Dai morti del 1898 al regicidio di Umberto I
A Milano nel maggio 1898, in cinque giorni di assedio e di azioni militari per «ristabilire l'ordine» il generale Bava Beccaris, si sentì autorizzato a lanciare contro la folla le cariche dei cavalleggeri e a sparare sui popolani con i cannoni del III Corpo d’Armata. Si contarono, secondo i dati ufficiali, 80 morti e 450 feriti. Anche a Monza i morti furono 7 e 18 i feriti.
La folla manifestava nelle strade e nelle piazze per chiedere di sospendere la partenza dei richiamati alle armi (partire significava perdere il posto di lavoro, togliere entrate al già magro bilancio familiare); per rivendicare libertà sindacali e politiche, la riduzione del prezzo della farina e del pane.
A Milano vennero arrestati dirigenti socialisti e democratici, lavoratori; a Monza finirono in carcere i massimi rappresentanti della Camera del Lavoro e del movimento socialista, e altri venticinque cittadini, in gran parte operai.
I processi per i fatti di Monza, si svolsero presso il tribunale militare di Milano nell'ultima settimana di maggio e alla fine di giugno. Trentuno, complessivamente, gli imputati.
Tra loro anche Angelo Arosio, diciottenne, di Lissone, accusato di avere gridato: «Abbasso la borghesia! Viva il socialismo!» e di avere cantato l'inno dei lavoratori, l'8 maggio, alla stazione di Lissone.
Dai morti del 1898 al regicidio
«I quattro anni che vanno dal marzo 1896 al dicembre 1900 sono tra i più tumultuosi e spettacolari di tutta la storia dell'Italia unitaria. moti di piazza repressi nel sangue, parlamentari che rompono le urne, attentati anarchici, duelli di leaders politici e, per finire, un regicidio: nulla manca al quadro di una fine di secolo densa di paure apocalittiche e di grandi speranze» .
Alcuni di questi fatti clamorosi accaddero nel capoluogo brianzolo. A Monza il movimento operaio aveva già conosciuto l'asprezza della repressione governativa che era culminata nell'86 con lo scioglimento del Poi e delle organizzazioni proletarie decretato da Depretis e nel '94 con l'analogo provvedimento di Crispi contro il Psi. Ma i fatti del '98 andarono oltre queste drammatiche esperienze; alle persecuzioni, agli arresti, al carcere, alle perquisizioni nelle sedi sindacali e socialiste, chiuse d'autorità, si aggiunsero le fucilate della truppa contro la folla che manifestava nelle strade e nelle piazze per chiedere di sospendere la partenza dei richiamati alle armi (partire significava perdere il posto di lavoro, togliere entrate al già magro bilancio familiare); per rivendicare libertà sindacali e politiche, la riduzione del prezzo della farina e del pane; per condannare i tragici fatti di Milano: il giorno prima - 6 maggio 1898 -, agenti di pubblica sicurezza e fanti del 2° battaglione e del 5° reggimento, per reprimere una manifestazione popolare avevano sparato contro due piccoli gruppi di dimostranti lasciando sul terreno due morti e 14 feriti. Incominciava così la sanguinosa repressione di Bava Beccaris, che non esitò a far sparare cannonate sulla folla inerme e per espugnare il convento dei cappuccini di Porta Monforte, scambiando frati e mendicanti per «un'armata rivoluzionaria». In cinque giorni di assedio e di azioni militari per «ristabilire l'ordine», nella capitale lombarda si contarono, secondo i dati ufficiali, 80 morti e 450 feriti.
Le disposizioni del generale Bava Beccaris alla truppa erano chiare:
«Uscendo oggi, in servizio di pubblica sicurezza, al comando dato, la truppa farà fuoco. Gli ufficiali e i soldati siano preparati e ricordino che colui che non obbedisce sarà punito come dal codice penale militare». E i militari le rispettarono anche a Monza: il 7 maggio spararono su un gruppo di dimostranti. «Il Corriere della Sera», il giorno dopo, riporterà la seguente notizia: «La truppa stasera alle 22,30 circa in piazza San Michele, davanti alla caserma di San Paolo, ha caricato la folla. Tre morti e dodici feriti. La folla continua a tenere occupata la piazza e si sentono, mentre telefono, gli squilli. La dimostrazione era sul principio rappresentata da circa quattromila individui, ma al momento della tragedia il numero era assai scemato». I morti, in realtà, furono 7 e 18 i feriti.
Un autorevole testimone di quella tragica giornata, Ettore Reina, da un mese segretario della Camera del Lavoro, ha ricostruito così gli avvenimenti del 7 maggio.
La prima manifestazione si svolse in piazza della Stazione. «Nel nostro caso la scintilla fu, a quanto sembra, l'ordine venuto da Milano di sospendere il servizio del tram a cavalli, ordine giunto qui accompagnato dalle voci più assurde [...]. Milano era gremita di barricate [...] i morti non si contavano più ...». In poche ore si radunarono migliaia e migliaia di persone fronteggiate da un'ottantina di soldati. Il Reina si adoperò per evitare lo scontro: parlò all'ispettore di pubblica sicurezza che accompagnava la truppa, propose alla folla la nomina di una delegazione che portasse proteste e rivendicazioni al sottoprefetto, in piazzetta S. Maurizio, ottenendo. un buon risultato. La delegazione, guidata dall'onorevole Pennati, fu accompagnata da un lungo corteo. Più tardi un gruppo di persone, in gran parte donne, si recava a protestare davanti alla caserma in piazza S. Michele. E si ricompose così un altro assembramento. Reina che, aiutato da altri compagni sindacalisti e di partito, anche qui cercò di placare la protesta della folla, racconterà: «... Ormai, sulla piazza non son più che un centinaio di persone, urlanti ancora l'ultimo fiato della giornata [...]. Le due file di soldati rimangono, schierate, al loro posto, il fucile a pied'arm. Ci apriamo un varco fra la gente, accalcata dinnanzi, rada dopo le prime file. Siam fuori ... Andiamo». Più tardi, il segretario della Camera del Lavoro di Monza si incontra con Giuseppe Citterio, dirigente sindacale, che «era stato a Milano», e Gerardo Solzi, un altro compagno «che aveva preso il mio posto» in piazza S. Michele. «Ci avviammo giù per la via Ognissanti. A un tratto, un rombo secco rompe l'aria .... , un urlo, forte, straziante ... poi, un altro rombo, e un altro ... ancora. "Sparano! Sparano!". E via di corsa, di nuovo, verso la piazza. La gente fuggiva urlando, imprecando ... "Largo, largo!". Le palle passavan fischiando, sibilando alle orecchie. La piazza era pregna di fumo. L'ultima eco degli spari si perdeva nell'aria mista di gemiti, urla, maledizioni. Qua e là, per terra, una massa nera... E dalla massa nera venivan strazianti, disperate grida di dolore».
Riprendiamo un altro passo della testimonianza del Reina «Attraversammo la piazza. Sotto l'Arengario la gente si stipava terrorizzata ed esasperata nello stesso tempo. "Ci sono due morti", "Hanno ferito anche una donna", "Avete visto quello sotto la tettoia?". Tutta una folla di domande che ci stringeva, ci asserragliava d'ogni parte; e assieme, imprecazioni, bestemmie". È un'infamia! Un'iniquità! Maledetti!". "Andate, andate, andate a casa, per Dio, prima che succeda di peggio. Ve l'avevamo pur detto. Andate a casa". E rompiamo la folla. Arriviamo quasi di corsa, io e l'amico Citterio, alla piazzetta S. Maurizio. "C'è il Sottoprefetto?". "No, è andato a pranzo. C'è il Comandante Militare"». «... Ritorniamo in piazza. Il morto dalla fronte spaccata era ancora là, sotto la tettoia, in un lago di sangue, e attorno, un gruppetto di persone commentava, rabbrividendo. "Presto, portiamolo via; portiamolo all'ospedale". Ci si china per prenderlo. Pam! pam! pam! Nuovi colpi fendono l'aria, diretti, sembra, verso di noi. Farsi ammazzare per raccogliere un cadavere, proprio, non francava la spesa. Lasciamo quindi il corpo sanguinante, e ci ritiriamo. Torniamo alla Prefettura. Lungo la strada il compagno Braga si unisce a noi. Sopra, dal Sottoprefetto, era già l'On. Pennati, anche lui colle lagrime agli occhi, coll'orrore diffuso sul volto, colle mani convulse. Arrivano, dalla piazza, il tenente dei carabinieri e l'ispettore di P.S., ma nessuno di essi sapeva dar ragione del fatto ... Uscendo, passammo tra una doppia fila di militari colla baionetta innestata ... Era il primo sangue che si versava in Monza, da che l'Italia era risorta a nazione libera ed unita ...».
Nello stesso giorno a Milano il generale Bava Beccaris si preparava a far tuonare addirittura i cannoni nella città posta in stato d'assedio. Ha scritto, in una ricostruzione di quegli avvenimenti, Ugoberto Alfassio Grimaldi: «Bava Beccaris, nato 63 anni prima a Fossano (Cuneo), si accinge a vivere la sua ora: l'esercito, sconfitto dagli Abissini nel 1896, cercherà la gloria sulle piazze di Milano». Ma i morti del 1898, compresi quelli di Monza, nelle due città in lutto, oltre alla disfatta di Adua, evocarono le Cinque giornate del 1848 e non tanto per certe analogie fra i due avvenimenti, quanto per lo spirito antipopolare che aveva animato, prima, il Piemonte sabaudo e il suo esercito e che si ritrovava cinquant'anni dopo ancora operante nello Stato unitario come luttuosa riconferma dei suoi angusti limiti d'origine.
Il 7 maggio, mentre la truppa sparava a Monza, a Milano i soldati bivaccavano in piazza del Duomo, padroni della situazione. «Ma ormai Bava Beccaris è scatenato. La fantasia lo ha convinto di trovarsi nel cuore di una insurrezione preordinata e di essere davvero assediato ed ordina ai comandanti di abolire i tre squilli di tromba, che per regolamento devono precedere il fuoco, e di sparare senza preavviso. Possono anche usare il cannone. Con siffatto stato d'animo gli è facile dar credito alle voci che parlano di migliaia di studenti che da Pavia e da altri atenei stanno calando, armati, su Milano in bicicletta e a chi afferma l'esistenza di una congiura di repubblicani, anarchici e socialisti che avrebbe le sue radici nel Canton Ticino. Bava Beccaris non ha più esitazioni: "Ha sorpreso il mondo per la rapidità e l'energia dei provvedimenti", scrive "L'illustrazione Italiana"». L'8 maggio sarà una domenica di sangue. Il generale fossanese, in piazza del Duomo, «fermo per ore sul cavallo, detta i suoi comandi: proibisce l'uso della bicicletta, scioglie le associazioni democratiche (partiti, cooperative, sindacati, la Società Umanitaria e anche centinaia di associazioni cattoliche) e ne arresta gli esponenti, sopprime i giornali di opposizione, militarizza i ferrovieri» .
Come ai tempi delle Cinque giornate - ma allora i timori degli austriaci scaturivano da fatti reali, - «si paventano bande di contadini famelici muniti di sacchi e di bastoni. "Marmaglia avida di saccheggio", dice "La Gazzetta del Popolo" e "La Stampa" fa eco: sono i giornali di Torino, dove in quei giorni si trova il re per commemorare lo Statuto».
Le tragiche giornate nella testimonianza di Reina
A Monza intanto si tiravano le somme della tragica serata: alla farmacia Predari erano stati medicati quindici feriti; in ospedale tra i feriti più gravi decedevano poche ore dopo il ricovero la casalinga Teresa Meroni, di 49 anni, che era stata raccolta davanti all'osteria del Moro, con la spina dorsale attraversata da un proiettile; «il meccanico ventenne Piatti Carlo, ferito all'ombelico e colle gambe fracassate, e l'imbiancatore Assi Gerardo, di 27 anni, cui una palla aveva asportato la parete addominale. Degli altri che morirono poi, agonizzavano ancora, all'Ospedale, Villa Carlo d'anni 18, e Vergani Pasquale, di 29 anni, ferito al basso ventre, entrambi cappellai. Altri ancora, feriti meno gravemente, aspettavano laggiù la guarigione per passare, dall'Ospedale, alle carceri: Caccianiga Carlo, un cappellaio che quel sabato stesso aveva estratto il numero per la coscrizione, e a cui una palla aveva attraversato il polpaccio; Vannin Valentino, cappellaio, di 24 anni, ferito alla testa, e a cui il tribunale di guerra regalava poi, a titolo di indennizzo, 2 anni e mezzo di reclusione; Remoti Silvio, cappellaio, ferito a una gamba; Figini Domenico, altro cappellaio, ferito ad una mano; l'apprettatore Derenti Eligio, ferito pure alle gambe; il cappellaio Erba Natale, ferito alle mani; Ferrerio Pompeo, commesso, che, attraversando la piazza, era stato raggiunto da una palla e ferito ad un braccio; Del Corno Giovanni, meccanico, che chinatosi per rialzare ed aiutare la povera Meroni, s'era buscato una palla nel deretano; il meccanico Ratti Edoardo, ferito a un polpaccio; Pastori Giovanni, ferito al naso da una sciabolata; Mauri Carlo, ferito ad un polpaccio; Camesasca Vincenzo, ferito al capo e tradotto alle carceri la sera stessa ...». A questo elenco vanno aggiunti i primi due caduti in piazza San Michele: Giacomo Castoldi, di 44 anni, fornaio e il quattordicenne Antonio Sala, figlio del proprietario dell'osteria del Moro, ucciso da una fucilata al cuore.
La giunta comunale, ha scritto Ettore Reina, si faceva finalmente sentire, ma il giorno dopo l'eccidio, con il seguente manifesto: «Cittadini! È dovere di tutti gli onesti il procurare, con ogni loro possa, che non si prolunghino, ne si rinnovino agitazioni e fatti, che lasciano, purtroppo, dietro di sé lagrimevole strascico di dolori e di lutti. Torni la città nostra alla calma ed al proficuo lavoro. La Rappresentanza Comunale vi rivolge questo invito, vi fa questa preghiera, certa che vorrete ascoltarla, e certa ancora che - compresi della gravità dell'attuale momento - vorrete concorrere coll'opera e col consiglio vostro al mantenimento della pubblica e privata tranquillità».
Poi, sotto la scorta di soldati, veniva affisso un altro manifesto che annunciava le decisioni del generale Bava Beccaris: stato d'assedio, la chiusura di ogni esercizio pubblico entro le ore 21, coprifuoco alle 22 e la consegna entro 24 ore «di tutte le armi da fuoco».
A Milano Bava Beccaris decise anche di rinviare di un giorno la riapertura delle fabbriche, ma a Monza gli operai che si recarono al lavoro il martedì mattina trovarono i portoni degli stabilimenti sbarrati. Riprendiamo la testimonianza del segretario della Camera del Lavoro: «Verso Borgo Milano, dove gli opifici son più numerosi, le vie formicolavano di operai e di operaie, incerte del da farsi; e i soldati schierati, i carabinieri pattuglianti, guardavano quei piccoli assembramenti, pronti ad intervenire per scioglierli. Alcuni compagni della Commissione Esecutiva della Camera del Lavoro s'avvidero del pericolo e subito, circolando tra i vari gruppi, consigliarono gli operai stessi a tornarsene alle loro case [...]. La stessa mattina del martedì, verso le 8, la Commissione Esecutiva della Camera del Lavoro si riuniva, al completo, per deliberare il da farsi. Si venne allora a sapere che gli industriali, adunatisi il lunedì, s'erano accordati di tener chiusi gli stabilimenti fino a quando una commissione di operai non si fosse recata a chiederne la riapertura. La, discussione fu breve [...] ». La decisione fu riassunta in un manifesto, che il Reina ha così ricostruito a memoria: «Operai ed operaie, questo stato di cose, dannoso agli interessi degli operai ed alla causa loro, deve cessare; è necessario che la nostra industre città riprenda la sua vita normale; è necessario che gli operai ritornino al lavoro. La Commissione Esecutiva della vostra Camera del Lavoro si recherà oggi da tutti i signori industriali a chiedere la riapertura degli stabilimenti. Operai, ascoltate la voce dei vostri compagni di lavoro; tornate alle vostre occupazioni, fidenti nella vostra coscienza, nell'opera delle vostre Associazioni. Monza, 10 maggio 1898».
Ettore Reina, Giuseppe Citterio e Vittorio Casiraghi si recarono quindi in delegazione dal sottoprefetto per chiedere il permesso di affissione. Ma il «comandante militare riteneva superflua la pubblicazione del manifesto; aveva anzi già provvisto perché il lavoro venisse ripreso dovunque. Noi, aggiunge il Sottoprefetto, avremmo dovuto in quei giorni, starcene zitti; sparire, se fosse stato possibile, perché gli ordini venuti erano categorici [...] per quanto dolorosi. L'antifona era chiara: si voleva, con un paterno consiglio, indurci a fuggire, ad esulare nella vicina Svizzera, per poter poi riversare su di noi la responsabilità di quei fatti che si dovevano all'incuria governativa pei bisogni popolari, a sistemi di governo basati sulla repressione e su di una politica megalomane e dissanguante». Ma i dirigenti della Camera del Lavoro non accettarono quel « consiglio» e decisero di restare al loro posto di responsabilità.
Infine, il Comandante Militare di Monza e Circondario, Colonnello Cocito, provvedeva a far conoscere ai monzesi i suoi orientamenti e le sue intenzioni con un manifesto che merita di essere riprodotto, almeno nelle sue parti essenziali, che sono le seguenti: «Io voglio sperare che i lamentati tumulti non avranno a ripetersi, con grave danno di queste industri popolazioni; ma se ciò accadesse, avverto che è mio fermo intendimento di adoperare tutti i mezzi che sono in mio potere, per ottenere prontamente acché ritorni la tranquillità indispensabile al commercio, all'industria, e al rispetto di quella libertà, per la quale i nostri padri e molti di noi abbiamo combattuto e che ora, per opera di malconsigliati, si vorrebbe calpestare. Monzesi! Io vi esorto a riprendere i vostri lavori, a continuare nella vostra vita abituale, laboriosa e quieta, e ad evitare di unirvi, anche per semplice curiosità a quei dimostranti che, malauguratamente, intendessero di promuovere nuovi disordini; e vi dò il paterno consiglio di non permettere che le vostre donne ed i vostri ragazzi si espongano, inconsciamente, al pericolo di essere coinvolti nella repressione, la quale, ove occorra, ho ordinato alle truppe dipendenti sia pronta, energica e completa. Confido nel vostro patriottismo, il quale mi dà guarentigia che il compito mio non mi riuscirà difficile».
Arresti e scioglimento della Camera del Lavoro e del circolo socialista
L'opera di questi rappresentanti di Bava Beccaris veniva portata a termine nella nottata tra il 10 e l'11 maggio con l'arresto dei dirigenti della Camera del Lavoro. A Milano erano già stati arrestati i dirigenti socialisti Turati, Anna Kuliscioff, Emilio Caldara, Rondani, D'Aragona, l'anarchico. Pietro Gori, il radicale Ramussi, direttore del «Secolo», il repubblicano De Andreis e don Davide Albertario, direttore dell'«Osservatore Cattolico» e altri dirigenti democratici e lavoratori; a Monza finirono in carcere Reina, Citterio, Giuseppe Braga, Rosa Braga, Beretta, Solzi, il dottor Mauri, Maria Cernuschi, cioè i massimi rappresentanti della Camera del Lavoro e del movimento socialista, e altri venticinque cittadini, in gran parte operai. Al Reina notificarono lo scioglimento della Camera del Lavoro e la soppressione del giornale «Brianza lavoratrice» e al Solzi lo scioglimento del circolo socialista.
I processi, quattro, per i fatti di Monza, si svolsero presso il tribunale militare di Milano, il primo nell'ultima settimana di maggio, altri due il 31 e l'ultimo il 30 giugno. Trentuno, complessivamente, gli imputati, tra cui Reina, Citterio, Solzi, diciotto cappellai, due meccanici, due tessitori, un marmista, un contadino, un calzolaio e un fumista. Reina, Citterio e Solzi furono assolti per «non provata reità»; gli altri subirono condanne che andavano da 14 giorni di arresto a 2 anni di reclusione e 2 anni di vigilanza. Al processo dei sindacalisti, l'ultimo, l'atto d'accusa diceva che i primi sedici imputati il 7 maggio «si erano recati in giro per far chiudere gli opifici, ottenendo lo scopo; che avevano impedito la partenza dei soldati richiamati della classe 1873, gridando e tumultuando, scagliando sassi contro le finestre del quartiere ove stavano accasermati i richiamati». Tutti gli imputati inoltre erano presentati come membri della Camera del Lavoro di Monza, un’associazione che negli ultimi due anni aveva svolto «un'attiva propaganda socialista e di resistenza contro il padronato»; Reina infine era pure segnalato come direttore della «Brianza Lavoratrice». Altri due imputati, Attilio Riva di Varenna e Angelo Arosio, diciottenne, di Lissone, erano accusati di avere gridato: «Abbasso la borghesia! Viva il socialismo!» e di avere cantato l'inno dei lavoratori, l'8 maggio, alla stazione di Lissone.
Ettore Reina ha così riassunto l'inizio del suo interrogatorio: «Dichiarai che da un solo mese ero segretario della Camera del Lavoro di Monza, e rifeci la storia dei fatti dolorosi del maggio e dell'operato della Camera del Lavoro, ribattendo le false affermazioni dei rapporti polizieschi. Ad un certo punto l'ambiente si riscaldò. Avendo io affermato che poca gente era in piazza, la sera, quando si fecero le fucilate, il Presidente mi interruppe, dicendomi: "Dunque, secondo lei, hanno fatto fuoco su una ventina di persone che non facevano niente e pensavano ai fatti loro. Si sarebbe dovuto dunque, attese le sue osservazioni, arrestare la truppa che aveva fatto fuoco, anziché i rivoltosi". Risposi franco, eludendo la tendenziosità della domanda: "lo dico solo questo: non so quale fatto materiale abbia potuto determinare la scarica di fucilate, ed ho protestato perché era necessaria una maggiore longanimità, prima di venire a fatti dolorosi"».
In conclusione, nonostante tutti gli sforzi del pubblico ministero e dei carabinieri di dimostrare l'esistenza di un complotto guidato da Reina, Citterio e Solzi, il tribunale si trovò di fronte addirittura a una lunga serie di testimonianze che presentavano i tre maggiori imputati come protagonisti di un'intensa opera pacificatrice. Sostennero questa tesi anche l'onorevole Oreste Pennati, Rodolfo Paleari, principale del Solzi, il cavalier Carlo Ricci, un altro industriale che addirittura elogiò il comportamento corretto del Reina in occasione di scioperi, il sottoprefetto di Monza, Giuseppe Lucio, Carlo Belloni, principale del Braga, e Giuseppe Riva. Su quest'ultima testimonianza, in Dieci anni dopo, Reina scriverà: «L'ora professore e cavaliere Riva Giuseppe, allora corrispondente della "Perseveranza" "Sera" e "Corriere della Sera", e adesso Segretario della Federazione Industriali, disse: "Quando io arrivai in piazza, seppi che il Reina aveva arringato la folla, invitandola alla calma e infatti ottenne un buon risultato, perché la truppa che andò alla stazione tornò indietro senza avere fatto nessuna repressione. La sera poi fui presente io stesso, quando Citterio e Solzi raccomandavano la calma anzi il Solzi ebbe dei rimproveri da una donna, alla quale disse di andare a casa a far le calze"».
Ma per il pubblico ministero del tribunale militare questi sindacalisti che ponevano argini alla protesta popolare, appartenevano comunque a una «scuola del delitto» che andava estirpata. Sono scesi in piazza a predicare la calma? Attenzione all'astuzia e alla malafede! Non si deve ignorare che «gli scopi della Camera del Lavoro e del Circolo elettorale socialista sono scopi delittuosi». E- ancora: «Gli articoli della "Brianza Lavoratrice" servono a me per far intendere a voi quali soggetti siano il Reina, il Solzi e il Citterio». L'origine della protesta popolare, la sparatoria, i morti, e i feriti, le testimonianze, non trovavano spazio nell'arringa del rappresentante dell'accusa.
E così si svelava l'essenza liberticida di quel processo che era stata offuscata da imputati e personaggi illustri di Monza - autorità, personalità politiche, industriali - pronti a rimpiangere e a rievocare in quella circostanza lo spirito filantropico e paternalistico del vecchio ambiente cittadino: con la tesi del pubblico ministero la cruda realtà riprendeva il sopravvento facendo riaffiorare l'aspro segno reazionario di quei luttuosi fatti e dei successivi arresti. Un segno che poi sarebbe riapparso non tanto nelle 28 condanne che si aggiungevano al centinaio di sentenze per i «cinque giorni» di Milano, quanto nell'onorificenza, la croce di grand'ufficiale dell'ordine militare di Savoia, che Umberto I conferirà a Bava Beccaris e infine nelle leggi eccezionali del governo Pelloux .. «Alla fine di questa strada c'è il dramma del regicidio di Monza [...]. Si scriverà che con quel gesto il re firmava la propria condanna a morte: un anarchico emigrato a Patterson, Gaetano Bresci, confesserà di essere stato mosso a preparare l'attentato del 29 luglio 1900 specialmente dalle cannonate di Bava Beccaris e dall'incredibile concessione di un'onorificenza al cannoneggiatore».
Bibliografia:
Emilio Diligenti e Alfredo Pozzi - La Brianza in un secolo di storia d'Italia (1848-1945) –Teti Editore 1980