Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

La Shoah in Brianza: la famiglia Milla

31 Juillet 2012 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #la persecuzione degli ebrei

Lo sterminio di una famiglia perbene

I due fratelli e le tre sorelle Milla di Verderio superiore furono arrestati dai tedeschi nell’ottobre 1943 perché ebrei e trasferiti ad Auschwitz, da dove non fecero più ritorno.

 

“Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare si che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. "

Primo Levi, Se questo è un uomo

  

Dall'Inizio del 1942 all' ottobre del 1943 abitò a Verderio Superiore, provenendo da Milano, la famiglia Milla, composta da tre sorelle, Laura, Lina, Amelia, e un fratello, Ferruccio. Nell'ottobre del 1943 tutti vennero arrestati, in quanto ebrei, da militari tedeschi: prima, a Verderio, Ferruccio; qualche giorno dopo, a Milano, le sorelle. Con Ferruccio fu arrestato anche un fratello, U go, che aveva raggiunto i famigliari da non più di due giorni. Fuggirono invece la moglie di quest'ultimo, Lea Milla, e la figlia, Serena, di dieci anni. Il 6 dicembre i cinque arrestati furono "trasportati" ad Auschwitz, da dove non fecero più ritorno.

  

LE LEGGI RAZZIALI. La famiglia Milla era approdata a Milano nel 1913 dopo vari trasferimenti in località del centro e del sud d'Italia. Di queste peripezie sono testimonianza i diversi luoghi di nascita dei suoi componenti: Ferruccio nasce a Cento, Ferrara, il 27 marzo 1888, Ugo a Vignola, Modena, il 14 novembre 1894, Laura a Pesaro il 3 agosto 1897, Lina a Urbino il 10 luglio 1901 e Amelia ad Amelia, Terni, il 27 aprile 1904.

La famiglia era composta anche da Olga e Max, nati a Messina, Gabriella a Loiano, Bologna, e altri due fratelli, uno morto in giovane età, l'altro, Aldo; morto al termine della prima guerra mondiale, quando ancora era soldato. Il lavoro del padre Ernesto, ufficiale del dazio; era la causa dei continui trasferimenti. Di lui si ricorda che, molto giovane, fu volontario garibaldino e che partecipò alla campagna risorgimentale combattendo, in particolare, nella battaglia di Bezzecca. Era nato a Modena ed era sposato con Giulia Levi, originaria di Ferrara. All'entrata in vigore delle leggi razziali, novembre 1938, Laura è segretaria di una Scuola comunale, Lina è impiegata presso la ditta Brunner e Amelia è casalinga. Dei due fratelli, Ferruccio, ragioniere, lavora  allo scatolificio Ambrosiano. Ugo è sposato con Lea Milla di Vittorio e Coen Gialli Nelly; ha una figlia, Serena, nata nell’ottobre 1933.

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Fra Ugo e Lea esisteva forse un lontano legame di parentela. Anche i Milla, come tutti, gli ebrei residenti in Italia, dal 1938 dovettero cominciare a fare i conti con la legislazione razziale, introdotta dal regime fascista. Con il Regio decreto 1728 del 17 novembre, infatti, un certo numero di italiani, circa quarantamila persone, scoprirono, per il fatto di essere ebrei, di appartenere ad una particolare razza e perciò di non poter godere degli stessi diritti, e nemmeno di avere gli stessi doveri, degli altri cittadini, quelli che seppero allora di appartenere alla "razza ariana". Il decreto legge definiva i criteri di appartenenza alla "razza ebraica" (art.8) e, alle persone che rientravano in questa categoria, imponeva pesanti limitazioni riguardanti il lavoro e la proprietà privata, interdiceva la possibilità di prestare servizio militare, vietava i matrimoni con cittadini italiani "ariani". Conteneva anche dei criteri di discriminazione fra gli stessi ebrei, stabilendo che parte delle norme che esso stesso dettava non dovevano essere applicate agli "ebrei discriminati", a coloro cioè che fossero stati in grado di documentare meriti di guerra, personali o di membri della famiglia, o la propria adesione al Partito Fascista in determinati periodi. Il 14 luglio 1938 venne pubblicato, con la firma di alcuni noti uomini di scienza, il "Manifesto della Razza", con l'intento di dare all'antisemitismo fascista una parvenza di scientificità.

 

L’AUTODENUNCIA IN COMUNE. Non ci sono testimonianze riguardo alla reazione dei Milla alla notizia dell'entrata in vigore delle misure antiebraiche. Si può presumere che furono simili a quelle del resto della comunità: un misto di incredulità, di amarezza e di apprensione. I Milla sottostarono all'obbligo dell'autodenuncia presso il Comune di residenza, previsto dal decreto legge del 17 novembre. Attraverso questa norma, che permise di compilare l'elenco degli ebrei in Italia, i tedeschi e i fascisti si ritrovarono fra le mani uno strumento assai utile allorché, dall'autunno del 1943, daranno inizio alla “caccia all' ebreo”. I fratelli Milla percorsero la strada della richiesta di discriminazione: dai documenti conservati all' Archivio di Stato di Milano risulta che cercarono di far valere a questo scopo la partecipazione del padre Ernesto alle campagne garibaldine e i propri meriti durante il servizio militare. Solo a Max fu riconosciuto lo stato di “ebreo discriminato”, per la sua partecipazione alla guerra libica e a quella mondiale. Poté contare anche sull'intervento del ministero dell’Interno che, al Prefetto che già aveva espresso parere contrario, suggerì di rivedere la pratica  e di tener conto che il richiedente aveva avuto il padre volontario garibaldino. Da quanto si deduce dalla documentazione relativa alla domanda dì discriminazione sembra che l'atteggiamento dei Milla nei confronti del regime sia stato abbastanza tiepido: di tutti loro il segretario federale del Partito Fascista a cui spettava il compito di esprimere un parere, pur non potendo fare rilievi sfavorevoli, dice che "non risulta abbiano dato dimostrazione alcuna di attaccamento al regime". Solo Ferruccio è iscritto al partito, ma la data di iscrizione, 1928, non è tale da costituire un vantaggio ai fini dell'accoglimento della domanda. A causa delle leggi razziali, Laura dovette lasciare l'impiego di segretaria nella scuola comunale. Sul lavoro degli altri fratelli i provvedimenti razziali non ebbero probabilmente effetti negativi: non erano dipendenti pubblici né ricoprivano ruoli dirigenti nelle fabbriche dove lavoravano.

 

IL TRASFERIMENTO IN BRIANZA. Tra la fine del 1941 e l'inizio del 1942, lo Scatolificio Ambrosiano, azienda che operava a Sesto San Giovanni, per i continui bombardamenti a cui era sottoposta quella zona, trasferì i più importanti macchinari a Verderio Superiore e, con buona parte delle maestranze, fra cui i Milla, continuò lì l'attività. Vennero affittati alcuni edifici di proprietà della famiglia Gnecchi, situati nei pressi dell'incrocio fra la provinciale per Cornate e la via per Paderno d'Adda; il rustico, attualmente centro sportivo, fu adibito alla produzione, l'ala sinistra della villa Gnecchi e "l'aia" servirono come alloggi. Nella prima abitavano i Passaquindici, proprietari dell'azienda. I Milla abitavano nell'"aia", un edificio eclettico dell'Ottocento, il cui cortile, pavimentato con grosse pietre, veniva utilizzato dai contadini per stendere il raccolto ad asciugare. Conducevano una vita abbastanza riservata, soprattutto le donne che si vedevano in paese solo verso sera. Chi li conobbe li ricorda come persone affabili e cordiali. Ferruccio, dopo le sue lunghe passeggiate a piedi, si intratteneva a parlare con gli abitanti della vicina cascina, cercando di impararne il dialetto. Nell azienda ricopriva il ruolo di ragioniere contabile, mentre Lina era impiegata; Amelia, dalla salute malferma, faceva i lavori di casa; Laura, pur abitando a Verderio continuò a lavorare a Milano, forse presso la scuola ebraica di via Eupili. In Svizzera, con le rispettive famiglie, ripararono le sorelle Gabriella e Olga: quest’ultima vi morì qualche mese dopo l’arrivo. Ugo, con la moglie e la figlia, si trasferì a Ferrara presso alcuni parenti. Lasciò in seguito questa città, in cui non si sentiva sicuro, e, con decisione che si rivelerà tragica, raggiunse i fratelli a Verderio. Il fratello Max, fin dal 1939, si era rifugiato con la famiglia in Inghilterra, sospendendo l’attività commerciale di Milano.

 

L’INTERROGATORIO ALL’HOTEL REGINA. La sera del 13 ottobre 1943, alcuni soldati tedeschi si presentarono all’abitazione dei Passaquindici e, urlando minacciosi, li accusano di dare lavoro e di nascondere ebrei. Ad avvisare i tedeschi sarebbe stato un operaio desideroso di vendicarsi per il licenziamento subito. Ferruccio Milla, recatosi in quella casa per giocare a carte, si dichiara ebreo e viene arrestato; stessa sorte tocca al fratello Ugo, sopraggiunto poco dopo. Con loro vengono arrestati anche i fratelli Passaquindici, Donato e Vittorio, e un loro cognato, Nicola Rota. I cinque vengono tradotti al carcere di Bergamo e in seguito trasferiti a quello di San Vittore, a Milano. I Milla, prima di raggiungere San Vittore, vengono interrogati al comando SS di Milano, presso l'Hotel Regina. Nicola Rota resta in carcere per circa una settimana, il tempo necessario al comando tedesco per accertarsi che non fosse ebreo; Donato e Vittorio Passaquindici verranno rilasciati dopo tre settimane. La ricostruzione di quanto accadde la sera del 13 ottobre, che risulta dalla testimonianza di Lea Milla raccolta dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) di Milano, e della sorte che toccò nei giorni successivi agli arrestati, secondo i ricordi di Nicola Passaquindici e Francesco Amendola, nipoti di Donato e Vittorio, fa affiorare alcuni interrogativi cui è difficile rispondere. Chi erano i soldati artefici dell'operazione? Perché fecero irruzione, piuttosto che direttamente dai Milla, nella casa dei Passaquindici? Come mai questi ultimi vennero trattenuti in carcere? A queste domande si può cercare di dare risposta solo attraverso supposizioni, non potendo contare su altre testimonianze né sui documenti delle carceri coinvolte, Bergamo e Milano, che risultano irreperibili. Secondo quanto annota nel Liber Cronicus l’allora parroco, Don Carlo Greppi, il 15 ottobre 1943 arrivarono a Verderio circa 200 militari tedeschi e vi rimasero fino all'inizio di dicembre, alloggiando a Villa Gnecchi, gli ufficiali, e all'asilo, alla scuola materna e all’oratorio i soldati. Si può supporre che, prima del 15, una pattuglia abbia fatto un sopralluogo in paese, per organizzare la permanenza del contingente. A loro “qualcuno” potrebbe aver rivelato la presenza di ebrei. Perché dai Passaquindici? Forse la segnalazione fu imprecisa e furono indicati loro come ebrei (per molto tempo, vuoi per il cognome insolito, vuoi perché forestieri, molti sono stati convinti che lo fossero). Perché anche loro furono arrestati e trattenuti in carcere? Il motivo addotto dai tedeschi, secondo il ricordo dei nipoti, fu che avevano dato lavoro, e quindi protezione, ai Milla: a quella data, però, nessuna norma impediva loro di avere dipendenti ebrei. Un'altra ipotesi potrebbe essere che attraverso i Passaquindici i tedeschi pensassero di risalire al nascondiglio delle sorelle Milla, che in un primo tempo erano riuscite a fuggire: se così fosse stato, ci si domanda però come mai la detenzione di Donato e Vittorio si protrasse oltre la data dell'arresto di Lina, Laura e Amelia? L'arresto e la successiva detenzione dei signori Passaquindici, persone facoltose, potrebbe giustificarsi come un tentativo di estorcere loro denaro, sottoponendoli a qualche forma di ricatto legato alla presenza dei Milla a casa loro: è però necessario dire che nessuno dei nipoti interpellati ha mai sentito parlare di una simile ipotesi.

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LA CLINICA "CARATE BRIANZA". Fu Lea Milla ad accorgersi, a notte fonda, dell'assenza del marito e a dare l'allarme alle cognate: informate dell'accaduto, decisero di lasciare Verderio. Lea, insieme alla figlia, si rifugiò a Buscate in casa di un'amica, da dove ogni giorno si recava a Milano per avere notizie del marito e del cognato. Dopo qualche tempo raggiunse la madre Nelly Coen Gialli, ricoverata presso la clinica "Carate Brianza" (oggi clinica "Zucchi"), nell'omonimo paese in provincia di Milano. In quegli anni circa venti ebrei si nascosero in questa casa di cura: venivano chiamati da parenti già ricoverati, che avevano sperimentato la solidarietà del primario, il professor Magnoni e della madre superiora, Suor Luigia Gazzola, durante le perlustrazioni dei tedeschi. Verso le ore sette del 14 ottobre, Laura, Lina e Amelia chiamarono la signora Ida Sala, che lavorava da loro come domestica, le affidarono le chiavi di casa e le comunicarono di dover partire immediatamente per Milano. Ad eventuali domande sulla oro partenza, la pregarono di rispondere di non saper niente. Lasciarono Verderio senza alcun bagaglio. Alle nove circa, nella casa irruppero alcuni soldati tedeschi armati di mitra: era presente la signora Ida ancora intenta alle pulizie. Le assicurarono di non aver niente contro di lei, ma di cercare gli abitanti della casa (più volte, nei giorni seguenti, Ida Sala incontrerà questi militari, ormai di stanza a Verderio, che le rivolgeranno amichevolmente la parola), poi svuotarono il guardaroba gettando il contenuto nel cortile della casa: se ne impossessarono gli abitanti del paese, secondo alcune testimonianze, verrà bruciato, secondo altre. Non si sa se a Milano le tre sorelle si rifugiarono a casa loro, in via Farini 40, o si nascosero in casa di conoscenti: si sa invece che, probabilmente attraverso il cappellano del carcere, riuscirono ad avere notizie dei fratelli e a mettersi indirettamente in contatto con loro. È forse a causa di questa comprensibile imprudenza che fu individuato il loro rifugio e, il 21 ottobre, vennero arrestate. Il carcere di San Vittore servì, tra ottobre e novembre 1943 e la fine di gennaio del 1944, da luogo di concentramento per gli ebrei arrestati nella città e nella provincia di Milano, in alcune grandi città del Nord Italia e nelle zone di confine tra l'Italia e la Svizzera. A questo scopo vennero destinati alcuni settori del carcere, requisiti fin dal settembre dai tedeschi e da loro direttamente gestiti.

 

IL TORTURATORE DI EBREI. Responsabile per gli arresti e la detenzione degli ebrei era Otto Kock, un SS-Hauptscharführer che, per il crudele zelo con cui assolveva al suo compito, venne soprannominato dai suoi collaboratori Judenkock, Cucinatore di ebrei. Durante gli interrogatori, che effettuava personalmente presso il suo ufficio all'hotel Regina o a Villa Luzzato, deposito dei beni sequestrati, utilizzava la violenza e l’intimidazione per ottenere dai prigionieri informazioni sul nascondiglio dei loro parenti. La “ginnastica” e le percosse produssero un principio di infezione ad una gamba al signor Ferruccio Milla che, di conseguenza, al momento della partenza per Auschwitz, venne trasportato al treno su di una barella. Questo fatto, di cui parlerà Enzo Levy, suo compagno di sventura in una lettera indirizzata a Lea Milla, compromise certamente le sue possibilità, forse già scarse, per via dell’età, di superare la “selezione” all'arrivo al campo. All’inizio di dicembre del 1943, il numero di internati a San Vittore, frutto delle retate susseguitesi per tutto il mese precedente, era tale che il comando tedesco decise di formare un convoglio per Auschwitz. Se ne occupò il fiduciario di Eichmann, Theodor Dannecker, comandante del distaccamento volante del distaccamento di polizia di sicurezza nazista, cui spettava il coordinamento delle retate e delle deportazioni. All’alba del 6 dicembre furono preparati, nei sotterranei della Stazione Centrale, i vagoni merce per effettuare il “trasporto”. I prigionieri percorsero il tragitto fra il carcere e la stazione su camion con teloni abbassati, riascosti agli occhi di quei pochi che, in una Milano ancora addormentata, li avrebbero potuti vedere. Al treno partito da Milano si aggiunsero altri vagoni a Verona: insieme formarono il convoglio 21T proveniente da Trieste. Del convoglio 5 sono stati identificati 246 deportati, fra cui 20 bambini nati dopo il 1930. La più piccola, Rosa Osmo di Firenze, aveva solo pochi mesi, essendo nata nel 1943: verrà uccisa all'arrivo ad Auschwitz con due fratellini di due anni. Solo 5 persone faranno ritorno a casa. Il treno si arrestò allo scalo merci di Auschwitz la mattina dell'11 dicembre, dopo cinque giorni e cinque notti di “allucinante viaggio”, come lo definisce un reduce che racconta anche della fame e del freddo, dei pianti e dei lamenti, delle sofferenze dei vecchi e degli ammalati. Giunti alla meta i prigionieri dovettero attendere, chiusi nei vagoni, che un altro treno venisse scaricato. Quando fu il loro turno, scesero sulla banchina dove cominciò la “selezione”. Da una parte furono radunati coloro che sarebbero stati immessi nel campo, dall'altra i destinati alla camera a gas. Dei primi si conosce il numero esatto, 61 uomini e 35 donne (dato riferito ad entrambi i convogli, 5 e 21T), grazie ai documenti conservati al museo di Auschwitz, dove sono registrati i numeri di matricola degli immessi nel campo.

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L'INVIO ALLE "DOCCE". Secondo i risultati di un' approfondita ricerca condotta da Liliana Picciotto Fargion, Ferruccio, Ugo, Laura, Lina ed Amelia Milla non superarono la "selezione": dovettero così avviarsi, a piedi o su camion con il simbolo della Croce Rossa, verso gli edifici dove, in locali mascherati da docce, i non ammessi al campo venivano uccisi con il gas.

Un ordine di polizia (N.5, 30 novembre 1943), lo stesso che stabiliva che tutti gli ebrei residenti in Italia dovevano essere inviati in campi di concentramento appositamente allestiti, e un decreto legge (N.2, 4 gennaio 1944) ordinavano la confisca a favore dello Stato di tutti i beni, mobili e immobili, appartenenti a cittadini "italiani di razza ebraica" o a persone "straniere di razza ebraica non residenti in Italia". I decreti di confisca erano di competenza del "capo della provincia", denominazione che, nella Repubblica Sociale, aveva sostituito quella di prefetto. Questi provvedimenti colpirono la famiglia Milla quando ormai i cinque fratelli erano morti. A Ferruccio venne confiscato, presso la Banca Commerciale di Milano, un conto di deposito con la somma di 770,50 lire, a Ugo due conti correnti, per un totale di 117,80 lire, ed i beni sequestrati nell’appartamento in via Natale Battaglia 41 dove avevano abitato in affitto prima di lasciare Milano. Tali beni, di cui lo stato repubblichino poté arricchirsi, consistevano, secondo il verbale del sequestro redatto da un vicebrigadiere di Pubblica Sicurezza, in una bambola di pezza, cinquantacinque libri di lettura e otto giocattoli in legno per bambini. Lea Milla, moglie di Ugo, con la madre e la figlia Serena lasciò la clinica di Carate Brianza poco dopo la Liberazione e andò ad abitare con il fratello Umberto in un appartamento messo loro da un amico, l'ingegner Guffanti, titolare di un'impresa di costruzione: le loro abitazioni, infatti, erano state requisite durante la guerra e non vi poterono tornare. Serena poté frequentare, per la prima volta liberamente, la scuola. Un decreto revocò le confische attuate dalla repubblica fascista ed i beni che ne erano stati oggetto vennero restituiti. Negli anni seguenti Lea acquisirà il diritto ad una pensione e nel 1968, grazie alla legge N.404 del 1963 a favore dei "cittadini italiani colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialista", otterrà un indennizzo. Lea per anni cercò di avere notizie del marito e dei cognati: interpellò associazioni e partiti politici, fece pubblicare inserzioni sui giornali e si rivolse direttamente ai reduci dal campi di sterminio. Fra le risposte ai suoi appelli, la lettera di Enzo Levy, lo stesso a cui si è già accennato in precedenza, rappresenta l'ultima testimonianza certa riguardante i fratelli Milla in vita.

 

Da Torino, il 16 agosto 1945, indirizzando a

"CASA DI CURA - CARATE BRIANZA", egli scrive:

Gentile signora Lea Milla,

Rispondo solo oggi alla sua lettera del 3 corr., perché ero fuori Torino e sono ritornato solo ieri sera. Tutta la numerosa famiglia Milla era con me a S. Vittore e precisamente i due fratelli Ugo e Ferruccio e le tre sorelle Laura, Luisa [il nome esatto è Lina, N.d.A.] ed Amelia. Stavano tutti discretamente (come si può stare in prigione, senza sapere cosa ci attendeva). Soltanto il signor Ferruccio a causa delle percosse ricevute e alla "ginnastica" fattaci fare dai signori SS aveva un principio di infezione ad una gamba ma il giorno della partenza venne trasportato all’ultimo momento, su di una barella sino alla stazione e caricato sul carro bestiame, assieme a noi tutti. Non so se abbia resistito al viaggio che durò sei giorni ma all'arrivo ad Auschwitz gli uomini giovani e forti vennero subito divisi dagli altri e quindi non ebbi più modo di vedere nessuno dei suoi parenti. Si teme però che quasi nessuno sia delle donne che dei bambini e dei vecchi, per non parlare degli ammalati, sia sopravvissuto. Questo pensiero è così straziante. anche per me, che in quel gruppo avevo mia madre e mia sorella, che io stesso stento a crederlo. Pensi, cara signora, che io sono uno dei pochissimi superstiti finora rientrati in Italia! Moltissimi sono ancora gli assenti e di quesiti solo, di pochi si hanno e si potranno avere notizie!

Non disperi tuttavia e riceva tutti i miei auguri che DIO le conceda di rivedere le persone a lei care. 

Le porgo i miei ossequi. Enzo Levy

 

 

Bibliografia:

articolo di Marco Bartesaghi su “Brianze” n°34 anno 2005

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