La Resistenza delle donne 1943-1945
Il contributo del genio femminile alla Resistenza
La gratuità del servizio alla Resistenza probabilmente allora non era così evidente, ma risulta essere un messaggio ancora oggi estremamente attuale. Offrire un contributo al bene comune (allora era la lotta per la libertà) senza avere la certezza e l'aspettativa di poter trarre nessun altro vantaggio che la possibilità di offrire una società più giusta: un atteggiamento che allora scattò in modo quasi automatico in molti, un atteggiamento che diventa provocazione per il nostro tempo, soprattutto di fronte a un deficit di partecipazione e di voglia di occuparsi delle cose di tutti. Un'altra piccola annotazione che potrebbe ben descrivere il contributo del genio femminile alla Resistenza. Le donne, allora come oggi, sanno portare concretezza e attenzione ai piccoli particolari che sono decisivi per la buona riuscita di qualsiasi azione. La concretezza appartiene soprattutto alle donne ed è merce rara in un universo maschile che rischia di trascurare le piccole cose solo apparentemente inutili.
Il riconoscimento dell’impegno
Dopo la Liberazione la qualifica di partigiano fu riconosciuta a chi aveva portato le armi per almeno tre mesi e aveva compiuto almeno tre azioni di guerra o sabotaggio (o almeno aveva fatto tre mesi di carcere o sei mesi di lavoro nelle strutture logistiche). Poste così le cose, era chiaro che un grande numero di donne resistenti veniva messo fuori gioco e che - salvo casi eccezionali - per loro si sarebbe potuto parlare solo di «contributo» dato alla Resistenza, un termine che già contiene in sé un senso di inferiorità e di dipendenza. Come hanno mostrato ormai diverse studiose, esiste un forte divario tra il numero di donne che a vario titolo si opposero al nazifascismo e il numero di quante si videro effettivamente riconosciuto il lavoro svolto. Ciò non toglie che a livello nazionale furono riconosciute a quel tempo circa 35.000 partigiane e 70.000 appartenenti ai Gruppi di Difesa della Donna, una cifra piuttosto consistente. Di loro, 4653 furono arrestate, torturate, condannate; 2750 deportate e 623 fucilate o cadute in combattimento. Alle donne furono assegnate 19 medaglie d'oro al valore militare, di cui 15 alla memoria.
La memoria della Resistenza al femminile è stata poi limitata dal silenzio di tante protagoniste di quegli anni duri. Un silenzio che per molte donne è stato una scelta consapevole. Complessivamente parlando, però, il silenzio delle donne è stato quello più «assordante», per vari motivi: l'abitudine alla sottomissione all'uomo e al capo famiglia, il timore di passare per una «poco di buono» e per una donna rotta a chissà quali avventure, o al contrario l'idea di aver fatto solo il proprio dovere o comunque nulla di eccezionale in un tempo come quello della guerra.
Le donne furono presenti in tutti gli ambiti della Resistenza organizzata: scontro armato, informazione, approvvigionamento e collegamento, stampa e propaganda, trasporto di armi e munizioni, organizzazione sanitaria, organizzazione di scioperi e manifestazioni per il pane e contro il carovita e il mercato nero.
La «staffetta» era qualcosa di più che una semplice «postina» come verrebbe da pensare: era colei che portava ordini e comunicazioni, ma anche armi e munizioni, che accompagnava uomini in fuga verso la salvezza e così via. Il rischio era sempre elevato e bisognava dimostrare notevole sangue freddo e tanta fortuna quando ci si imbatteva in un qualsivoglia posto di blocco: tanto più che bisognava mettere in conto non solo di rischiare la vita, ma di diventare oggetto di sgradite e pesanti attenzioni maschili.
Inoltre occorre considerare che tutte le attività informative svolte dalle ragazze e dalle donne.
La capacità di iniziativa individuale
Il punto di partenza cronologico è naturalmente l'8 settembre 1943, anche se non si possono dimenticare tanti precedenti, come l'antifascismo dimostrato nel corso del Ventennio o come le proteste pubbliche di madri e mogli per il graduale peggioramento delle condizioni di vita tra 1942 e 1943. Proprio al momento dell'annuncio dell'armistizio e di fronte al disfacimento delle nostre forze armate e alla cattura, quasi senza colpo ferire, di centinaia di migliaia di nostri soldati, le donne seppero reagire con inattesa decisione e inventiva.
Il maternage di massa - ovvero la sensibilità e la capacità di esplicare funzioni materne e protettive verso i nostri soldati in quei giorni di settembre - spinse un'infinità di donne di ogni età e di ogni regione italiana a considerare come propri figli quanti passavano davanti alle loro abitazioni, chiedendo un pezzo di pane, un abito borghese, un pagliericcio per riposare. Capacità di iniziativa individuale e fantasia segnarono i comportamenti di molte donne.
Nella pianura emiliana fiorirono le cosiddette «case di latitanza», che punteggiarono tutto il territorio. Per esempio nel Reggiano se ne trovavano a Campegine, Gattatico, Montecchio, S. Ilario d'Enza, Poviglio e così via, fino alla montagna. Erano generalmente poveri casolari sperduti in mezzo alle campagne: alcune nascondevano temporaneamente partigiani, disertori, alleati, ex prigionieri, mentre altre erano adibite allo smistamento dei giovani dalla pianura alla montagna e dalla montagna alla pianura. Le donne di queste case erano disposte a collaborare con la Resistenza e quindi pronte a preparare cibi e coperte per quanti si rivolgevano a loro in un qualsiasi momento del giorno e della notte. Erano le donne che curavano i feriti e li sorreggevano nei primi passi di convalescenza. Erano le donne che sostenevano gli ospiti nei momenti di sconforto, offrendo loro parole di speranza e d'incoraggiamento ed erano sempre loro che sostenevano la curiosità dei piccoli che sapevano, ma non dovevano sapere, inventando frasi di circostanza. Con coraggio nascondevano armi nei rifugi, nei fienili o nei doppi fondi dei mobili e celavano i loro uomini di fronte alle insistenze dei fascisti e dei tedeschi, trovando sempre le scuse più credibili per proteggerli dall'arresto.
In questo caso, se scoperte, al rischio dell'arresto o della fucilazione si aggiungeva quello di veder immediatamente bruciata la propria abitazione:
fu quel che capitò a Genoeffa Cocconi Cervi, la moglie di Alcide e la madre dei sette celebri fratelli. Genoeffa morì di crepacuore dopo la fucilazione dei figli e dopo un nuovo incendio della sua casa nel novembre 1944.
L’assistenza offerta a tutte le categorie di perseguitati comportava dunque notevoli rischi e non può certo essere intesa come una sorta di scelta più tranquilla e meno coraggiosa rispetto alla lotta armata.
Una forma diversa di solidarietà fu manifestata dalle donne che si attivarono per portare soccorso agli antifascisti incarcerati.
Donne coraggiose si prodigarono negli ospedali per curare i feriti - veri o presunti che fossero - e per celare, magari sotto improbabili ma terribili diagnosi mediche, ebrei e ricercati. Furono in primo piano, naturalmente, molte suore, come quelle dell'ospedale Niguarda di Milano o della Poliambulanza di Brescia. Ricordiamo il caso di Maria Peron, lei stessa infermiera a Niguarda: proprio in quanto coinvolta nelle operazioni di salvataggio di ebrei e partigiani all'interno delle strutture dell'ospedale, ella rischiò l'arresto e dovette lasciare Milano. Si recò presso le formazioni partigiane della Val Grande e divenne ben presto leggendaria per la sua capacità di organizzare i servizi di cura e di reperimento dei medicinali, in una zona di guerra soggetta a numerosi rastrellamenti. Maria esercitò di fatto l'attività del chirurgo e salvò più di una vita, conquistando in tal modo una sorta di parità professionale e diventando popolare anche presso i valligiani.
A Torino donne, appartenenti ai Gruppi di Difesa della Donna, si diedero un compito ancora più delicato e rischioso: «quando si veniva a sapere che c'erano dei caduti in città, certe donne andavano a togliere la corda agli impiccati, li lavavano, li componevano. Altre pensavano a portare i garofani rossi al cimitero. Le tombe dei partigiani erano sempre tutte infiorate.
I Gruppi di Difesa della Donna
I Gruppi di Difesa della Donna ebbero un importante ruolo: non solo sostenere la lotta partigiana, ma anche sensibilizzare le donne, far loro maturare una coscienza politica e prepararle in tal modo alle responsabilità del dopoguerra. Nati a Milano nel novembre '43 per iniziativa del Partito Comunista italiano, del Partito Socialista di Unità Proletaria e del Partito d’Azione, questi gruppi si diffusero dal 1944 in tutta Italia e vennero riconosciuti ufficialmente dal Comitato di Liberazione Alta Italia. Tra queste donne agirono figure celebri come Camilla Ravera, Lina Merlin e Ada Gobetti. Nell'aprile del '44, nacque il giornale «Noi Donne»
che insisteva sull'importanza e la specificità del ruolo delle donne nella difesa delle case e nella lotta quotidiana contro il carovita, invitando appunto a prepararsi «ad amministrare e governare». Il loro programma era semplice, ma di notevole importanza:
«Le donne italiane vogliono avere il diritto al lavoro, ma che non sia permesso sottoporla a sforzi che pregiudicano la loro salute e quella dei loro figli. Esse chiedono:
- la proibizione del lavoro a catena, del lavoro notturno, dell'impiego delle donne nelle lavorazioni nocive;
- essere pagate con una salario uguale per un lavoro uguale a quello degli uomini;
- delle vacanze sufficienti e l'assistenza nel periodo che precede e che segue il parto;
- la possibilità di allevare i propri bimbi, di vederli imparare una professione, di saperli sicuri del proprio avvenire; di partecipare all'istruzione professionale e non essere adibite nelle fabbriche e negli uffici soltanto a lavori meno qualificati;
- la possibilità di accedere a qualsiasi impiego, all'insegnamento in qualsiasi scuola, unico criterio di scelta: il merito;
- di partecipare alla vita sociale, nei sindacati, nelle cooperative, nei corpi elettivi locali e nazionali.
Non mancava, ovviamente, la richiesta del pieno diritto di voto politico e amministrativo per tutte le donne.
In questo contesto, in molte località italiane, si ebbero ripetute mobilitazioni al fine di raccogliere viveri, indumenti, sigarette, medicinali per aiutare concretamente le formazioni partigiane ad affrontare l'inverno del 1944.
Nella Resistenza armata
Nella Resistenza non furono molte le combattenti vere e proprie, e tuttavia non mancano esempi in tal senso. Furono diverse le ragazze che chiesero, con maggiore o minore successo, di imparare a sparare e di poterlo poi fare davvero.
Elisa Oliva fu comandante in Valdossola e, in seguito, ricordò di aver così risposto a chi le voleva togliere il comando: «Non sono venuta qua per cercarmi un innamorato. Io sono qua per combattere e ci rimango solo se mi date un'arma e mi mettete nel quadro di quelli che devono fare la guardia e le azioni. In più farò l'infermiera. Se siete d'accordo resto, se no me ne vado [...] Al primo combattimento ho dimostrato che l'arma non la tenevo solo per bellezza, ma per mirare e per colpire [...]
Anche nei GAP militarono donne che parteciparono direttamente ad azioni rischiose e alla preparazione ed esecuzione di attentati (a Roma, Carla Capponi fu partecipe dell'attentato di via Rasella, nei GAP di Milano Onorina Brambilla, con il marito Giovanni Pesce fu protagonista della lotta armata).
Alcune delle donne martiri della Resistenza hanno conosciuto violenze inenarrabili prima di essere uccise. Occorre tener conto anche la mera violenza psicologica esercitata in occasione di interrogatori o di processi. Rileggere cronache e testimonianze del tempo spinge a guardare con infinita ammirazione a donne che conservarono sangue freddo e dignità assoluta.
Visioni tradizionali e pregiudizi accompagnarono l'impegno delle donne nella Resistenza, specialmente quando esse si trovavano, volutamente o forzatamente a condividere la vita delle formazioni in montagna. Di conseguenza le giovani partigiane finirono per essere sommariamente identificate con figure di donne “facili” tanto che i comandi della Resistenza cercarono di dettare regole e porre limiti rigidi. Nell'agosto del 44 il comando della 19a brigata d'assalto Garibaldi, intitolata a Eusebio Giambone, comunicò al comando generale delle Brigate Garibaldi di aver costituito al proprio interno un distaccamento femminile composto da staffette e da familiari dei propri partigiani.
Nacquero comunque molti rapporti affettivi più o meno duraturi, che per lo più ambivano a una situazione di ricerca di solidità e di serietà, tanto che non mancarono i matrimoni celebrati alla macchia o nei paesi delle zone liberate, anche con l'assistenza del prete.
Dopo la Liberazione tutti i pregiudizi emersero - o riemersero - con prepotenza. In tante sfilate per le vie cittadine alle donne partigiane arrivò l'ordine di non sfilare, oppure di farlo figurando solo come crocerossine.
La Resistenza e l’impegno politico
Certo è che - una volta fatta la propria scelta - le donne seppero anche passare all'iniziativa, comprendendo che la Resistenza avrebbe costituito un passo decisivo sulla strada dell'emancipazione propria e di tutte le donne.
La partecipazione alla Resistenza - scoperta anche attraverso autonomi percorsi personali - fu così la premessa per un successivo e forte impegno politico: pur tra mille ostacoli e pregiudizi, le donne avrebbero così cominciato a far politica anche entro le istituzioni pubbliche. L’ingresso di quel sparuto gruppetto di 21 deputate alla Costituente (su 110 candidate) può essere visto come il punto di arrivo della lotta resistenziale al femminile e come il punto di partenza per una nuova storia dell'Italia: una volta tanto, in meglio.
Bibliografia
Giorgio Vecchio - LA RESISTENZA DELLE DONNE 1943-1945 – Ed In dialogo – Ambrosianeum – 2010