Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Cronologia: settembre 1939 - giugno 1940

25 Janvier 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

La non belligeranza (settembre 1939-giugno 1940)

 

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Le prime reazioni alla notizia del non intervento dell'Italia furono di impetuoso ottimismo. Non solo e non tanto per il momentaneo scampato pericolo, ma anche perché si riprodussero vecchie, impenitenti illusioni: sulla rottura probabile (già in atto, anzi) dell'odiata alleanza con Hitler; l'aprirsi di' nuove prospettive "democratiche" per il regime; l'eventualità auspicata dai piu ardimentosi, di un futuro intervento a fianco delle potenze democratiche, con il duplice vantaggio di contribuire a eliminare dal cuore dell'Europa il cancro del nazismo e di "condizionare" il fascismo in rapporto alle mutate alleanze.

Tali illusioni si propalarono, durante alcune settimane, non solo in larga parte dell'opinione pubblica, ma anche in ambienti fascisti, dove i partigiani dell'intervento al fianco della Germania si ridussero una minoranza esigua e ben individuata: segnatamente i due gruppi che si raccoglievano attorno al Regime fascista di Farinacci e all'altro quotidiano razzista Il Tevere, di Roma.

Difficile è dire se fosse frutto di ottimismo (oppure di una chiaroveggenza di segno opposto) il forte movimento al rialzo che si verificò nelle borse a partire dal 4 settembre.

Gli ambienti finanziari erano, forse, i meglio informati e, sia che puntassero sui vantaggi della non-belligeranza, sia che facessero affidamento sulle commesse belliche, certo è che "comprarono" per tutto settembre.

L'unico che parve non partecipare alla generale euforia fu Mussolini che, per tre settimane, non si fece sentire.

Presero, così, a correre voci secondo cui era ormai stato "accantonato" dai maggiori gerarchi e dal re, che la sua fortuna - legata, da più di tre anni, all'altro dittatore - fosse al tramonto.

 

I primi sintomi allarmanti

A spezzare questo strano incanto, che neppure il pauroso sviluppo degli eventi bellici (Varsavia era caduta l'8 settembre, una settimana dopo l'invasione) era riuscito a dissipare, intervennero, nel giro di un mese, tre avvenimenti significativi.

Il 23 settembre '39, il duce ruppe il silenzio e, parlando ai gerarchi della "X Legio", li avvertì che era ora di liberarsi della "zavorra" dei "disfattisti, "dei" massoni," degli "ebrei," degli " esterofili" e di "ripulire gli angolini", ove questi "rottami" avevano trovato rifugio: in buona sostanza, coloro che avessero puntato sulla pace avevano fatto un gioco sbagliato.

Seconda doccia fredda: il 1° ottobre Ciano si recò a Berlino, per conferire con Hitler; negli ambienti "bene informati" si disse che quella nuova missione mirava a trovare una via d'intesa per arrestare la guerra. La Polonia era ormai spacciata, dopo che l'URSS, il 17 settembre, ne aveva varcato le frontiere dall'altra parte, ma sul fronte d'Occidente si susseguivano le "notti calme ", le ostilità tra tedeschi e franco-inglesi non avevano, praticamente, ancora avuto inizio.

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Si confidò, quindi, in una mediazione italiana, ma due settimane dopo apparve chiaro che Hitler non intendeva fermarsi.

Il 31 ottobre '39 si ebbe un repentino cambio della guardia nelle gerarchie del regime. Starace fu sostituito da Ettore Muti, al partito; Alessandro Pavolini rimpiazzò Alfieri alla Cultura Popolare; Renato Ricci andò alle Corporazioni al posto di Lantini, ecc.

Le prime voci, fondate sui rapporti d'amicizia o di vera e propria sudditanza che legavano alcuni dei nuovi ministri a Galeazzo Ciano, fecero pensare che le cose volgevano al meglio: si parlò di "gabinetto Ciano" e, al solito, le speranze sostituirono il ragionamento.

La realtà era diversa: anche se alcuni dei nuovi ministri erano amici di Ciano, essi erano, prima ancora, uomini del partito, di provata fede, di sicura disciplina (ottusi, magari, e faziosi, più di quelli che erano chiamati a sostituire); proprio per questo, ubbidienti e adatti alla bisogna e la bisogna, anche se Ciano stesso s'illudeva, era la guerra.

Un altro brutto indizio - o presagio - fece pensare al peggio (quelli che pensavano). Il 9 novembre '39 fu data notizia che la polizia tedesca aveva sventato a Monaco un attentato contro Hitler predisposto in occasione dell'annuale riunione nella storica birreria.

Non occorreva troppo acume per indovinare che la storia era un pretesto per togliere di mezzo, anche in Germania, eventuali oppositori alla prosecuzione della guerra. Già si era appreso che il gen. Fritsch, il capo della Reichswehr allontanato dal comando alla vigilia dell'Anschluss, era "caduto in battaglia" al fianco dei suoi soldati, dei quali aveva rivestito la semplice divisa. Ora, alla notizia del presunto attentato (diramata con tono quasi trionfale da Berlino) erano seguite quelle di repressioni, arresti, esecuzioni sommarie: di pari passo con la perfetta macchina militare, era scattata la spietata macchina della Gestapo.

Si indovinò anche (lo si era imparato, ormai) che un fatto del genere avrebbe trovato a Roma immediata anche se, per certi aspetti, goffa risonanza. Si ebbe notizia, infatti, di un certo "giro di vite". Ma, soprattutto, si seppe che, sul finire dell'anno e agli inizi del '40, numerosi arresti di "sovversivi" erano stati compiuti anche in Italia.

 

Impressioni contrastanti

Ma la speranza era dura a morire. Una nuova ondata euforica si verificò nel dicembre '39. Il 16, alla Camera, Ciano espose le ragioni della non-belligeranza italiana e trapelò dal discorso che questo atteggiamento era dovuto a qualcosa come una violazione degli accordi da parte della Germania: l'Italia non si trovava quasi più impegnata dal patto d'acciaio. Comunque, la pace avrebbe dovuto essere garantita per altri tre anni. In un'epoca in cui la sopravvivenza si misurava a giorni, questo lasso di tempo parve immenso.

Poco dopo, il 21 dicembre, il re e la regina si recarono a far visita al Papa e, dall'insieme delle cerimonie, dei comunicati, delle voci, anche questo avvenimento diede motivo di fiducia. Fu detto che Papa e re erano d'accordo che l'Italia passasse dalla non-belligeranza alla neutralità. Nelle borse si ebbero altri rialzi: la grossa borghesia continuava a comprare. Buono o cattivo indizio?

Ognuno lo interpretò a suo modo. Ma il più strano era che ogni giorno, intanto, si muovevano attacchi allo "spirito borghese": i borghesi italiani (anche se mai individuati personalmente) erano raffrontati, in quelle polemiche, notoriamente promosse dal partito, agli stranieri democratici o, addirittura, additati all'odio popolare.

In realtà, il disegno della propaganda fascista non era né troppo misterioso né peregrino: si mirava a persuadere il popolo che la guerra sarebbe stata, così come antiplutocratica all'esterno, anche antiborghese all'interno.

A febbraio, l'allarme divenne più pronunciato: la stampa metteva particolare cura a dimostrare le vessazioni che l'Italia stava subendo per via del blocco navale anglo-francese, che rarefaceva i rifornimenti, causava aumenti nei prezzi, ci rendeva, insomma, prigionieri nel nostro mare. Furono "sensibilizzati" diversi incidenti: navi italiane fermate o dirottate, minacce di "embargo" da parte francese. L'Inghilterra si avviava a meritarsi il titolo di "perfida Albione."

Una strana manovra venne effettuata dal Giornale d'Italia, sul finire del febbraio '40: Virginio Gayda pubblicò due o tre articoli in cui s'illustravano i pregi di un'eventuale alleanza contro le democrazie plutocratiche dei "tre regimi totalitari", fascismo, nazismo e bolscevismo, di cui si ponevano in luce, insolitamente, le pretese "affinità".

Il 18 marzo '40, Mussolini s'incontrò con Hitler al Brennero.

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Corsero voci contrastanti. Gli inguaribili ottimisti dissero che il duce era andato a prospettare al Führer certe proposte di accomodamento che il segretario di Stato americano Sumner Welles, venuto nei giorni precedenti due volte a Roma, aveva recato. Ma la maggioranza degli italiani non condivideva ormai più queste illusioni e, poiché la stampa si manteneva nel generico, fermenti di malumore serpeggiarono un po' ovunque.

La polizia, sempre attentissima, evitò che il rientro di Mussolini avvenisse con troppo clamore, temendo che il giochetto di gridare "pace - pace". in luogo di "duce - duce", fosse ripetuto. A "fare folla" vennero comandate alcune centinaia d'agenti in borghese, pochi scalmanati dei gruppi rionali e gli uscieri della federazione romana e della direzione del partito.

 

Verso la guerra

Che le cose volgessero ormai al peggio si capi, nel marzo-aprile da certi inasprimenti della polemica di stampa contro Inghilterra e Francia, dal fatto che la lotta contro l'esterofilia fu intensificata e anche da taluni sintomi che si notarono negli ambienti fascisti: quei gerarchi che non avevano dissimulato, anche con i più periferici collaboratori il proprio neutralismo facevano adesso macchina indietro.

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Agli inizi di aprile, Hitler attaccò proditoriamente Danimarca e Norvegia e l'esito folgorante delle due operazioni fu Il primo concreto segnale d'allarme, anche per noi: la guerra, a quel modo, era una bellezza; non prendere parte al bottino era da idioti.

Questo, purtroppo, lo stato d'animo che si diffuse, non solo tra i gerarchi, ma in ambienti borghesi che, poc'anzi, si erano mostrati scettici e malcontenti, e perfino tra certi intellettuali che, in verità, erano sempre stati assai ligi verso il regime ma, ultimamente, avevano dato a credere in un ravvedimento. Sulla scorta di notizie sufficientemente indicative, la stragrande maggioranza della gente semplice non si lasciò prendere da queste infatuazioni. Fu colpita, sgomenta, ammirata magari per la precisione e l'efficacia dei colpi nazisti. E, semmai, proprio per questo, cadde in una cupa desolazione, si disanimò: prevedendo ormai
il peggio, rimase passiva.

Non era ancora uscita, questa parte prevalente dell'opinione pubblica, dall'impressione provocata dai tremendi colpi hitleriani in Danimarca e Norvegia, che seguirono, del pari folgoranti, il 10 maggio '40, l'invasione dell'Olanda e del Belgio e la sconcertante disfatta francese.

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Le "notti calme" erano finite sulla Maginot. A fine maggio, tutte le forze capaci di difendere la “Francia eterna" erano chiuse a Dunkerque

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 e non riuscivano- neppure a salvarsi con la fuga. (Nel corso dell’offensiva tedesca in Francia, il 20 maggio 1940, la Wehrmacht riuscì a dividere in due le armate alleate che tentavano di attraversare la manica. Questa manovra costrinse le 45 divisioni franco-britanniche a ripiegare sulla regione di Dunkerque. Circa un milione di uomini si trovarono accerchiati dalle divisioni tedesche. Le forze franco-britanniche riuscirono ad aprirsi un varco di un centinaio di chilometri di lunghezza e di una trentina di larghezza per consentire il trasferimento delle truppe.

L’operazione “Dynamo”, sotto il comando del vice-ammiraglio Bertram Ramsey, durò dal 26 maggio al 4 giugno e consentì la salvezza di circa 338.000 soldati, di cui 123.000 francesi. La Wehrmacht fece 35.000 prigionieri).

Mussolini - ogni italiano ormai lo sapeva - non stava più nella pelle. Il resto è noto ...

 

Bibliografia:

Ruggero Zangrandi - Il lungo viaggio attraverso il fascismo - Garzanti 1971

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