L'eccidio di Sant'Anna di Stazzema
Commemorazione della strage in Toscana, alla presenza del presidente tedesco del Parlamento europeo Martin Schulz.
SANT'ANNA DI STAZZEMA - "M'inchino di fronte alle vittime di Sant'Anna. E' per loro che abbiamo la responsabilità di costruire l'Europa e di proteggerla dalla speculazione che fa soffrire i popoli e nutre i nazionalismi". Lo ha scritto, in italiano, il presidente del Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, che oggi era in Toscana a commemorare - insieme con autorità italiane e familiari delle vittime - i 560 morti provocati dall'orrore nazista 68 anni fa nel paesino in provincia di Lucca. Ad aprire il corteo che porta all'ossario sul Colle di Cava c'erano, con Schulz, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, il sindaco di Stazzema Michele Silicani e le autorità religiose, civili e militari, oltre a tantissimi gonfaloni di comuni. Una giornata dedicata anche al ricordo dei milioni di morti causati dalla 'follia nazista'.
Sotto l'ossario che ricorda l'eccidio, davanti ai pochi superstiti, ai familiari delle vittime e ai tanti gonfaloni dei Comuni il presidente del parlamento europeo parla in tedesco avvalendosi di una traduzione simultanea. E dice : "La lingua che io parlo è la stessa degli uomini che hanno compiuto questo eccidio. Non lo dimentico. Sono qui come tedesco e come europeo. l'Europa è la via migliore per non ripetere crimini come questo".
Schulz ha detto di non riuscire a "descrivere con parole la crudeltà di tali fatti. Mi presento oggi a voi come tedesco, profondamente scosso dalla disumanità dell'eccidio qui perpetrato in nome del mio popolo". Eppure, ha proseguito il presidente del parlamento europeo, anche oggi c'è chi dice di voler smantellare l'Europa: "Abbiamo cambiato le strutture, facendo nascere l'Europa, ma non abbiamo cambiato gli uomini. Questi sono sempre uguali e sono sempre capaci di commettere crimini come questo". Solo l'Europa, invece, può impedirlo: "E non possiamo permettere oggi che l'Europa venga distrutta da quelle forze speculative che hanno ridotto tanta gente alla disperazione".
"Bisogna non dimenticare mai - ha ammonito Schulz - bisogna mantenere vivo il ricordo. Affinché mai più in Europa ideologie disumane e regimi criminali tornino a mostrare il loro ghigno odioso... La libertà, l'umanità devono essere riconquistate ogni giorno. Questo è il nostro compito di epigoni, questa è la missione che ci hanno assegnato i martiri di Sant'Anna di Stazzema. Vi ringrazio di cuore per tenere vivo il ricordo dei martiri e per permettermi, come tedesco, di commemorarli e di unirmi al vostro lutto. E' un dono fatto a me personalmente"
"Noi tutti dobbiamo scendere in campo contro il ritorno di modi di pensare che hanno sempre portato ai popoli europei nient'altro che disgrazie - ha proseguito Schulz - e minacciano ora di mandare in rovina anche l'Unione europea. Non possiamo permetterci di ricadere negli antichi errori. Se questo spirito foriero di sciagure per i popoli europei conquistasse la maggioranza degli Stati membri dell'Unione, se gli riuscisse di rimettere in questione il carattere di collante di popoli di questa Unione, allora ritornerebbero con esso anche gli spettri della prima metà del XX secolo".
Martin Shultz ha parlato poi di Europa: "Io non vorrei un imperialismo del marco. Abbiamo bisogno di una valuta comune perchè solo una valuta comune ci rende più forti. In Germania - ha aggiunto - ci sono persone che dicono che si dovrebbe reintrodurre il marco perchè così saremmo più forti, mentre la lira, la peseta e il franco sarebbero deboli. Io rispondo, è vero. Ma in questo modo la Germania diventerebbe troppo grande per l'Europa e troppo piccola per il mondo. Da sola non potrebbe affrontare i mercati globali".
Il messaggio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
Tra i numerosissimi ricordi dell'eccidio, quello del presidente Napolitano. In un messaggio al sindaco Silicani, e a tutti i convenuti alla commemorazione, Napolitano scrive: "Quel 12 agosto 1944 che vide cadere sotto il piombo della barbarie nazifascista 560 vittime inermi, in gran parte vecchi, donne, bambini, è una data scolpita nella memoria di chi visse quei terribili avvenimenti e di chiunque ne conservi il ricordo".
'Il dolore e l'orrore di quella giornata hanno trovato un nuovo momento di commossa rievocazione nella recente concessione a Cesira Pardini della Medaglia d'Oro al Merito Civile per l'eroico gesto compiuto, in quel terribile frangente di efferata brutalità, per salvare a rischio della propria vita la madre e le sorelle" - prosegue Napolitano - "Esempi di generosa solidarietà sono essenziali per tramandare, soprattutto alle giovani generazioni, i principi di libertà, giustizia e solidarietà che animarono le scelte di allora e sono stati posti a fondamento della rinascita civile e democratica del nostro paese".
da un articolo di MASSIMO VANNI
La Repubblica (13 agosto 2012)
La Shoah in Brianza: la famiglia Milla
Lo sterminio di una famiglia perbene
I due fratelli e le tre sorelle Milla di Verderio superiore furono arrestati dai tedeschi nell’ottobre 1943 perché ebrei e trasferiti ad Auschwitz, da dove non fecero più ritorno.
“Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare si che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. "
Primo Levi, Se questo è un uomo
Dall'Inizio del 1942 all' ottobre del 1943 abitò a Verderio Superiore, provenendo da Milano, la famiglia Milla, composta da tre sorelle, Laura, Lina, Amelia, e un fratello, Ferruccio. Nell'ottobre del 1943 tutti vennero arrestati, in quanto ebrei, da militari tedeschi: prima, a Verderio, Ferruccio; qualche giorno dopo, a Milano, le sorelle. Con Ferruccio fu arrestato anche un fratello, U go, che aveva raggiunto i famigliari da non più di due giorni. Fuggirono invece la moglie di quest'ultimo, Lea Milla, e la figlia, Serena, di dieci anni. Il 6 dicembre i cinque arrestati furono "trasportati" ad Auschwitz, da dove non fecero più ritorno.
LE LEGGI RAZZIALI. La famiglia Milla era approdata a Milano nel 1913 dopo vari trasferimenti in località del centro e del sud d'Italia. Di queste peripezie sono testimonianza i diversi luoghi di nascita dei suoi componenti: Ferruccio nasce a Cento, Ferrara, il 27 marzo 1888, Ugo a Vignola, Modena, il 14 novembre 1894, Laura a Pesaro il 3 agosto 1897, Lina a Urbino il 10 luglio 1901 e Amelia ad Amelia, Terni, il 27 aprile 1904.
La famiglia era composta anche da Olga e Max, nati a Messina, Gabriella a Loiano, Bologna, e altri due fratelli, uno morto in giovane età, l'altro, Aldo; morto al termine della prima guerra mondiale, quando ancora era soldato. Il lavoro del padre Ernesto, ufficiale del dazio; era la causa dei continui trasferimenti. Di lui si ricorda che, molto giovane, fu volontario garibaldino e che partecipò alla campagna risorgimentale combattendo, in particolare, nella battaglia di Bezzecca. Era nato a Modena ed era sposato con Giulia Levi, originaria di Ferrara. All'entrata in vigore delle leggi razziali, novembre 1938, Laura è segretaria di una Scuola comunale, Lina è impiegata presso la ditta Brunner e Amelia è casalinga. Dei due fratelli, Ferruccio, ragioniere, lavora allo scatolificio Ambrosiano. Ugo è sposato con Lea Milla di Vittorio e Coen Gialli Nelly; ha una figlia, Serena, nata nell’ottobre 1933.
Fra Ugo e Lea esisteva forse un lontano legame di parentela. Anche i Milla, come tutti, gli ebrei residenti in Italia, dal 1938 dovettero cominciare a fare i conti con la legislazione razziale, introdotta dal regime fascista. Con il Regio decreto 1728 del 17 novembre, infatti, un certo numero di italiani, circa quarantamila persone, scoprirono, per il fatto di essere ebrei, di appartenere ad una particolare razza e perciò di non poter godere degli stessi diritti, e nemmeno di avere gli stessi doveri, degli altri cittadini, quelli che seppero allora di appartenere alla "razza ariana". Il decreto legge definiva i criteri di appartenenza alla "razza ebraica" (art.8) e, alle persone che rientravano in questa categoria, imponeva pesanti limitazioni riguardanti il lavoro e la proprietà privata, interdiceva la possibilità di prestare servizio militare, vietava i matrimoni con cittadini italiani "ariani". Conteneva anche dei criteri di discriminazione fra gli stessi ebrei, stabilendo che parte delle norme che esso stesso dettava non dovevano essere applicate agli "ebrei discriminati", a coloro cioè che fossero stati in grado di documentare meriti di guerra, personali o di membri della famiglia, o la propria adesione al Partito Fascista in determinati periodi. Il 14 luglio 1938 venne pubblicato, con la firma di alcuni noti uomini di scienza, il "Manifesto della Razza", con l'intento di dare all'antisemitismo fascista una parvenza di scientificità.
L’AUTODENUNCIA IN COMUNE. Non ci sono testimonianze riguardo alla reazione dei Milla alla notizia dell'entrata in vigore delle misure antiebraiche. Si può presumere che furono simili a quelle del resto della comunità: un misto di incredulità, di amarezza e di apprensione. I Milla sottostarono all'obbligo dell'autodenuncia presso il Comune di residenza, previsto dal decreto legge del 17 novembre. Attraverso questa norma, che permise di compilare l'elenco degli ebrei in Italia, i tedeschi e i fascisti si ritrovarono fra le mani uno strumento assai utile allorché, dall'autunno del 1943, daranno inizio alla “caccia all' ebreo”. I fratelli Milla percorsero la strada della richiesta di discriminazione: dai documenti conservati all' Archivio di Stato di Milano risulta che cercarono di far valere a questo scopo la partecipazione del padre Ernesto alle campagne garibaldine e i propri meriti durante il servizio militare. Solo a Max fu riconosciuto lo stato di “ebreo discriminato”, per la sua partecipazione alla guerra libica e a quella mondiale. Poté contare anche sull'intervento del ministero dell’Interno che, al Prefetto che già aveva espresso parere contrario, suggerì di rivedere la pratica e di tener conto che il richiedente aveva avuto il padre volontario garibaldino. Da quanto si deduce dalla documentazione relativa alla domanda dì discriminazione sembra che l'atteggiamento dei Milla nei confronti del regime sia stato abbastanza tiepido: di tutti loro il segretario federale del Partito Fascista a cui spettava il compito di esprimere un parere, pur non potendo fare rilievi sfavorevoli, dice che "non risulta abbiano dato dimostrazione alcuna di attaccamento al regime". Solo Ferruccio è iscritto al partito, ma la data di iscrizione, 1928, non è tale da costituire un vantaggio ai fini dell'accoglimento della domanda. A causa delle leggi razziali, Laura dovette lasciare l'impiego di segretaria nella scuola comunale. Sul lavoro degli altri fratelli i provvedimenti razziali non ebbero probabilmente effetti negativi: non erano dipendenti pubblici né ricoprivano ruoli dirigenti nelle fabbriche dove lavoravano.
IL TRASFERIMENTO IN BRIANZA. Tra la fine del 1941 e l'inizio del 1942, lo Scatolificio Ambrosiano, azienda che operava a Sesto San Giovanni, per i continui bombardamenti a cui era sottoposta quella zona, trasferì i più importanti macchinari a Verderio Superiore e, con buona parte delle maestranze, fra cui i Milla, continuò lì l'attività. Vennero affittati alcuni edifici di proprietà della famiglia Gnecchi, situati nei pressi dell'incrocio fra la provinciale per Cornate e la via per Paderno d'Adda; il rustico, attualmente centro sportivo, fu adibito alla produzione, l'ala sinistra della villa Gnecchi e "l'aia" servirono come alloggi. Nella prima abitavano i Passaquindici, proprietari dell'azienda. I Milla abitavano nell'"aia", un edificio eclettico dell'Ottocento, il cui cortile, pavimentato con grosse pietre, veniva utilizzato dai contadini per stendere il raccolto ad asciugare. Conducevano una vita abbastanza riservata, soprattutto le donne che si vedevano in paese solo verso sera. Chi li conobbe li ricorda come persone affabili e cordiali. Ferruccio, dopo le sue lunghe passeggiate a piedi, si intratteneva a parlare con gli abitanti della vicina cascina, cercando di impararne il dialetto. Nell azienda ricopriva il ruolo di ragioniere contabile, mentre Lina era impiegata; Amelia, dalla salute malferma, faceva i lavori di casa; Laura, pur abitando a Verderio continuò a lavorare a Milano, forse presso la scuola ebraica di via Eupili. In Svizzera, con le rispettive famiglie, ripararono le sorelle Gabriella e Olga: quest’ultima vi morì qualche mese dopo l’arrivo. Ugo, con la moglie e la figlia, si trasferì a Ferrara presso alcuni parenti. Lasciò in seguito questa città, in cui non si sentiva sicuro, e, con decisione che si rivelerà tragica, raggiunse i fratelli a Verderio. Il fratello Max, fin dal 1939, si era rifugiato con la famiglia in Inghilterra, sospendendo l’attività commerciale di Milano.
L’INTERROGATORIO ALL’HOTEL REGINA. La sera del 13 ottobre 1943, alcuni soldati tedeschi si presentarono all’abitazione dei Passaquindici e, urlando minacciosi, li accusano di dare lavoro e di nascondere ebrei. Ad avvisare i tedeschi sarebbe stato un operaio desideroso di vendicarsi per il licenziamento subito. Ferruccio Milla, recatosi in quella casa per giocare a carte, si dichiara ebreo e viene arrestato; stessa sorte tocca al fratello Ugo, sopraggiunto poco dopo. Con loro vengono arrestati anche i fratelli Passaquindici, Donato e Vittorio, e un loro cognato, Nicola Rota. I cinque vengono tradotti al carcere di Bergamo e in seguito trasferiti a quello di San Vittore, a Milano. I Milla, prima di raggiungere San Vittore, vengono interrogati al comando SS di Milano, presso l'Hotel Regina. Nicola Rota resta in carcere per circa una settimana, il tempo necessario al comando tedesco per accertarsi che non fosse ebreo; Donato e Vittorio Passaquindici verranno rilasciati dopo tre settimane. La ricostruzione di quanto accadde la sera del 13 ottobre, che risulta dalla testimonianza di Lea Milla raccolta dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) di Milano, e della sorte che toccò nei giorni successivi agli arrestati, secondo i ricordi di Nicola Passaquindici e Francesco Amendola, nipoti di Donato e Vittorio, fa affiorare alcuni interrogativi cui è difficile rispondere. Chi erano i soldati artefici dell'operazione? Perché fecero irruzione, piuttosto che direttamente dai Milla, nella casa dei Passaquindici? Come mai questi ultimi vennero trattenuti in carcere? A queste domande si può cercare di dare risposta solo attraverso supposizioni, non potendo contare su altre testimonianze né sui documenti delle carceri coinvolte, Bergamo e Milano, che risultano irreperibili. Secondo quanto annota nel Liber Cronicus l’allora parroco, Don Carlo Greppi, il 15 ottobre 1943 arrivarono a Verderio circa 200 militari tedeschi e vi rimasero fino all'inizio di dicembre, alloggiando a Villa Gnecchi, gli ufficiali, e all'asilo, alla scuola materna e all’oratorio i soldati. Si può supporre che, prima del 15, una pattuglia abbia fatto un sopralluogo in paese, per organizzare la permanenza del contingente. A loro “qualcuno” potrebbe aver rivelato la presenza di ebrei. Perché dai Passaquindici? Forse la segnalazione fu imprecisa e furono indicati loro come ebrei (per molto tempo, vuoi per il cognome insolito, vuoi perché forestieri, molti sono stati convinti che lo fossero). Perché anche loro furono arrestati e trattenuti in carcere? Il motivo addotto dai tedeschi, secondo il ricordo dei nipoti, fu che avevano dato lavoro, e quindi protezione, ai Milla: a quella data, però, nessuna norma impediva loro di avere dipendenti ebrei. Un'altra ipotesi potrebbe essere che attraverso i Passaquindici i tedeschi pensassero di risalire al nascondiglio delle sorelle Milla, che in un primo tempo erano riuscite a fuggire: se così fosse stato, ci si domanda però come mai la detenzione di Donato e Vittorio si protrasse oltre la data dell'arresto di Lina, Laura e Amelia? L'arresto e la successiva detenzione dei signori Passaquindici, persone facoltose, potrebbe giustificarsi come un tentativo di estorcere loro denaro, sottoponendoli a qualche forma di ricatto legato alla presenza dei Milla a casa loro: è però necessario dire che nessuno dei nipoti interpellati ha mai sentito parlare di una simile ipotesi.
LA CLINICA "CARATE BRIANZA". Fu Lea Milla ad accorgersi, a notte fonda, dell'assenza del marito e a dare l'allarme alle cognate: informate dell'accaduto, decisero di lasciare Verderio. Lea, insieme alla figlia, si rifugiò a Buscate in casa di un'amica, da dove ogni giorno si recava a Milano per avere notizie del marito e del cognato. Dopo qualche tempo raggiunse la madre Nelly Coen Gialli, ricoverata presso la clinica "Carate Brianza" (oggi clinica "Zucchi"), nell'omonimo paese in provincia di Milano. In quegli anni circa venti ebrei si nascosero in questa casa di cura: venivano chiamati da parenti già ricoverati, che avevano sperimentato la solidarietà del primario, il professor Magnoni e della madre superiora, Suor Luigia Gazzola, durante le perlustrazioni dei tedeschi. Verso le ore sette del 14 ottobre, Laura, Lina e Amelia chiamarono la signora Ida Sala, che lavorava da loro come domestica, le affidarono le chiavi di casa e le comunicarono di dover partire immediatamente per Milano. Ad eventuali domande sulla oro partenza, la pregarono di rispondere di non saper niente. Lasciarono Verderio senza alcun bagaglio. Alle nove circa, nella casa irruppero alcuni soldati tedeschi armati di mitra: era presente la signora Ida ancora intenta alle pulizie. Le assicurarono di non aver niente contro di lei, ma di cercare gli abitanti della casa (più volte, nei giorni seguenti, Ida Sala incontrerà questi militari, ormai di stanza a Verderio, che le rivolgeranno amichevolmente la parola), poi svuotarono il guardaroba gettando il contenuto nel cortile della casa: se ne impossessarono gli abitanti del paese, secondo alcune testimonianze, verrà bruciato, secondo altre. Non si sa se a Milano le tre sorelle si rifugiarono a casa loro, in via Farini 40, o si nascosero in casa di conoscenti: si sa invece che, probabilmente attraverso il cappellano del carcere, riuscirono ad avere notizie dei fratelli e a mettersi indirettamente in contatto con loro. È forse a causa di questa comprensibile imprudenza che fu individuato il loro rifugio e, il 21 ottobre, vennero arrestate. Il carcere di San Vittore servì, tra ottobre e novembre 1943 e la fine di gennaio del 1944, da luogo di concentramento per gli ebrei arrestati nella città e nella provincia di Milano, in alcune grandi città del Nord Italia e nelle zone di confine tra l'Italia e la Svizzera. A questo scopo vennero destinati alcuni settori del carcere, requisiti fin dal settembre dai tedeschi e da loro direttamente gestiti.
IL TORTURATORE DI EBREI. Responsabile per gli arresti e la detenzione degli ebrei era Otto Kock, un SS-Hauptscharführer che, per il crudele zelo con cui assolveva al suo compito, venne soprannominato dai suoi collaboratori Judenkock, Cucinatore di ebrei. Durante gli interrogatori, che effettuava personalmente presso il suo ufficio all'hotel Regina o a Villa Luzzato, deposito dei beni sequestrati, utilizzava la violenza e l’intimidazione per ottenere dai prigionieri informazioni sul nascondiglio dei loro parenti. La “ginnastica” e le percosse produssero un principio di infezione ad una gamba al signor Ferruccio Milla che, di conseguenza, al momento della partenza per Auschwitz, venne trasportato al treno su di una barella. Questo fatto, di cui parlerà Enzo Levy, suo compagno di sventura in una lettera indirizzata a Lea Milla, compromise certamente le sue possibilità, forse già scarse, per via dell’età, di superare la “selezione” all'arrivo al campo. All’inizio di dicembre del 1943, il numero di internati a San Vittore, frutto delle retate susseguitesi per tutto il mese precedente, era tale che il comando tedesco decise di formare un convoglio per Auschwitz. Se ne occupò il fiduciario di Eichmann, Theodor Dannecker, comandante del distaccamento volante del distaccamento di polizia di sicurezza nazista, cui spettava il coordinamento delle retate e delle deportazioni. All’alba del 6 dicembre furono preparati, nei sotterranei della Stazione Centrale, i vagoni merce per effettuare il “trasporto”. I prigionieri percorsero il tragitto fra il carcere e la stazione su camion con teloni abbassati, riascosti agli occhi di quei pochi che, in una Milano ancora addormentata, li avrebbero potuti vedere. Al treno partito da Milano si aggiunsero altri vagoni a Verona: insieme formarono il convoglio 21T proveniente da Trieste. Del convoglio 5 sono stati identificati 246 deportati, fra cui 20 bambini nati dopo il 1930. La più piccola, Rosa Osmo di Firenze, aveva solo pochi mesi, essendo nata nel 1943: verrà uccisa all'arrivo ad Auschwitz con due fratellini di due anni. Solo 5 persone faranno ritorno a casa. Il treno si arrestò allo scalo merci di Auschwitz la mattina dell'11 dicembre, dopo cinque giorni e cinque notti di “allucinante viaggio”, come lo definisce un reduce che racconta anche della fame e del freddo, dei pianti e dei lamenti, delle sofferenze dei vecchi e degli ammalati. Giunti alla meta i prigionieri dovettero attendere, chiusi nei vagoni, che un altro treno venisse scaricato. Quando fu il loro turno, scesero sulla banchina dove cominciò la “selezione”. Da una parte furono radunati coloro che sarebbero stati immessi nel campo, dall'altra i destinati alla camera a gas. Dei primi si conosce il numero esatto, 61 uomini e 35 donne (dato riferito ad entrambi i convogli, 5 e 21T), grazie ai documenti conservati al museo di Auschwitz, dove sono registrati i numeri di matricola degli immessi nel campo.
L'INVIO ALLE "DOCCE". Secondo i risultati di un' approfondita ricerca condotta da Liliana Picciotto Fargion, Ferruccio, Ugo, Laura, Lina ed Amelia Milla non superarono la "selezione": dovettero così avviarsi, a piedi o su camion con il simbolo della Croce Rossa, verso gli edifici dove, in locali mascherati da docce, i non ammessi al campo venivano uccisi con il gas.
Un ordine di polizia (N.5, 30 novembre 1943), lo stesso che stabiliva che tutti gli ebrei residenti in Italia dovevano essere inviati in campi di concentramento appositamente allestiti, e un decreto legge (N.2, 4 gennaio 1944) ordinavano la confisca a favore dello Stato di tutti i beni, mobili e immobili, appartenenti a cittadini "italiani di razza ebraica" o a persone "straniere di razza ebraica non residenti in Italia". I decreti di confisca erano di competenza del "capo della provincia", denominazione che, nella Repubblica Sociale, aveva sostituito quella di prefetto. Questi provvedimenti colpirono la famiglia Milla quando ormai i cinque fratelli erano morti. A Ferruccio venne confiscato, presso la Banca Commerciale di Milano, un conto di deposito con la somma di 770,50 lire, a Ugo due conti correnti, per un totale di 117,80 lire, ed i beni sequestrati nell’appartamento in via Natale Battaglia 41 dove avevano abitato in affitto prima di lasciare Milano. Tali beni, di cui lo stato repubblichino poté arricchirsi, consistevano, secondo il verbale del sequestro redatto da un vicebrigadiere di Pubblica Sicurezza, in una bambola di pezza, cinquantacinque libri di lettura e otto giocattoli in legno per bambini. Lea Milla, moglie di Ugo, con la madre e la figlia Serena lasciò la clinica di Carate Brianza poco dopo la Liberazione e andò ad abitare con il fratello Umberto in un appartamento messo loro da un amico, l'ingegner Guffanti, titolare di un'impresa di costruzione: le loro abitazioni, infatti, erano state requisite durante la guerra e non vi poterono tornare. Serena poté frequentare, per la prima volta liberamente, la scuola. Un decreto revocò le confische attuate dalla repubblica fascista ed i beni che ne erano stati oggetto vennero restituiti. Negli anni seguenti Lea acquisirà il diritto ad una pensione e nel 1968, grazie alla legge N.404 del 1963 a favore dei "cittadini italiani colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialista", otterrà un indennizzo. Lea per anni cercò di avere notizie del marito e dei cognati: interpellò associazioni e partiti politici, fece pubblicare inserzioni sui giornali e si rivolse direttamente ai reduci dal campi di sterminio. Fra le risposte ai suoi appelli, la lettera di Enzo Levy, lo stesso a cui si è già accennato in precedenza, rappresenta l'ultima testimonianza certa riguardante i fratelli Milla in vita.
Da Torino, il 16 agosto 1945, indirizzando a
"CASA DI CURA - CARATE BRIANZA", egli scrive:
Gentile signora Lea Milla,
Rispondo solo oggi alla sua lettera del 3 corr., perché ero fuori Torino e sono ritornato solo ieri sera. Tutta la numerosa famiglia Milla era con me a S. Vittore e precisamente i due fratelli Ugo e Ferruccio e le tre sorelle Laura, Luisa [il nome esatto è Lina, N.d.A.] ed Amelia. Stavano tutti discretamente (come si può stare in prigione, senza sapere cosa ci attendeva). Soltanto il signor Ferruccio a causa delle percosse ricevute e alla "ginnastica" fattaci fare dai signori SS aveva un principio di infezione ad una gamba ma il giorno della partenza venne trasportato all’ultimo momento, su di una barella sino alla stazione e caricato sul carro bestiame, assieme a noi tutti. Non so se abbia resistito al viaggio che durò sei giorni ma all'arrivo ad Auschwitz gli uomini giovani e forti vennero subito divisi dagli altri e quindi non ebbi più modo di vedere nessuno dei suoi parenti. Si teme però che quasi nessuno sia delle donne che dei bambini e dei vecchi, per non parlare degli ammalati, sia sopravvissuto. Questo pensiero è così straziante. anche per me, che in quel gruppo avevo mia madre e mia sorella, che io stesso stento a crederlo. Pensi, cara signora, che io sono uno dei pochissimi superstiti finora rientrati in Italia! Moltissimi sono ancora gli assenti e di quesiti solo, di pochi si hanno e si potranno avere notizie!
Non disperi tuttavia e riceva tutti i miei auguri che DIO le conceda di rivedere le persone a lei care.
Le porgo i miei ossequi. Enzo Levy
Bibliografia:
articolo di Marco Bartesaghi su “Brianze” n°34 anno 2005
Campo di concentramento di Fossoli, 12 luglio 1944 (seconda parte)
Le SS hanno vagamente tentato di mantenere il più assoluto segreto sul massacro dei nostri compagni. Nella stessa giornata del 12 si è avuta nel campo la certezza dell'eccidio e si sono diffusi i primi particolari. Per esempio, la sera del giorno 11, dopo la ritirata, quando ormai tutti gli altri internati erano rientrati nelle loro rispettive baracche, le SS sono entrate nella 21 A dov'erano raccolti i nostri settanta compagni e hanno operato una minuziosa perquisizione sulle loro persone e nei loro bagagli. Un altro particolare: a notte avanzata, sono ritornati gli ebrei che eran partiti in mattinata per scavare una grande fossa. Ma le SS non si sono fidate di avere ingiunto minacciosamente il più rigoroso silenzio, e li hanno fatti dormire in una baracca fuori del recinto del campo in modo da rendere praticamente impossibile ogni tentativo di comunicazione per avvertire in tempo coloro ch'eran destinati al massacro.
La mattina del 12, al momento di effettuare la partenza a scaglioni, mancava uno dei settanta, precisamente Teresio Olivelli. Ma non c'era tempo da perdere per ricercarlo. I condannati - possiamo ormai chiamarli così - vennero inquadrati e condotti nella sede del «Comando», donde furono prelevati a piccoli gruppi, evidentemente allo scopo di poter reprimere con maggior sicurezza eventuali moti di rivolta lungo il tragitto. Questa precauzione però si rilevò ben tosto insufficiente. Infatti, durante il trasporto del primo o del secondo gruppo, non posso precisare, ci deve essere stato un tentativo di ribellione e lo si argomentò dal fatto che SS di scorta tornarono quasi tutte con delle visibili medicazioni: bende e cerotti parlavano un linguaggio molto significativo. Fra le SS, c'era uno che portava addirittura un braccio a tracolla. Deve essere stata una colluttazione paurosamente impari e disperata, che però i tedeschi, passati i primi momenti di sorpresa, non dovettero faticare molto a risolvere in loro favore, dato l'abbondante equipaggiamento di armi di cui disponevano e il numero rilevante della scorta. Qualcuno, non saprei con quale attendibilità, fa il nome di due o tre compagni i quali, durante il «corpo a corpo» con le SS, avrebbero trovato la possibilità di buttarsi dal camion in corsa e di mettersi in salvo.
Non fu soltanto l'improvvisa apparizione delle bende e dei cerotti, a farei intuire il tentativo di rivolta; ma anche un altro particolare sintomatico, che non sfuggì agli occhi di alcuni compagni, i quali, la mattina del 12, stavano a spiare dall'interno del campo ciò che avveniva al di là del recinto: nelle spedizioni successive, le SS ammanettarono scrupolosamente gli internati, prima di farli salire sull'automezzo che li doveva trasportare.
Un altro dettaglio, che finì col documentare la soppressione dei nostri compagni, fu costituito dai bagagli. Erano tutti ammucchiati in una stanza del comando. I nostri compagni, dunque, erano partiti senza bagagli ... e per il viaggio cui erano destinati non ce n'era bisogno ...
La sera, sul tardi, tornarono gli ebrei che erano rimasti fuori del campo, ancora un'altra giornata, per ricoprire la fossa, dopo l'eccidio. Gli ordini di mantenere il silenzio su quello che erano stati costretti a fare e su ciò che avevano visto, dovevano essere stati così minacciosi, che non fu possibile cavar loro di bocca nessuna notizia concreta. Furono accostati, però, separatamente e fatti cadere in contraddizione. Alcuni riferirono che erano stati a sgombrare macerie, altri che s'era trattato della riparazione di un tronco di ferrovia, altri che avevano demolito baraccamenti semidistrutti dal fuoco.
Le contraddizioni rivelavano chiaramente che il segreto da tenere celato era molto grave. Pare, infine, che uno della squadra, pressato dalle domande di un'amico, a un certo punto abbia fatto con la mano un gesto inequivocabile per significare: - tutti finiti!
Altre notizie più precise cominciarono già a trapelare per mezzo della viva voce di qualche milite italiano che, nella torretta di guardia, solo, si sentiva particolarmente oppresso dall'orrendo segreto.
Campo di concentramento di Fossoli, 12 luglio1944 (terza parte)
La notte, ci siamo buttati sul pagliericcio con la tremenda certezza che non avremmo veduto più i nostri compagni e le diverse voci, le atroci indicazioni che avevamo potuto raccogliere, ci risuonavano ancora nelle orecchie e ci martellavano cuore e cervello, tenacemente, esasperanti.
All'alba, li hanno ammazzati ... Al Poligono di Carpi ... li hanno buttati nella fossa scavata dagli ebrei ... li hanno spogliati degli oggetti personali che potevano facilitare l'identificazione ... poi li hanno coperti con uno spesso strato di calce perché si decompongano più celermente ... e hanno fatto gettare sementi sulla terra che ha ricoperto la fossa. Pare che siano accorsi dei preti (o il Vescovo), che abbiano chiesto almeno di poter benedire i morti ... sono stati brutalmente respinti, ammoniti di badare ai fatti loro ... perché da quelle parti non c'era nulla che li potesse riguardare ... e siccome non se ne andavano, hanno puntato le armi.
Assassini! ... Assassini!»
I nomi dei 67 martiri trucidati nel Poligono di tiro di Cibeno, frazione a circa 3 km a nord di Carpi, del 12 luglio 1944:
Andrea Achille, Vincenzo Alagna, Enrico Arosio, Emilio Baletti, Bruno Balzarini, Giovanni Barbera, Vincenzo Bellino, Edo Bertaccini, Giovanni Bertoni, Primo Biagini, Carlo Bianchi, Marcello Bona, Ferdinando Brenna, Luigi Alberto Broglio, Francesco Caglio, Emanuele Carioni, Davide Carlini, Brenno Cavallari, Ernesto Celada, Lino Ciceri, Alfonso Marco Cocquio, Antonio Colombo, Bruno Colombo, Roberto Culin, Manfredo Dal Pozzo, Ettore Dall’Asta, Carlo De Grandi, Armando Di Pietro, Enzo Dolla, Luigi Ferrighi, Luigi Frigerio, Alberto Antonio Fugazza, Antonio Gambacorti Passerini, Walter Ghelfi, Emanuele Giovanelli, Davide Guarenti, Antonio Ingeme, Sas Jerzj Kulczycki, Felice Lacerra, Pietro Lari, Michele Levrino, Bruno Liberti, Luigi Luraghi, Renato Mancini, Antonio Manzi, Gino Marini, Nilo Marsilio, Arturo Martinelli, Armando Mazzoli, Ernesto Messa, Franco Minonzio, Rino Molari, Gino Montini, Pietro Mormino, Giuseppe Palmero, Ubaldo Panceri, Arturo Pasut, Cesare Pompilio, Mario Pozzoli, Carlo Prina, Ettore Renacci, Giuseppe Robolotti, Corrado Tassinati, Napoleone Tirale, Milan Trebsé, Galileo Vercesi e Luigi Vercesi.
Erano uomini con le esperienze più varie, di tutte le professioni, di tutte le regioni, dai 16 ai 64 anni.
La stampa dell’Italia liberata diede grande rilievo all’esumazione delle vittime e alle esequie solenni il 24 maggio 1945 nel Duomo di Milano: fu forse il primo momento pubblico in cui popolazione e personalità politiche e militari si fusero unanimi nel compianto e nella condanna.
manifesto che annuncia i solenni funerali dei partigiani monzesi fucilati a Fossoli
La Shoah in Brianza: la famiglia Gani
Tra i quaranta ebrei arrestati in Brianza e deportati nel contesto della politica di sterminio della Germania nazista, due storie: quella di Elisa Ancona da Lissone e quella della famiglia Gani da Seregno.
Elisa Ancona
Era nata il 10 ottobre 1863 a Ferrara. Prima di rifugiarsi a Lissone in seguito all’occupazione tedesca del nostro Paese dopo l’8 settembre 1943, abitava in via Nievo 26 a Milano. Era vedova di Achille Rossi. Risiedeva nel capoluogo lombardo dal 1902 ed era iscritta alla locale Comunità israelitica. L’anziana donna fu arrestata il 30 giugno 1944 a Lissone da militi della Guardia Nazionale Repubblicana e reclusa a San Vittore. Venne successivamente trasportata a Verona dove fu inclusa, il 2 agosto, nel trasporto proveniente da Fossoli e arrivato ad Auschwitz il 6 agosto 1944. Elisa Ancona, come avveniva per tutti gli anziani, fu avviata subito alle camere a gas; aveva quasi 81 anni.
La famiglia Gani
Giuseppe Gani nato il 16/08/1895 a Ioannina
Speranza Zaccar nata il 17/10/1900 a Corfù
Regina Gani nata il 7/12/1926 a Milano
Ester Gani nata il 19/7/1928 a Milano
Alberto Gani nato il 20/4/1934 a Milano
Questa è la famiglia Gani, la cui storia dà la misura di quanto sia stata terribile la persecuzione razziale in Brianza; due giovani genitori e tre ragazzi che furono vittime della scelleratezza dei militi fascisti che li arrestarono, cioè italiani come loro, e di un delatore che li denunciò, cioè di un seregnese, di un brianzolo, di un abitante della terra dove credettero di trovare rifugio e protezione.
La prima residenza di Giuseppe Gani in Italia è registrata nel 1918 a Milano. Il 1° ottobre 1925 sposò Speranza Zaccar, anche lei ebrea di origini greche. Dalla loro unione nacquero tre figli, Regina, Ester ed Alberto. Dal 1934 abitavano in corso Vercelli 9.
I Gani erano benestanti, Giuseppe era titolare di una ditta in proprio che si occupava di esportazione di tessuti;
Dopo l’emanazione delle leggi razziali nel 1938, la vita della famiglia Gani si complicò. Furono costretti ad inoltrare domanda per rimanere in Italia (1939), per poter conservare personale di servizio “ariano” (1939 e 1941), perché avevano alle dipendenze una donna di servizio. I figli furono emarginati da scuola. Regina che frequentava il corrispondente delle attuali scuole medie presso il liceo Manzoni di Milano, venne espulsa dall’istituto con altri 64 studenti.
Nell’autunno 1943, Giuseppe decise di far sfollare la famiglia in provincia, a Seregno, probabilmente con il duplice scopo di sfuggire ai bombardamenti alleati sulla città e alla caccia all’ebreo scatenata dai tedeschi e dai collaborazionisti fascisti della repubblica sociale.
Il 10 febbraio 1944, le autorità fasciste sequestrarono l’appartamento dei Gani con tutto ciò che vi era contenuto. Il 16 giugno la questura di Milano ne decretò la confisca. Il 29 febbraio la Banca Commerciale italiana, ottemperando alle normative antiebraiche vigenti, denunciò la liquidità dei Gani depositata presso la sua sede. Il 16 ottobre 1944 vengono confiscati i soldi suddetti, su decisione del capo della Provincia, con voltura a favore dello Stato.
Probabilmente a cavallo tra l’inverno 1943 e la primavera 1944, dalla casa di via Milano, situata nei pressi della stazione di Seregno, i Gani, per prudenza, cambiano nascondiglio: la madre con i tre figli alla Ca’ Bianca, edificio di fronte all’ospedale cittadino, in una cascina a due cortili chiusi, presso la famiglia Casati, mentre Giuseppe trova riparo in via Volta presso una delle figlie sposate del Casati. Il capofamiglia, Luigi Casati, era un contadino e antifascista convinto.
Alla fine del mese di agosto 1944, un mattino, un drappello di fascisti italiani accompagnati da un tedesco irruppe nell’abitazione dei Casati e arrestarono i Gani, madre e i tre figli. Giuseppe Gani era riuscito a sfuggire alle ricerche ma prima di notte fu anch’egli catturato. Di sicuro la delazione di un cittadino seregnese fu all’origine della spedizione.
Il 20 agosto le cinque persone delle famiglia Gani entrarono nelle celle di San Vittore a Milano. Il 7 settembre vennero trasferiti nel campo di raccolta di Bolzano-Gries. Rimasero diciassette giorni nelle baracche del campo altoatesino, dopo i diciotto trascorsi a san Vittore. Il 24 ottobre, sul convoglio n° 18 siglato RSHA (la sigla dell’istituzione delle SS deputata all’esecuzione dello sterminio in tutta Europa), partirono da Bolzano-Gries alla volta di Auschwitz. C’era un solo bambino su quel treno, alberto Gani, di dieci anni. Per quattro giorni viaggiarono stipati come bestie e martoriati dalla sete. Il 28 ottobre era ancora notte quando il convoglio s’incanalò sul binario che entrava nel lager di Auschwitz. In una scena da incubo, fra guardie che urlavano e i cani che abbaiavano, i prigionieri vennero fatti scendere; il dottor Mengele o uno dei suoi collaboratori li aspettavano per la selezione. Giuseppe, Speranza e il piccolo Alberto vennero inviati immediatamente alle camere a gas. Ester e Regina furono fra le 59 persone che superarono la selezione, come rivelano i documenti tedeschi conservati nell’archivio del museo di Auschwitz. Furono destinate al lavoro da schiave o a qualche postribolo nazista. Finirono poi nel lager di Bergen Belsen, dove venivano concentrate soprattutto le donne, e dall’11 febbraio 1945, data dell’ultimo avvistamento da parte di un testimone, non se ne seppe più nulla.
Tratto dal libro di Pietro Arienti “Dalla Brianza ai lager del III Reich” - Editore Bellavite - Missaglia 2012
Pietro Arienti scrive a proposito della famiglia Gani: «Mi sono sempre chiesto se lo sconosciuto delatore l’abbia mai appresa questa storia, se mai siano apparse ancora davanti a sé le immagini di quel bambino e di quelle ragazze, pensando a come la loro vita sia potuta finire in cenere».
Pietro Arienti è nato a Seregno nel 1961. Da diversi anni si occupa di storia locale, con una particolare attenzione agli eventi legati alla seconda guerra mondiale che hanno interessato il territorio brianzolo.
Diverse sono le sue pubblicazioni; oltre a quelle riguardanti la sua città e studi ed articoli sulla persecuzione degli ebrei in Brianza, le più recenti sono:
Quelli che son tornati. Dalle rive del Lambro alle sponde del Don: testimonianze della campagna di Russia;
Viaggio tra i luoghi della Resistenza in Brianza;
La Resistenza in Brianza (alla 2a edizione).
La "modernizzazione" fascista
Giugno 1930. Mussolini fa visita a Guglielmo Marconi a bordo del panfilo Elettra, utilizzato dallo scienziato per i suoi esperimenti radiofonici.
Marconi verrà insediato, sei mesi dopo dal Duce, alla presidenza dell'Accademia d'Italia. Ma della sua geniale opera di inventore s'era già avvalso da tempo il regime per rivendicare il ruolo d'avanguardia della cultura italiana. Fin dai suoi esordi il fascismo aveva coniugato il tema del nazionalismo con quello della modernità. Determinante in questo senso era stato l'apporto del futurismo.
Ma il suo alfiere, Filippo Tommaso Marinetti, venne presto ridotto da Mussolini a un ruolo subalterno di fiancheggiatore del regime, sia pur con una certa libertà di giudizio. (Nel 1909 il trentatreenne Filippo Tommaso Marinetti, un irrequieto intellettuale che viveva tra Milano e Parigi, dove aveva già dato alle stampe alcune raccolte di versi liberi, pubblicò su “Le Figaro” di Parigi il primo “Manifesto del Futurismo”. Il movimento esaltava, tra gli eccessi, il patriottismo estremo, le “belle idee per cui si muore”, la “guerra sola igiene del mondo” e inneggiava al motore “alla parte clamorosa” dell’esistenza e delle attività umane).
E del futurismo sarebbero rimasti in auge solo alcuni motivi formali. Essi improntarono non solo l'ideologia del regime, ma soprattutto lo stile e il linguaggio della dirigenza fascista, come l'estremismo verbale e il gusto per l'iperbole, la propensione per le imprese temerarie, l'esibizione di uno spirito gladiatorio. Di fatto, altri erano i cardini su cui il regime aveva edificato un «nuovo ordine fascista».
L'organizzazione di un regime totalitario aveva comportato il ripudio sia di concezioni attivistiche elitarie, sia di atteggiamenti dissacranti, tipici del futurismo. E aveva imposto per contro il controllo di un partito unico su ogni aspetto della vita individuale e collettiva. Il problema fondamentale era l'integrazione della società nello Stato fascista. E il regime lo perseguì sulla base di nuovi miti di grandezza e di potenza, tali da mobilitare le masse e da inculcare fin dai più giovani il senso dell'autorità e della gerarchia. In quest'opera di costruzione di una nuova coscienza e identità nazionale (fondata sul primato assoluto dello Stato e sulla fascistizzazione delle istituzioni) Mussolini rivendicò a sé, attraverso l'esercizio di un potere carismatico, il ruolo del demiurgo. E assegnò al partito, organizzato come una milizia, il compito di plasmare il carattere e i comportamenti degli italiani al fine di creare una «nuova civiltà politica», un «nuovo Stato». Si trattava per Mussolini di imporre una modernizzazione dall'alto della società e un nuovo sistema di valori culturali aderente a specifiche caratteristiche nazionali. Artisti e uomini di cultura vennero esortati a mettere da parte concezioni soggettive e personalistiche. L'arte dell'«era fascista» avrebbe dovuto avere per sue principali destinatarie le masse, e per obiettivo fondamentale la fusione fra popolo e regime. «Nello Stato fascista l'arte viene ad avere una funzione sociale, una funzione educativa» così scriveva nel 1932 Mario Sironi, uno degli artisti più impegnati e originali nella costruzione dei canoni e dei miti simbolici del fascismo.
Tuttavia, a differenza del nazismo, il regime fascista non giunse a imporre una "arte di Stato", in quanto lasciò libertà d'espressione sul terreno della ricerca estetica. Perseguì i suoi obiettivi in altri modi, privilegiando e sostenendo (attraverso una politica di committenza pubblica) quegli indirizzi che più si prestavano a creare nel pubblico la coscienza di un nuovo ethos e una "arte nazionale".
La Mostra della Rivoluzione Fascista, aperta nell'ottobre 1932, nel quadro delle celebrazioni del decennale della marcia su Roma, riassunse in forma emblematica che cosa il fascismo intendesse per "arte costruttiva" rappresentativa e interprete di una nuova epoca. Agli architetti, scultori e pittori fra i migliori di quell'epoca, che collaborano all'iniziativa (da Prampolini a Terragni, da Valente a Libera, da Martini a Bartoli), Mussolini raccomandò di realizzare un'opera che nel suo insieme ponesse in luce «la modernità dinamica e rivoluzionaria del fascismo».
Tanto l'allestimento della rassegna quanto l'aspetto scenografico del palazzo che l'ospitava, vennero concepiti in modo tale da evocare e consacrare gli orientamenti antitradizionalisti e modernisti del regime. Dalla facciata dell'edificio (che si sarebbe presentata come un immenso cubo davanti al quale svettavano quattro grandi fasci in rame brunito alti venticinque metri) all'apparato iconografico e documentario delle varie sale, l'intero complesso dell'esposizione costituì una sintesi spettacolare ed efficace dell'immagine simbolica che il fascismo voleva dare di sé e della sua energia creatrice. Tre giorni prima dell'inaugurazione della mostra, il 25 ottobre, parlando a Milano, Mussolini aveva affermato: «Il secolo ventesimo sarà il secolo della potenza italiana, sarà il secolo durante il quale l'Italia tornerà per la terza volta a essere la direttrice della civiltà umana».
L'urbanistica fu eletta dal Duce a cantiere e laboratorio per la rappresentazione dei valori e delle forme della nuova civiltà» che il regime proclamava di voler costruire. Edifici pubblici, sedi del partito, monumenti, piazze e strade, avrebbero dovuto rendere tangibile l'impronta del fascismo e tramandarla nel tempo, eternando così i tratti distintivi di un'epoca. Fin dal 1925, presiedendo la cerimonia d'insediamento in Campidoglio dal primo governatore di Roma, Mussolini aveva lanciato il progetto di fare della capitale «una città ordinata e potente» mediante un vasto programma di ristrutturazioni che valorizzasse le vestigia dell'antichità e, nel contempo, imprimesse allo scenario urbano i segni di una nuova era. Riprese così l’opera di sbancamento e di risistemazione edilizia del centro storico di Roma, che avrebbe prodotto peraltro parecchi scempi architettonici. Venne demolita una parte del quartiere medievale per dar maggior spazio alla via dell'Impero che, inaugurata solennemente nell'ottobre 1932, collegò piazza Venezia al Colosseo attraverso i Fori Imperiali. Si pose mano così, nella capitale, al piccone demolitore, all'insegna della mistica fascista della romanità, di un rapporto ambiguo e contraddittorio fra antico e moderno.
Nel corso del 1934 fu la volta della zona intorno al Mausoleo d'Augusto. E altri quartieri subirono in quello stesso periodo o successivamente la stessa sorte. Uno dei peggiori misfatti fu la demolizione della Spina dei Borghi davanti a San Pietro e alla piazza del Bernini, per far posto a via della Conciliazione e a un'assurda sfilata di obelischi.
Il progetto più ambizioso del regime fu quello varato (all'indomani della conquista dell'Etiopia) di una grande Esposizione universale romana (l'Eur) per celebrare una «Olimpiade della civiltà». La grande rassegna dell'Eur, prevista nel 1942, non si sarebbe mai tenuta a causa della guerra. Ma i lavori preparatori diedero modo a una schiera di valenti progettisti (da Pagano a Piccinato, da Rossi a Vietti) di sperimentare alcune soluzioni d'avanguardia improntate (pur nel culto della romanità e del littorio) al modernismo razionalista.
I razionalisti pensavano di poter convertire la politica urbanistica del regime ai loro canoni di severa linearità e funzionalità. In effetti non mancarono importanti applicazioni di questo genere architettonico: dalla stazione ferroviaria di Firenze (firmata da Michelucci) alle Triennali di Milano, a varie Case del Fascio (come quella di Como).
E di matrice razionalista fu anche l'impostazione di alcune città nuove: da Littoria a Sabaudia (creata sui terreni riscattati alla palude dell'Agro Pontino) ad altre ancora, sorte quali colonie agricole o cittadelle industriali come Guidonia.
Ma Giuseppe Pagano e altri autorevoli esponenti di questa scuola (a cui fecero capo riviste come Casabella e Domus) dovettero alla fine ricredersi. Nella maggior parte dei casi, finì infatti per prevalere un'architettura d'intonazione monumentale e aulica, congeniale alla simbologia ufficiale e agli intenti autocelebrativi del fascismo. Una serie di edifici massicci, fatti di colonne e portali enormi e opere pubbliche dalla scenografia ridondante. Principale patron dell'architettura del regime, risultato di un compromesso fra tradizionalismo romaneggiante e razionalismo, fu Marcello Piacentini. Innovatore in gioventù, ma convertitosi poi alla retorica fascista e fautore dei più clamorosi sventramenti nella capitale. Piacentini firmò, negli anni Trenta, alcuni dei progetti urbanistici più impegnativi del regime come il centro storico di Brescia. Piacentini progettò inoltre la ristrutturazione di via Roma a Torino, la città universitaria e l'Esposizione universale di Roma.
Anche alla scultura e alla pittura venne demandato il compito di tradurre i messaggi e i riferimenti ideologici del fascismo in forme espressive che enfatizzassero i temi dell'ordine e della coesione sociale, e i valori della famiglia e del lavoro. Si sarebbe dovuto, stando a quanto affermava nel 1935 un teorico come Carlo Belli, simbolizzare o ridisegnare un ordine tutto italiano e fascista, improntato da «uno spirito mediterraneo fatto di luce e di geometri». Venne tuttavia lasciata un'autonomia relativamente ampia in materia di gusti e stili artistici. Convissero così in quegli anni, tanto il secondo futurismo (con Soffici, Balla e Depero), quanto il novecentismo (con Sironi, Martini e la Marfatti); tanto il neotradizionalismo di Carrà quanto il classicismo metafisico di De Chirico; tanto il ritorno al barocco in chiave espressionistica (con Scipione e Mafai), quanto il cromatismo lirico di Birolli, Rosai, Sassu.
Cenacoli importanti come quello torinese dei Sei (sostenuto da Lionello Venturi con le sue aperture europee) si mantennero lontani dal "conformismo militante". Artisti (come De Pisis, Campigli, Morandi, Severini) chi lavorando per lo più all'estero, chi tenendosi appartato, rimasero estranei tanto al provincialismo strapaesano quanto al classicismo ufficiale. E non mancarono i critici dell'indirizzo corrente, come quelli che alla fine degli anni Trenta, sensibili all'influsso di Picasso, si raccolsero intorno alla rivista milanese Corrente di Edoardo Persico. Fece il suo esordio pure il movimento astrattista (con Fontana, Radice, Melotti), mentre emersero alcuni giovani di spiccata personalità come Renato Guttuso. Di fatto, grazie alla dialettica interna al partito fra fascismo inteso come regime e fascismo inteso come movimento, ebbero modo di affermarsi orientamenti non del tutto allineati ai canoni ufficiali, se non eterodossi. Ciò fu dovuto anche alla protezione che un autorevole leader fascista come Giuseppe Bottai (teorico dello Stato corporativo e ministro dell'Educazione nazionale) accordò all'intellighenzia, giacché egli intendeva costituire un'élite di artisti e di studiosi attorno a una politica culturale basata su criteri qualitativi e non semplicemente su una logica di servizio.
D'altra parte, il governo fascista badò a dare di sé un'immagine accattivante, promuovendo manifestazioni artistiche e culturali aperte al concorso di esponenti delle più diverse correnti. Così avvenne con la Triennale di Milano, inaugurata nel 1931 e dedicata all'architettura, al design e alle arti decorative.
Una delle iniziative più prestigiose del regime fu il Convegno Internazionale d'Arte che si aprì nel luglio 1934 a Venezia. Due erano i temi in discussione: il rapporto fra le arti contemporanee e la realtà e quello tra arte e Stato. Ai lavori parteciparono, fra gli ospiti stranieri, Picasso e Le Corbusier, il compositore Béla Bartòk, lo scultore Paul Manship, il regista teatrale Gordon Craig, il poeta Paul Valéry e lo scrittore Thomas Mann. Ma fu soprattutto nell'opera di sensibilizzazione delle masse, che il regime diede prova delle sue capacità di spettacolarizzazione della cultura e della politica, in quanto seppe creare un efficace sistema di suggestioni, di miti e di liturgie, utilizzando gli strumenti e i ritrovati della modernità.
La radio fu uno dei principali mezzi di cui si servì il fascismo nella sua pedagogia totalitaria. Alla vigilia della guerra gli abbonati erano numerosi. E numerosi erano i programmi destinati espressamente dalle autorità governative e di partito alle singole categorie di lavoratori.
Il cinema fu un altro mezzo di comunicazione di massa su cui fece leva il fascismo. Sorto nel novembre 1925 l'Istituto Luce (sigla che sta per L'Unione per la Cinematografia Educativa) ebbe il compito di svolgere opera di divulgazione culturale nelle scuole e nel mondo del lavoro e poi di produrre anche cinegiornali di attualità e documentari sulle iniziative del regime. Fra il 1931 e il 1933 un'apposita legislazione accordò, da un lato, particolari sovvenzioni alle case cinematografiche nazionali, e dall'altro, impose dei limiti sempre più rigidi alla diffusione di film stranieri. La produzione di altri paesi finì così per trovare ospitalità, con le sue migliori pellicole, soltanto alla rassegna internazionale di Venezia, una manifestazione di gran lustro e mondanità, inaugurata nel 1932, per iniziativa dell'ex ministro delle Finanze e poi presidente della Confindustria conte Volpi. A sostegno della produzione italiana fu costituito nel 1935 il Centro Sperimentale di Cinematografia. E comparvero l'anno dopo due importanti riviste: Cinema diretta da Vittorio Mussolini e Bianco e Nero diretta da Luigi Chiarini. Tra i collaboratori figuravano Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti.
Nell'aprile 1937 venne inaugurata, alla presenza di Mussolini, Cinecittà. Si trattava di uno dei più attrezzati complessi europei di teatri di posa per la produzione cinematografica. Il regime mirava a fare di Cinecittà, ideata da Luigi Freddi; una sorta di Hollywood in miniatura e ad affrancare così il mercato italiano dalla produzione americana. Assai popolari erano, infatti, anche da noi Walt Disney e altri divi d'oltreoceano. Nacquero in quel periodo i film cosiddetti del "telefono bianco" le commedie rosa e di costume. E si sviluppò il filone di intonazione storica, dopo che nel 1934, con il film 1860 di Blasetti sull'epopea garibaldina dei Mille, si era registrato il primo grande successo di pubblico.
Particolare attenzione venne prestata anche all'attività teatrale con lo scopo di trasformarla in «spettacolo sociale». Furono così istituiti nel 1929, per conto dell'Opera Nazionale Dopolavoro, i Carri di Tespi che, girando per l'Italia, avrebbero dovuto «elevare il senso artistico» delle masse contadine e operaie. Sagre paesane, feste campagnole, sfilate in costume, divennero altrettanti riti collettivi e veicoli di pianificazione del consenso fra i ceti popolari. Ma il regime prediligeva soprattutto ciò che sapesse di avveniristico o che dimostrasse il nuovo spirito competitivo nazionale.
Le spedizioni polari di Umberto Nobile (fin quando non si conclusero tragicamente) vennero celebrate dal governo fascista come altrettante testimonianze di una nuova Italia virile e ardimentosa. E così avvenne per l'impresa di Francesco De Pinedo, protagonista nel 1925 di un giro del mondo su un idrovolante, acclamato come «il volo dei tre continenti». A inorgoglire il regime, ma anche tanti italiani, fu in particolare la trasvolata atlantica guidata dal quadrumviro e ministro dell'Aeronautica, Italo Balbo. Atterrato nel luglio 1933 a New York, egli venne ricevuto dal presidente Roosevelt e, al suo rientro in Italia, insignito dal titolo di maresciallo dell'aria. In quello stesso anno, nel 1933, a pochi giorni di distanza, il supertransatlantico Rex conquistava il Nastro Azzurro, stabilendo il nuovo record di traversata dell'Atlantico, compiuta in poco più di quattro giorni.
Dalle palestre ai campi di gara, ai nuovi grandiosi impianti del Foro Italico nella capitale, il mondo dello sport venne considerato dal regime un vivaio (non meno importante delle adunate del «sabato fascista», dedicate all'educazione politica e all'addestramento militare) per la formazione dell'«italiano nuovo».
Una generazione di giovani che offrisse l'immagine di un paese proiettato verso nuovi traguardi all'insegna dell'agonismo, dell'impegno collettivo e dell'attaccamento alla bandiera. A tal fine contribuirono anche i successi della nazionale di calcio ai campionati mondiali del 1934 e del 1938. A Roma la squadra italiana, guidata dal commissario tecnico Vittorio Pozzo, batté in finale la Cecoslovacchia; la seconda volta, gli azzurri si imposero in Francia sugli Ungheresi.
Nel frattempo all'XI Olimpiade tenutasi nell'agosto 1936 a Berlino, l'Italia era giunta a piazzarsi al quarto posto nella classifica per nazioni. Fra gli atleti che avevano vinto la medaglia d'oro c'era anche una donna: Ondina Valla, prima negli 80 metri a ostacoli. Era vanto del regime che anche le giovani italiane dessero prova di doti atletiche e di vigoria fisica. In verità, non tutti, all'interno del regime, condividevano la passione e l'enfasi per la modernità. Contro il novecentismo, l'urbanesimo, l'industrializzazione, il macchinismo, continuava a tuonare un gruppo di intellettuali raccolti intorno alla rivista Il Selvaggio (sorta nel 1924) in cui figuravano personaggi come Malaparte, Bilenchi, Maccari. All'insegna di «Strapaese», essi vagheggiavano un ritorno alle tradizioni dell'Italia provinciale e rurale quale antidoto a quella che definivano la «barbarie artistica e intellettuale» del modernismo, sinonimo di standardizzazione e americanizzazione. In realtà, il rapporto del fascismo con la modernità era pervaso di parecchie contraddizioni. Non soltanto perché doveva coesistere con il culto e la retorica della romanità. Ma anche perché si trattava di una concentrazione strumentale della modernità, finalizzata al dominio politico della cultura e della società.
Avvenne così che il governo fascista, da un lato, promosse importanti istituzioni scientifiche (a cominciare dal Consiglio Nazionale delle Ricerche) e, dall'altro, cercò all'occorrenza di piegarne l'attività alle mutevoli logiche di potere o alle direttive autarchiche del regime. Tant'è che non esitò a sacrificare anche gli sviluppi più promettenti della ricerca scientifica sull'altare della ragion di Stato e delle discriminazioni razziali.
Nel dicembre 1938, con l'esodo di Enrico Fermi, colpito dal bando contro gli ebrei, si sciolse in pratica il gruppo romano di Via Panisperna che, promosso da Mario Orso Corbino, aveva rappresentato uno dei nuclei più importanti della fisica europea. Fermi riparerà negli Stati Uniti dove collaborerà alla realizzazione della prima bomba atomica.
Nell'ottobre 1938, lo stesso anno delle leggi razziali, Mussolini pronunciò un violento discorso contro la borghesia al Consiglio nazionale del partito fascista. L'imposizione del "voi" in luogo del "lei" (bollato come «servile e straniero») il ripudio di ogni forma di compromesso con le forze tradizionali, e le leggi per la difesa della razza avrebbero dovuto costituire il preludio della cosiddetta «terza ondata» (dopo la marcia su Roma e la messa al bando nel 1925 dei partiti antifascisti).
La lotta contro «quel mezzo milione di vigliacchi borghesi che ancora si annidano nel paese» (come li definì Mussolini) avrebbe dovuto affiancare non solo la battaglia contro l'individualismo e i retaggi del pluralismo culturale e del cosmopolitismo, ma preparare anche il paese allo scontro con le democrazie occidentali, contro le «nazioni plutocratiche e satolle» (per dirla con le parole del Duce). La "modernità" fascista s'era ormai tinta sempre più di coloriture populiste e bellicistiche.
Da un articolo di Valerio Castronovo pubblicato in “Storie d’Italia dall’unità al 2000”
La politica economica del fascismo
dalla conversazione di FRANCO CATALANO tenuta il 10 gennaio 1975 nell'Aula Magna dell'Università degli Studi di Milano.
Il decollo dell'industria italiana avvenne solo a partire dal 1896, con notevole ritardo rispetto a quello avver negli altri paesi occidentali. In quell'anno, infatti, era giunta al termine la crisi che era sembrata interminabile, poiché era cominciata nel 1873, sconvolgendo tutte le teorie ottocentesche sul ciclo decennale delle recessioni, e che aveva spinto le due più grandi potenze, l'Inghilterra e la Francia a cercare uno sfogo per gli investimenti dei loro capitali nella conquista di colonie (ne era nato il primo imperialismo). L'Italia, dunque, aveva dato inizio allo sviluppo suo sistema industriale quando era finita quella crisi e si era subito dedicata al settore tessile, sfruttando la manodopera che si offriva a buon mercato nella zona sub-montana del Piemonte, della Lombardia e del Veneto; e poteva farlo, perché quella manodopera, accanto al lavoro in fabbrica, manteneva anche una piccola parcella di terra da cui trarre i generi alimentari per il suo consumo. Così l'industria tessile riuscì, nei primi dieci anni del nuovo secolo, a soppiantare sui mercati della penisola balcanica la concorrenza dell'Austria-Ungheria, della Germania.
Furono appunto tali accordi commerciali a rafforzare, nel nostro paese, le correnti nazionalistiche, le quali miravano al dominio dell'Adriatico e consideravano l'opposta sponda dalmata e in genere i Balcani come una zona destina passare sotto l'influenza italiana.
Ma nel 1911, il primo ministro Giolitti, anche per porre rimedio alle conseguenze di una nuova crisi, che era iniziata nelle nazioni più evolute verso il 1907, decise di impegnare il Paese nell'impresa di Libia. La spedizione coloniale valse a renderci nemici gli occidentali e ad avvicinarci ancora più alla Germania e all’Austria-Ungheria (con cui tra l’altro eravamo legati dal patto della Triplice Alleanza).
Quando ci si accorse che la conquista della Libia non dava affatto tutti i benefici sperati, e l'Italia ritornò allo scacchiere balcanico, si dovette prendere atto che la sua breve assenza aveva lasciato la 'possibilità ai due Stati amici-nemici di inserirsi su quei mercati. Alla fine l’Italia decise di partecipare al conflitto con le potenze occidentali contro la Triplice Alleanza, firmando, il 26 aprile del 1915, il patto di Londra che prevedeva, per il nostro intervento un prestito di soli 50 milioni di sterline (ma si pensava che la guerra sarebbe stata breve), e facendosi riconoscere ufficialmente il diritto, oltre al raggiungimento dei confini naturali, anche al predominio sull'Adriatico, secondo l’impostazione della politica estera nazionalistica.
L'ultimo anno di guerra - da Caporetto a Vittorio Veneto -, rappresentò una rovina per gli artigiani, per i professionisti, per i pensionati, per i modesti negozianti e bottegai, per i proprietari di case e di terreni affittati a bloccati (tutte categorie di media e piccola borghesia che rappresentarono il primo nucleo del fascismo in apparente rivolta contro l'ingiustizia delle leggi e della società); mentre per gli industriali, per gli agricoltori e per i fittavoli (che vendevano - scriveva Einaudi - direttamente al pubblico, a prezzi subito gonfiati, derrate agricole o merci di consumo o servizi) fu un periodo di facili e rapidi guadagni e di arricchimenti.
Si erano avvantaggiate soprattutto le province industriali e agricole del nord, a differenza di quelle agricole del Sud, che, lontane dai centri industriali di consumo, si erano venute a trovare in condizioni di inferiorità.
Nel 1919 fino a metà del 1920, una domanda in progressiva espansione (perché coloro che avevano dovuto contrarre i loro bisogni durante la guerra si precipitarono all'acquisto dei beni di consumo che apparivano indispensabili) mantenne un boom produttivo che fu ulteriormente causa di guadagni. Boom che naturalmente, provocò un processo inflazionistico, il quale spinse le classi lavoratrici ad agitazioni e scioperi ininterrotti per recuperare, sul piano salariale, il potere d’acquisto che le loro rimunerazioni andavano perdendo.Fu principalmente per questo motivo che, in tale periodo, il movimento fascista, fondato a Milano il 23 marzo 1919, rimase piccolissimo e non riuscì, pur cercando di far leva sui grandi temi di politica internazionale (la condizione di nazione vinta che si era fatta a Versailles, Fiume, ecc.), a fare breccia nella popolazione italiana.
Alla metà del 1920, una nuova domanda di aumenti salariali da parte degli operai metalmeccanici e metallurgici non fu soddisfatta dagli prenditori: si ebbero così la serrata e l'occupazione delle fabbriche: episodio questo che si può dire culminante nella lotta sociale di questi anni, ma che si risolvette in una pesante sconfitta per classe lavoratrice.
Tale situazione fu sfruttata abilmente da Mussolini e dal fascismo che, alla fine del 1921, era diventato un grosso partito, che era in grado di avanzare pretese sotto forma di ultimatum ai liberali.
Gli imprenditori si diedero volentieri al fascismo il quale prometteva loro la "pace sociale," cioè la fine e la repressione di ogni agitazione operaia. Appoggiarono il fascismo anche l'alta burocrazia, l'esercito, buona parte dei ceti medi nazionalistici, e, alla fine, anche la monarchia e il Vaticano, verso i quali ultimi Mussolini aveva fatto nei due discorsi di Udine e di Napoli, ampie dichiarazioni di lealtà abbandonando le sue antiche posizioni repubblicane anticlericali. Ma ci fu pure una notevole debolezza delle correnti politiche democratiche e antifasciste, che credettero tutte che il nuovo regime sarebbe stato un fenomeno passeggero nella vita del paese, destinato a rinuncia presto al potere per riconsegnarlo nelle mani della classe dirigente liberale.
Ma Mussolini proseguiva imperterrito nella sua opera mirante a smantellare tutto ciò che rimaneva dello Stato liberale, e con il patto di palazzo Chigi, tra le Corporazioni fasciste e la Confindustria, concedeva una deroga alla legge sulle otto ore in tutte quelle occupazioni che richiedevano un lavoro continuo e cercava di far riconoscere alle Corporazioni una posizione di privilegio presso gli industriali rispetto alle confederazioni democratiche (la CGL e la CIL cattolica), sostenendo il principio dei "cordiali rapporti fra i datori di lavoro e i lavoratori" e il proposito di far valere la loro collaborazione.
Nel 1924 si dovette assistere al vile e brutale assassinio di Giacomo Matteotti, dopo il violento e pungente discorso, ma privo di qualsiasi accento retorico, che il deputato socialista aveva tenuto alla Camera e in cui aveva chiesto l'invalidazione dell'elezione, alle consultazioni politiche svoltesi il 6 aprile, di tutti i deputati fascisti, perché avvenuta grazie all'uso indiscriminato della violenza.
Il 7 giugno, diceva Mussolini che si notavano parecchi sintomi di una concreta riorganizzazione delle "scompaginate associazioni di classe", che erano favorite "dalla così dette 'cellule di officina' o 'cellule d'azienda," le quali rappresentavano “la base ed il perno della riorganizzazione politica dei partiti sovversivi”.
Eppure, il duce dovette, di lì a poco, accorgersi quanto fosse difficile vincere la resistenza della classe lavoratrice, di quella più matura e più cosciente, poiché anche un anno dopo nel suo discorso del 3 gennaio 1925, con cui pose termine alla secessione dell'Aventino, gli operai metallurgici e metalmeccanici organizzarono uno sciopero contro le ripetute riduzioni dei loro salari. I sindacati fascisti erano stati costretti ad assecondare lo sciopero, per non lasciarsi scavalcare dalla FIOM, che conservava ancora un notevole ascendente sui lavoratori, ma destando una grande meraviglia negli industriali, i quali erano sicuri che il fascismo non avrebbe mai aderito a tali forme di lotta.
Questo sciopero era stato possibile perché esisteva una pluralità di organismi sindacali, e pertanto Mussolini e Rossoni, capo delle corporazioni, provvidero ad eliminare un simile pericolo, firmando, il 2 ottobre 1925, il patto detto di palazzo Vidoni, con cui la Confederazione dell’Industria riconosceva nella “Confederazione delle corporazioni fasciste e nelle organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici".
L'accordo di palazzo Vidoni aboliva le commissioni interne di fabbrica, e con la successiva legge del 3 aprile 1926 e con il regolamento del 1° luglio il regime vietava lo sciopero e la serrata, istituiva la Magistratura del lavoro ed elevava i sindacati dei datori di lavoro e dei lavoratori ad organi indiretti della pubblica amministrazione.
Sembrava ormai del tutto fallita la via dei bassi salari (il costo della vita, nel 1925, era arrivato a 623 sul 100 del 1913-1914, mentre i salari erano giunti solo a 533 un dislivello di 100 punti); l'equilibrio della bilancia commerciale era fortemente compromesso.
Il duce, sperando di sanare la situazione, accettava le proposte della Confindustria e lanciava la campagna in favore del consumo dei prodotti nazionali,e nello stesso tempo, dava inizio alla “battaglia grano”, ripristinando, il 24 luglio 1925, il dazio sul frumento.
Rivalutò la lira riportando il rapporto lira-sterlina a L. 90.
Gli industriali procedettero a una riduzione dei salari in una misura che andava dal 10 al 20%, sicuri che i lavoratori avrebbero dimostrato, ancora una volta, un considerevole spirito di disciplina.
Il 21 aprile 1927 viene promulgata la Carta del Lavoro.
Nel 1928 un incremento della disoccupazione imponeva allo Stato gravi problemi, anche perché i tradizione mercati di assorbimento della nostra manodopera (in particolare gli U.S.A.) continuavano a rimanere chiusi.
Diventava pertanto, indispensabile impostare un programma di lavori pubblici. Le ferrovie dello Stato iniziavano l'elettrificazione della rete; il 17 maggio 1928 veniva istituita l'Azienda autonoma statale incaricata della costruzione delle autostrade, infine, il 24 dicembre 1928, era resa nota la legge sulla bonifica integrale, di cui il fascismo andava particolarmente orgoglioso.
Nel 1929, il nostro paese si stava risollevando lentamente e faticosamente, quando sopraggiunse la grande crisi che, dal "giovedì nero" alla Borsa di New York, si sparse per tutto il mondo, con ripercussioni anche sull'Italia.
Un indice che rivela il peggioramento della situazione economica è quello che riguarda i fallimenti che erano aumentati. In diversi casi per evitarli si era ricorso all'aiuto del governo.
Questa politica di intervento pubblico portò, il 13 novembre del 1931, alla fondazione dell'Istituto Mobiliare Italiano (IMI), al quale fu affidato il compito di accordare prestiti contro garanzie reali di natura mobiliare a imprese private e di assumere eventualmente partecipazioni nelle medesime.
Il 20 marzo 1930 fu istituito ex novo il Consiglio nazionale delle Corporazioni che diede vita a sette corporazioni (Industria, Agricoltura, Commercio, Banca, Professioni e Arti, Trasporti marittimi e Trasporti terrestri) come organi di collegamento tra le Associazioni sindacali riconosciute.
Nel tempo stesso, proseguiva, assumendo grandi proporzioni, il fenomeno della concentrazione e della fusione delle imprese.
La naturale che doveva rientrare sotto l'influenza italiana, era formata dalle nazioni agrarie dell'Europa centro-orientale, che determinavano il quinto posto nel commercio estero.
Il "Piano danubiano" pubblicato dal governo fascista cercava di conseguire due scopi: 1) assicurare nuove possibilità di sbocco alla nostra industria; 2) migliorare la situazione dei porti dell'Adriatico settentrionale.
Ma questa politica danneggiava fortemente gli interessi della Germania. Tanto che quando, nel luglio del 1934, Hitler, appena giunto al potere e che non aveva tardato a rivelare le sue ambizioni di espansione territoriale, tentò di occupare l'Austria, la cui "indipendenza e integrità" era stata garantita, il 17 febbraio, dalla Francia, dall'Inghilterra e dall'Italia, Mussolini inviò al Brennero due divisioni di alpini quasi ad ammonire che l'Italia non sarebbe rimasta spettatrice inerte di quel dramma, ma anche per impedire che, attraverso l'Austria, il Reich penetrasse sempre più a fondo nei Balcani.
Un altro avvenimento, sul piano economico, determinante in questi anni fu la svalutazione del dollaro, voluta Roosevelt, che aveva vinto le elezioni, nel novembre 1932, contro il repubblicano Hoover, per aumentare i prezzi, stimolare di conseguenza la produzione e favorire l’esportazione.
Lo Stato era diventato, per mezzo dell'IRI, il padrone di circa i tre quarti dell'economia italiana industriale e agricola.
Nel giugno del 1933, Mussolini in un articolo sulla sua rivista, "Gerarchia," poneva il dilemma «Pace o guerra? La storia ci dice che la guerra è il fenomeno che accompagna lo sviluppo dell'umanità». E dalla fine del 1933, aveva cominciato a preparare, con il governatore dell’Eritrea, il quadrumviro De Bono, l'impresa d’Etiopia. Era lo sbocco inevitabile dei regimi autoritari europei: il riarmo per superare la crisi, cioè investire il denaro del risparmiatore nella preparazione bellica.
L'abbandono della politica balcanica e l’inizio di una politica di espansione coloniale - proprio in un momento in cui il vecchio colonialismo di tipo ottocentesco stava morendo - era stata suggerita a Mussolini da ciò che gli aveva detto Dino Grandi, che né la Francia né l’Inghilterra volevano assumersi impegni per l'indipendenza austriaca: "Avremo quindi la disgrazia", aveva esclamato "della Germania al Brennero. La sola alternativa che mane è l'Africa," verso cui, del resto, sollecitavano vivamente gli ambienti industriali. I quali furono quelli che ne trassero i maggiori vantaggi, poiché, a partire dalla seconda metà del 1934, le fabbriche incominciarono a lavorare più intensamente.
Il duce aveva avuto l'abilità, che era stata anche di Giolitti nel preparare la spedizione di Libia, di presentare al popolo italiano la conquista dell'Etiopia come quella che avrebbe risolto tutti i suoi assillanti problemi: assorbimento di manodopera disoccupata, mercato su cui vendere i nostri prodotti e da cui trarre le materie prime necessarie per le industrie. In tal modo, si può dire che l'impresa abbia segnato il maggiore consenso popolare al regime.
L'impresa d'Etiopia aveva fatto stringere rapporti più stretti con la Germania. Un motivo a determinare quest'ultima alleanza erano le sanzioni, decise dalla Società delle Nazioni per impedirci la conquista dell'Etiopia (ma esse erano state, in un certo qual modo, sabotate dall'Inghilterra, che non aveva voluto includere nel divieto materie prime come il piombo, lo zinco, la lana, il cotone e il petrolio e si era rifiutata di chiudere il passaggio alle navi italiane attraverso il canale di Suez), e avevano deviato le correnti tradizionali del nostro commercio estero, sviluppando i rapporti con la Germania.
Gli accresciuti interessi mediterranei spinsero il duce ad intervenire in Spagna in aiuto del generale Franco, impegnato in una nuova rivoluzione nazionalistica. Mussolini considerava ormai il Mediterraneo un lago italiano e temette che il Fronte popular spagnolo e il Fronte popolare francese si alleassero, bloccandolo nel Mediterraneo occidentale. Certo, il fascismo si impegnò più a fondo del nazismo (i prestiti del governo italiano a Franco per forniture, ecc. defalcati gli assegni corrisposti ai legionari e le spese sostenute per l'addestramento in Italia dei "volontari" e depennato il valore dei materiali di artiglieria antiquati, ammontarono a Lire 5.716.195.916), ma ciò avvenne appunto perché Mussolini considerava il Mediterraneo un lago italiano, e Hitler lo confermò molto abilmente in tale convinzione.
Ma, nel frattempo, pur concedendo aiuti così forti alla Spagna di Franco, l'economia italiana cominciava a risentire di qualche difficoltà, creata, in parte, dalle sanzioni (che pure non furono applicate dall'Albania, dall'Austria, dall'Ungheria, dagli Stati Uniti, che non erano membri della Società delle Nazioni e, in parte, dalla Svizzera), il che spinse il fascismo ad accelerare i piani per l'autarchia.
La crisi del '29 aveva veramente chiuso l’età della sterlina, della moneta stabile, che aveva caratterizzato l'Ottocento, e aveva aperto una fase di instabilità politica ed economica, di lotta accanita di ciascuno Stato contro l'altro alla ricerca di uno "spazio vitale" che consentisse di vivere autarchicamente.
Traendo, attorno al '39-40, alcune conclusioni sulle corporazioni e sull'autarchia, si poteva dire che si erano risolte in un gran fallimento, perché nono erano riuscite ad evitare il graduale e continuo peggioramento del tenore di vita delle masse lavoratrici e tanto meno erano state in grado di impedire che poche persone realizzassero notevoli profitti.
L’Etiopia non aveva dato tutti i vantaggi desiderati, e allora la politica mussoliniana era tornata verso i Balcani, dove, però, si era scontrata con la preponderante influenza della Germania, la quale aveva maggiore abbondanza di noi in prodotti industriali da vendere su quei mercati in cambio di derrate alimentari.
Da ciò era scaturita la segreta, ma abbastanza manifesta, diffidenza del duce verso il ben più forte alleato, diffidenza che lo portò all'occupazione dell'Albania (7 aprile 1939) e a vagheggiare ipotetiche espansioni nella Jugoslavia del nord, per sottomettere quel paese all’influenza dell'Asse (Asse Roma-Berlino, costituito nel maggio 1938 dopo che l’Italia si era ritirata, l’11 dicembre 1937, dalla Società delle Nazioni).
Il duce non aveva alcuna intenzione di farsi estromettere dalla penisola balcanica, con i cui paesi si era sviluppato il nostro commercio in misura considerevole.
In seguito all'autarchia, la situazione produttiva del nostro paese era molto cambiata e avevano acquistato maggiore importanza le industrie meccaniche e chimiche.
Tutto questo determinava un forte spostamento della popolazione dalla campagna alla città, voluto anche dai redditi più bassi nell'agricoltura che nell'industria (il fascismo cercava di frenare questa immigrazione emanando, proprio nel 1938, leggi che avrebbero dovuto fissare il contadino alla sua terra).
Dal Diario di Ciano del 6 agosto 1939, quando la guerra stava per cominciare: «A battere la strada tedesca si va guerra e ci andiamo nelle condizioni più sfavorevoli per l'Asse e specialmente per l'Italia. Siamo a terra con le riserve auree; a terra con le scorte di metalli; lontani dall'aver completato il nostro sforzo autarchico e militare. Se la crisi viene, ci batteremo per salvare almeno l’onore. Ma conviene evitarla».
E nuovamente:«Si moltiplica il numero delle divisioni, ma in realtà queste sono così esigue da aver poco più la forza di un reggimento. I magazzini sono sprovvisti. Le artiglierie sono vecchie. Le armi antiaeree ed anticarro mancano del tutto. Si è fatto molto bluff nel settore militare e si è ingannato lo stesso Duce. Ma è un bluff tragico. Non parliamo dell'aviazione. Valle denuncia 3.006 apparecchi efficienti, mentre i servizi informazione della Marina dicono che questi sono soltanto 982. Un grosso scarto». Ebbene in tali condizioni, cosa faceva il duce?: «Si concentra piuttosto sulle questioni di forma: succede l’ira di Dio se il presentat’arm è fatto male o se un ufficiale non sa alzare la gamba nel passo romano, ma delle deficienze che conosce a fondo, non sembra preoccuparsi oltre un certo limite».
Probabilmente, con il trasformismo di cui aveva dato ampie prove durante tutta la sua vita, contava molto più che sull’aiuto dei “circoli plutocratici” su quello delle masse lavoratrici, alle quali concedeva, in occasione del ventennale della fondazione dei fasci di combattimento, un aumento dei salari dal 6 al 10% e la riforma delle assicurazioni obbligatorie per la invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi, per la nuzialità e la natalità.
Osserva Ciano: «Il Duce è molto soddisfatto del provvedimento e mi dice: “Con ciò abbreviamo veramente le distanze sociali. Il socialismo diceva: tutti eguali e tutti ricchi. L'esperienza ha provato che tutto ciò è impossibile. Noi diciamo: tutti eguali e tutti abbastanza poveri».
Bibliografia:
1945/1975 ITALIA. Fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento.
Conversazioni promosse dal Consiglio regionale lombardo nel trentennale della Liberazione.
Feltrinelli Editore aprile 1975
La politica sociale del fascismo
Il fascismo aveva conquistato il potere grazie all'azione eversiva dello squadrismo e allo sbandamento dei suoi avversari.
Ma, una volta a capo del governo, Mussolini comprese che, per tenersi in sella, occorreva assicurare al fascismo l'adesione dei ceti medi. D'altra parte, il movimento fascista, sebbene fosse stato appoggiato nella sua ascesa da alcuni grossi possidenti agrari e più larvatamente da qualche gruppo industriale, aveva avuto una matrice eminentemente piccolo- borghese. Di fatto la rivalutazione della lira, attuata nel 1926 a un cambio più alto del corso reale di mercato, rinfrancò i ceti medi.
Tant'è che il flusso dei depositi presso le casse di risparmio raggiunse, nel giro di due anni, un volume pari a quasi quattro volte quello del 1913. Rassicurata in tal modo e con altri provvedimenti la piccola e media borghesia, il governo fascista mirò a eliminare la conflittualità sociale. A tal fine, vennero sciolte d'autorità tutte le organizzazioni di categoria, tranne quella del sindacato fascista a cui fu attribuita la rappresentanza globale dei lavoratori.
Nello stesso tempo, venne introdotta una legge che stabilì l'arbitrato obbligatorio per le controversie sindacali e il principio della validità collettiva, "erga omnes", dei contratti di lavoro. Fu questa la premessa dell'ordinamento corporativo varato con la Carta del lavoro emanata nell'aprile 1927 per opera di Giuseppe Bottai. Non si diede corso alla corporazione integrale, a una organizzazione unica fra datori di lavoro e lavoratori, come rivendicava il leader del sindacalismo fascista Edmondo Rossoni. Ma vennero istituite singole corporazioni di categoria a cui fu affidato il compito, in nome degli interessi nazionali, di coordinare tutti gli aspetti riguardanti il mondo del lavoro e dell'economia.
La Carta del lavoro ribadì sia il divieto di sciopero che quello di serrata e conferì ad una speciale magistratura del lavoro la soluzione delle controversie fra imprese e dipendenti. Sancito in tal modo, e mediante varie misure repressive, il principio della disciplina sociale, il governo fascista cercò di ridurre le differenze di classe all'interno del mondo rurale, che costituiva la componente di gran lunga prevalente della società italiana. Si pose così mano a diversi provvedimenti rivolti a favorire lo sviluppo della piccola proprietà contadina e ad accrescere il numero dei compartecipanti. In effetti, fra il 1921 e il 1936, stando ai dati ufficiali, i lavoratori senza terra diminuirono dal 44 al 28 per cento degli addetti all'agricoltura. Ciò fu dovuto peraltro, almeno sino al 1926 all'inflazione, che alleviò i debiti contratti da numerosi coltivatori per acquistare un pezzo di terra, e che innalzò inoltre le quotazioni dei prodotti. Non a caso, proprio nelle campagne il fascismo reclutò la sua base di massa più consistente.
Da un lato, l'opera di "sbracciantizzazione" valse infatti a distruggere gli ultimi residui delle leghe socialiste e cattoliche, in particolare nelle regioni del nord e del centro.
Dall'altra, i provvedimenti assunti con la «battaglia del grano» e la «bonifica integrale» resero possibile un miglioramento delle condizioni dei mezzadri e dei fittavoli. Peraltro, furono i più grossi produttori a trarre i maggiori benefici della politica agricola del regime. Essi si avvantaggiarono inoltre, sia delle più favorevoli condizioni di accesso al credito agricolo, sia della progressività alla rovescia delle imposte (pari in media al 5 per cento sui redditi più alti contro il 10 per cento su quelli più bassi).
Solo dalla metà degli anni Trenta il fisco diverrà meno indulgente nei confronti degli agrari, in seguito all'adozione di un'imposta straordinaria immobiliare e di un prestito forzoso sulla proprietà fondiaria. Il particolare impegno profuso dal regime a favore dei ceti rurali si spiega anche con gli indirizzi di politica demografica del governo fascista. Nel maggio 1927, con il discorso dell'Ascensione, Mussolini aveva sostenuto che la ricchezza della Nazione stava essenzialmente nel numero delle braccia. E aveva eletto il contadino, il piccolo produttore, a simbolo di un'Italia laboriosa e frugale. Da quel momento era stato imposto un freno all'urbanizzazione, all'emigrazione verso le città. Per il regime, l'integrità della popolazione italiana stava infatti nella salvaguardia delle sue matrici e tradizioni rurali.
In realtà le disposizioni che limitavano la libertà di movimento non riuscirono a bloccare del tutto l'esodo delle campagne, malgrado due successive leggi del 1931 e del 1939. In base al teorema che il numero è potenza, il governo premiò le giovani coppie e penalizzò i celibi con un'imposta, istituita nel 1927, che colpiva tutti gli uomini non sposati dai venticinque ai sessantacinque anni, e che venne poi raddoppiata. Mussolini aveva affermato: «Ho approfittato di questa tassa per dare una frustata demografica alla nazione».
Alle famiglie numerose vennero riconosciute, nel giugno 1928, varie esenzioni fiscali e la priorità nell'assegnazione di alloggi popolari e di altre provvidenze. Si giunse anche a fissare un ordine di grandezza per avere diritto a particolari privilegi: sette figli per le famiglie degli impiegati e dieci per tutte le altre. Fu inoltre stabilito che i coniugati dovessero avere la precedenza sui celibi, e i genitori sui coniugati senza figli, nei concorsi e nelle promozioni negli impieghi pubblici, nelle assunzioni nelle imprese private e nel riconoscimento di licenze commerciali. In verità le aspettative del regime vennero in parte deluse dai risultati del censimento compiuto nel 1931, che registrò una popolazione di poco più di 41 milioni di residenti, contro i 38 milioni del dopoguerra. Fu perciò intensificata anche l'azione di propaganda a sostegno dell'incremento demografico. Nel dicembre 1933 vennero premiate con una visita nella capitale le 93 madri più prolifiche d'Italia. Erano donne che vantavano dai 14 ai 19 figli viventi. Ricevute dal Papa e poi da Mussolini, esse ritirarono dalle mani del Duce un premio in denaro.
Fu questo il prologo dell'istituzione, alla vigilia di Natale, della «Giornata della madre e del fanciullo», festività che diventerà un appuntamento rituale. Erano trascorsi dieci anni dall'istituzione dell'Opera nazionale per la maternità e infanzia, incaricata di integrare e coordinare le diverse forme di assistenza alle madri bisognose e all'infanzia abbandonata. E da allora si era moltiplicato il numero dei consultori per la maternità, in particolare nei grandi centri urbani, dove più bassi risultavano gli indici di natalità. Un regime benefico e rassicurante. Era l'immagine che Mussolini voleva dare del fascismo. A tal fine venne riorganizzato il sistema previdenziale e assistenziale.
Facendo seguito all'istituzione nel 1925 dell'Ente Nazionale Assistenza Lavoratori fu stabilita, due anni dopo, l'assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi e, nel maggio 1929, quella sulle malattie professionali.
Nel dicembre 1928 era stato approvato anche un aumento delle pensioni operaie. Questi provvedimenti vennero accreditati dai leader del regime, a cominciare dal capo del sindacato fascista Rossoni, come la prova della sollecitudine del governo verso le classi popolari. Ma i provvedimenti più significativi furono varati solo nel mezzo della "grande crisi" degli anni Trenta per esorcizzare l'insorgere di particolari tensioni sociali.
Fu così che nel 1933 venne stanziato un fondo per le indennità di disoccupazione, e furono adottate nuove provvidenze per i casi di invalidità, di infortuni sul lavoro e di malattie professionali. A queste e altre misure di previdenza sociale (come quella varata nel 1934 che sanciva il diritto di un giorno di riposo ogni settimana lavorativa) fecero da contrappunto, nei momenti economici più critici, consistenti riduzioni dei salari.
Emerse in questi frangenti il carattere ambivalente e contraddittorio del sindacalismo fascista, la sua perenne oscillazione fra le funzioni di cinghia di trasmissione della dittatura e quelle di rappresentanza dei lavoratori. Si trattò di un dilemma che tormentò soprattutto gli esponenti sindacali che s'identificavano con il fascismo delle origini, o che provenivano dal gruppo dei sindacalisti rivoluzionari. Le direttive del regime imponevano, come esigeva il copione delle manifestazioni ufficiali nei luoghi di lavoro, che si esaltasse il principio della collaborazione di classe e si facesse sfoggio di una perfetta coesione fra le forze del capitale e del lavoro.
In realtà, quel che i leader della sinistra fascista vagheggiavano era una profonda modifica, o comunque una prospettiva di rinnovamento del sistema sociale, che li poneva in contrasto con le tendenze assai più prudenti degli ambienti di partito e di governo. In effetti, nonostante le apparenze, numerosi furono gli scontri con il patronato o le contestazioni nei riguardi delle direttive prefettizie che raccomandavano un atteggiamento accomodante. Lo stesso Mussolini diede talvolta l'impressione di assecondare i propositi degli esponenti sindacali più battaglieri. Soprattutto nel corso degli anni Trenta, quando la recessione economica fu da lui giudicata come una «crisi strutturale» del sistema capitalistico.
Ciò lo indusse a lanciare la parola d'ordine di «andare verso il popolo» e a enunciare un «piano generale regolatore» dell'economia che avrebbe dovuto dar luogo, sulla base dell'ordinamento corporativo, a una «terza via» fra capitalismo e comunismo. È quanto il Duce rivendicò nell'ottobre 1934 a Milano, in un discorso agli operai, che dava per avvenuta l'integrazione delle masse in quella che si definiva la «rivoluzione fascista». In realtà, proprio in quel periodo venne meno definitivamente il disegno di dar vita al corporativismo integrale. E il sindacato fascista, dopo l'estromissione di Rossoni, finì col rassegnarsi (salvo qualche temporaneo sussulto) a un ruolo sempre più subalterno e strumentale in conformità alle logiche di potere e alle finalità di nazionalizzazione delle masse perseguite dallo Stato totalitario. In funzione di questi obiettivi, il governo fascista intensificò nel corso degli anni Trenta l'azione politica del partito e mobilitò l'Opera Nazionale Dopolavoro, creata fin dal 1925 con lo scopo di estendere il controllo del regime anche sul versante delle manifestazioni aziendali e delle iniziative ricreative.
Sempre più vasto divenne così il repertorio dei programmi allestiti da enti pubblici, organizzazioni sindacali, federazioni del fascio e amministrazioni locali. Tenevano il cartello i raduni nella capitale con l'appuntamento rituale a Piazza Venezia sotto il balcone del Duce o all'Altare della Patria.
E c'erano le feste campagnole, quelle ai circoli rionali, le gare a premio, le gite domenicali sui cosiddetti «treni popolari» a tariffa ridotta per una giornata all'aria aperta.
L'organizzazione di colonie montane e marine per le vacanze dei figli dei lavoratori costituì un altro aspetto rilevante della politica sociale del regime. Era questo un altro modo per integrare le masse nelle istituzioni fasciste e organizzare il consenso dei ceti umili. Particolari provvidenze vennero inoltre assunte nel campo dell'assistenza sanitaria. Si ampliò il numero degli ospedali e degli ambulatori, dei laboratori di analisi e degli impianti radiologici. Anche nei paesi si organizzò un servizio per l'assistenza alle gestanti e la puericultura.
Gli iscritti alla mutua, che all'inizio degli anni Trenta erano poco più di 800.000, divennero dieci anni più tardi tredici milioni. Grazie a queste e ad altre misure la vita media di un italiano raggiunse nel 1939, i 55 anni. Si trattava tuttavia, per la maggior parte della popolazione, di un'esistenza per lo più grama e stentata. La spesa per l'alimentazione assorbiva in media il 57% del bilancio di una famiglia e i consumi pro capite risultavano nel 1931 pari a 2.667 calorie (meno di quelli di dieci anni prima). Erano ancora tanti gli italiani che non si potevano permettere il pane bianco. E quello nero costava comunque relativamente caro in rapporto ai salari: nel 1926 si vendeva a 2 lire e mezzo al chilo quando una paga settimanale media oscillava fra le 27 e le 30 lire. Stando a un'inchiesta condotta nel 1937 dal Bureau International du Travail, il vitto di una famiglia operaia consisteva in pane e qualcos'altro a colazione, in una minestra abbastanza lunga a mezzogiorno, in pane e polenta la sera con baccalà, saracche e qualche pezzetto di carne. E fra i contadini si faceva ancora un gran consumo di mais.
Di fatto, gli italiani consumavano in media circa un 4% in più di frumento rispetto al 1934, ossia al periodo antecedente le sanzioni e l'autarchia, più riso e più ortaggi, più uova e più patate, ma meno burro, carne bovina, frutta fresca e agrumi. Gli italiani del nord stavano meglio di quelli di altre regioni. Ma solo una ristretta minoranza aveva conservato negli anni Trenta lo stesso standard di condizioni materiali, mentre la parte più cospicua della popolazione aveva dovuto rassegnarsi a "tirare la cinghia". D'altra parte il reddito medio per persona occupata nel triennio 1935-38 era di soli 410 dollari in Italia, contro gli 804 della Francia, i 1206 della Gran Bretagna, i 1309 degli Stati Uniti. Operai e braccianti non avevano di che rallegrarsi, malgrado la concessione della settimana lavorativa a 40 ore (peraltro soggetta a successive sospensioni) e il riconoscimento nel 1932 degli assegni familiari a tutte le categorie.
Migliori erano le condizioni normative e retributive degli impiegati privati e dei dipendenti dell'amministrazione pubblica. Nei loro confronti il regime aveva un particolare occhio di riguardo, a giudicare anche da varie agevolazioni nel campo dell'edilizia convenzionata.
Più consistenti furono, in ogni caso, le garanzie del regime nei confronti della piccola borghesia, sia pur su livelli relativamente modesti e periodicamente rosi da inasprimenti fiscali e altre misure di finanza pubblica. La politica autarchica e le tendenze dirigistiche del governo fascista rafforzarono, a loro volta, le prerogative dell'apparato burocratico. Alla testa dell'amministrazione e di vari enti pubblici e parastatali s'era andata formando una nuova schiera di alti funzionari, di tecnici ed esperti, con incarichi di rilievo nella disciplina e nel coordinamento delle più disparate attività economiche, delle iniziative sociali e dei servizi di pubblica utilità. In queste sue crescenti funzioni la burocrazia ministeriale e degli enti di gestione non contrastò, ma anzi accreditò sovente, gli interessi della grande industria e della proprietà fondiaria. Essa badò tuttavia a far valere il suo ruolo e i suoi poteri di mediazione, quale perno di un ordinamento sempre più centralizzato. Investita di crescenti prerogative d'intervento (e non solo più di controllo giurico-formale), la dirigenza amministrativa finì così per creare una propria gerarchia di valori e di modelli referenziali. E cercò comunque di estendere costantemente il proprio raggio d'azione. Non era ancora una vera e propria "nomenclatura" quella che si venne formando in tal modo nei palazzi romani.
D'altra parte, essa era l'espressione non tanto di una politica orientata a riformare il sistema, a modificare le regole del gioco, quanto piuttosto a tradurre in pratica gli ordinamenti e i vincoli di un regime totalitario. Ma proprio per questo essa aveva concentrato nelle sue mani alcune importanti leve decisionali. Fece così il suo esordio sulla scena un primo nucleo di borghesia di Stato, che costituì fin da allora un "potere forte" destinato a sopravvivere al fascismo. E ciò finì per avviluppare il capitalismo italiano nelle maglie sempre più rigide della struttura burocratica e per accentuare, nello stesso tempo, le connotazioni corporative e autoritarie dell'amministrazione pubblica.
Da un articolo di Valerio Castronovo pubblicato in “Storie d’Italia dall’unità al 2000”
Un posto al sole
Infrantosi nel 1896 (con la disastrosa disfatta di Adua) il disegno a cui mirava il governo di Francesco Crispi di impadronirsi dell'Etiopia, non era bastato il possesso dell'Eritrea e della Somalia per arginare un fenomeno come quello migratorio che nell'ultimo quarto dell'Ottocento aveva cominciato ad assumere dimensioni imponenti.
Neppure l'occupazione nel 1911 della Libia (per altro mai portata a compimento del tutto) era valsa a contenere l'esodo di tanti emigranti in cerca di lavoro. Anzi, proprio negli anni antecedenti la Grande Guerra, il movimento migratorio aveva registrato gli indici più elevati. Così che, alla fine del primo quindicennio del Novecento, ammontava a quasi nove milioni il numero delle persone espatriate: assai più di quante ne fossero partite da altri paesi europei di forte emigrazione come l'Irlanda, la Polonia e la Spagna.
Pesanti erano stati i disagi e gli ostacoli che le comunità italiane avevano dovuto affrontare, anche per via talora di odiose discriminazioni. E tuttavia era andata crescendo la schiera di quanti, a costo di durissimi sacrifici, avevano migliorato la propria posizione e messo da parte qualche gruzzolo. Di fatto, le rimesse degli emigranti, i sudati risparmi che essi mandavano in patria alle loro famiglie o riportavano al loro ritorno, avevano contribuito, sommati insieme, al saldo attivo della nostra bilancia dei pagamenti e perciò allo sviluppo dell'economia italiana. Ma, all'indomani della guerra, alcuni governi europei, in difficoltà economiche, avevano chiuso le loro frontiere. E quello di Washington, in particolare durante la presidenza del repubblicano Hoover, aveva limitato notevolmente l'ingresso negli Stati Uniti agli emigranti dai paesi dell'Europa Orientale e Mediterranea, fra cui l'Italia. Da parte sua il regime fascista aveva cercato, per ragioni di prestigio internazionali, di scoraggiare il movimento migratorio verso l'estero, puntando in alternativa su un vasto programma di colonizzazione interna. Ma il trapianto di pur numerosi nuclei di disoccupati nelle zone di bonifica non poteva certamente bastare a colmare il divario cronico fra la scarsità di risorse e l'eccedenza di popolazione. Si riaffacciò così, quando s'era appena cominciato a mettere a frutto le coste della Tripolitania, il miraggio di un'ulteriore espansione coloniale, come antidoto all'esuberanza demografica. In tal modo, il mito fascista del «destino imperiale» dell'Italia, quale erede della «Roma dei Cesari», venne saldandosi alle vecchie componenti populistiche e ruralistiche che già avevano alimentato le avventure coloniali nell'età liberale. Ancora una volta «l'Italia grande proletaria» (per dirla con lo slogan coniato dal nazionalista Enrico Corradini) si sarebbe mossa per conquistare uno "spazio vitale".
Di fatto l'assoggettamento dell'Etiopia tornò a costituire un obiettivo preminente, nonostante la stipulazione nell'agosto 1928 di un accordo di amicizia ventennale con il governo di Addis Abeba. Che questo fosse il proposito del Duce, lo aveva chiarito senza mezzi termini il ministro degli Esteri Dino Grandi, in una seduta del Gran Consiglio del fascismo dell'ottobre 1930:
«Un'Italia più forte non può rimanere per sempre aggrappata, come siamo oggi in Eritrea, all'estremo ciglio dell'altopiano etiopico, ovvero ristretta, come lo siamo oggi in Somalia, tra il Giuba e i deserti petrosi dell'Ogaden».
Ma si era dovuto attendere, per agire in questa direzione, che giungesse a compimento la totale sottomissione della Libia. Ciò che avvenne nel 1931 quando anche il leader della resistenza senussita, Ornar Al-Muctar, venne catturato e impiccato. Da quel momento erano stati accelerati i preparativi militari per l'attacco all'Abissinia e così pure quelli politici e diplomatici. Essenziale fu, in particolare, l'intesa raggiunta nel gennaio 1935 con il governo di Parigi, disposto a concedere il suo placet per la conquista italiana dell'Etiopia al fine di compensare la delusione subita dall'Italia al tavolo della pace di Versailles e di esorcizzare, in tal modo, il pericolo di un isolamento della Francia di fronte al risorto fantasma (dopo l'avvento al potere di Hitler) di una rivalsa tedesca in Europa.
Nel frattempo Mussolini aveva affidato alle organizzazioni del partito il compito di mobilitare il paese in favore dell'impresa etiopica, facendo leva tanto sulle masse contadine senza terra, quanto sulla piccola borghesia frustrata da un complesso di inferiorità di fronte allo status imperiale di altri paesi europei. A sua volta, un rapporto della Società delle Nazioni sulla schiavitù nel mondo, nel quale l'Etiopia veniva indicata come uno dei paesi che non avevano ancora ratificato la convenzione del 1926 che ne imponeva l'abolizione, valse ad accreditare presso l'opinione pubblica la tesi che l'Italia si accingeva a intraprendere in Africa Orientale un'opera di civilizzazione.
Tuttavia, non fu soltanto la martellante propaganda condotta dalla radio e dalla stampa, a rendere popolare fra gli italiani la guerra d'Abissinia. Se per alcuni c'era da vendicare Adua e da far valere gli interessi dell'Italia come grande potenza, per tanti altri c'era soprattutto la convinzione che la conquista dell'Etiopia avrebbe procurato nuove possibilità di lavoro in un periodo ancora afflitto dai postumi della grande crisi economica del 1929.
Molti furono i volontari fra quanti salparono per l'Africa e pressoché unanime fu l'adesione degli italiani. Anche dalle file dei vecchi oppositori del regime numerosi e genuini furono i consensi dell'impresa etiopica. Vittorio Emanuele Orlando espresse a Mussolini la sua adesione. E fu presto seguito da altri personaggi fino ad allora contrari al fascismo.
Per sostenere la spedizione in Etiopia il regime non badò a lesinare uomini e mezzi, nell'intento di concludere il più rapidamente possibile la campagna militare per evitare tanto eventuali complicazioni internazionali, quanto ogni ipotesi di compromesso con il Negus Hailé Selassié.
«Voglio peccare per eccesso non per difetto», dirà Mussolini promettendo ai suoi generali il doppio dei soldati che essi ritenevano sufficienti per la spedizione. Completata così la preparazione bellica, il Duce si rivolse, il 2 ottobre 1935, agli italiani per annunciare loro:
«Con l'Etiopia abbiamo pazientato quarant'anni. Ora basta!». L'esercito abissino era mal equipaggiato e armato in modo sommario. E il Negus non poteva contare interamente sulla fedeltà dei ras locali. Anche se non si trattò di una passeggiata, non fu difficile per gli italiani avanzare rapidamente fin nel cuore dell'Abissinia. Enorme era la superiorità in truppe, armamenti e tecnica militare. Tant'è che mai s'era visto uno spiegamento di forze così imponente per una guerra coloniale. Non si esitò a usare anche il gas e altre armi chimiche, proibite dalle convenzioni internazionali. Quintali di bombe caricate a iprite vennero sganciate dall'aviazione sulle postazioni nemiche.
A nulla valsero le sanzioni economiche che cinquantuno stati aderenti alla Società delle Nazioni adottarono nei confronti dell'Italia, quale paese aggressore dell'Etiopia, con una risoluzione votata il 2 novembre 1935. All'embargo sulle armi e sui materiali strategici (peraltro mai interamente applicato) e alla restrizione delle importazioni (ma non per le forniture di carbone e petrolio), il governo fascista reagì con l'autarchia e con un appello alla solidarietà nazionale.
Il 18 dicembre si svolse la Giornata della Fede in tutta Italia. All'insegna della parola d'ordine «oro alla patria», gli italiani furono invitati a donare le fedi nuziali per sostenere lo sforzo bellico del paese; in cambio ai donatori venne dato un anello di ferro. La raccolta fruttò un'ingente somma. Pur avversario del regime, Benedetto Croce donò la sua medaglia di senatore, mentre Luigi Pirandello offrì quella da lui ricevuta con il premio Nobel.
Il 5 maggio 1936 il generale Badoglio entrò ad Addis Abeba e due giorni dopo il generale Graziani fece ingresso nella città di Harrar. Sebbene una parte consistente dell'Etiopia fosse ancora da occupare e restassero in armi non meno di 50.000 abissini, la guerra poteva considerarsi conclusa. Il 9 maggio Mussolini annunciava al mondo che «sui colli fatali di Roma era tornato l'Impero dei Cesari», L'Italia era giunta così a possedere un grande impero. Lo superavano, per estensione territoriale, solo quelli dell'Inghilterra e della Francia. Per il Duce e il fascismo fu l'apoteosi. Mussolini venne glorificato come «il fondatore del secondo Impero», che avrebbe concluso «due millenni di storia» e coronato le «più profonde aspirazioni della stirpe». Al Re Vittorio Emanuele III andò il titolo di imperatore.
Sembrò così che la strada fosse oramai spalancata per altre avventure e altri inebrianti successi. Nell'agosto 1936, parlando a Potenza, Mussolini affermava: «Hanno diritto all'impero i popoli fecondi, quelli che hanno l'orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra, i popoli virili nel senso più strettamente letterale della parola».
L'anno dopo, il 16 marzo, Mussolini presenziò in Libia a un'imponente esercitazione navale in prossimità del confine egiziano. Due giorni dopo, a Tripoli, il Duce, sguainando la spada dell'Islam, si erse a difensore degli interessi dei popoli musulmani del mondo nei confronti delle vecchie potenze coloniali. Ciò che indusse alcuni notabili islamici ad appoggiare per qualche tempo, la sua politica estera. Nel frattempo migliaia di italiani si riversarono nella nuova colonia. Ma poche, non più di 3.500, furono le famiglie che riuscirono a stabilirsi in Abissinia e soltanto 110.000 ettari, sui 50 milioni disponibili, furono le terre bonificate. Assai più numerose risultarono le schiere di impresari e di lavoratori edili, di tecnici e addetti ai trasporti, di esercenti e di artigiani, accorsi in Etiopia. Con il loro lavoro essi concorsero a trasformare il volto ancora arcaico del paese appena conquistato, costruendo strade, edifici pubblici, ospedali, realizzando opere di bonifica e infrastrutture. Lo riconoscerà per primo lo stesso Hailè Selassiè al suo rientro in patria nel 1941, al seguito dell'esercito inglese.
La guerriglia condotta dai superstiti dell'esercito abissino giunse a colpire lo stesso vicerè di Etiopia Graziani (rimasto ferito nel febbraio 1937 in un attentato nella capitale abissina).
Ma non bloccò l'opera di valorizzazione dei nuovi possedimenti. Nel breve giro di diciotto mesi venne costruita la strada che da Massaua portava sino a Addis Abeba. A tempo di record fu realizzata anche la ferrovia tra Massaua e Asmara che superava un dislivello di oltre 2000 metri. Dalle vie di comunicazione all'urbanistica, dall'irrigazione ai servizi sanitari, ingente fu il fiume di denaro speso dall'amministrazione italiana in Etiopia. Senza tuttavia un adeguato corrispettivo per la madre-patria in materie prime e prodotti agricoli.
Eliminata la schiavitù, venne peraltro imposto dal governo fascista un regime di rigida separazione fra italiani e indigeni. Solo per la Libia, dove dal 1934 s'era insediato come nuovo governatore Italo Balbo, si continuò a fare un'eccezione. Giacché si trattava - così recitavano le direttive ministeriali - di una «terra abitata da popolazioni anche di razza bianca e di cultura superiore, tenute a freno per giunta dalle rigorose norme morali della religione musulmana».
Per Mussolini non s'era andati in Abissinia, come affermava, per «imbastardirsi». Anche la canzone Faccetta nera, che aveva accompagnato l'avventura etiopica, venne censurata in quanto alludeva a relazioni amorose degli italiani con donne indigene. Si trattava, stando a una pubblicazione ufficiale, di un «accoppiamento con creature inferiori», assolutamente deleterio, non solo per le sue conseguenze fisiologiche, ma anche perché avrebbe generato una «promiscuità sociale in cui si annegherebbero - così si diceva - le nostre migliori qualità di stirpe dominatrice». Ma l'''apartheid'' non trovò mai piena attuazione, nonostante la propaganda segregazionista delle organizzazioni fasciste e le successive leggi razziali. Se le speranze originarie sulla ricchezza dell'Etiopia si rivelarono presto illusorie, altrettanto avvenne per le ambizioni di affermazione internazionale coltivate da Mussolini. Lo spostamento del baricentro della politica estera italiana verso il Mediterraneo e l'Africa comporterà, di fatto, l'abbandono dell'Austria, a vantaggio delle mire espansionistiche di Hitler, e la progressiva perdita delle aree d'influenza acquisite nei Balcani e in Europa centro-orientale.
In compenso la macchina bellica allestita per l'impresa etiopica aveva ridato ossigeno all'industria, tornata così a produrre profitti e investimenti. La littorina (l'automotrice per le ferrovie divenuta presto popolare), il rayon e le altre fibre tessili artificiali, una nuova gamma di fertilizzanti chimici, il minerale di Carbonia, la Topolino (la prima vetturetta utilitaria prodotta dalla Fiat), furono i risultati più tangibili di questa nuova stagione di euforia economica.
Ma l'indirizzo autarchico si rivelò presto una "camicia troppo stretta" per le imprese. E risultarono spesso inutili le ricerche di materiali sostitutivi di quelli d'impiego normale. Sebbene in quegli anni la produzione industriale fosse giunta a superare per la prima volta il reddito dell'agricoltura, il ruralismo, il primato della terra e dei valori patriarcali, rimase il cardine dell'ideologia sociale del regime. Mussolini continuò a credere, e a far credere ai suoi gerarchi, ma anche a tanti italiani, che le basi fondamentali della ricchezza e della potenza del paese fossero l'espansione demografica e la conquista di un "posto al sole", il numero delle braccia e il possesso di qualche lembo d'Africa.
Da un articolo di Valerio Castronovo pubblicato in “Storie d’Italia dall’unità al 2000”
L'Uomo Qualunque
Nel dicembre 1944, proprio mentre la Resistenza subisce al nord la prova più dura e la Monarchia gioca la carta del referendum (Umberto di Savoia, come Luogotenente, in un'intervista al «New York Times» del 7 novembre 1944, sosteneva che un apposito referendum, e non l'Assemblea costituente, dovesse decidere tra monarchia e repubblica), nasce il settimanale L'uomo Qualunque, destinato a diventare l'organo di un vasto movimento e poi nel febbraio 1946 di un vero partito.
Ne è promotore Guglielmo Giannini, un geniale commediografo napoletano, che dimostra acuta sensibilità per contenuti di opinione e sentimenti che agiscono nel profondo della società italiana, ai quali dà voce in maniera brillante e polemica.
Giannini si oppone ad ogni idea di Stato etico «che pretende di insegnare a pensare al cittadino», nega ogni spazio alla politica che non sia quello della «amministrazione». Alle classi sociali contrappone la «folla» degli «uomini qualunque», nega ogni valore ideale alla patria; definisce come unico e ardente desiderio dell'uomo qualunque quello «che nessuno gli rompa più le scatole», come scrive il 27 dicembre nel primo numero del settimanale. Giannini non è un nostalgico del fascismo. Critica aspramente la guerra nella quale il fascismo ha trascinato il paese e che fra l'altro è costata la vita a un suo figlio, ma di fatto raccoglie tutti i sentimenti di delusione e di risentimento che vanno formandosi nell'Italia liberata nei confronti dei primi e incerti passi dei partiti e del C.L.N. L'uomo Qualunque, che raccoglie consensi diffusi anche in ambienti cattolici e polemizza aspramente contro la Democrazia Cristiana, rappresenta l'espressione più significativa di quello che è stato definito «il vento del sud» in contrapposizione al «vento del nord», alimentato dalla esperienza della Resistenza.
Per capire con precisione cosa sia L'Uomo qualunque, basti tener presente che nelle elezioni politiche del 2 giugno 1946 (alle quali partecipa col nome di Fronte dell'Uomo qualunque ) esso avrà 30 deputati. Sui 20 deputati eletti nei singoli collegi (gli altri 10 rientrano nel Collegio nazionale) uno soltanto proviene dal nord (dal collegio elettorale di Milano - Pavia): gli altri 19 vengono eletti nei collegi di Roma, Benevento-Campobasso, Napoli-Caserta e Bari-Foggia (il massimo: 4 per ogni collegio), a Salerno, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna. Alle elezioni amministrative del 1946, L'Uomo qualunque avrà 30 candidati, eletti nell'Italia Settentrionale, 68 nell'Italia centrale (di cui ben 58 a Roma e nelle province limitrofe), 981 nell'Italia meridionale, 218 in Sicilia e in Sardegna.
Alle elezioni dell'aprile 1948 avviene il crollo di questo movimento, il quale non è altro che un segno di protesta; il suo significato, per così dire, è quello d'una reazione: trascorso un certo periodo, il suo compito sarà esaurito.