Michele Robecchi
18 Janvier 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #pagine di storia locale
Nato a Scanzorosciate (BG) il 29.9.1904. Residente a Muggiò (MI). Lavorava alla Breda, V Sezione Aeronautica, come elettricista. Arrestato il 10.8.1944 a Saronno (Va). Detenuto nel carcere di S. Vittore a Milano. Giunto nel campo di Bolzano il 7.9.1944. Partito il 5.10.1944 e giunto il 9.10.1944 a Dachau. Matricola 113505. Trasferito il 28.10.1944 a Überlingen (Dachau). Qui deceduto il 30.12.1944.
Racconta la moglie Maria Galletti; dopo l’8 settembre 1943 mio marito Michele disse:
"Maria, è giunto il momento, dobbiamo muoverci!" e io ricordo d'averlo abbracciato forte, con affetto e con orgoglio. Subito dopo, però, ho avuto paura, paura di qualcosa che non sapevo ma che sentivo sarebbe accaduto. Così incominciammo la nostra lotta.
Il mio Michele e i suoi amici avevano costituito un GAP (Gruppo di azione patriottica) che organizzava la resistenza in fabbrica, distribuiva materiale di propaganda fra gli operai, organizzava azioni di sabotaggio della produzione industriale destinata alla Germania.
Venne il marzo del 1944 con i grandi scioperi in tutte le fabbriche e allora si scatenò durissima la repressione tedesca. Gli operai venivano arrestati in fabbrica o prelevati in casa di notte. Condotti in carcere, venivano interrogati, spesso torturati e poi trasportati su carri bestiame in Germania. Il mio Michele riuscì fortunatamente a sfuggire in un primo tempo agli arresti ma non gli fu più possibile continuare il suo lavoro alla Breda e per guadagnarsi da vivere faceva lavori saltuari presso qualche artigiano o presso persone amiche.
Intanto si intensificava la lotta e si organizzavano colpi di mano contro le colonne tedesche e le brigate fasciste.
Passò l'estate e venne l'autunno. Un pomeriggio di settembre, uscendo di casa per incontrare i suoi compagni a Monza, mio marito mi disse che probabilmente quella sera non sarebbe tornato. Non tornò neanche l'indomani. Dopo due giorni ancora niente: allora, improvvisamente, fui assalita da un dubbio e da un'angoscia mortale. Messi a letto i bambini, corsi da una mia cugina e insieme ci recammo da tutte le persone che conoscevamo, nonostante il coprifuoco e l'ora tardissima. Nessuno sapeva niente.
La sera del giorno mi sorprese uno squillo di campanello. Era un tale che veniva a
consegnarmi la bicicletta e un biglietto di mio marito. Su quel biglietto mio marito aveva scritto: "Ci hanno arrestati e ci portano a Milano in camion”. Le mie ricerche non dettero alcun risultato: finalmente, dopo circa un mese arrivò a casa una cartolina postale dal carcere di San Vittore. Era una cartolina di mio marito il quale chiedeva notizie dei bambini e mi pregava di portargli una maglia e una camicia. Con il cuore pieno di speranza, il giorno dopo, mi presentai al portone del carcere. Qui il portiere mi avvertì che mio marito e un gruppo di "sovversivi" erano partiti nel cuore della notte, accompagnati alla stazione da dove sarebbero partiti quella mattina stessa per la Germania. Se fossi arrivata in tempo avrei forse potuto rivederlo un'ultima volta allo scalo Farini. Con il cuore in gola mi feci portare
allo scalo Farini , inutilmente: la stazione era deserta: il treno era partito da circa dieci minuti. Allora, piangendo in silenzio, tornai a casa.
Venti giorni più tardi ricevo una lettera da mio marito. "Siamo in un campo di concentramento fuori Bolzano. Allora decisi di andare a Bolzano. Con l'aiuto di mia cugina riuscii a racimolare i soldi per il viaggio ma proprio in quei giorni nuovi bombardamenti aerei avevano interrotto la linea ferroviaria del Brennero. Mentre aspettavamo che la linea ferroviaria venisse riattivata, arriva una nuova lettera da Bolzano spedita dalla persona che avrebbe dovuto far pervenire a Michele le mie lettere. "Suo marito, con tutti gli altri che erano con lui, è partito stamani alla volta della Germania".
Poi giunse la primavera e con la primavera la gioia della liberazione e la fine della guerra. "Tornerà? Ma quando? Arrivavano notizie amare di campi di sterminio, di atrocità compiute dai nazisti , arrivava ogni tanto a Milano o a Monza qualche superstite dei lager e raccontava cose terribili. Del mio Michele nessuna notizia.
Dopo circa due mesi fui avvisata che all'ospedale di Niguarda erano ricoverati alcuni deportati sopravvissuti. Con la forza della disperazione mi recai a Niguarda; percorrevo adagio adagio tutta la corsia, fermandomi a ogni letto e mostrando a tutti la fotografia del mio Michele. I ricoverati, pallidi e scheletriti , mi guardavano da sotto le coperte con i grandi occhi impauriti e non dicevano nulla. Nessuno, probabilmente, l'aveva incontrato o conosciuto. Una suora della corsia, vedendomi con la fotografia in mano, chiese incuriosita il motivo della mia visita e poi mi invitò a seguirla. Prese dei fogli, scorse un elenco di nomi e fu allora che la vidi impallidire. A bassa voce cominciò: "Signora, devo purtroppo darle una brutta notizia… da questo elenco risulta che...".
Allora il cuore mi mancò, pareva che si rompesse e mi sembrò di precipitare in un abisso. In un lampo avevo visto e capito tutto: piangevo e singhiozzavo così forte che un medico, dopo aver rimproverato la suora, volle a tutti i costi farmi un'iniezione per calmarmi. Senza più lacrime ma sempre singhiozzando scesi adagio le scale e uscii in strada. Solo in quel momento capii di essere sola: lui non sarebbe più tornato”.
A Michele Robecchi è dedicata la Sezione dell'A.N.P.I. di Muggiò.
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