Dopo la Liberazione. Epurazione ed amnistia: gli obiettivi mancati
Già nel 1943, conseguentemente alla caduta di Mussolini ed allo scioglimento delle organizzazioni fasciste, erano state previste delle sanzioni che avrebbero dovuto colpire i responsabili della dittatura.
Inoltre si trattava di ripulire la pubblica amministrazione da coloro che avessero tratto indebiti benefici anche soltanto grazie ad ambìti avanzamenti di carriera, ottenuti unicamente per "benemerenze fasciste".
Dopo la liberazione di Roma, allorché venne costituita la Repubblica sociale italiana ed i suoi aderenti ripiegarono al nord del Paese, da parte del governo legittimo venne emanato un primo decreto legge luogotenenziale, in data 27/7/1944 n.159, intitolato "Sanzioni contro il fascismo".
Il decreto prevedeva:
l - Epurazione della pubblica amministrazione
2 - Punizione dei delitti fascisti (ante e post 8 settembre 1943)
3 - Avocazione dei profitti di regime
Il decreto recava le firme di tutti i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale.
Tra l'altro esso prevedeva la retrocessione dal grado ed il rinvio ai ruoli di provenienza di tutti i funzionari dello Stato che avessero, dopo l' 8 settembre, seguito al nord il Governo repubblicano fascista o, in ogni caso, gli avessero prestato collaborazione.
Si considerava inoltre il riesame e l'eventuale punizione dei delitti fascisti perpetrati sin dal 28/10/1922 che avevano consentito l'instaurazione della dittatura, e successivamente, tutte le forme di collaborazione con il tedesco invasore, delitti commessi che avrebbero dovuto essere sottoposti alle norme del Codice militare di guerra.
Dimessi 200 senatori
Contemporaneamente vennero dichiarati decaduti dalla carica oltre duecento senatori le cui responsabilità furono accertate da una Speciale Corte di Giustizia, che li ritenne responsabili di avere, con i loro voti e con i loro atti, collaborato alla entrata in guerra del Paese, con le drammatiche conseguenze che ora apparivano sotto gli occhi di tutti.
E' alquanto paradossale constatare che il decreto venne firmato dal Luogotenente del Regno, ossia l'erede del monarca Vittorio Emanuele III, al quale si dovevano imputare le maggiori e più gravi responsabilità.
Venne nominato un Alto Commissario, assistito da Commissari aggiunti, ed in ogni provincia furono istituite delle Commissioni per l'epurazione composte da un magistrato, un funzionario di prefettura ed un membro designato dall'Alto Commissario.
Ciò evidentemente per il territorio non più sottoposto ai nazifascisti, ma le stesse regole vennero adottate anche nel resto del Paese all'indomani della sua totale liberazione.
E' facilmente comprensibile la complessività e la mole di lavoro che si presentava a coloro che erano stati designati a tale compito. Presto si sarebbe dovuto constatare come fosse stato ottimistico il giudizio che era stato espresso sullo svolgimento di tale attività, in quanto le norme potevano prestarsi ad interpretazioni di merito e soggettive, sfociando talvolta in criteri di esagerato rigore e tal'altra di eccessiva tolleranza.
Forse anche, aggiungiamo noi, non si era valutato nella effettiva realtà, l'enorme numero di italiani compromessi in un modo o nell'altro col regime.
Vi è da dire che da un primo esame dell'attività svolta dall'Alto Commissario alla data del 31/12/1944, le segnalazioni ottenute dalle varie amministrazioni, per lo più in base ad ordinanze del Governo militare alleato, risultarono ben 2900 contro solo 1258 dell'Alto Commissario aggiunto. Così, dall'attività delle Commissioni di primo grado, su un totale di 3588 casi sottoposti a giudizio di epurazione, 597 furono risolti con la dispensa dal servizio, 1461 con lievi sanzioni e 1530 con il proscioglimento.
Eccessiva tolleranza da parte degli inquirenti o, sotto sotto, un diffuso senso di omertà affiorante dalle coscienze inquiete di tanti italiani?
Seguirono poi un gran numero di ricorsi, generalmente accolti anche, particolarmente dopo al nord, come conseguenza dei mutamenti del clima politico del Paese ed in relazione alle prime avvisaglie di un mondo diviso in due blocchi sostanzialmente opposti.
Tutto ciò si riferisce in un primo tempo a quanto accadde nell'Italia liberata, il che non si discosta però dagli esiti che successivamente si registrarono in tutto il Paese a liberazione avvenuta, coinvolgendo e compromettendo spesso anche l'attività delle Corti d'Assise straordinarie e in minor misura i deliberati di primo grado della magistratura ordinaria.
La mancata epurazione fra i funzionari
Da una ricerca sull' argomento è risultato infatti che ancora nel 1960, su 64 prefetti di prima classe in servizio, ben 62 erano stati funzionari degli Interni durante la dittatura fascista e, su 241 vice-prefetti, tutti indistintamente avevano fatto parte dell'amministrazione dello Stato negli anni del fascismo.
Inoltre, su 135 questori, 120 avevano fatto parte della polizia fascista e su 139 vice-questori, solo 5 risultavano aver contribuito in qualche modo alla Lotta di Liberazione.
Per contro, nel nuovo clima instauratosi dopo la proclamazione della Repubblica nei confronti dei partigiani e degli antifascisti, i provvedimenti di clemenza furono adottati in maniera palesemente restrittiva, mentre nello stesso tempo, la maggior parte dei funzionari epurati veniva reintegrata con la liquidazione degli arretrati e delle spettanze che erano state loro tolte a seguito dei provvedimenti di epurazione.
Dopo queste per necessità, succinte considerazioni, è d'obbligo esprimere alcune riflessioni sul decreto d'amnistia che, per motivi diversi e seri, contribuì ad una soluzione negativa del problema della defascistizzazione del Paese. Risultato questo che invece, avrebbe potuto essere fondato oltre che su di una giusta punizione, anche e soprattutto, su di una personale e convinta autocritica da parte di quanti si erano infatuati della dittatura o, ancor peggio, avessero, per interessi privati, coinvolto ai vari livelli le istituzioni e gli organi amministrativi. Particolarmente negli anni Cinquanta, ma anche dopo e tuttora, quando si parla di amnistia, si ascoltano giudizi ed opinioni diverse che, come spesso accade, trovano sempre, in maniera spiccia e disinvolta, il solito capro espiatorio al quale addossare colpe e responsabilità.
Il compromesso: l'amnistia
Una analisi seria venne fatta, alla fine del 1947, da Alessandro Galante Garrone
con un saggio dal titolo: Crisi della Resistenza, nella cui premessa scriveva:
"Non eravamo animati da spirito di vendetta. Non avevamo la pretesa che la magistratura dovesse infierire per mesi e anni contro tutti i responsabili ed i complici, maggiori e minori, del fascismo, per tener fede agli ideali della Resistenza. Non chiedevamo che su tutti i colpevoli del fascismo eternamente gravasse una maledizione inesorabile.
Sapevamo che i compagni caduti sulla via della nostra liberazione e del nostro riscatto non avevano combattuto per opprimere i loro oppressori.
E sentivamo anche, con obiettività di magistrati e coscienza di cittadini, che letterale applicazione non avrebbero potuto trovare tutte le norme stabilite per la punizione dei delitti dal legislatore di Roma (quanto lontano e remoto, in quei giorni della Resistenza, allorché ci pervenne il testo del decreto Bonomi, quel governo legittimo che non aveva mai dichiarato ribelli e fuori legge i collaborazionisti del Nord!); perché troppo iniquo e profondo sarebbe stato lo sconvolgimento della nazione se tutte le forme di collaborazione con il tedesco invasore, anche le meno gravi, fossero state colpite come la lettera della legge avrebbe voluto con tanto severo rigore.
Ma ci saremmo ribellati, allora, come cittadini e magistrati se ci avessero detto che i governi e la magistratura della nuova Italia avrebbero tutto, o quasi tutto, cancellato e ricoperto con il velo pietoso dell'oblio e del perdono: tutto, anche le colpe più gravi e le responsabilità più grandi. Ed invece è stato così: ed oggi, a trenta mesi dalla liberazione, non ci resta che il gramo e malinconico compito di un triste e doloroso bilancio".
Lo scritto di Galante Garrone si chiude con una severa critica ai modi in cui venne applicato il decreto d'amnistia, per l'indeterminatezza di alcuni articoli della legge che prevedevano giudizi necessariamente severi ma lasciavano ampio margine all’interpretazione.
Era il caso soprattutto di quegli enunciati che condizionavano la pena al fatto di aver commesso:
- atti rilevanti nell'aver contribuito a mantenere in rigore il regime fascista
- stragi particolarmente efferate verso popolazioni e partigiani
- attività antinazionale con prolungate forme di intelligenza, di competenza o di collaborazione con i tedeschi.
Tali formulazioni lasciavano ampio spazio a cavilli, giustificazioni e spesso anche all'impiego di testimonianze favorevoli all'accusato, anche da parte di coloro che i fascisti avevano in vario modo perseguitati.
A completare l'opera sopraggiunse il Decreto Luogotenenziale del 4/8/1945 che garantiva l'amnistia a tutti coloro che, pur avendo collaborato con la RSI ed il tedesco invasore, avessero aiutato in qualche modo i partigiani.
Ne risultò che tutti poterono avanzare benemerenze che, nella maggior parte dei casi, si erano precostituite in vista del crollo finale.
Non soltanto questi furono gli elementi che determinarono il fallimento dell'epurazione, motivazioni e responsabilità diverse ne contribuirono l'inefficacia.
Esempio nella provincia di Como
Anche nel caso dell' epurazione nella provincia di Como, emerge come nella maggior parte dei procedimenti di primo grado il giudizio e le sentenze della magistratura furono ispirate ad un corretto senso di giustizia ed equità. Furono gli esiti dei ricorsi sia in Appello sia, peggio ancora, in Cassazione che, con interpretazioni unilaterali e nella maniera più formale del decreto di amnistia, spalancarono i cancelli delle prigioni anche ai maggiori responsabili ed ai seviziatori fascisti.
Sarebbe comunque ingiusto addossare tutte le responsabilità ai politici per il decreto prima e l'amnistia poi, soltanto ed unicamente ad essi od alla magistratura. E' necessario tener conto anche di· altri fattori, non meno importanti, che sicuramente stanno all'origine del parziale fallimento dell'epurazione.
E' notorio come la Resistenza e i CLN, svestiti da ogni tentazione che ne facciano dei miti, non fossero un blocco omogeneo anche se, pur tra difficoltà e contrasti, le diverse forze si sforzassero di agire unitariamente.
Inoltre l'Italia si trovava divisa in due: il Meridione sotto l'influenza alleata inglese ed americana, ciascuno con la propria collocazione politica ed istituzionale, ossia gli inglesi filo monarchici e gli americani democratici o repubblicani e il Nord occupato dai tedeschi con il governo fantoccio di Salò.
All'interno poi dei CLN convivevano comunisti, socialisti, azionisti da una parte e cattolici, liberali e monarchici dall'altra, ognuno con le proprie diversità più o meno palesi.
Tutto ciò non poteva non influire sui risultati finali dell'epurazione anche perché, per affrontare la Lotta di Liberazione, fu giocoforza accantonare la questione istituzionale, monarchia o repubblica, sia per facilitare la partecipazione delle forze militari in buona parte legate alla tradizione monarchica, sia anche perché ciò costituiva la condizione sine qua non per l'appoggio e l'aiuto da parte degli Alleati.
E' fondamentale poi considerare come il concetto di Lotta di Liberazione, mentre da parte di una collocazione politica ed ideologica significava soltanto la liberazione dalla occupazione nazifascista per una democrazia parlamentare erede, sia pure con i dovuti aggiornamenti, di quella prefascista, dall'altra essa rappresentava soltanto l'obiettivo primario, la premessa per una società di tipo nuovo che traesse la sua ispirazione da taluni principi basati su di un profondo rinnovamento di carattere etico-sociale e amministrativo, oltre che su quelli di carattere economico improntati ad una maggiore giustizia sociale.
Ad eccezione della Cassazione, da sempre più vicina ai poteri vecchi e nuovi, e i cui rappresentanti provenivano dal fascismo, al quale molti dovevano le loro rapide e prestigiose carriere, la magistratura stessa era divisa in due categorie: una, più sensibile alle dolorose vicende delle vittime del nazifascismo, per i suoi delitti e le sue stragi, l'altra, non sempre da considerarsi filofascista, che si atteneva scrupolosamente alle norme dei codici.
Codici che in gran parte erano il frutto di quella legislazione che nel ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco aveva trovato ispirazione ed applicazione sia con l'avallo di Mussolini sia, il che fu ancor più grave, dell'inetto monarca.
da un articolo di Giusto Perretta in “Monito della storia. Dalla Liberazione alla guerra fredda 1945-1948”. Numero unico a cura dell’Istituto di Storia Contemporanea Pier Amato Perretta – Como, aprile 1999
Giusto Perretta
Nasce a Napoli il 5 luglio 1919; giunge con la famiglia a Como nel 1921. Diplomatosi perito edile, nel 1938 viene chiamato alle armi e destinato ad Homs (Tripolitania) nella Divisione “Sirte”; partecipa quale Tenente di artiglieria contraerea con il Gruppo Divisioni Libiche all’avanzata su Sidi El Barrani. E’ catturato nel dicembre del 1940 nel corso della controffensiva inglese e trattenuto quale prigioniero di guerra in India fino al 1946.
La guerra è particolarmente tragica per la famiglia Perretta: nel 1941 il fratello Fortunato cade sul fronte greco-albanese; l’altro fratello Lucio viene deportato in Germania dopo l’8 settembre 1943 e internato per due anni, inoltre nel settembre 1944 il padre Pier Amato, avvocato antifascista espulso dalla magistratura e dirigente della Resistenza viene ucciso a Milano dai nazifascisti.
Rientrato a Como nel 1946, Giusto Perretta svolge l’attività lavorativa in città, poi a Milano nel settore della Cooperazione come Vice Presidente della Coop Lombardia dedicandosi nello stesso tempo all’impegno civile e politico. E’ Segretario quindi Presidente dell’ANPI e Consigliere provinciale per una legislatura. Da membro dell’Istituto Lombardo del Movimento di Liberazione, nel 1977 promuove la fondazione dell’omonimo Istituto Comasco, del quale ricopre la carica di Direttore fino al 1994, poi quella di Presidente fino all’aprile del 1997. Nel corso di questa attività è fra l’altro promotore della nascita a Como del Monumento alla Resistenza europea. E’ stato autore di numerosi studi di storia locale su Resistenza e Cooperazione è stato insignito dell’Abbondino d’oro da parte del Comune di Como.