L'Italia (poco) unita dell'industria
25 Juin 2006 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #L'ITALIA tra Ottocento e Novecento
L'Italia unita, a conti fatti, era la decima potenza industriale tra i venti paesi più avanzati di allora. Diventerà nona nel 1913 grazie alla spinta degli investimenti a cavallo del secolo. Oggi è quinta. Nel mezzo: una storia di passaggi dall'agricoltura all'industria, di squilibri vecchi e nuovi mai colmati. Di «visioni del mondo economico» agli antipodi tra Nord e Sud: il primo spinto dall'idea cavouriana del libero scambio, il secondo ancorato al retaggio protezionista e daziario dei Borboni. Il primo orientato agli investimenti per la modernizzazione a prezzo di un'inflazione strisciante ma strutturale, il secondo al riparo dalla concorrenza e fautore del bilancio in pareggio anche a prezzo di minori spese per strade, scuole, servizi in genere.
Ai tempi dell'unità d'Italia il paese non aveva quasi interscambio commerciale tra Nord e Sud e viceversa perché era in gioco solo un quinto dell'intero "commercio estero" interno.
A Italia appena unita, infatti, l'industria era diffusa in modo diseguale, ma per certi versi inaspettato. Molto era dovuto agli investimenti di gruppi esteri: inglesi, francesi, svizzeri, tedeschi tutti molto attenti alle possibili occasioni di sviluppo in un paese molto promettente.
Al Sud l'industria pesante dei cantieri navali, delle officine in grado di produrre locomotive della insorgente tecnologia ferroviaria, sperimentata per prima a Napoli. C'era anche un importante impianto siderurgico a Pietrarsa nel napoletano, unico a poter realizzare i binari ferroviari, duplicato poi per l'Ansaldo di Genova e copiato per le officine di Kronstadt e Kaliningrad, era la più grande officina meccanica del tempo. La flotta commerciale dei Borboni era la seconda d'Europa e quella militare la terza.
Con l'unificazione, l'industria tessile si concentra al Nord (al Sud era fiorente soprattutto la lavorazione di lino e canapa grazie a legami con i cotonieri svizzeri) mentre si consolida quella di matrice agricola nel Mezzogiorno. La politica cavouriana fa del Piemonte la regione meglio amministrata e meglio industrializzata: in pochi anni di ferrovie se ne costruiscono per 850 chilometri (contro le poche decine del napoletano). Certo Cavour porta il debito pubblico da 120 a 750 milioni in dieci anni - ma i tassi scendono dal 10% al 4 % - e guarda soprattutto alla produzione e agli scambi. Investire, investire, investire: lo stabilimento Ansaldo, i cantieri Odero e quelli del siciliano esule Orlando, Piaggio, Rubattino; il patrimonio demaniale viene privatizzato.
I grandi marchi ultracentenari che tuttora sopravvivono sono storie di territorio e genialità. E forse non è un caso se la maggiore concentrazione è racchiusa tra Torino, Biella, Busto Arsizio, Varese e Brescia, senza dimenticare Genova. Ricasoli, Antinori, sigaro Toscano, la fonderia del Pignone, Richard Ginori e Fernet Branca, la birra Menabrea, la liquirizia Amarelli, poi la Cirio o il riso Gallo, la Caffarel che inventa il gianduiotto o la Borsalino del feltro e dei cappelli, solo per citarne alcuni. È del 1861 la nascita delle Poste, del 1860 quella della Gazzetta Ufficiale.
Bibliografia
Carlo Azeglio Ciampi “Non è il paese che sognavo. Taccuino laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia” Ed. Il Saggiatore 2010
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