Fratelli
23 Décembre 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale
dal libro Scritto sulla neve opera di Carlo Chiavazza, un cappellano militare che ha accompagnato gli alpini della divisione Tridentina prima nella ritirata dal Don e più tardi sulle colline cuneesi, partigiano fra partigiani. Chiavazza, che dopo la guerra è passato al giornalismo, è appunto nato in quella parte del Piemonte chiamata «la provincia granda», che è compresa fra Cuneo, Alba, Fossano, Saluzzo, Mondovì e che è terra di gente silenziosa e umanissima.
Qui l'Autore riporta con accento di commozione un episodio, al quale ha assistito durante la ritirata di Russia. È un episodio di pietà fraterna, perché in mezzo a tanta disperazione, a tanta cecità, a tanto disumano furore, ci ridà una più giusta misura dell’uomo.
Dopo una breve salita vediamo in basso in un avvallamento un gruppo di case. Qualcuna brucia e attorno ombre allungate si agitano confusamente. Non percepiamo ancora i rumori. Altre colonne di alpini avanzano nella nostra medesima direzione.
All'ingresso del villaggio alcuni cartelli di legno a forma di freccia infissi ad un palo indicano le varie strade che si dipartono da un quadrivio appena accennato sulla neve. Leggo solo dei numeri e parecchie volte la parola «armestrasse».
Nessuno conosce il nome del villaggio. Alcune isbe bruciano, fuochi sono stati accesi all'aperto, le slitte con i muli attaccati sostano in fila indiana oppure raccolte a cerchio. Le case non sono sufficienti ad ospitare la massa dei soldati. I feriti rimangono nelle slitte uno di fianco all'altro sotto coperte dal colore indefinibile. Ogni tanto si sente il lamento di qualcuno.
Da un'isba esce un alpino: è alto, tarchiato. Sul pastrano porta un telo di casermaggio tenuto fermo sul collo da un pezzo di fil di ferro. Con passo stanco va verso una slitta priva di mulo e di cavallo.
È uno slittino modesto con basse sponde di legno.
L'alpino s'inginocchia di fianco e scopre il volto di due uomini distesi. Al primo sorregge il capo e versa adagio in bocca un liquido nerastro che dovrebbe essere caffè, al secondo consegna una patata cotta sul fuoco.
M'inginocchio anch'io dall'altro fianco della slitta.
Chiedo: «Di che battaglione siete? »
«Del Tirano» risponde il giovanotto che sta mangiando la patata quasi religiosamente a piccoli bocconi inghiottendo tutto, pelle, polpa, cenere, pezzetti di carbone.
L'alpino di fronte, inginocchiato come me mi guarda con infinito dolore. Alla luce della luna mi pare di vedere due occhi pieni di lacrime. Non piange ma una disperata tristezza rende tesi i lineamenti del volto. Parla adagio come se volesse risparmiare anche la voce: «Sono miei fratelli» dice, «uno è ferito e l'altro è congelato ai piedi. Non li ho voluti abbandonare nelle isbe. Li porto via con me.»
«Chi trascina la slitta?»
«Io».
«Ce la fai?».
«Ogni tanto, sulle salite, qualcuno mi dà una mano. È duro ma ce la farò. Nostra madre ci aspetta a casa. »
Il ferito emette un sospiro, un breve lamento.
Tiene gli occhi chiusi, è molto pallido. Gli prendo il polso: mi pare gravissimo, sento i battiti del cuore. Sulla giubba brilla l'oro dei gradi di sergente. Non ne avrà per molto, la morte sta arrivando al galoppo. Il congelato continua a mangiare la patata, il fratello inginocchiato di fronte sembra interrogarmi con gli occhi.
«Come lo trova?».
«Non c'è male».
«Crede che riuscirà a resistere sino fuori della sacca?»
«Può darsi che tra poco stia meglio. »
«Gli ho fatto prendere il caffè. L'ho riscaldato nell'isba. Mi preoccupa la ferita dello stomaco. Ma è robusto, è sempre stato il più robusto di tutti e anche “il più intelligente”
Non oso dire la verità, l’eroismo tragico del giovane alpino mi sbalordisce. Con mano leggera ricopre il volto del fratello «più intelligente» e mi viene accanto.
Ripete la frase prima: «Come lo trova?».
Lo vorrei tanto abbracciare, nobile ragazzo dal cuore meraviglioso, cuore di alpino, di fratello dolcissimo. Lo vorrei tanto consolare e anche illuderlo con il dirgli: "Guarda che sta meglio, che guarirà". Sento le mie labbra ripetere due volte monotone la cupa frase:
«È grave, è grave"».
Il giovane abbassa Il capo. Lo stringo a me: « Hai mangiato? Hai preso qualche cosa? Devi essere coraggioso».
«Perché? »
«Per tornare a casa».
«Se non vengono loro con me ... » non finisce la frase, ha la gola chiusa in un singhiozzo represso. Rientra nell'isba ed esce poco dopo con lo zaino sulle spalle. S'aggiusta alcune corde e due tiranti di stoffa attorno alla vita I due fratelli giacciono nella slitta sotto le coperte di colore indefinibile. L'alpino lega i tiranti alla slitta prova a smuoverla. È pesante, ma riesce con facilità.
Si volta verso di me e si tocca il cappello in un saluto quasi cameratesco: «Arrivederci, cappellano». Ogni segno di commozione e scomparso dal suo volto. Ha una grinta dura, quella degli alpini che vanno all'attacco. Anch'egli va incontro alla notte, al dramma di un calvario senza nome con una tenue speranza. Mentre sta per svoltare dietro a un'isba mi guarda ancora: «In bocca al lupo» grido. Fa segno di sì e scompare con passo affaticato verso la pista di ghiaccio sotto il pallore della luna.
Bibliografia.
Carlo Chiavazza - Scritto sulla neve - Ponte Nuovo Editrice, Bologna, 1964 pp. 84-87
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