Luigi Sturzo e la fondazione del Partito popolare
Giorgio Candeloro, storico italiano del dopoguerra, tratteggia i momenti principali che precedettero la fondazione del Partito popolare italiano nel 1919. Al centro della vicenda è la figura di don Luigi Sturzo, un sacerdote siciliano con una grande passione politica che, all'inizio, lo ha avvicinato al Movimento dei democratici cristiani. Al contrario di Murri (*), però, Sturzo, anche se spesso in conflitto con il Vaticano, rimase sempre fedele alla Chiesa. Al centro dell'azione di Sturzo è l'idea di fare del Ppi un partito non confessionale, anche se chiaramente ispirato ai valori cristiani, e aperto ai problemi sociali.
Nato a Caltagirone nel 1871, per molti anni prosindaco della sua città, Sturzo fin da giovane era stato attivo nelle organizzazioni cattoliche e aveva aderito alla corrente democratico-cristiana. Dopo lo scioglimento dell'Opera dei Congressi, aveva obbedito alle direttive papali ed evitato di seguire il Murri nella ribellione: ma aveva posto con molta chiarezza fin dal 1905 l'esigenza di un partito dei cattolici democratici, non confessionale, e autonomo nel campo politico. Nel 1915 era stato nominato segretario della Giunta direttiva dell'Azione cattolica, organo centrale di coordinamento istituito da Benedetto XV, assumendo così una funzione preminente nel movimento cattolico a livello nazionale. Molta risonanza ebbe quindi il discorso, che pronunciò a Milano il 17 novembre 1918, su i problemi del dopoguerra, nel quale delineò un programma politico La cui attuazione presupponeva evidentemente la nascita di un nuovo partito.
Contemporaneamente questa eventualità venne prospettata in una lettera a Sturzo pubblicata su Il Corriere d'Italia dal dirigente Lombardo Stefano Cavazzoni, il quale propose la formazione di un partito che fosse emanazione dell'Azione cattolica, analogamente al Centro tedesco. Sturzo rispose allora affermando che gli organismi di Azione cattolica non potevano «tramutarsi in organi di partito politico» e propose il nome di «Partito popolare», già usato dai cattolici trentini. «Bisogna dare la sensazione che non solo ci muoviamo per la difesa religiosa del popolo - egli disse - nel quale caso possiamo essere uniti anche con liberali onesti e con conservatori moderati [...], ma che abbiamo un contenuto sociale e che del popolo, oggi chiamato a nuovi destini, vogliamo essere emanazione, esponenti e amici, contro il monopolio socialista che, sotto la bandiera della democrazia rossa, vuole raccogliere tutti i proletari». In quei giorni Sturzo ebbe un colloquio col Segretario di Stato, cardinale Gasparri, al quale comunicò l'intenzione di fondare il nuovo partito ottenendone una sostanziale approvazione. Vi furono inoltre [...] alcune riunioni di dirigenti cattolici delle varie regioni, che ebbero lo scopo di preparare la fondazione del nuovo partito. Da queste riunioni [...] uscì la nomina di una commissione provvisoria, incaricata di preparare un Appello al paese e il Programma del Ppi. [...] L’Appello [...] affermava: «a uno Stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti .della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i comuni, che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private». Chiedeva pertanto «la riforma dell'istituto parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto alle donne, il Senato elettivo, come rappresentanza direttiva degli organismi nazionali accademici, amministrativi e sindacali; [...] la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione; [...] il riconoscimento giuridico delle classi, l'autonomia. comunale, la riforma degli enti provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali». A queste rivendicazioni democratico-radicali non prive di una certa tendenza corporativista l'Appello aggiungeva altre richieste derivate dalla tradizione del movimento cattolico democratico: «Libertà religiosa, non solo agli individui ma anche alla Chiesa, per la esplicazione della sua missione spirituale nel mondo; libertà di insegnamento, senza monopoli statali; libertà alle organizzazioni di classe, senza preferenze e privilegi di parte; libertà comunale e Locale secondo le gloriose tradizioni italiche». [...] Nel complesso il Ppi si presentava al paese come un partito democratico avanzato per quanto riguardava la riforma elettorale e quella dell'ordinamento amministrativo dello Stato; si presentava inoltre come partito cristiano, senza peraltro proclamarlo esplicitamente, nell'affermazione di alcuni principi morali e nella difesa della «Libertà e indipendenza della Chiesa». Nel campo sociale il Ppi enunciava un programma generico di ispirazione solidaristica, destinato ad andare incontro alle esigenze di alcune importanti categorie contadine, come i coltivatori diretti, i piccoli affittuari, i mezzadri, i salariati fissi.
(G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, Vol. VIII, Milano, Feltrinelli 1987, pp 266-270)
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(*) Dopo l’Unità d’Italia, anche i cattolici costituivano un punto di riferimento importante per il proletariato, in particolare per i contadini. Fin dal 1870 era sorta l'Opera dei Congressi, un vero e proprio contenitore di tutto l'associazionismo cattolico sul quale la Chiesa intendeva mantenere uno stretto controllo.
All'inizio del secolo però questa grande organizzazione cominciava a entrare in crisi tanto che nel 1904 veniva sciolta e sostituita da tre grandi Unioni, tutte dipendenti dalle gerarchie ecclesiastiche.
Alla stretta tutela della Santa Sede tendeva però a sottrarsi il Movimento dei democratici cristiani, capeggiato dal sacerdote Romolo Murri, che predicava un riformismo intransigente, guidava le lotte contadine con modalità simili a quelle del socialismo e, soprattutto, riscuoteva un successo straordinario (nel 1902 quasi 250.000 erano gli. iscritti al suo movimento). I cattolici conservatori e l'alto clero guardavano con diffidenza ai democratici cristiani ed erano poi ancor più allarmati dal progetto di Murri di dar vita a un partito, una vera eresia per i fedeli ai quali il papa aveva severamente vietato (non expedit) ogni impegno politico nel Regno d'Italia. L’impossibilità di partecipazione politica da parte dei cattolici ebbe certo effetti di rilievo sulla mancata nazionalizzazione delle masse.
Col passare degli anni, però, la stessa Chiesa si rendeva conto che un atteggiamento tanto rigido rischiava di farle perdere terreno nella società civile, investita da un processo di modernizzazione che incideva sui costumi e sui valori tradizionali. Era pericoloso lasciare la gestione del cambiamento solo nelle mani dello Stato laico, tanto più dopo l'esempio della Francia dove i governi radicali stavano attuando una politica accentuatamente anticlericale L’ipotesi di un partito cattolico era però scartata a priori e, infatti, il pontefice Pio X sospendeva a divinis Murri che, passato nelle file dei radicali, sarebbe stato poi scomunicato. Tuttavia veniva contemporaneamente ammorbidito il divieto alla partecipazione elettorale con accordi sotterranei al momento delle votazioni tra clerico-moderati e liberali: i cattolici si adoperavano per far confluire i voti dei fedeli su quei deputati che si impegnassero a difendere in
Parlamento gli interessi della Chiesa.
Una cartolina del 1900 mostra i principali rappresentanti del Movimento democratico cristiano.