere stati lavati, cosparsi di creolina, rapati a zero e sottoposti a minuziosi esami medici, venivano trasferiti in gran parte a Zonderwater, nel Transvaal, a seicento chilometri di distanza, dove sorgeva un grandissimo campo di prigionia.

«Com'era grande quel campo» scriverà nel suo diario un ex prigioniero. Veramente i campi erano cinque, ma formavano un blocco solo.

In lingua afrikaans, Zonderwater significa «senza acqua» e già questo nome può fornire un'idea dell'ambiente. Era una savana brulla e disabitata, collocata a 1600 metri sul mare, in cui era stata allestita un'immensa tendopoli recintata. Ma in seguito gli stessi italiani, con il loro lavoro, la trasformeranno in una città. Una originale «città dei prigionieri» con oltre centomila abitanti.

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