L'incendio di Boves
Nei pressi di Cuneo, una delle prime stragi compiute dai nazisti nei primi giorni dell’occupazione dell’Italia dopo l’8 settembre 1943.
A Boves il tedesco applica per la prima volta la politica del terrore. Boves viene data alle fiamme il 19 settembre del 1943: sono trascorsi solo undici giorni dall'armistizio. Il racconto dell'incendio può iniziare da una annotazione diaristica:
Salimmo di corsa sulle colline del Giguttin e vedemmo il paese in un mare di fuoco. Impossibile! Incredibile! Dire l'impressione di sgomento e di disperazione che era nei nostri occhi non si può. Forse dovrei paragonarla ai sentimenti e alle tragedie cosidette classiche e storiche.
Quel settembre «era buono per i funghi ». Il padrone del caffè Cernaia imbottigliava il dolcetto arrivato da Dogliani; nella calzoleria Borello si preparavamo gli zoccoli, per i giorni di fango e di neve. Le cose di sempre in un villaggio piemontese che non aveva capito la guerra e neppure. la confusione, dopo la disfatta; vissuto per secoli nel suo quieto sogno di alberi, di fontane, di vicende e di commerci minimi; costretto ora a esprimete in poche ore, in una luce rossastra, tutta la capacità umana di soffrire. Perché. i tedeschi avevano deciso di impartire, a freddo, « una severa lezione ai ribelli» . La lezione è affidata al maggiore delle SS Joachim Peiper che ha occupato Cuneo l'11 settembre con 500 SS dotate di carri armati e di autoblindo: tedeschi duri, di quelli che manovrano e sparano con uno stile inconfondibile, dove riconosci. l'addestramento perfetto, ma anche il complesso di superiorità razziale. L'esperienza che sta per fare Boves non è nuova, è già stata fatta da molti villaggi dell'Europa occupata; ma quelli di Boves non sanno o non credono, nel loro sentimento si ritrova come denominatore comune, lo stupore.
Nei primi giorni i tedeschi hanno trascurato l'informazione sul ribellismo che nasce. Conoscono poco la lingua, i luoghi, non hanno ancora informatori fidati; e poi non devono credere a un ribellismo già organizzato, già articolato in formazioni diverse, certo non immaginano che in Italia possa essere nato in pochi giorni ciò che, altrove, ha richiesto mesi. Se fossero informati colpirebbero i gruppi politici, comunisti e azionisti, che sono il seme più forte della Resistenza. Invece attaccano a Boves un residuo dell'esercito, credono che a Boves siano rimasti reparti regolari, disponibili per la ribellione; e impartiscono la loro lezione preventiva del terrore. Il giorno 17 due aerei tedeschi sorvolano le pendici della Bisalta e lanciano manifestini invitanti alla resa. La marea degli sbandati, dei rifugiati, è già in calo, restano, nelle frazioni, forse cinquecento uomini; ma il 19 settembre, al momento di combattere, sono ridotti a cento, in maggioranza valligiani: alla sinistra i bovesani Renato Aimo e Bartolomeo Giuliano, con i compaesani; al centro Ignazio Vian, veneziano, impermeabile chiaro e occhi chiari con i suoi soldati della guardia di frontiera; alla destra il cuneese Gino Renaudo. I ribelli sono armati di fucili 91, di mitragliatrici Breda, di mitragliatori; il gruppo Vian ha un cannone da 75: colpi in dotazione, uno.
Peiper manda un'avanguardia a Boves nel pomeriggio del 18, cinquanta uomini con due pezzi da 88. Si fermano sul piazzale della fornace Regia e tirano sulle borgate, su Roccasetto, Moretto, Sant'Antonio, Castello, senza preavviso; poi entrano in Boves, chi li comanda fa radunare la popolazione in piazza e dice: «Se non volete che fuciliamo gli uomini andate in montagna e dite ai ribelli che hanno quarantott'ore di tempo per scendere. Se consegneranno le armi saranno lasciati liberi ». Qualcuno sale sulla montagna a informare i ribelli, ma ormai Aimo e gli altri del paese hanno deciso: «Meglio morire qui che darci prigionieri ».
Il giorno 19 Peiper manda a Boves due SS in automobile: soli, in un paese di cui si dice sia il centro della ribellione. Può essere la ricerca di un pretesto; o semplicemente l'ordine crudele di un comandante crudele; o anche il disprezzo per l'italiano smarrito e imbelle della disfatta. Alle 10 i due si fermano sulla piazza del paese e si guardano attorno; poi vorrebbero ripartire ma il motore si è guastato; e sono indaffarati a ripararlo quando arriva sulla piazza, mitragliatore sul tetto, un camion di ribelli, scesi per la corvée del pane. Non si spara neppure: i due vengono subito catturati, fatti salire sul camion, portati in montagna fra la gente che applaude. Poi la folla incomincia a diradarsi, dopo qualche minuto il paese sembra deserto. Le SS arrivano alle 12,30. Peiper va in municipio, cerca del podestà e del segretario comunale: sono già fuggiti in montagna. Si presentano il parroco don Giuseppe Bernardi e l'industriale Antonio Vassallo. «Andate lassù, fateveli restituire» urla il tedesco. «Risparmierà il paese? » chiede il prevosto. Peiper dà la sua parola. Il prete e l’industriale salgono da Vian al Castellar, in automobile, sventolando uno, straccio bianco. Dopo quaranta minuti tornano con i prigionieri; si è discusso fra Aimo, Giuliano e Vian, ma alla fine hanno deciso di dare ascolto al parroco: se vuole dica pure che i ribelli stanno sciogliendosi. Don Bernardi, ora che i prigionieri sono restituiti, non serve. più; Peiper rompe gli indugi, la lezione del terrore commcia subito, come raccontano le testimonianze.
Vedemmo le prime volute di fumo. Passò una donna gridando:. «Hanno ucciso Meo! Hanno ucciso Meo! ». Qualcuno dl noi scappò, io rimasi alla fontana per finire di lavare.
Avrebbero dovuto mantenere la parola, invece noi di dentro la trattoria sentimmo raffiche di mitraglia. Li per lì si decise di tornare a casa ma in quel momento entrò Beppe con la camicia insanguinata: «Sparano su tutti» disse.
Erano vestiti di giallo e di marrone come i teli-tenda. lo ero con uno di Rosbella. Gridarono qualcosa che non capimmo, poi si misero a sparare. Il mio compagno ebbe un braccio spezzato al gomito.
In piazza Italia un carro armato era fermo davanti l'osteria Cernaia. Vicino al carro c'era un giovane, lo riconoscemmo subito. Benvenuto Re di 17 anni. Visto che i tedeschi si erano allontanati e parevano non interessarsi di lui, lo esortammo a fuggire. Sorrise e rispose: «Am faran pa gnente ». Alla sera vidi il suo cadavere sulla piazza.
Lo stupore, in tutte le testimonianze della strage assurda.
A un ordine del maggiore Peiper don Giuseppe Bernardi e Antonio Vassallo vengono fatti salire su una camionetta. « Fategli ammirare lo spettacolo a questi signor!» dice Peiper. Il sadismo non è casuale, nella lezione nazista del terrore. La camionetta percorre lentamente il paese in fiamme, perché il signor prevosto possa vedere che ne è dei suoi parrocchiani.
Ero in casa entrarono tre tedeschi e si misero a cospargere con un liquido i mobili del nostro piccolo salotto. Ma perché li rovinate? dissi. Uno mi colpì al ventre con un calcio. Dopo vidi tutto bruciare attorno a me.
Così in centinaia di case. Alla fine del giro, il parroco e l'industriale vengono cosparsi di benzina, colpiti da raffiche, dati alle fiamme mentre agonizzano.
La lezione del terrore è distinta dalla repressione armata, della ribellione: a Boves si incendia e si spara sui civili, prima e durante i combattimenti con i ribelli. Mentre Boves brucia, una colonna di SS sale verso il Castellar. I partigiani hanno piazzato il loro pezzo da 75 al ponte del Sergent: spara il suo unico colpo alzo zero e immobilizza l'autoblindo di testa; poi il fuoco partigiano mette in fuga quelli dei camion. Sul terreno, presso il ponte, c'è il primo morto ribelle, un marinaio. Stanno seppellendolo, quando i tedeschi ritornano in forze: una decina di carri armati arrivano all'altezza del ponte, girano a destra nel prato e si allineano come per una parata. Ignazio Vian ha ordinato ai suoi di non sparare. I cannoni tedeschi aprono il fuoco, terra e corteccia di castagni volano in aria, passano sibilando i proiettili delle mitragliere; quelli esplosivi danno l'impressione che qualcuno spari anche dall'alto. Quando i tedeschi salgono all'attacco, Vian si mette a urlare ordini a reparti inesistenti, e poi con i pochi che gli sono rimasti vicino, forse venti uomini, va al contrattacco lanciando bombe a mano. I tedeschi si ritirano.
Intanto i contadini in armi sulle colline vedono il fumo che sale dalla parte di Boves. Di sera una luce rossastra si allarga nel cielo pallido. Aimo e Giuliano scendono a vedere Dirà Giuliano:
La cittadina pareva morta. Non vidi che cinque-sei persone.
Le fiamme erano sole a regnare sovrane, tutto divorando. Le due piazze erano illuminate a giorno; ogni tanto qualche figura umana passava fra i bagliori. Quasi ovunque si sarebbe potuto leggere il giornale, benché fossero ormai le dieci. Davanti la calzoleria Borello trovai un tale. Aveva una bottiglia in mano. «Mah », diceva, « casa mia brucia e io sono qui. Mah, beviamo ancora una volta».
Sulla montagna sono rimasti in pochi. Vian e i suoi sì spostano in val Vermenagna. A Boves il giorno 20 si contano i morti e le case distrutte: ventitré morti fra i civili, centinaia di case bruciate, i raccolti persi, il bestiame soffocato nelle stalle. Arriva da Cuneo il viceprefetto, trova il carabiniere Vota, lo manda a cercare qualche impiegato del municipio. Il carabiniere ritorna con gli impiegati Stefano Pellegrino e Antonio Barale. «Perché non siete in ufficio? Che state facendo?» «lo », dice Pellegrino, «è da due giorni che faccio il pompiere ». «Su, sbrighiamoci », fa il viceprefetto, « saliamo in municipio ». Dirà il testimone Pellegrino:
Quando arrivò al primo piano rimase male. Non c'era più nulla, tutto era scomparso. Si vedevano solo le macchine da scrivere contorte. Assicurai il vice prefetto che i registri dell'anagrafe erano stati messi in salvo. «Va bene» disse lui con le labbra che gli tremavano. «Vuoi venire al cimitero?» gli dissi. «No », disse lui, «ai riconoscimenti pensateci voi ». Se ne andò sconvolto, forse non aveva creduto di assistere a tanta tragedia. Andammo nel cimitero. A destra entro due piccole bare, don Bernardi e Vassallo. Sembravano due bambini tanto erano rattrappiti. Poi gli altri. Non posso dimenticare la smorfia terribile di Minicu du Siri. Era un mutilato di guerra.
Ignazio Vian, nato a Venezia nel 1917, impiccato a Torino il 22 luglio 1944, maestro elementare e studente in Magistero, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria.
Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera, l’8 settembre 1943 Vian era in servizio a Boves. All’annuncio dell’armistizio, fu tra i primi ad attestarsi sulla Bisalta, la montagna che sovrasta l’intera zona, per apprestarsi a rispondere con le armi all’incombente minaccia tedesca.
La lezione di Boves
Boves: la politica del terrore. Un'altra lezione diretta, inequivocabile. Prima arrivavano da·noi le notizie delle stragi commesse dai nazisti in Russia, in Polonia, nei Balcani, ma erano fatti lontani, spesso fraintesi. Si ascoltava la storia di un villaggio polacco o serbo messo a fuoco e si pensava all'epilogo di una battaglia regolare, alla distruzione di un campo nemico.Non si immaginavano o si immaginavano male la repressione preventiva, il terrore teorizzato, la strage a freddo, indifferente all'età e al sesso delle vittime. Boves insegna che un' villaggio può essere devastato solo perché il tedesco. ha deciso di rivolgere all'occupato «un energico ammonimento ».
Una politica che finisce per escludere ogni altra politica. Lo dimostra il comportamento di Peiper. Fa bruciare vivo il parroco: significa rinunciare, se non al favore, alla neutralità di un clero che, nella provincia contadina, ha un grande potere. Fa bruciare l'industriale Vassallo: significa rinunciare, se non all’appoggio, alla neutralità di una borghesia amante dell'ordine,. che potrebbe fare da cuscinetto fra l'occupante e la ribellione. A Peiper interessa unicamente la lezione del terrore, egli obbedisce solo alle sue ferree regole, previste fin dal 1940 nelle circolari del maresciallo Keitel, dettagliate nel codice degli ostaggi del generale von Stülpnagel: tanti fucilati per un danno alle .cose, tanti per un danno alle persone, con facoltà al Comandi locali di aggravare o di attenuare la rappresaglia. Una politica che nasce da una ipotesi assurda, la schiavitù altrui, e finisce in una pratica assurda, l'impossibile sterminio di tutti i nemici, il delirante tentativo hitleriano: «Dobbiamo essere crudeli. Dobbiamo esserlo con tranquilla coscienza. Dobbiamo distruggere tecnicamente scientificamente, tutti i nostri nemici». La distruzione totale dei nemici è un'utopia che gronda sangue. Qualcuno dei nemici sopravvive sempre, il numero dei nemici aumenta di continuo.
Boves, per quanto possa apparire assurdo, offre questo triste conforto: la strage e la crudeltà hanno un fondo, un villaggio bruciato non è un villaggio distrutto e un villaggio distrutto non sarebbe la fine della Resistenza. I ribelli scesi a Boves la sera dell’incendio hanno incontrato i paesani in fuga: si sono salutati, si sono parlati. È stato un altro amaro conforto: una popolazione punita, perseguitata dall'occupante, non è una popolazione ostile alla ribellione, è una popolazione ormai legata alla ribellione.
da “Storia dell’Italia partigiana “ di Giorgio Bocca - Editrice Laterza 1980