La scuola che resiste
Nel novembre 1943, all'apertura dei corsi universitari la ribellione si estende alla scuola. La Resistenza veneta è guidata da tre professori universitari: Silvio Trentin rientrato clandestinamente dall'esilio francese, Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti: l'antica Università padovana non mancherà la dichiarazione di guerra al nazifascismo. Bisogna però attendere che si apra l'anno accademico. Così fino a novembre il mondo universitario combatte il fascismo nelle città e nelle campagne, i professori partecipano ai convegni della cospirazione, gli assistenti Pighin, Carli, Zancan percorrono il Veneto per organizzarla; e il CLN tiene le sue sedute proprio nel palazzo Pappafava dove ha posto la sua sede il ministero della Educazione nazionale repubblichino.
La battaglia nella scuola si accende alla data fissata. Il 9 di novembre il rettore Concetto Marchesi apre l’ anno accademico con un primo inequivocabile gesto di ostilità al nazifascismo: dal suo ufficio non è partito alcun invito alle autorità per assistere alla cerimonia. Ci vengono in forma «privata» il ministro Biggini e il prefetto Fumei. Il fascismo padovano cade in un grossolano errore, manda nell’aula una squadra di giovani armati che salgono sul palco proprio mentre entra il rettore magnifico seguito dal professor Mereghetti. I due docenti si gettano d'impulso contro i fascisti mentre l'adunanza degli studenti urla «via gli armati!». Gli intrusi sono costretti ad allontanarsi e il rettore pronuncia la memorabile allocuzione, l'atto di fede nella libera Università: «Qui dentro si raduna ciò che distruggere non si può». Marchesi esalta nel mondo del lavoro una civiltà opposta alla nazifascista e dichiara aperto l'anno accademico nel nome « del lavoratori, degli artisti, e degli scienziati». Il 28 novembre il rettore deve rassegnare le dimissioni e trasferirsi sotto falso nome a Milano; ma lascia un nobile messaggio agli studenti: «Oggi non è più possibile sperare che l’Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l'ordine di un governo, che per la defezione di un vecchio complice ardisce chiamarsi repubblicano, vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori... Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine. Voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede, l’impeto dell'azione e ricomporre la giovinezza e la patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dalla ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell'Italia e costituire il popolo italiano».
La resistenza della scuola romana prende invece l’avvio da gruppi studenteschi di formazione spontanea: l'Associazione rivoluzionaria studentesca guidata da Ferdinando Agnini e da Gianni Corbi; il gruppo azionista promosso da Pier Luigi Sagona; quello comunista di Dario Puccini e di Carlo Lizzani. Di fronte alla minaccia fascista di escludere dagli esami universitari quanti non si sono presentati ai distretti i vari gruppi si uniscono, danno vita a un Comitato studentesco di agitazione e a un Comitato tecnico diretto da Maurizio Ferrara che si mette alla testa della prima grande manifestazione antifascista del 17 gennaio. Gli studenti di medicina entrano nel Policlinico, stracciano i registri, percuotono i fascisti. di guardia. Maurizio Ferrara, salito su una panchina, incita i colleghi alla ribellione. Si forma un corteo, c'è uno scontro a fuoco, un giovane è ferito, altri arrestati.
A Milano e a Torino, capitali della resistenza armata le Università sono i distretti della ribellione, da esse partono i quadri delle bande. Gli ultimi mesi del 1943 insegnano che la partecipazione attiva alla Resistenza (lo scrive a un amico Giaime Pintor) è l'unica possibilità aperta a un intellettuale che voglia operare per il riscatto del Paese. Gli studenti universitari, in particolare, non possono mancare la prova. Sono i giovani borghesi giunti all'antifascismo attraverso il fascismo: la guerra partigiana è il suggello delle conversioni sincere.
Il lungo viaggio
Gli studenti o i laureati fra i venti e i trent'anni che partecipano alla Resistenza vi giungono da esperienze diverse, ma tutte compiute dentro il fascismo. Il loro è stato un lungo cammino che ora, essendo resistenti, ripercorrono con la memoria, senza mentire a se stessi. Fino al 1938, la maggioranza ha partecipato al fascismo: rassegnata alla sua inevitabilità, sedotta da certe proposte. Non quella di un fascismo sociale che promette un socialismo «più umano, più moderno», riservata a pochi ingenui; ma le altre dei vantaggi concreti, offerti ai giovani borghesi da una dittatura borghese. Fino al '38 i giovani sono fascisti o filofascisti non solo per la ragione ovvia di essere nati dentro il fascismo, ma perché credono di poter ottenere dal fascismo occasioni e promozioni gradite al loro forte appetito, tanto forte da soffocare nei più i primi dubbi e il fastidio morale per le menzogne e le sopraffazioni del regime. I giovani vedono nel fascismo tre possibili vantaggi: una promozione dei ceti medi, una maggiore efficienza amministrativa, una crescente disponibilità di impieghi. Vantaggi in gran parte illusori, ma ci vorrà il lungo cammino fino al '43 per capirlo. Prima del '38 la gioventù borghese e studiosa capisce poco e male la struttura sociale del fascismo:
La personalità di Mussolini nasconde, ai suoi occhi, il «consorzio dei privilegi»; l'avventura imperialistica la distrae dall'affarismo autarchico. E poi il grande capitale faccia pure i suoi affari purché lasci ai borghesi famelici la sua rappresentanza politica e amministrativa. È difficile per i giovani capire che la promozione dei ceti medi è dovuta ai tempi più che al regime; per loro coincide con esso: allevati in famiglie assillate dal pensiero del posto sicuro, essi vedono nel fascismo imperialistico una fabbrica di nuovi posti, e non hanno motivi per rifiutare la propaganda sull'efficientismo del regime. Il regime non è privo di scaltrezza, concede ai giovani una libertà vigilata, li lascia scrivere, dibattere fino a un certo limite sui giornali studenteschi o durante le competizioni culturali come i «littoriali».
L'appetito dei giovani è robusto, la loro preparazione culturale mediocre; eppure il fastidio morale c'è e cresce, molti giovani sono già entrati nel lungo cammino e non lo sanno, sarà l'anno 1938 a rivelarlo, con turbamento e dolore. Il 1938 è l'anno in cui la Germania nazista annette l'Austria e in cui l'Italia fascista si accoda alla persecuzione razziale: così ammettendo pubblicamente la sua qualità di nazione subalterna, al rimorchio dell'imperialismo germanico. È soprattutto la persecuzione razziale, con la sua ignominia gratuita, a far «precipitare» tutti gli scontenti morali per l'ipocrisia, per il conformismo, per la servilità della dittatura. Con la vigilia della guerra e con la guerra il distacco morale trova le conferme della ragione, diventa distacco definitivo: non solo e non tanto perché la guerra dimostra l'inefficienza del regime e fa cadere le proposte e le speranze dei vantaggi, ma perché si capisce, da alcuni in modo oscuro, da altri con un principio di chiarezza, che è sbagliata la scelta in sé, la scelta della guerra imperialistica. Una guerra per il dominio mondiale in cui l'Italia entra avendo già perso quello fra i Paesi fascisti, e proprio quando l'imperialismo capitalistico sta per rinunciare dovunque ai rapporti coloniali, quando la rivoluzione industriale esclude lo schiavismo del tipo barbarico. La guerra mette a nudo la povertà intellettuale e morale del regime, segna il naufragio dell'intera classe dirigente.
I giovani assistono umiliati, delusi. Alcuni reagiscono rifugiandosi in quella indifferenza che è già disponibilità per una nuova scelta; altri, i più razionali, si sorprendono a desiderare la vittoria del nemico, a rallegrarsi se l'Inghilterra o la Russia resistono, se l'America interviene: preferendo essere liberi nella sconfitta che schiavi nella vittoria; altri ancora, i più sentimentali, i più sensibili ai tormenti delle responsabilità personali, cercano la bella morte sui campi di battaglia, come Giani, Pallotta, Sigieri Minocchi. C'è anche una minoranza di intellettuali come Alleata, Ingrao, Pintor, che possono passare all'antifascismo militante; ma per la maggioranza il lungo viaggio non è ancora finito, passa per gli anni della guerra, per la vergogna della disfatta, anche per i primi mesi della Resistenza. Perché i resistenti borghesi che sul finire del '43 ripensano il lungo cammino capiscono solo ora di avere ignorato gli altri ceti e la loro oscura pena: ora che stanno nella guerra di tutti, con gli operai e con i contadini.
Bibliografia:
Giorgio Bocca ”STORIA DELL'ITALIA PARTIGIANA”
Casa editrice G. Laterza & Figli, Bari gennaio 1980