Le abitazioni di Lissone nella seconda metà dell’Ottocento
Le corti
La parte più antica del borgo di Lissone era costituita quasi prevalentemente da corti coloniche. La maggior parte degli edifici era di vecchia fabbricazione.
Questi fabbricati erano abitualmente destinati ai contadini, anche se nel corso dell'Ottocento vi fecero la loro comparsa in numero crescente i falegnami.
La corte era formata da una serie di costruzioni concentrate attorno ad un cortile interno (court), spesso chiuso che comunicava con le vie del paese tramite un portone.
Alcuni nomi di corti esistenti anche nei primi anni del Novecento: la “court di Pagan”, nell’attuale piazza Libertà, a forma quadrangolare, abitata dalla famiglia Pagani; la “court di Monguz e Arienti” nell’attuale piazza Italia; in via Loreto la “court di Puz e dei Birè”.
Il cortile era in terra battuta o acciottolato spesso attraversato da acque malsane. Le abitazioni erano generalmente di un piano oltre quello terreno. Le stalle e gli altri edifici sussidiari, il cosiddetto rustico solitamente confinava con le abitazioni.
Al pianterreno si trovavano le cucine che davano direttamente sul cortile, gli unici locali provvisti di camini.
Al primo piano vi erano le camere da letto che servivano contemporaneamente come deposito per le granaglie.
Sopra le stalle, con bovini e in qualche caso equini e maiali, vi erano i fienili.
Gli edifici «ausiliari» erano coperti da un tetto molto sporgente che fungeva da portico per gli attrezzi e i carri.
Nei pressi delle stalle si trovava la latrina con il suo pozzo nero in cui confluivano i liquami del bestiame. In qualche caso, in un angolo del cortile vi erano i letamai.
Quasi sempre presenti erano i pollai.
Le case erano abitate da famiglie spesso numerose i cui membri dormivano in stanze mal aerate e frequentemente in numero superiore alla capienza del locale, rendendo l'aria irrespirabile. L’illuminazione era affidata raramente al petrolio e al gas acetilene.
Nella seconda metà dell’Ottocento gli edifici colonici subirono una riduzione degli ambienti rustici per ottenere spazi abitativi destinati alla crescente popolazione operaia e alla realizzazione di laboratori artigianali.
Il primo regolamento di polizia urbana redatto a Lissone nel marzo del 1874 stabiliva che, prima di iniziare la costruzione di nuovi edifici, occorreva presentare un progetto all’Autorità comunale.
Un regolamento sulla salubrità delle abitazioni e degli edifici pubblici ci dà un’idea delle precarie condizioni igieniche dei vani abitativi, spesso causa del diffondersi di malattie quali il colera. Spesso le esalazioni nocive erano generate dalla mancanza di latrine, che erano quasi sempre sottodimensionate rispetto al bisogno dei numerosi inquilini soprattutto delle case di corte.
Mancava a Lissone una rete fognaria, la cui costruzione sarà iniziata solamente nel 1926. Le acque putride frequentemente si infiltravano nei pozzi d'acqua potabile con il conseguente diffondersi di epidemie. Le acque dei pozzi, spesso scoperti, erano contaminate dalla sporcizia che vi penetrava facilmente.
Tra le malattie che assillarono la popolazione lissonese dopo l’Unità d’Italia vi fu il vaiolo, nel triennio 1871-73, che provocò ben 17 morti e che si ripresentò nel 1887-88. Anche casi di colera si manifestarono negli anni 1866-1867 e nel 1884; questa epidemia viene segnalata a Lissone anche negli anni antecedenti l’Unità d’Italia e precisamente nel 1836, nel 1854-55 e nel 1860.
Poche le ville e palazzi in cui abitavano le famiglie più benestanti del paese.
Tra queste si ricordano: il palazzo dei conti San Martino e Rocca che occupava quasi tutta la via S. Antonio e parte della via San Carlo, il Palazzo Magatti, divenuto dal 1910 il nuovo municipio,
la villa del benefattore Mauro Riva, villa Mussi in piazza della Libertà, villa Spaziani Carabelli posta immediatamente dopo il ponte della stazione sulla via per Muggiò, villa Gatti Massimiliano, anch'essa nei pressi della stazione ferroviaria, e villa Reati (ex Baldironi) ubicata in via Fiume.
Com’era la situazione nelle altri parti d’Italia?
Una grande indagine parlamentare sulla condizione del mondo agrario italiano, nota come «Inchiesta Jacini» dal nome di Stefano Jacini, a lungo ministro dei Lavori Pubblici, fotografa l'Italia povera, lacera e macilenta della seconda metà del Diciannovesimo secolo.
Nell'anno in cui inizia la pubblicazione del rapporto, il 1880, il mondo moderno è lanciatissimo. L'Europa è passata in quarant'anni da 1700 a 101.700 miglia di binari ferroviari, vale a dire da 2735 a 163.635 chilometri. È appena stata accesa la prima lampadina elettrica ideata da Thomas Edison a New York nel 1879, da 24 il telefono di Antonio Meucci e il primo ascensore in un grande magazzino di New York, da 26 il motore a scoppio, da 29 le rotative per la stampa dei quotidiani e il telegrafo sottomarino che collegava la Francia e la Gran Bretagna.
Eppure, mentre a Chicago è già stato costruito il primo grattacielo ed è partita la sfida a chi farà svettare quello più alto, le condizioni abitative degli italiani, nelle relazioni dei commissari della «Jacini», appaiono spesso medievali.
In Sicilia, «tra le tante cause della decadenza morale del contadino siciliano [c'è] la malsania e la ristrettezza delle abitazioni, ove in una medesima stanza o stamberga convivono persone d'ambo i sessi e di diverse età, sdraiati talvolta, per mancanza di letto, sulla paglia (padre, madre, figlie e figli, cognati, fanciulli) in compagnia del maiale o di altre bestie, in mezzo al sudiciume e al lezzo, ed in quella compiono ogni operazione della natura».
In provincia di Catanzaro, scrive il deputato e medico Mario Panizza, «i concimi si conservano nelle stalle; e se il bestiame, come accade, sta all'aperto, vengono accumulati lì presso; il concime si vede anche accumulato nelle camere da letto, se queste sono al pianterreno, o nella pubblica via. Le case, in generale, sono umide, luride, affumicate, pericolanti, spesso senza imposte e senza soffitto. Non esiste nettezza pubblica; lo stato dei paesi muove ribrezzo». Né le cose vanno diversamente risalendo la penisola fino a quella che diventerà la dolce, linda e civilissima Umbria: «Nella provincia di Perugia se le condizioni igieniche delle case coloniche e loro adiacenze fossero meglio curate, non si lamenterebbero alcune malattie. Le coliche, le dissenterie, i reumatismi, le pleuro-polmoniti e la tifoidea sono le malattie ordinarie e prevalenti [...] Il concime si gitta in un canto addossato alla rinfusa ad una parete della casa colonica sotto la gronda dei tetti». Più a nord ancora, nelle terre di Parma, «i cessi mancano in tutta la provincia, salvo qualche eccezione. Le stalle ed i magazzini fanno corpo colla casa colonica, e comunicano direttamente, o, alcuna volta, per mezzo di un androne aperto. I concimi, dopo essere stati qualche giorno nelle stalle, si ripongono nei cortili o in vicinanza della casa. La nettezza interna è del tutto negletta; le case hanno poca luce, e non avrebbero aria, se non la ricevessero dalle pareti mal connesse e cadenti; talvolta di giorno il medico è costretto a visitare gl'infermi col lume. Non è punto curata anche la nettezza dei villaggi, massime di quelli posti sulle montagne, dove si lascia fermentare nelle pubbliche vie ogni specie d'immondizie».
Non c'è una regione dell'Italia, neppure una, dove il rapporto parlamentare possa segnalare un quadro abitativo soddisfacente.
L'«Inchiesta Jacini» riporta: «La stalla è la parte principale della casa del contadino, è ad un tempo il luogo del bestiame, il salone e il santuario della famiglia. È nella stalla che si passano i lunghi inverni; è là che la padrona di casa riceve parenti e amici; là la famiglia lavora, si ricrea, mangia e dorme. Intanto che le donne cuciono, rappezzano o filano, gli uomini giuocano alle carte o se la passano discorrendo [...] Le stalle o la camera dove dimora la famiglia sono riscaldate con delle stufe di ferro fuso o di pietra; la loro apertura per fortuna è nella camera stessa e serve a rinnovare l'aria. Si ha la cattiva abitudine di riscaldare troppo, onde esiste sovente fra la temperatura esterna e quella della camera riscaldata una differenza di 20 o 30 gradi. Questo contrasto di temperatura, aggiunto alla mancanza di aperture, che impedisce l'azione della luce e il rinnovamento dell'aria, produce frequentemente delle bronchiti, o polmoniti, o reumatismi» .
Dove portasse tutta quella miseria e quella sventurata estraneità a ogni cultura igienica da parte dei nostri nonni, lo si capisce dalle statistiche. Come quella sulle cause di morte nel 1887, il primo anno in cui si cominciò a tener nota di alcuni dati. Dai quali emerge che a uccidere gli italiani, in dodici casi sui primi sedici della classifica, erano soprattutto le infezioni. Con in testa la «malattia delle mani sporche», cioè la gastroenterite, seguita dalle malattie polmonari.
Racconta Eugenia Tognotti ne Il mostro asiatico: storia del colera in Italia che, nonostante l'eziologia del «male blu», chiamato così perché si lasciava dietro corpi rinsecchiti e bluastri, e i suoi modi di trasmissione fossero «ben chiari anche al più oscuro medico di villaggio» e così «le raccomandazioni per la bollitura dell'acqua e del latte», l'ignoranza collettiva intorno al ruolo della sporcizia nello spartiacque tra la vita e la morte, era tale che «i giornali ospitavano annunci pubblicitari di anticolerici come l'estratto di assenzio, l'acqua di Orezza (Corsica), "minerale, ferruginosa, acidula, gazosa e senza rivale"; o, ancora, la "menta di Ricqlès" di cui si vantavano i successi a Marsiglia e a Tolone».
E se questa era la cultura della classe media che leggeva i giornali, è facile immaginare cosa dovesse pensare la plebe analfabeta.
Certo, se ci fosse stato un generoso investimento sulla prevenzione, l'istruzione, la scuola, le cose sarebbero andate diversamente. Ma il governo italiano, al di là delle fiammeggianti battaglie di qualche illuminato, non pareva interessato al tema. Lo dice il vertiginoso ricambio di ministri (33 dall'Unità al 1901) della Pubblica Istruzione. Lo dicono le statistiche di Ernesto Nathan, mazziniano, economista, sociologo, appassionato di numeri e percentuali, secondo il quale l'Italia, che impiegava in spese militari oltre un quinto del suo bilancio, dedicava alla formazione culturale dei suoi cittadini il 2,7 per cento contro il 4,4 della Spagna, il 6,6 della Francia, il 7,5 della Baviera o il 10 abbondante della Gran Bretagna.
Ottomila morti contò Napoli, nell' epidemia di colera del 1884.
Era una strage, ogni volta che partiva un'epidemia di colera. Quasi 34 mila furono i morti, nei 4 anni dall'84 all'87.
Documento del 12 marzo 1848 in cui il medico condotto segnala un caso di vaiolo di un lavoratore (Giuseppe Parravicini Parmigiano) addetto alla costruzione della linea ferroviaria Milano Como nel tratto interessante il Comune di Lissone. Il medico dichiara “di non poter praticare i soliti sulfamigi come si usa in simili circostanze, perché l’ammalato dorme all’aria libera su di un cassinaggio, ove le disinfestazioni sono affatto inutili. Le lavature pure non si possono praticare, poiché l’ammalato è privo di ogni supelletile”.
Bibliografia:
Gian Antonio Stella ODISSEE – Italiani sulle rotte del sogno e del dolore – Edizioni Corriere della Sera 2004