Gli ebrei nella nazione italiana
Il processo di acquisizione del diritto di cittadinanza degli ebrei cominciato con l’unità d’Italia è interrotto brutalmente dal fascismo nel 1938. La loro identità ne resterà irrimediabilmente segnata.
Alla fine del XIX secolo, in un’epoca in cui l’antisemitismo imperava in diversi paesi d’Europa, la situazione degli ebrei d’Italia appariva invece invidiabile. A Roma, capitale del Regno d’Italia, dove gli ebrei erano stati gli ultimi ad ottenere l’uguaglianza dei diritti, il ricordo dell’affare Mortara ormai si allontanava (nel 1858, nonostante una grande mobilitazione, il potere pontificio aveva rifiutato di restituire alla sua famiglia ebrea un bambino battezzato dalla sua nutrice cattolica). Inoltre, a partire dal 1886, il quartiere insalubre del ghetto veniva demolito in vista di un nuovo piano di urbanizzazione.
Per gli ebrei d’Italia, che avevano partecipato con entusiasmo alle rivoluzioni del 1848 e alle guerre del Risorgimento, l’unificazione coincise con l’uguaglianza di condizioni sia sul piano civile che politico. Gli ebrei erano diventati italiani nello stesso tempo come i cattolici, sia che fossero piemontesi siciliani o napoletani. Questo processo, definito da alcuni intellettuali italiani, e in particolare da Antonio Gramsci, di «nazionalizzazione parallela» è stato spesso evidenziato per spiegare un carattere limitato dell’antisemitismo in Italia. Gli ebrei italiani sono i primi a ritenere che è iniziato un processo di assimilazione. Nel 1884, David Prato, rabbino di Roma, parla di «ebrei di religione italiana». Molti indici attestano la riuscita del processo d’integrazione nel crogiolo nazionale: il numero di matrimoni misti, le difficoltà del sionismo a penetrare nella penisola, l’evoluzione sociologica. Dopo il 1870, molti conoscono un’ascensione sociale rapida in seno alle professioni liberali e nella funzione pubblica; un certo numero di loro accedono, inoltre, alle più alte cariche amministrative e politiche. L’importanza di una dimensione municipale nella cultura politica italiana fu probabilmente un elemento favorevole all’integrazione delle comunità ebree. Mediante le identità comunali, ebrei e non ebrei si riuniscono per un’appartenenza comune, uniti da un legame altrettanto forte come quello nazionale.
Incaricato di trasmettere al re gli omaggi della comunità ebrea romana,nel 1870, il generale Cadorna gli consegna una lettera in cui gli ebrei di Roma salutano il sovrano in qualità di italiani, romani e israeliti. Nel 1874, il presidente del comitato dell’Alleanza israelita universale di Roma, Samuel Toscano, ammise che il campanilismo era un dono essenziale della cultura italiana, ivi compreso per gli ebrei. L’emancipazione è allora inscritta nel paesaggio urbano con la costruzione di edifici religiosi a carattere monumentale, non senza un paradosso, per gli ebrei, come per i cattolici, che si dovevano confrontare con la laicizzazione della società. Per proclamare la fine di un’epoca che imponeva agli ebrei dei luoghi di culto nascosti, furono costruite delle vere «sinagoghe-cattedrali» nelle più grandi città di cui Roma e Torino sono gli esempi più eclatanti.
Un’eccezione italiana.
Tuttavia questa integrazione non fu realizzata senza ostacoli. Nonostante i numerosi atti di devozione degli ebrei di fronte alle istituzioni e alla Casa Savoia, persisteva un sentimento di precarietà nei rapporti con la popolazione. In città come Roma e Venezia sussistevano dei pregiudizi antiebrei. Alcune testimonianze attestano la permanenza di un antisemitismo di matrice religiosa maggiormente tra la popolazione cattolica, abituata a sentire i sacerdoti definire gli ebrei come «perfidi» durante la preghiera del Venerdì santo. Questo antisemitismo non era, però, comparabile con quello esistente in altri paesi d’Europa, che si fondava su un antisemitismo politico. Mentre in Francia e in Germania si sviluppavano leghe e movimenti di massa antisemiti, l’Italia ne era risparmiata. Tra il nazionalismo italiano l’antisemitismo restò circoscritto, anche dopo la guerra di Libia. Il 1911 fu un momento in cui l’Italia si trovò esposta ai temi ricorrenti dell’antisemitismo, come la denuncia di un «giudaismo internazionale» (presentato come un ostacolo alla conquista coloniale).
Il quadro idilliaco di una integrazione perfettamente armoniosa degli ebrei della nazione italiana va smorzato: non esiste una forma di eccezione italiana. La svolta del fascismo italiano fu brutale.
L’inizio dell’antisemitismo di Stato ha inizio il 14 luglio 1938. Il Giornale d’Italia pubblica un articolo non firmato con il titolo «Il fascismo e i problemi della razza». In dieci punti, e sotto forma di una dottrina pseudo-scientifica, il regime fascista dà inizio alla politica antisemita: «Le razze umane esistono; ci sono delle razze inferiori e superiori; il concetto di razza è puramente biologico; la popolazione italiana è di origine ariana; è ora che gli italiani si dichiarino francamente razzisti; gli ebrei non appartengono alla razza italiana ...».
Questo decalogo del razzismo italiano, chiamato di seguito «manifesto degli scienziati», è stato a lungo pensato e approvato da Mussolini prima di essere reso pubblico. Per i 47.000 ebrei presenti in Italia, grande fu lo stupore per il cambiamento politico e ideologico così repentino.
Dal 22 agosto 1938, un censimento speciale degli ebrei fu ordinato dal ministero degli Interni, che creò una Divisione per la demografia e la razza (Demorazza). Prime vittime della politica discriminatoria sono gli ebrei stranieri che sono obbligati a lasciare il territorio dal 7 settembre. Il 17 novembre 1938, il decreto legge enunciando le misure per la difesa della razza italiana, attacca questa volta gli ebrei italiani.
La definizione di ebreo si accompagna, classicamente, con una serie di interdizioni che saranno, col passare dei mesi, moltiplicate ed aggravate, e riguarderanno i matrimoni con gli «ariani», il servizio militare, le professioni che hanno rapporti con la difesa, il possesso di beni oltre certi valori, l’impiego nelle pubbliche amministrazioni e nel parastato.
Gli ebrei ex combattenti o iscritti al Partito fascista prima della marcia su Roma del 1922 sono mesi al riparo da certe misure discriminatorie concernenti la possibilità di possedere dei beni.
Cittadini di seconda categoria.
In qualche settimana, gli ebrei italiani sono diventati cittadini di seconda categoria quando la loro presenza non sia giudicata indesiderabile. Il cambiamento di rotta del fascismo sembra tanto più brutale in quanto l’antisemitismo era assente dalla dottrina fascista fino alla metà degli anni ’30.
Dalla sua cella, Vittorio Foa, antifascista ed ebreo, scriveva ancora nel luglio 1938: «Non si sono mai avuti e non esistono dei sentimenti antisemiti altrove se non in qualche gruppo di intellettuali invidiosi e consapevoli della loro mediocrità».
C’erano alcuni nazionalisti e fascisti antisemiti virulenti come Farinacci, Interlandi, e ancora il prete spretato Giovanni Preziosi. La rivista La vita italiana era una delle tribune di denuncia di un complotto ebreo internazionale. Tuttavia l’antisemitismo rimase circoscritto a qualche circolo ristretto della destra fascista e nazionalista; proprio come in seno al cattolicesimo, l’antisemitismo militante era prerogativa di una corrente minoritaria.
In un contesto dove gli ebrei erano ancora degli italiani come gli altri, la comunità ebrea si era divisa di fronte al fascismo: alcuni si erano iscritti, dal 1921, al Partito fascista, che, a differenza del NSDAP (partito nazionalsocialista tedesco) non manifestava alcuna ostilità antiebrea.
Nel 1934, in seguito all’arresto di un gruppo di 17 antifascisti tra i quali figuravano alcuni ebrei, la stampa aveva denunciato, per qualche settimana, «gli ebrei al soldo degli esiliati antifascisti».
A partire dal 1936, quando l’Italia si riavvicinò alla Germania, gli attacchi antisemiti si fecero più frequenti sulla stampa e la città di Ferrara conobbe, per la prima volta da più di alcuni decenni, una manifestazione antisemita. L’anno seguente, sulla stampa nazionale, e in modo particolare su Il Popolo d’Italia, quotidiano del Partito fascista, ebbe grande eco, al suo apparire, l’opera Gli ebrei in Italia, in cui, l’autore, Paolo Oriano, invitava gli ebrei a rinunciare a ogni identità specifica se si consideravano italiani. Per qualche mese, la denuncia del sionismo fu il principale vettore degli attacchi contro gli ebrei.
Nel febbraio 1938, un articolo dell’Information diplomatique (scritto da Mussolini) smentiva ancora l’intenzione del governo di mettere in opera una politica antisemita, evocando, tuttavia, l’intenzione di impedire che «gli ebrei occupino nella nazione un posto spoporzionato in rapporto al loro numero e ai loro meriti». Riunita in assemblea straordinaria, la comunità ebrea di Torino accolse questa dichiarazione con opportunismo: «In Italia non esiste dell’antisemitismo», «la tempesta passerà e la calma ritornerà ...».
L’attuazione di un antisemitismo di Stato fu così un atto politico pensato, programmato diversi mesi prima e adottato dai responsabili fascisti senza la minima pressione della Germania.
Se il contesto diplomatico dell’Asse Roma-Berlino (proclamato nel 1936) non fu estraneo alla decisione del governo, questa evoluzione procede con una dinamica ideologica e politica propria del fascismo italiano.
Nella seconda metà degli anni ’30, all’indomani della conquista dell’Etiopia (1935-1936), il duce intende assicurare la continuità del regime ed accelerare la trasformazione totalitaria della società. Il tema della seconda rivoluzione fascista è all’ordine del giorno sotto forma di un progetto tendente a rigenerare la razza.
Nel contesto della conquista dell’Etiopia, la paura di vedere il «madamismo» (l’acquisto di una concubina, o il concubinaggio tra civili e militari italiani con donne etiopi, porta a rinforzare la volontà di lottare contro il meticciato. Nell’aprile del 1937 una legge vieta agli italiani di mantenere «relazioni a carattere coniugale» con donne dell’Africa orientale italiana. Quando vengono adottate le misure antisemite, la questione della purezza della razza è già all’ordine del giorno da più di due anni e i sostenitori di un antisemitismo di Stato possono facilmente presentare il loro progetto come uno dei mezzi necessari per l’instaurazione di un ordine fascista totalitario. Eppure il legame tra il razzismo praticato in Etiopia e l’antisemitismo di Stato non ha tanto radici ideologiche ma è un disegno politico tendente a trasformare lo stile, il comportamento e perfino l’essere intimo degli italiani: creare un uomo nuovo fascista.
In che misura le leggi antisemite furono veramente applicate e che seguito trovarono nella società le direttive del governo?
Contrariamente ad una vulgata a lungo tempo diffusa, non vi fu moderazione, anzi, nel 1938, i giornali facevano a gara per criticare, denunciare e schermire gli ebrei italiani e stranieri.
Una rivista militante, La difesa della razza, vera vetrina del razzismo all’italiana, venne lanciata con grande sostegno pubblicitario e diffusa nei licei e nelle università. In qualche mese, la propaganda di odio raggiunge un livello elevato, come se la stampa avesse voluto cancellare più decenni di tolleranza. Tra le organizzazioni fasciste, i GUF (Gruppi universitari fascisti) diedero prova di un’inventiva particolare di satira antisemita.
Conformandosi alla lettera e allo spirito della legge e delle circolari, le amministrazioni fecero applicare con zelo ed efficacia le direttive del governo, sia che si trattasse di censire gli ebrei sia di escluderli da alcune professioni. Il decreto legge per la «difesa della razza nelle scuole fasciste» fu uno dei primi ad essere adottato nel mese di settembre 1938. Gli insegnanti ebrei furono allora esclusi dall’insegnamento, dalle scuole elementari all’università, tanto che i bambini dovettero lasciare le scuole pubbliche e frequentare delle scuole separate. Benché la popolazione non fosse favorevole, nel suo insieme, a tali misure, proteste e segni di opposizione furono di una minoranza.
Nel Partito fascista, che contava nel 1939 2,5 milioni dia derenti, un migliaio di persone furono escluse per «pietismo», espressione utilizzata dalla propaganda fascista per designare coloro che manifestavano compassione e solidarietà nei confronti con gli ebrei. A seconda dei luoghi, la legislazione antisemita venne attuata con più o meno rigore: a Trieste gli ebrei si trovarono di fronte un’amministrazione particolarmente intrattabile e una popolazione spesso ostile. A Torino come a Venezia le esclusioni dalle professioni vennero applicate senza grande resistenza. In diverse città, i commercianti esposero, all’ingresso dei loro negozi, dei cartelli ostili: «Ingresso vietato ai cani e agli ebrei», «Per motivi di igiene, è vietato sputare e agli ebrei di entrare»...
Impegnato nell’antisemitismo di Stato, il potere fascista non pensava di sterminare gli ebrei d’Italia. Con la guerra e il susseguirsi degli eventi dell’estate del 1943 che condussero, nel settembre 1943, all’occupazione del centro-nord dell’Italia da parte dei tedeschi e alla formazione della Repubblica di Salò, divenne, invece, complice passivo della loro eliminazione. Questa situazione può apparire ancor più paradossale in quanto, prima della caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, le autorità militari e diplomatiche, nelle loro zone di occupazione e principalmente nel sud est della Francia e in Croazia, avevano protetto gli ebrei e tentato di prevenire la loro deportazione. Fu grazie al fascismo che aveva censito, contato, discriminato e definito gli ebrei davanti all’opinione pubblica come nemici, che l’occupante nazista poté bruciare le tappe. Agli inizi del mese di ottobre 1943, Theodor Dannecker viene inviato da Eichmann in Italia, per procedere alle prime ondate di deportazione. Poco dopo i tedeschi creano un ufficio permanente a Verona, incaricato dell’«operazione antiebrei».
Il 16 settembre, il primo convoglio parte per Auschwitz. Due mesi più tardi,una grande retata decima la più vecchia comunità ebraica d’Italia: 1022 abitanti del ghetto di Roma sono inviati ad Auschwitz e circa il 90 per cento di loro sono mandati nelle camere a gas al loro arrivo. Il 28 ottobre, l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede scrive con sollievo e soddisfazione:«Il papa, benché sollecitato da più parti, non ha preso alcuna posizione pubblica contro la deportazione degli ebrei di Roma». Se questa operazione è stata organizzata ed eseguita dalle sole forze tedesche, dal mese di novembre successivo, il governo di Salò segue la stessa via.
Verso la deportazione.
Il 30 novembre, il ministro degli Interni ordina l’arresto e l’internamento di tutti gli ebrei e la confisca dei loro beni. Non vi è più alcuna distinzione tra ebrei stranieri o italiani, sia che le retate siano organizzate dai tedeschi o dalla polizia italiana.
In che misura il duce e le autorità fasciste erano a conoscenza della sorte riservata agli ebrei? Nel novembre 1942, Mussolini, parlando della politica antiebraica della Germania con l’industriale Alberto Pirelli, così cinicamente si espresse: «Li faccio emigrare ... verso l’altro mondo». Numerosi documenti e testimonianze consentono di stabilire che il capo del Governo non solamente era informato: alla fine del 1942, gli ambienti dirigenziali conoscevano, a grandi linee, l’esistenza della Soluzione finale. Al termine della guerra, su una popolazione di circa 35.000 ebrei presenti nel 1943, si contarono 7860 morti.
Come in Francia, gli ebrei scampati beneficiarono dell’aiuto di una parte della popolazione e delle istituzioni religiose. Nel 1947, il colonnello Max Adolphe Vitale, presidente del Comitato di ricerca dei deportati ebrei italiani, in un rapporto destinato ad informare i francesi sulla situazione degli ebrei italiani durante il fascismo e la guerra, stimò che niente sarà più come prima: «È ripresa la vita degli ebrei in Italia; vita difficile come in tutto il mondo. Quasi tutti piangono qualcuno che non rivedranno più ... Se si domanda se qualcosa è cambiato tra gli ebrei e i non ebrei in Italia, la risposta è che prima del 1938, noi ebrei eravamo italiani, ora siamo degli ebrei italiani!»
Dopo la guerra, gli ebrei d’Italia si dovettero confrontare con un processo di occultamento della memoria delle persecuzioni antisemite. Al loro ritorno, i sopravvissuti della Shoa si scontrarono con un muro di incomprensione. Nel 1955, Primo Levi scriveva: «Oggi è indelicato parlare dei campi. Si rischia di essere accusati di atteggiarsi a vittime o di oltraggio al pudore». Se questo fenomeno non è solo dell’Italia, l’analisi della stampa dell’epoca rivela un’amnesia specifica: la maggior parte dei giornali aveva dimenticato il contributo propriamente italiano alle persecuzioni; solamente l’occupante veniva ritenuto responsabile in un contesto dove, passata l’epurazione, le prigioni si svuotarono rapidamente dei responsabili fascisti, aiutati da una legge di amnistia.
Dal 1947, nonostante l’interdizione prevista dalla Costituzione, venne fondato un partito neofascista, il Movimento sociale italiano, di cui uno dei suoi principali leader, Giorgio Almirante, non era che l’ex segretario della redazione della Difesa della razza. Questo processo di occultamento del passato è attestato dalla lentezza con la quale sono state abolite le leggi razziali, oltre all’enorme difficoltà delle vittime ad ottenere dallo Stato un risarcimento per i pregiudizi subiti. Si è dovuto attendere il 1980 per una legge che stabiliva il pagamento da parte dello Stato di una indennità agli ex deportati, mediante una procedura lunga e complessa.
Alla fine degli anni ’60, la questione dell’identità del giudaismo ritorna sulla scena per l’attualità internazionale: rimpatrio degli ebrei di Libia a partire dal 1967; guerra dei Sei Giorni, poi l’insorgenza di un antisemitismo legato ai conflitti del Medio Oriente. L’attentato contro la sinagoga di Roma, nel 1982, segna un nuovo trauma.
Gianfranco Fini ha fatto evolvere il Movimento sociale italiano verso una formazione di destra classica e ha condannato molto nettamente, durante un viaggio in Israele nel 2003, la responsabilità del fascismo per la Shoa. Invece, la Lega Nord manifesta ostentatamente certi temi xenofobi.
Oggi la memoria dell’antisemitismo e della Shoa dispone ormai di vari vettori di trasmissione, sotto forma di luoghi della memoria e di istituzioni di ricerca; recentemente, a Ferrara, è stato creato un museo di storia del giudaismo e della Shoa.
Traduzione di un articolo di Marie-Anne Matard-Bonucci, docente di Storia contemporanea all’Università di Grenoble, pubblicato su Histoire nel mese di gennaio 2011