Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Stalingrado: fine di un esercito

12 Avril 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Tre grandi città segnano il destino dell’invasione tedesca in Russia: Leningrado, con il martirio dei suoi abitanti, Mosca, con la dissennata ostinazione di Hitler che non vuole essere inferiore a Napoleone, e Stalingrado che vede frantumarsi il potenziale distruttivo delle armate tedesche. Quando la città è divenuta un cumulo di macerie i sovietici cominciano a dettare le regole del gioco: lasciano avanzare i carri armati che finiranno comunque in trappola tra mucchi di mattoni e di cemento e distruggono le fanterie, attaccano di notte quando il nemico è maggiormente in difficoltà, attendono che questi concentri al massimo le sue forze per poi chiuderlo in trappola.

1942-Stalingrado.JPG 1942-Stalingrado-2.JPG

Da un articolo di Enzo Biagi in La Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti - Corriere della Sera 1989

Sono arrivato a Volgograd, dove non ero mai stato; si chiamava Stalingrado, e l'hanno scioccamente epurata. Mi ha detto un collega della «Pravda» che le ridaranno il nome per cui è conosciuta in tutto il mondo, ma la burocrazia è lunga e il partito prudente.

È sulla collinetta di Mamaja, sulla terribile quota 102, che Hitler ha perso la guerra, ed è cambiato anche il nostro destino. I tedeschi che combattono lo chiamano «il grande fungo» ed è un intrico di ridotte, di nidi di mitragliatrici, di postazioni di mortai. Adesso è meta di turisti e di scolaresche.

1943-2-febbraio-resa-Paulus-a-Krusciov.JPGPaulus si è rifugiato nei sotterranei dei Grandi Magazzini; una cantina di quattro metri per quattro, ricoperta di legno, riscaldata da una stufa di argilla, costruita sul posto dai soldati.

Il suo rancio è due zuppe al giorno e una fetta di pane; a un comandante di battaglione insignito della croce di ferro, pochi giorni prima della resa, ha mandato in dono una pagnotta una scatola di aringhe al pomodoro.

 

La mattina del 31 gennaio 1943, un ufficiale del corpo di guardia si affaccia all'emporio e avverte: «I russi sono alla porta». Friedrich Paulus decide di farla finita e «senza tante storie», precisa; si avvia all'uscita pallido e umiliato. Nella notte è stato promosso feldmaresciallo. Fuori, lo aspettano anche i fotografi. E un momento che va ricordato. Nella foto: Paulus, feldmaresciallo da un giorno, appare di spalle mentre va a comunicare lo resa a Nikita Krusciov.

In vetrina espongono ora giocattoli di pezza e profumi a buon mercato. In quello che era il rifugio di Vasilij Ivanovič Čujkov, l'avversario, sulla riva del Volga, dentro la roccia porosa, han sistemato un ristorante. Più in su, c'è un teatro: stasera si rappresenta Ballo al Savoy.

Quando, il 21 giugno 1941, un sabato, Hitler dà ordine di attaccare l'Unione Sovietica, al Cremlino non dovrebbe esserci sorpresa; le spie li hanno avvertiti perfino del giorno e dell'ora dell'invasione. Soltanto trenta minuti dopo mezzanotte, il commissario del popolo alla Difesa Timošenko ordina alle truppe delle regioni di confine di prepararsi a resistere. Eppure, racconta il diplomatico Berezkov, che sta in quel momento all'ambasciata di Berlino, già in febbraio un tipografo amico gli ha portato un manuale di conversazione russo-tedesco, avvertendolo che se ne stanno stampando migliaia di copie. Il frasario è di questo genere: «Dov'è il presidente del Kolchoz?», «In alto le mani, o sparo», «Arrenditi».

La dichiarazione ufficiale di guerra la fa Ribbentrop, alle tre del mattino, davanti agli operatori e ai giornalisti: ha la faccia gonfia, gli occhi appannati, le palpebre arrossate. Balbetta, ha bevuto. L'ambasciata dell'URSS nel congedarsi commenta: «Questa volta la pagherete cara».

La rapidità e la portata dei successi della Wehrmacht sbalordiscono. Le divisioni corazzate minacciano la capitale: le punte avanzate arrivano a una trentina di chilometri. Stalin non si muove. Organizza uomini e mezzi per bloccare il nemico. Telefona a Zukov, il vice capo della Stavka, l'alto comando: «Siete certo di poter tenere Mosca? Ve lo chiedo col cuore straziato, da comunista».

Risposta: «Senza alcun dubbio. Ma avremo bisogno di due armate con più di duecento carri armati».

Zukov mantiene la promessa: e l'esercito nazista non arriverà mai, come Napoleone, ad assestarsi sulla Collina dei Passeri: nella battaglia per Mosca perde più di mezzo milione di soldati, 1300 carri armati, 2500 cannoni e una quantità enorme di materiale. Viene respinto di oltre 100 chilometri verso Ovest.

Più tardi Hitler, riferisce Rahn, un suo diplomatico, ammette l'errore: «Per quanto riguarda i russi, mi sono effettivamente sbagliato, e per la prima volta. Al momento dell'invasione contavo che disponessero di 4000 carri armati, e ne avevano invece 12.000».

Eppure il conte von der Schulenburg, che nell’URSS rappresentava il Terzo Reich, non aveva nascosto il suo giudizio e le sue previsioni: «Le cose non potranno mai andar bene. Non si ha alcuna idea della potenza dell'Armata Rossa e dell'energia concentrata nell'ideologia sovietica».

Quando torna la buona stagione, Hitler lancia il «Progetto Azzurro», una larga manovra che ha come obiettivo l'occupazione del Caucaso e la conquista dei giacimenti petroliferi: Stalingrado, nei suoi piani, ha una importanza marginale. E una città industriale che, nel 1925, ha preso il nome del capo: prima si chiamava Sarizija, ma il compagno Dzugasvili nel 1918 sostò da queste parti come commissario di guerra; c'era da battere i «bianchi» del generale Krasnov. Invece, per cinque mesi, in quelle strade, si svolgono «i combattimenti più esasperati del secondo conflitto mondiale».

Alla fine di ottobre nove decimi del centro urbano sono occupati dai reparti nazisti, e la bandiera di combattimento del Reich sventola sulla piazza principale: ma Zukov, che coordina la controffensiva, avverte: «Presto avremo un giorno di festa».

Paulus vede le sue divisioni combattere e cadere disperatamente, in una lotta disumana, ma non sa ribellarsi; il chilometro, come unità di misura, scrive Paul Carell, cede il posto al metro, la carta dello Stato maggiore è sostituita da quella topografica: si spara in un vecchio mulino, tra i serbatoi d'acqua, sulla linea ferroviaria; capita che nello stesso appartamento i sovietici, riferisce il corrispondente Walter Kerr, hanno occupato la cucina e i tedeschi il soggiorno.

I rifornimenti promessi dalla Luftwaffe non arrivano, o vengono scaricati in quantità minima, o finiscono, coi lanci, tra le macerie, o nelle mani del nemico. Confessa poi Paulus: «Lottavo dentro di me, e mi chiedevo se dovevo preferire l'obbedienza che mi veniva chiesta con l'argomento perentorio che ogni ora guadagnata era di vitale importanza, oppure la compassione umana per i miei soldati. Credetti allora di dover risolvere il conflitto facendo prevalere la disciplina».

Contro di lui, Vasilij Ivanovič Čujkov, quarantadue anni, figlio di contadini, amante degli scacchi, delle letture e della buona tavola, deciso e intelligente, che sa quello che vuole: «Se rischi la pelle salvi quella di molti combattenti», dice, ed è pronto a pagare: «O terremo la città o moriremo qui».

Pensa di lui Paulus: «Non è un militare, è uno stregone». I biografi lo descrivono «ambizioso, pieno di talento strategico, intrepido e incredibilmente tenace». Comanda la LXll Armata, e ha alle spalle, come consigliere politico, un vecchio comunista, Nikita Sergeevič Chruščëv.

 

1942-fabbrica-carrarmati-URSS.JPGCambia di continuo le regole: i tedeschi preferiscono combattere durante il giorno, e lui gli impone la notte, amano lottare nelle vie, e lui le lascia deserte. Lancia nel corpo a corpo i siberiani, armati di coltelli finlandesi e di pugnali, mobilita cinquantamila civili e forma la Difesa Popolare, tremila ragazze diventano ausiliarie e infermiere, i giovanetti del Komsomol vanno al fronte, perché il fronte è ovunque. Dalla fabbrica di trattori Gerginksij escono carri armati, e vanno subito in linea, senza vernice, senza strumentazione ottica, con equipaggi formati dagli stessi operai che li hanno costruiti. Nello stabilimento «Barricata rossa» si producono cannoni: che appena fuori dai reparti, sono in postazione e sparano.

Novembre, maledetto novembre per l'Asse: quante batoste. Montgomery, a El Alamein, batte Rommel; Eisenhower sbarca in Africa occidentale e marcia su Tunisi; Hitler parla ad antichi camerati, quelli della birreria di Monaco, di ciò che sta accadendo a Stalingrado, e promette:«Nessuna potenza al mondo riuscirà a sloggiarci di là».

Immagina manovre dai simboli fascinosi e carichi di minacce: «Colpo di tuono», «Tempesta invernale», ma la pioggia, il nevischio, la nebbia ghiacciata segnano le ore della sconfitta.

Von Manstein, la mente più sottile tra gli strateghi della Wehrmacht, promette: «Faremo tutto il possibile per liberarvi», e Paulus ancora si illude di farcela; e una settimana prima della caduta ordina: «Radunare le ultime forze per resistere fino al cedimento dei russi».

Trecentomila uomini sono chiusi nella sacca: ma la fame e i proiettili li distruggono. Non si distribuisce quasi più il rancio, non ci sono bende per curare i feriti, si insegna a cucinare la carne dei pochi cavalli rimasti. Già il 22 novembre un marconigramma di Paulus informa l'Oberkommando: «Carburante quasi esaurito. Situazione munizioni precaria. Viveri solo per sei giorni».

Dagli altoparlanti arriva la voce di Ulbricht che esorta a deporre le armi, e viene diffuso un manifesto coi versi del poeta comunista Becher, uno dei rifugiati a Mosca: «Nel sogno il volantino gli parlò: non ti succederà nulla di male I Il pezzetto di carta lo prese per mano I Io conosco bene questo paese So dove andiamo».

Il 31 gennaio, la strada la imparano anche centomila soldati che hanno ubbidito agli ordini del Führer, e vanno verso la prigionia. Tra loro, quasi diecimila rumeni. Una fila senza fine di straccioni e di malati.

L'ultimo aereo ha decollato da Gurmak il 23: lo pilota il luogotenente Krause, ha undici feriti a bordo e il timone di profondità in avaria. Sul limite del campo, sono raccolti migliaia di disgraziati che vengono abbandonati al loro destino.

 

Nel cielo splendente di sole, i russi fanno sfilare una parata aerea, trentacinque bombardieri formano la stella sovietica. Hanno sbigottito con la loro caparbietà, con la loro «pazzia» il nemico; ora sentono che comincia la marcia verso Berlino «Perfino dopo morti», ricorda il colonnello Adam «restavano avvinghiati al volante dei carri armati distrutti».

1943-gennaio-prigionieri-tedeschi.JPGGli ultimi momenti del dramma dei soldati tedeschi a Stalingrado.

Dei 320.000 tedeschi di Stalingrado, 140.000 sono morti per ferite ricevute in combattimento, fame, freddo, malattie, 20.000 dispersi, 70.000 feriti evacuati prima e dopo la sacca. I superstiti 90.000 lasciano in mano ai russi 750 aerei, 1550 carri armati, 480 autoblindo, 8000 cannoni e mortai, 60.000 autocarri e 235 depositi di munizioni e partono per i campi di prigionia della Siberia.

 

Fra loro vi sono 2500 ufficiali, 23 generali ed un feldmaresciallo: torneranno in soli 5000, meno del 2 per cento. Alle 14.46 del 2 febbraio un aereo tedesco da ricognizione sorvola a grande altezza la città e trasmette questo messaggio «A Stalingrado, nessun segno di combattimento».


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