La "modernizzazione" fascista
Giugno 1930. Mussolini fa visita a Guglielmo Marconi a bordo del panfilo Elettra, utilizzato dallo scienziato per i suoi esperimenti radiofonici.
Marconi verrà insediato, sei mesi dopo dal Duce, alla presidenza dell'Accademia d'Italia. Ma della sua geniale opera di inventore s'era già avvalso da tempo il regime per rivendicare il ruolo d'avanguardia della cultura italiana. Fin dai suoi esordi il fascismo aveva coniugato il tema del nazionalismo con quello della modernità. Determinante in questo senso era stato l'apporto del futurismo.
Ma il suo alfiere, Filippo Tommaso Marinetti, venne presto ridotto da Mussolini a un ruolo subalterno di fiancheggiatore del regime, sia pur con una certa libertà di giudizio. (Nel 1909 il trentatreenne Filippo Tommaso Marinetti, un irrequieto intellettuale che viveva tra Milano e Parigi, dove aveva già dato alle stampe alcune raccolte di versi liberi, pubblicò su “Le Figaro” di Parigi il primo “Manifesto del Futurismo”. Il movimento esaltava, tra gli eccessi, il patriottismo estremo, le “belle idee per cui si muore”, la “guerra sola igiene del mondo” e inneggiava al motore “alla parte clamorosa” dell’esistenza e delle attività umane).
E del futurismo sarebbero rimasti in auge solo alcuni motivi formali. Essi improntarono non solo l'ideologia del regime, ma soprattutto lo stile e il linguaggio della dirigenza fascista, come l'estremismo verbale e il gusto per l'iperbole, la propensione per le imprese temerarie, l'esibizione di uno spirito gladiatorio. Di fatto, altri erano i cardini su cui il regime aveva edificato un «nuovo ordine fascista».
L'organizzazione di un regime totalitario aveva comportato il ripudio sia di concezioni attivistiche elitarie, sia di atteggiamenti dissacranti, tipici del futurismo. E aveva imposto per contro il controllo di un partito unico su ogni aspetto della vita individuale e collettiva. Il problema fondamentale era l'integrazione della società nello Stato fascista. E il regime lo perseguì sulla base di nuovi miti di grandezza e di potenza, tali da mobilitare le masse e da inculcare fin dai più giovani il senso dell'autorità e della gerarchia. In quest'opera di costruzione di una nuova coscienza e identità nazionale (fondata sul primato assoluto dello Stato e sulla fascistizzazione delle istituzioni) Mussolini rivendicò a sé, attraverso l'esercizio di un potere carismatico, il ruolo del demiurgo. E assegnò al partito, organizzato come una milizia, il compito di plasmare il carattere e i comportamenti degli italiani al fine di creare una «nuova civiltà politica», un «nuovo Stato». Si trattava per Mussolini di imporre una modernizzazione dall'alto della società e un nuovo sistema di valori culturali aderente a specifiche caratteristiche nazionali. Artisti e uomini di cultura vennero esortati a mettere da parte concezioni soggettive e personalistiche. L'arte dell'«era fascista» avrebbe dovuto avere per sue principali destinatarie le masse, e per obiettivo fondamentale la fusione fra popolo e regime. «Nello Stato fascista l'arte viene ad avere una funzione sociale, una funzione educativa» così scriveva nel 1932 Mario Sironi, uno degli artisti più impegnati e originali nella costruzione dei canoni e dei miti simbolici del fascismo.
Tuttavia, a differenza del nazismo, il regime fascista non giunse a imporre una "arte di Stato", in quanto lasciò libertà d'espressione sul terreno della ricerca estetica. Perseguì i suoi obiettivi in altri modi, privilegiando e sostenendo (attraverso una politica di committenza pubblica) quegli indirizzi che più si prestavano a creare nel pubblico la coscienza di un nuovo ethos e una "arte nazionale".
La Mostra della Rivoluzione Fascista, aperta nell'ottobre 1932, nel quadro delle celebrazioni del decennale della marcia su Roma, riassunse in forma emblematica che cosa il fascismo intendesse per "arte costruttiva" rappresentativa e interprete di una nuova epoca. Agli architetti, scultori e pittori fra i migliori di quell'epoca, che collaborano all'iniziativa (da Prampolini a Terragni, da Valente a Libera, da Martini a Bartoli), Mussolini raccomandò di realizzare un'opera che nel suo insieme ponesse in luce «la modernità dinamica e rivoluzionaria del fascismo».
Tanto l'allestimento della rassegna quanto l'aspetto scenografico del palazzo che l'ospitava, vennero concepiti in modo tale da evocare e consacrare gli orientamenti antitradizionalisti e modernisti del regime. Dalla facciata dell'edificio (che si sarebbe presentata come un immenso cubo davanti al quale svettavano quattro grandi fasci in rame brunito alti venticinque metri) all'apparato iconografico e documentario delle varie sale, l'intero complesso dell'esposizione costituì una sintesi spettacolare ed efficace dell'immagine simbolica che il fascismo voleva dare di sé e della sua energia creatrice. Tre giorni prima dell'inaugurazione della mostra, il 25 ottobre, parlando a Milano, Mussolini aveva affermato: «Il secolo ventesimo sarà il secolo della potenza italiana, sarà il secolo durante il quale l'Italia tornerà per la terza volta a essere la direttrice della civiltà umana».
L'urbanistica fu eletta dal Duce a cantiere e laboratorio per la rappresentazione dei valori e delle forme della nuova civiltà» che il regime proclamava di voler costruire. Edifici pubblici, sedi del partito, monumenti, piazze e strade, avrebbero dovuto rendere tangibile l'impronta del fascismo e tramandarla nel tempo, eternando così i tratti distintivi di un'epoca. Fin dal 1925, presiedendo la cerimonia d'insediamento in Campidoglio dal primo governatore di Roma, Mussolini aveva lanciato il progetto di fare della capitale «una città ordinata e potente» mediante un vasto programma di ristrutturazioni che valorizzasse le vestigia dell'antichità e, nel contempo, imprimesse allo scenario urbano i segni di una nuova era. Riprese così l’opera di sbancamento e di risistemazione edilizia del centro storico di Roma, che avrebbe prodotto peraltro parecchi scempi architettonici. Venne demolita una parte del quartiere medievale per dar maggior spazio alla via dell'Impero che, inaugurata solennemente nell'ottobre 1932, collegò piazza Venezia al Colosseo attraverso i Fori Imperiali. Si pose mano così, nella capitale, al piccone demolitore, all'insegna della mistica fascista della romanità, di un rapporto ambiguo e contraddittorio fra antico e moderno.
Nel corso del 1934 fu la volta della zona intorno al Mausoleo d'Augusto. E altri quartieri subirono in quello stesso periodo o successivamente la stessa sorte. Uno dei peggiori misfatti fu la demolizione della Spina dei Borghi davanti a San Pietro e alla piazza del Bernini, per far posto a via della Conciliazione e a un'assurda sfilata di obelischi.
Il progetto più ambizioso del regime fu quello varato (all'indomani della conquista dell'Etiopia) di una grande Esposizione universale romana (l'Eur) per celebrare una «Olimpiade della civiltà». La grande rassegna dell'Eur, prevista nel 1942, non si sarebbe mai tenuta a causa della guerra. Ma i lavori preparatori diedero modo a una schiera di valenti progettisti (da Pagano a Piccinato, da Rossi a Vietti) di sperimentare alcune soluzioni d'avanguardia improntate (pur nel culto della romanità e del littorio) al modernismo razionalista.
I razionalisti pensavano di poter convertire la politica urbanistica del regime ai loro canoni di severa linearità e funzionalità. In effetti non mancarono importanti applicazioni di questo genere architettonico: dalla stazione ferroviaria di Firenze (firmata da Michelucci) alle Triennali di Milano, a varie Case del Fascio (come quella di Como).
E di matrice razionalista fu anche l'impostazione di alcune città nuove: da Littoria a Sabaudia (creata sui terreni riscattati alla palude dell'Agro Pontino) ad altre ancora, sorte quali colonie agricole o cittadelle industriali come Guidonia.
Ma Giuseppe Pagano e altri autorevoli esponenti di questa scuola (a cui fecero capo riviste come Casabella e Domus) dovettero alla fine ricredersi. Nella maggior parte dei casi, finì infatti per prevalere un'architettura d'intonazione monumentale e aulica, congeniale alla simbologia ufficiale e agli intenti autocelebrativi del fascismo. Una serie di edifici massicci, fatti di colonne e portali enormi e opere pubbliche dalla scenografia ridondante. Principale patron dell'architettura del regime, risultato di un compromesso fra tradizionalismo romaneggiante e razionalismo, fu Marcello Piacentini. Innovatore in gioventù, ma convertitosi poi alla retorica fascista e fautore dei più clamorosi sventramenti nella capitale. Piacentini firmò, negli anni Trenta, alcuni dei progetti urbanistici più impegnativi del regime come il centro storico di Brescia. Piacentini progettò inoltre la ristrutturazione di via Roma a Torino, la città universitaria e l'Esposizione universale di Roma.
Anche alla scultura e alla pittura venne demandato il compito di tradurre i messaggi e i riferimenti ideologici del fascismo in forme espressive che enfatizzassero i temi dell'ordine e della coesione sociale, e i valori della famiglia e del lavoro. Si sarebbe dovuto, stando a quanto affermava nel 1935 un teorico come Carlo Belli, simbolizzare o ridisegnare un ordine tutto italiano e fascista, improntato da «uno spirito mediterraneo fatto di luce e di geometri». Venne tuttavia lasciata un'autonomia relativamente ampia in materia di gusti e stili artistici. Convissero così in quegli anni, tanto il secondo futurismo (con Soffici, Balla e Depero), quanto il novecentismo (con Sironi, Martini e la Marfatti); tanto il neotradizionalismo di Carrà quanto il classicismo metafisico di De Chirico; tanto il ritorno al barocco in chiave espressionistica (con Scipione e Mafai), quanto il cromatismo lirico di Birolli, Rosai, Sassu.
Cenacoli importanti come quello torinese dei Sei (sostenuto da Lionello Venturi con le sue aperture europee) si mantennero lontani dal "conformismo militante". Artisti (come De Pisis, Campigli, Morandi, Severini) chi lavorando per lo più all'estero, chi tenendosi appartato, rimasero estranei tanto al provincialismo strapaesano quanto al classicismo ufficiale. E non mancarono i critici dell'indirizzo corrente, come quelli che alla fine degli anni Trenta, sensibili all'influsso di Picasso, si raccolsero intorno alla rivista milanese Corrente di Edoardo Persico. Fece il suo esordio pure il movimento astrattista (con Fontana, Radice, Melotti), mentre emersero alcuni giovani di spiccata personalità come Renato Guttuso. Di fatto, grazie alla dialettica interna al partito fra fascismo inteso come regime e fascismo inteso come movimento, ebbero modo di affermarsi orientamenti non del tutto allineati ai canoni ufficiali, se non eterodossi. Ciò fu dovuto anche alla protezione che un autorevole leader fascista come Giuseppe Bottai (teorico dello Stato corporativo e ministro dell'Educazione nazionale) accordò all'intellighenzia, giacché egli intendeva costituire un'élite di artisti e di studiosi attorno a una politica culturale basata su criteri qualitativi e non semplicemente su una logica di servizio.
D'altra parte, il governo fascista badò a dare di sé un'immagine accattivante, promuovendo manifestazioni artistiche e culturali aperte al concorso di esponenti delle più diverse correnti. Così avvenne con la Triennale di Milano, inaugurata nel 1931 e dedicata all'architettura, al design e alle arti decorative.
Una delle iniziative più prestigiose del regime fu il Convegno Internazionale d'Arte che si aprì nel luglio 1934 a Venezia. Due erano i temi in discussione: il rapporto fra le arti contemporanee e la realtà e quello tra arte e Stato. Ai lavori parteciparono, fra gli ospiti stranieri, Picasso e Le Corbusier, il compositore Béla Bartòk, lo scultore Paul Manship, il regista teatrale Gordon Craig, il poeta Paul Valéry e lo scrittore Thomas Mann. Ma fu soprattutto nell'opera di sensibilizzazione delle masse, che il regime diede prova delle sue capacità di spettacolarizzazione della cultura e della politica, in quanto seppe creare un efficace sistema di suggestioni, di miti e di liturgie, utilizzando gli strumenti e i ritrovati della modernità.
La radio fu uno dei principali mezzi di cui si servì il fascismo nella sua pedagogia totalitaria. Alla vigilia della guerra gli abbonati erano numerosi. E numerosi erano i programmi destinati espressamente dalle autorità governative e di partito alle singole categorie di lavoratori.
Il cinema fu un altro mezzo di comunicazione di massa su cui fece leva il fascismo. Sorto nel novembre 1925 l'Istituto Luce (sigla che sta per L'Unione per la Cinematografia Educativa) ebbe il compito di svolgere opera di divulgazione culturale nelle scuole e nel mondo del lavoro e poi di produrre anche cinegiornali di attualità e documentari sulle iniziative del regime. Fra il 1931 e il 1933 un'apposita legislazione accordò, da un lato, particolari sovvenzioni alle case cinematografiche nazionali, e dall'altro, impose dei limiti sempre più rigidi alla diffusione di film stranieri. La produzione di altri paesi finì così per trovare ospitalità, con le sue migliori pellicole, soltanto alla rassegna internazionale di Venezia, una manifestazione di gran lustro e mondanità, inaugurata nel 1932, per iniziativa dell'ex ministro delle Finanze e poi presidente della Confindustria conte Volpi. A sostegno della produzione italiana fu costituito nel 1935 il Centro Sperimentale di Cinematografia. E comparvero l'anno dopo due importanti riviste: Cinema diretta da Vittorio Mussolini e Bianco e Nero diretta da Luigi Chiarini. Tra i collaboratori figuravano Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti.
Nell'aprile 1937 venne inaugurata, alla presenza di Mussolini, Cinecittà. Si trattava di uno dei più attrezzati complessi europei di teatri di posa per la produzione cinematografica. Il regime mirava a fare di Cinecittà, ideata da Luigi Freddi; una sorta di Hollywood in miniatura e ad affrancare così il mercato italiano dalla produzione americana. Assai popolari erano, infatti, anche da noi Walt Disney e altri divi d'oltreoceano. Nacquero in quel periodo i film cosiddetti del "telefono bianco" le commedie rosa e di costume. E si sviluppò il filone di intonazione storica, dopo che nel 1934, con il film 1860 di Blasetti sull'epopea garibaldina dei Mille, si era registrato il primo grande successo di pubblico.
Particolare attenzione venne prestata anche all'attività teatrale con lo scopo di trasformarla in «spettacolo sociale». Furono così istituiti nel 1929, per conto dell'Opera Nazionale Dopolavoro, i Carri di Tespi che, girando per l'Italia, avrebbero dovuto «elevare il senso artistico» delle masse contadine e operaie. Sagre paesane, feste campagnole, sfilate in costume, divennero altrettanti riti collettivi e veicoli di pianificazione del consenso fra i ceti popolari. Ma il regime prediligeva soprattutto ciò che sapesse di avveniristico o che dimostrasse il nuovo spirito competitivo nazionale.
Le spedizioni polari di Umberto Nobile (fin quando non si conclusero tragicamente) vennero celebrate dal governo fascista come altrettante testimonianze di una nuova Italia virile e ardimentosa. E così avvenne per l'impresa di Francesco De Pinedo, protagonista nel 1925 di un giro del mondo su un idrovolante, acclamato come «il volo dei tre continenti». A inorgoglire il regime, ma anche tanti italiani, fu in particolare la trasvolata atlantica guidata dal quadrumviro e ministro dell'Aeronautica, Italo Balbo. Atterrato nel luglio 1933 a New York, egli venne ricevuto dal presidente Roosevelt e, al suo rientro in Italia, insignito dal titolo di maresciallo dell'aria. In quello stesso anno, nel 1933, a pochi giorni di distanza, il supertransatlantico Rex conquistava il Nastro Azzurro, stabilendo il nuovo record di traversata dell'Atlantico, compiuta in poco più di quattro giorni.
Dalle palestre ai campi di gara, ai nuovi grandiosi impianti del Foro Italico nella capitale, il mondo dello sport venne considerato dal regime un vivaio (non meno importante delle adunate del «sabato fascista», dedicate all'educazione politica e all'addestramento militare) per la formazione dell'«italiano nuovo».
Una generazione di giovani che offrisse l'immagine di un paese proiettato verso nuovi traguardi all'insegna dell'agonismo, dell'impegno collettivo e dell'attaccamento alla bandiera. A tal fine contribuirono anche i successi della nazionale di calcio ai campionati mondiali del 1934 e del 1938. A Roma la squadra italiana, guidata dal commissario tecnico Vittorio Pozzo, batté in finale la Cecoslovacchia; la seconda volta, gli azzurri si imposero in Francia sugli Ungheresi.
Nel frattempo all'XI Olimpiade tenutasi nell'agosto 1936 a Berlino, l'Italia era giunta a piazzarsi al quarto posto nella classifica per nazioni. Fra gli atleti che avevano vinto la medaglia d'oro c'era anche una donna: Ondina Valla, prima negli 80 metri a ostacoli. Era vanto del regime che anche le giovani italiane dessero prova di doti atletiche e di vigoria fisica. In verità, non tutti, all'interno del regime, condividevano la passione e l'enfasi per la modernità. Contro il novecentismo, l'urbanesimo, l'industrializzazione, il macchinismo, continuava a tuonare un gruppo di intellettuali raccolti intorno alla rivista Il Selvaggio (sorta nel 1924) in cui figuravano personaggi come Malaparte, Bilenchi, Maccari. All'insegna di «Strapaese», essi vagheggiavano un ritorno alle tradizioni dell'Italia provinciale e rurale quale antidoto a quella che definivano la «barbarie artistica e intellettuale» del modernismo, sinonimo di standardizzazione e americanizzazione. In realtà, il rapporto del fascismo con la modernità era pervaso di parecchie contraddizioni. Non soltanto perché doveva coesistere con il culto e la retorica della romanità. Ma anche perché si trattava di una concentrazione strumentale della modernità, finalizzata al dominio politico della cultura e della società.
Avvenne così che il governo fascista, da un lato, promosse importanti istituzioni scientifiche (a cominciare dal Consiglio Nazionale delle Ricerche) e, dall'altro, cercò all'occorrenza di piegarne l'attività alle mutevoli logiche di potere o alle direttive autarchiche del regime. Tant'è che non esitò a sacrificare anche gli sviluppi più promettenti della ricerca scientifica sull'altare della ragion di Stato e delle discriminazioni razziali.
Nel dicembre 1938, con l'esodo di Enrico Fermi, colpito dal bando contro gli ebrei, si sciolse in pratica il gruppo romano di Via Panisperna che, promosso da Mario Orso Corbino, aveva rappresentato uno dei nuclei più importanti della fisica europea. Fermi riparerà negli Stati Uniti dove collaborerà alla realizzazione della prima bomba atomica.
Nell'ottobre 1938, lo stesso anno delle leggi razziali, Mussolini pronunciò un violento discorso contro la borghesia al Consiglio nazionale del partito fascista. L'imposizione del "voi" in luogo del "lei" (bollato come «servile e straniero») il ripudio di ogni forma di compromesso con le forze tradizionali, e le leggi per la difesa della razza avrebbero dovuto costituire il preludio della cosiddetta «terza ondata» (dopo la marcia su Roma e la messa al bando nel 1925 dei partiti antifascisti).
La lotta contro «quel mezzo milione di vigliacchi borghesi che ancora si annidano nel paese» (come li definì Mussolini) avrebbe dovuto affiancare non solo la battaglia contro l'individualismo e i retaggi del pluralismo culturale e del cosmopolitismo, ma preparare anche il paese allo scontro con le democrazie occidentali, contro le «nazioni plutocratiche e satolle» (per dirla con le parole del Duce). La "modernità" fascista s'era ormai tinta sempre più di coloriture populiste e bellicistiche.
Da un articolo di Valerio Castronovo pubblicato in “Storie d’Italia dall’unità al 2000”