Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"
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10 febbraio: Giorno del ricordo

1 Février 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #episodi di storia del '900

le tragedie del confine orientale dell'Italia: fascismo, foibe, esodo
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le tragedie del confine orientale dell'Italia: fascismo, foibe, esodo

«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale "Giorno del ricordo" al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» (legge 30 marzo 2004 n. 92)

Articoli sull’argomento pubblicati nel sito:

Per comprendere il perché delle foibe o dell’esodo di molti italiani che risiedevano lungo i confini orientali dell’Italia:

http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/FASCISMO_FOIBE_ESODO_1918_1956_Le_tragedie_del_confine_orientale-240947.html

La fine per fame e malattie di donne, bambini e antifascisti. Nel campo fascista di Arbe morirono centinaia di sloveni e croati.

http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Il_campo_fascista_di_Arbe-4520561.html

Le dimensioni dell'Esodo degli italiani

http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Le_dimensioni_dellEsodo-8515033.html

Le motivazioni a spingere gli istriani ad abbandonare la loro terra

http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Le_motivazioni_degli_esuli-8515038.html

Tra il 1944 e la fine degli anni Cinquanta, alla frontiera orientale d'Italia più di 250.000 persone, in massima parte italiani, dovettero abbandonare le proprie sedi storiche di residenza, vale a dire le città di Zara e di Fiume, le isole del Quarnaro - Cherso e Lussino - e la penisola istriana, passate sotto il controllo jugoslavo.

http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/LEsodo_dei_giulianodalmati-8515028.html

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Il primo Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale: Bari gennaio 1944

29 Janvier 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Il I congresso dei Comitati di Liberazione nazionale si svolse a Bari il 28 e 29 gennaio 1944 nel teatro Piccinni.

L'organizzazione del congresso era stata un'impresa difficile; Bari venne scelta come seconda sede perché l'ACC (Allied Control Commission), su pressione del governo Badoglio, aveva negato Napoli. Badoglio inviò a Bari il generale Pietro Gazzera come commissario straordinario per l'ordine pubblico. Soltanto in extremis fu possibile mitigare le misure restrittive del governo e far sì che 120 delegati in rappresentanza di 21 province, 50 giornalisti, 15 addetti alla segreteria e 800 cittadini partecipassero alla seduta inaugurale del congresso, che ebbe un enorme rilievo politico.

congresso-Bari-CLN-1944.jpg

Radio Londra lo definì «il più importante avvenimento nella politica internazionale italiana dopo la caduta di Mussolini». L’inviato della Reuters, lo considerò «di grande rilievo perché il suo scopo principale sarebbe stato la questione istituzionale». Non minore risalto attribuirono all'evento il New York Times, che ne pubblicò la mozione finale, e il Times di Londra che ne sottolineò la richiesta secondo cui «Presupposto innegabile della ricostruzione morale e materiale italiana è l'abdicazione immediata del Re, responsabile delle sciagure del Paese». Mentre il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, riconoscendone le conclusioni, disse che «gli Stati Uniti sono ora (...) fermamente determinati a lasciare ogni decisione al popolo italiano».

Dal capoluogo pugliese si alzò la prima voce libera in un paese per due terzi occupato dalle truppe naziste. I lavori furono introdotti dal giudice Michele Cifarelli segretario del CLN di Bari, che dette lettura dei messaggi di Roosewelt, Stalin, Chiang Kai-shek, e da un importante discorso di Benedetto Croce, che schierato su posizioni liberali e moderate, propose la liquidazione del re, corresponsabile della guerra e dell'avvento di Mussolini.

La registrazione del discorso di Croce, messo in onda immediatamente da Radio Londra.

Benedetto Croce

Venne, inoltre, autorizzata dai responsabili del PWB (Ufficio della guerra psicologica) la trasmissione di un commento dell’assise barese di Alba De Cespedes che con lo pseudonimo di Clorinda era la voce di "Italia Combatte" (la trasmissione più prestigiosa di Radio Bari, poi di Radio Napoli e Radio Roma, alla liberazione della capitale), la rubrica che aveva la funzione di sostenere la resistenza al Nord.

radio-Bari.jpg

«Questo Congresso - sostenne Clorinda - è stato in parole semplici, la prima riunione ufficiale dei partiti d'opposizione. Andai lì ad assistere, seduta in un palco. Perché la riunione si svolse al teatro Piccinni ... Io ero mossa come quando si vede una persona che è stata lungamente malata, sul punto di morire addirittura, uscire finalmente a muovere i primi passi al sole. E avevo anche dentro di me la sensazione di fare cosa proibita, non potevo ancora abituarmi all'idea che in Italia, ormai, ognuno poteva fare e dire quel che voleva. Quando vidi Benedetto Croce - del quale avevo appreso attraverso i libri ad avere tanto rispetto ed amore - entrare sul palcoscenico come un ometto, con un paltoncino marrone e posare il cappello sul tavolino, semplicemente, senza nessuno attorno a lui che s'affannasse ad aiutarlo, e quando lo vidi leggere il suo discorso confidenzialmente, alzando un poco gli occhi sul pubblico… lo udii dire così semplicemente, la libertà, come avrebbe detto una parola qualunque, una di quelle parole che gli spiriti liberi sono abituati a pronunciare con dimestichezza, allora mi gettai ad applaudire furiosamente ...».

In realtà i partiti antifascisti non intendevano soltanto discutere, ma fare qualche cosa di più. Le idee più chiare le aveva, forse, il Partito d'Azione, ma erano idee irrealizzabili pur costituendo in quel momento ciò che si poteva desiderare di meglio in astratto e cioè: “l'abdicazione immediata del re e sua messa in stato d'accusa per le violazioni da lui commesse dello Statuto; la proclamazione del congresso in assemblea rappresentativa che segga in permanenza, integrata a suo tempo dei rappresentanti delle province non ancora liberate, fino alla Costituente; la elezione d'una Giunta esecutiva che fino alla liberazione di Roma rappresenti il popolo italiano nei rapporti con le Nazioni Unite”.

Intorno alla mozione approvata dai delegati del PdA si scatenò la battaglia congressuale, sollecitata anche dall'arrivo d'un messaggio del CLN centrale, portato attraverso le linee dal socialista Lizzadri e dal liberale Marconcini, in cui si ribadiva una posizione di netta intransigenza verso il governo Badoglio. L'abilità di Croce consistette appunto nell'indirizzare tutto lo stato di profondo disagio e d'insofferenza degli antifascisti del Sud verso quest'unico obiettivo e anche di ridurre il problema della lotta contro il fascismo all'eliminazione del suo «superstite». E su questa linea si mosse poi il congresso dalla relazione politica di Arangio Ruiz alla mozione finale votata all'unanimità dopo un aspro dibattito. In essa sono accolte le istanze formulate dal PdA, ma soltanto formalmente, svuotate d'ogni significato giacobino. «Presupposto della ricostruzione morale e materiale italiana è l'abdicazione immediata del re responsabile delle sciagure del paese»; perciò il Congresso, in rappresentanza del popolo italiano, «proclama l'urgenza dell'abdicazione, dichiara la necessità di pervenire alla composizione di un governo con i pieni poteri del momento d'eccezione e con la partecipazione di tutti i partiti rappresentati al Congresso» e delibera infine «la costituzione di una Giunta esecutiva permanente che predisponga le condizioni necessarie al raggiungimento degli scopi suddetti». Si è ben lontani dalle intenzioni del PdA di trasformare il congresso in «Convenzione»; ma si è anche lontani dal dare un'indicazione concreta di lavoro alla Giunta sulla quale si scarica tutto il peso e la responsabilità.

Un passo avanti nella situazione generale fu costituito dalla restituzione all'amministrazione italiana dell'«Italia continentale a sud dei confini settentrionali delle province di Salerno, Potenza e Bari» e della Sicilia, avvenuta da parte dell' AMGOT l'11 febbraio. E parve a un certo momento che la stessa Commissione alleata di controllo - attraverso la sua sezione politica - volesse finalmente risolvere la questione istituzionale, appoggiando il piano della Giunta di Bari (abdicazione di Vittorio Emanuele III, delega da parte del nuovo re Umberto II dei suoi poteri a una luogotenenza collegiale). L'accettazione di questo piano fu raccomandata dal governo americano ai capi di Stato maggiore combinati. Ma immediatamente s'inserì nella situazione Churchill che bloccò ogni ulteriore sviluppo con il suo discorso ai Comuni del 22 febbraio, in cui confermò esplicitamente il suo appoggio alla monarchia con una metafora di pungente sarcasmo.« Quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente, è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro egualmente comodo e pratico o comunque finché non si abbia a portata di mano uno strofinaccio».

 

atti-del-Congresso-CLN-Bari.jpg

 

ORDINE DEL GIORNO VOTATO DAL CONGRESSO DI BARI
(29 GENNAIO 1944)

Il Congresso, udita ed approvata la relazione Arangio-Ruiz sulla politica interna;
ritenuto che le condizioni attuali del Paese non consentono la immediata soluzione della questione istituzionale; che, però, presupposto innegabile della ricostruzione morale e materiale italiana è l'abdicazione immediata del Re, responsabile delle sciagure del Paese; ritenuto che questo Congresso, espressione vera e unica della volontà e delle forze della Nazione, ha il diritto ed il dovere, in rappresentanza del popolo italiano, di proclamare tale esigenza;

Dichiara

la necessità di pervenire alla composizione di un governo con i pieni poteri del momento di eccezione e con la partecipazione di tutti i partiti rappresentanti al Congresso, che abbia i compiti di intensificare al massimo lo sforzo bellico, di avviare a soluzione i più urgenti problemi della vita italiana, con l'appoggio delle masse popolari, al cui benessere intende lavorare, e di predisporre con garanzia di imparzialità e libertà la convocazione dell'Assemblea Costituente, da indirsi appena cessate le ostilità;

Delibera

la costituzione di una Giunta esecutiva permanente alla quale siano chiamati i rappresentanti designati dei partiti componenti i Comitati di Liberazione e che, in accordo col Comitato Centrale ed in contatto con le personalità politiche e riconosciute come alta espressione dell'antifascismo, predisponga le condizioni necessarie al raggiungimento degli scopi suddetti.

Per il Partito Liberale: Michele Di Pietro Per la Democrazia Cristiana: Angelo Venuti Perda Democrazia del Lavoro: Andrea Gallo Per il Partito d'Azione: Adolfo Omodeo Per il Partito Socialista: Luigi Sansone Per il Partito Comunista: Paolo Tedeschi

Sono stati designati dai rispettivi partiti, come membri nella G.E.P.: Francesco Cerbona, per il Partito della Democrazia del Lavoro; Vincenzo Arancio-Ruitz, per il Partito Liberale; Paolo Tedeschi, per il partito Comunista; Vincenzo Calace, per il Partito d'Azione; Angelo Raffaele Jervolino, per la Democrazia Cristiana; Oreste Longobardi, per il Partito Socialista. 

Bibliografia:

Gloria Chianese - Quando uscimmo dai rifugi. Il Mezzogiorno tra guerra e dopoguerra (1943-46)-  Ed. Carocci 2004

Roberto Battaglia - Storia della Resistenza italiana - Einaudi 1964

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Giorno della Memoria 2024

9 Janvier 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Giorno della Memoria

Sabato 20 Gennaio 2024 alle ore 16,30 si terrà, presso la sala al piano terra di Villa Magatti, Piazza Pertini 1, il concerto multimediale “LA SONATA DI AUSCHWITZ”.

Un incontro per non dimenticare la più grande tragedia del XX secolo attraverso l’insolito sguardo della musica.

Esecuzioni musicali, racconti, immagini e filmati riveleranno curiosi e inediti aspetti della politica culturale delle dittature nazi-fasciste e degli orrori dei campi di concentramento.

Il concerto è curato dal musicista, storico e ricercatore Maurizio Padovan.

Giorno della Memoria 2024

Presentazione concerto multimediale

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Dicembre 1944: il fronte si arresta

25 Novembre 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

La stagione era ancora propizia quando le vittoriose truppe della V e dell'VIII Armata mossero all'attacco della linea «Gotica». Il nuovo e poderoso ostacolo che sbarrava l'avanzata verso la valle del Po era forte almeno quanto la «Gustav» che per sei mesi aveva fermato gli Alleati davanti a Cassino.

Gemmano, un paesino alto sulla valle del fiume Conca, a pochi chilometri da Rimini, fu uno dei tanti caposaldi che gli attaccanti trovarono sulla loro strada. In questo caso gli attaccanti erano gli indiani del V Corpo britannico che nell'assalto si fidavano della loro arma tradizionale, il coltello, più che delle mitragliatrici e delle bombe a mano. Il 14 settembre, dopo combattimenti durissimi, essi conquistarono il paese all'arma bianca.

E ancora una volta gli Alleati dovevano provare la inadeguatezza dei loro grandi mezzi al terreno di battaglia.

Nel nostro paesaggio rotto e sconvolto certi mastodontici mezzi corazzati sembravano più un ingombro che altro. Eppure si andava avanti abbastanza speditamente. E i soldati avevano fiducia di arrivare nella pianura padana prima dell'inverno.

In pochi giorni di battaglia Gemmano fu completamente distrutta. La chiamarono la «piccola Cassino». Le città e i paesi dell'appennino tosco-emiliano, anche i più sperduti, dividevano la sorte di tanti altri luoghi dell'Italia Centrale e Meridionale che la guerra s'era lasciati indietro.

L'azione del V Corpo britannico su Gemmano faceva parte dell'offensiva generale contro la linea «Gotica », che lungo il litorale adriatico veniva condotta in forze dai polacchi e dai canadesi. A sinistra, il X Corpo attaccava sulle montagne incontrando accanita resistenza.

Contemporaneamente all'VIII Armata anche la V aveva iniziato l'offensiva concentrando i propri sforzi nel settore centrale, oltre Pistoia e lungo la direttrice Firenze-Bologna.

I tedeschi sfruttavano le difficoltà del terreno seminando di ostacoli la strada degli Alleati. Resistere o ritardare: in questa strategia, che durava ormai da due anni, erano diventati maestri.

Per il momento i tedeschi non avevano alternative.

Hitler aveva promesso nuove e più clamorose offensive con armi che avrebbero sbalordito il mondo. Ma quanti ci credevano? Le truppe che nell'autunno del '44 combattevano sugli Appennini, non avevano prospettive di vittoria.

L'attacco più violento della V Armata fu sferrato contro il paese di Giogo, sulla strada per Imola. In tre giorni di combattimenti la resistenza tedesca era infranta e davanti agli americani si apriva la testata delle valli. La «Gotica», su cui Kesselring e Hitler facevano tanto affidamento, non aveva retto al primo attacco. Tutto lasciava credere che al nuovo urto sarebbe crollata.

Anche sul fronte adriatico l'offensiva non dava tregua ai tedeschi. La strategia degli Alleati era mutata: non più un solo attacco massiccio, come a Cassino, ma una serie di attacchi, in settori diversi, per logorare la resistenza del nemico tenendolo sempre nell'incertezza.

San Marino era sulla strada dell'VIII Armata; per entrarvi, il 20 settembre, gli inglesi dovettero combattere. Kesselring aveva garantito ai sanmarinesi che avrebbe rispettato la loro neutralità. Ma nella notte fra il 2 e 3 settembre i tedeschi in ritirata ne avevano invaso il territorio. Di colpo la minuscola repubblica era stata sommersa dalla guerra: i suoi abitanti e i centomila sfollati che vi si erano rifugiati, vissero giornate di indescrivibile disagio. Poi finalmente, la liberazione. I profughi potevano ritornare alle proprie case, sperando di ritrovarle intatte: anche per loro la guerra era passata.

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La grande espansione partigiana dei mesi estivi, che aveva portato alla costituzione di numerose zone libere in tutta l'Italia settentrionale, rappresentava una grave minaccia per i tedeschi. Lo stesso Kesselring scrisse che la eliminazione di quel pericolo «era un obiettivo di capitale importanza ». Così, mentre giungevano rinforzi per la linea «Gotica», i nazifascisti poterono dedicarsi a una dura repressione contro le formazioni della Resistenza.

Parri fece il quadro della guerra partigiana nell'autunno 1944:

1945-Parri-Milano.jpg 

« La repressione nazista e fascista si è sviluppata, naturalmente, lungo i settori e i punti che essa riteneva più vulnerabili e più pericolosi. In Piemonte e lungo l'arco alpino con le comunicazioni con la Francia, diventate importanti dopo l'offensiva della Provenza, offensiva massiccia nelle valli del basso Cuneense per liberare i valichi alpini; poi si sviluppò fortemente nell'Appennino ligure e emiliano (anche quella fu la zona di aspri combattimenti) e poi, soprattutto, si intensificò nel Veneto; quindi forti offensive e feroci repressioni sugli altipiani di Asiago, del Grappa, del Cansiglio. Basta ricordare il "viale degli impiccati" di Bassano del Grappa. E poi nel Friuli contro la Carnia; tremende quelle del Friuli: paesi interi come Nimis, Attimis, Velis, bruciati. E questi facevano, come dire?, "pendant" al primo sviluppo delle repressioni naziste con le quali i nazisti avevano cercato di liberare dalla minaccia partigiana insurrezionale tutto l'Appennino, quello nel quale si andava assestando la loro linea "Gotica"». 

L'azione fu affidata alle colonne della Divisione «Goering» che iniziarono il tragico percorso sulle Apuane, a Vinca, passando per Valla, San Terenzio, Sant'Anna di Stazzema e in altri paesi, lasciando dietro di sé le impressionanti tracce della rappresaglia: centinaia di civili uccisi, case distrutte, chiese bruciate. Dopo un nuovo eccidio presso Fucecchio, in Toscana, le colonne naziste risalirono la valle del Mugello e conclusero il loro itinerario a Marzabotto.

Non v'è nulla che dica più di Marzabotto cos'è stata questa tragedia ed esprima meglio la protesta che da quei morti s'alza contro la barbarie della guerra.

i-martiri-di-Marzabotto-foto.jpg 

Mentre la «Goering» a Marzabotto completava la sua opera, a pochi chilometri di distanza tuonava il cannone. Il II Corpo americano, sfondate le difese della linea «Gotica », aveva raggiunto Castel del Rio, sulla nazionale per Imola e superato sulla Firenze-Bologna il passo della Futa e la Raticosa. Il 30 settembre larghe brecce erano ormai aperte nella «Gotica», specie nel settore centrale del fronte e lungo il litorale adriatico, dov'era proseguita l'offensiva dell'VIII Armata.

Sui monti intorno al passo della Futa gli Alleati potevano misurare da vicino tutta l'importanza del successo. Lungo il crinale appenninico i tedeschi avevano costruito alcune difese poderose. C'erano «Bunker» e postazioni di artiglieria in cemento armato; vi era un fosso anticarro lungo quasi cinque chilometri; vi erano reticolati, trincee e una grande quantità di campi minati. Da quelle posizioni formidabili i tedeschi controllavano tutte le vie d'accesso ai valichi. Adesso quel sistema era infranto. Minacciato d'aggiramento, il nemico si era dovuto ritirare con gravi perdite.

Ma l'avanzata a questo punto rallentò. I tedeschi continuavano a far affluire rinforzi e gli Alleati erano stanchi. Tutto andava piano, ora, mentre si cominciava a scendere verso la pianura.

Una serie di cartelli piantati a lato di una strada e diretti ai soldati, riassumeva umoristicamente le difficoltà dell'avanzata. Dicevano:

«Se ti fermi su questa strada, il traffico si ferma, i rifornimenti si fermano, la guerra si ferma, tu resti sotto le armi fino al 1950». «Va avanti» diceva l'ultimo cartello.

Invece su tutto il fronte l'offensiva stava morendo.

1943 44 carta geo avanzata alleati Italia

Finiva a poco a poco, per mancanza di fiato; moriva penosamente nel fango, sotto le piogge autunnali, quando era giunta ormai a un passo dal successo finale. Forse si sarebbe potuto fare un ultimo sforzo: oltre quelle colline una luce più chiara indicava già la pianura; Bologna non era lontana. Ma a fine ottobre Alexander sospese le operazioni.

Il generale Leese, comandante l'VIII Armata, giudicò quella decisione: 

«Posso assicurare che la decisione di sospendere l'offensiva fu presa nonostante il nostro parere assolutamente contrario. Era l'ultima cosa al mondo che avremmo voluto fare. Io ero sicurissimo, come lo erano del resto Alexander, Churchill e anche Clark, che avremmo potuto valicare l'Appennino e raggiungere la pianura veneta e di lì proseguire per l'Austria. E sono persuaso che sarebbe stato molto meglio per il mondo, oggi, se in Austria ci fossimo arrivati prima noi, e non i russi. Personalmente sono convinto che fu una decisione che ebbe conseguenze catastrofiche. Noi fummo tutti amaramente delusi, e siamo assolutamente sicuri che ce l'avremmo fatta».

Soltanto nel settore adriatico l'avanzata non era finita del tutto. Oltre il fiume Marecchia comincia la via Emilia. Lasciata Rimini alle spalle, i soldati dell'VIII Armata entrarono a Cesena il 20 ottobre iniziando un vasto movimento avvolgente allo scopo di raggiungere Bologna da Est. Presto anche da questa parte l'impeto degli inglesi si affievolì. I fiumi erano in piena, i ponti distrutti, il maltempo non cessava, e la marcia alleata si faceva sempre più lenta. Si dovette aspettare il 9 novembre per liberare Forlì. Sarebbero occorse nuove truppe, persino le munizioni scarseggiavano. Soprattutto mancava la volontà di concludere la campagna. Dopo Roma il fronte italiano aveva perso importanza e i tedeschi se ne avvantaggiavano.

Davanti a Faenza il nemico contrattaccò decisamente.

Ormai la situazione stava diventando quasi paradossale. Non volendo condurre un'offensiva a fondo, gli Alleati subivano a tratti l'iniziativa germanica trovandosi impegnati in battaglie logoranti. E purtroppo si combatteva in una regione fittamente abitata, fra i campi coltivati, da una cascina all'altra. Per alcuni giorni Faenza rimase per gli Alleati una fila di case lontane dietro gli alberi.

Sulla costa, intanto, Ravenna era liberata dai canadesi il 5 dicembre. Finalmente anche Faenza cadeva. I neozelandesi vi entrarono il 16 dicembre e fu l'ultima città occupata nel '44. Giungeva l'inverno: anche quella guerra fatta col contagocce si esaurì.

S'arrivò di nuovo a Natale. La neve cadde precocemente a seppellire le ultime speranze degli italiani, rimasti nella zona ancora occupata dai tedeschi. Gli Alleati si erano lasciati sfuggire la grande occasione di liberare entro l'anno tutta l'Italia e di spostare il fronte verso l'Austria e i Balcani.

I cannoni non sparavano più. Anche i piccoli scontri di pattuglia cessarono, tutto il fronte s'immobilizzò. Furono i tedeschi a rompere la tregua. All'improvviso, il giorno dopo Natale, sferrando un attacco in Garfagnana, giù per la valle del Serchio, in direzione di Lucca, giungendo fino a Barga. Tutto si risolse con un po' di paura. Una settimana dopo le linee erano ripristinate: l'azione dimostrativa dei tedeschi era fallita.

Dalla fine di settembre il fronte aveva compiuto un curioso movimento di rotazione. Sostanzialmente fermo nel settore tirrenico, sulla destra invece, per effetto della maggiore pressione dell'VIII Armata, si era spostato sempre più a nord, come una porta che poco a poco si apre girando sui cardini. A fine d'anno si era stabilizzato su una linea che andava dalla Garfagnana alla confluenza fra i fiumi Senio e Reno. Su questa linea le operazioni stagneranno fino ad aprile.

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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Settembre 1943: i militari italiani a Cefalonia

14 Octobre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

divisione-Acqui.jpg

A Cefalonia la divisione "Acqui" scelse la via della lotta senza speranza e, dopo otto giorni di combattimenti, cedette a preponderanti forze tedesche. La rappresaglia fu inaudita e precisa.

«Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento ... La loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza ...

Carlo Azeglio Ciampi, Cefalonia, 1° marzo 2001

La Divisione "Acqui" l'otto Settembre 1943 presidiava l'isola di Cefalonia con la maggior parte dei suoi effettivi ad eccezione del 18° Regg. Fanteria del III Gruppo del 33° Regg. Artiglieria e della 333ma batteria 20m/m dislocati nell'isola di Corfù.

L'organico della Div. Acqui all'8 settembre a Cefalonia era così composto: 17 Reggimento Fanteria - 317 Reggimento Fanteria - 33 Reggimento Artiglieria - 33 Compagnia Genio T.R.T - 31 Compagnia Genio Artieri - 3 Ospedali da Campo.

Cefalonia.jpg

Negli ultimi tempi erano stati aggregati come rinforzo due compagnie mitraglieri di Corpo d'Armata - una compagnia Genio Lavoratori. Dalla Acqui dipendeva pure il Comando Marina di Argostoli dotato di tre batterie per la difesa costiera, una flottiglia di MAS e una flottiglia di Dragamine, un reparto di Carabinieri e un reparto di Guardia Finanza.

Il totale delle truppe italiane si aggirava su undicimilacinquecento uomini fra sottoufficiali e truppa con 525 ufficiali.

Nel mese di Agosto 1943 a integrare il Presidio Italiano era sbarcato nell'isola un contingente di truppe tedesche costituite da un reggimento granatieri di fortezza con 9 pezzi di artiglieria. Tale contingente ammontava complessivamente a 1800 uomini fra cui 25 ufficiali, al Comando del Ten. Col. Hans Barge.

Nella notte dall'8 al 9 Settembre giunse al Comando Divisione il primo radiogramma dal Gen. Vecchiarelli Comandante Generale delle Truppe in territorio Greco che deformava nella lettera e nello spirito il proclama del maresciallo Badoglio condizionando l'atteggiamento della truppa alla linea di condotta che avrebbero assunto nei nostri confronti i tedeschi, non trascurando tuttavia che l'ex alleato veniva additato come nuovo nemico contro il quale bisognava tempestivamente premunirsi.

Il giorno 9 si è incominciato a notare un gran movimento di alcuni autocarri tedeschi dalla penisola di Lixuri dove erano dislocati verso Argostoli la capitale dell'isola.

Questo movimento aveva lo scopo di apportare rinforzi al proprio presidio di Argostoli.

Alla sera il Gen. Gandin Comandante la Divisione, invitava a rapporto il Ten. Col. Barge per comunicargli il testo del primo radiogramma del generale Vecchiarelli.

Il Barge assicurava che non aveva fino a quel momento ricevuto alcuna direttiva dal comando superiore tedesco, pertanto avrebbe continuato a collaborare con la Divisione nel senso di evitare che sorgessero incidenti tra italiani e tedeschi.

Il Gen. Gandin invitava a colazione il Ten. Col. Barge, il quale se ne esimeva, inviando come suo rappresentante il Ten. Fanth, il quale al brindisi si levava augurando all'Italia, tanto provata da una lunga guerra sfortunata, un'avvenire migliore e per chiarire che qualunque sviluppo avessero potuto assumere i rapporti italo tedeschi, sarebbero stati improntati a cavalleresca lealtà.

Nella notte perveniva il secondo radiogramma emesso dal Gen. Vecchiarelli con il seguente testo: "Seguito mio ordine 0225006 dell'otto corrente. Presidi costieri devono rimanere attuali posizioni fino al cambio con reparti tedeschi non oltre le ore 10 del giorno 10 Settembre. In aderenza clausole armistiziali truppe italiane non oppongano da questa ora resistenza ad eventuali azioni forza anglo americane. Reagiscano invece ad eventuali azioni forze ribelli. Truppe italiane rientreranno al più presto in Italia, una volta sostituite grandi unità si concentreranno in zone che mi riservo fissare unitamente modalità trasferimento. Siano portate al seguito armi individuali ufficiali e truppa con relativo munizionamento in misura adeguata a eventuali esigenze belliche contro ribelli. Siano lasciate a reparti tedeschi subentranti armi collettive tutte artiglierie con relativo munizionamento. Conseguiranno parimenti armi collettive tutti altri reparti delle forze armate italiane in Grecia, avrà inizio a richiesta comandi tedeschi a partire da ore 12 di oggi - firmato Generale Vecchiarelli".

Questo telegramma determinò lo sbandamento delle Divisioni in Grecia e destò nel comando della Acqui un doloroso stupore.

Esso pose il Gen. Gandin Comandante della Acqui dinanzi ai seguenti interrogativi: come cedere le armi ai tedeschi, cioè ai nemici degli alleati, quando l'ordine del Governo imponeva di cessare le ostilità contro gli alleati e di reagire ad atti di violenza tedesca? Bisogna ubbidire al Governo o disubbidire al Comandante dell'armata o viceversa?

Da questo tragico dilemma aveva inizio il dramma di Cefalonia.

Allo Stato Maggiore della Divisione a rapporto con il Gen. Gandin sorse un dubbio sul secondo radiogramma così in contrasto con il proclama del Governo che poteva essere apocrifo, perchè a conoscenza che sin dall'8 Settembre parecchi comandi in Grecia avevano deposto le armi ed i rispettivi cifrari erano caduti in mano tedesca.

Pertanto tale radiogramma veniva respinto al comando d'Armata come parzialmente indecifrabile. Sta di fatto che tale radiogramma paralizzò l'iniziale orientamento anti-tedesco del comando Divisione.

Il giorno 10 di mattina verso le ore 8 si presentava al comando Divisione il Ten. Col. Barge che a nome del comando superiore tedesco, chiedeva la cessione completa delle armi compresa quelle individuali definendo come termine le ore 10 dell'11 Settembre e come località di consegna la piazza principale di Argostoli alla presenza della popolazione.

Il Gen. comandante rispondeva chiedendo una dilazione dei termini, facendo presente di avere ricevuto dal Comando d'Armata un solo radiogramma e che era stato costretto a respingerlo perchè indecifrabile, chiedendo altresì di consegnare solamente le artiglierie e l'armamento collettivo scartando la piazza di Argostoli al fine di evitare al soldato italiano una così aperta umiliazione dinanzi alla popolazione greca.

Il Ten. Col. Barge si congedava promettendo di prospettare ogni cosa al proprio comando.

Nel frattempo il Gen. Gandin convocava a rapporto il Gen. Gherzi Comandante della Fanteria e tutti i comandanti dei Reggimenti nonchè il Comandante delle forze navali per esporre la situazione e sentire i rispettivi pareri.

In questo primo Consiglio di guerra prevale il parere di cedere le armi collettive, ma non le armi individuali. La notizia dell'ingiunzione di cedere le armi si era diffuso come un baleno nei reparti che manifestavano un acceso risentimento antitedesco.

I soldati della Acqui non intendevano sottostare alla grave umiliazione di fronte alla popolazione di Cefalonia.

Dello stesso parere erano la maggior parte dei giovani ufficiali. I tedeschi infrangendo lo "Status quo" conseguente alle trattative in corso, attuarono numerosi spostamenti di truppe facendo altresì affluire rinforzi dal continente.

Ma la Acqui era ben decisa a non lasciarsi sopraffare. A rafforzare questa situazione contribuiva la solidarietà del popolo greco che si univa spiritualmente al soldato italiano compresi gli ufficiali dell'esercito popolare greco di liberazione che operava sulle montagne, i quali si presentavano ai nostri comandi chiedendo armi ed offrendo generosamente la loro collaborazione.

Nella notte del 10 e 11 Settembre si rinnovavano i colloqui tra il Gen. Gandin e il Ten. Col. Barge venendo ad un accordo in linea di massima che prevedeva la consegna esclusiva delle armi collettive.

Nella mattinata dell'11 Settembre però il Ten. Col. Barge invitava repentinamente il Gen. Gandin a definire chiaramente il suo atteggiamento, sottoponendogli la scelta tra le seguenti proposte:

1 - con i tedeschi

2 - contro i tedeschi

3 - cedere tutte le armi anche quelle individuali.

Termine del tempo per la risposta: le ore 19 dello stesso giorno.

I tedeschi, era chiaro, non intendevano perdere tempo e verso le ore 17 puntavano un semovente su un nostro dragamine che isolato era costretto a ritirarsi dopo aver consegnato gli otturatori delle due mitragliatrici al comando artiglieria.

Il Generale Comandante a questo punto riuniva nuovamente a Consiglio tutti i comandanti di corpo, ma prima di trasmettere al comando tedesco la risposta definitiva all'ultimatum riuniva i sette Cappellani della divisione per sentire il loro definitivo parere.

I Cappellani ad eccezione di uno consigliavano la cessione delle armi.

La giornata del 12 Settembre si profilava molto burrascosa e densa di eventi. Fin dalle prime ore veniva notato un intenso via vai di aerei che paracadutavano rifornimenti ai tedeschi. Vennero pure segnalati sbarchi di uomini e mezzi nella baie rimaste isolate per la partenza dei mezzi navali che avevano ricevuto ordine di partire per nuove basi.

Il giorno 14 Settembre alle 2 antimeridiane, il Generale Comandante mediante fonogramma urgente pregava i comandanti di reparto di invitare le truppe ad esprimere il proprio parere sui seguenti 3 punti prima di prendere di fronte a Dio e agli uomini la suprema decisione:

1 - contro i tedeschi

2 - insieme ai tedeschi

3 - cessione delle armi.

All'alba ogni comandante raduna i suoi uomini e commenta con serenità obbiettiva la drammaticità della situazione. Alle prime ore del giorno 14 il Comando Divisione raccoglie l'esito del plebiscito. La risposta che prorompe unanime, concorde, è una sola: il primo punto ha riscosso il cento per cento delle adesioni. "Guerra al tedesco"

Contemporaneamente perviene dal Comando supremo italiano un cifrato a firma "Gen. Francesco Rossi" che ordina di resistere alle richieste tedesche, confermando l'ordine governativo dell'8 Settembre 1943.

A questo punto la posizione della Acqui è ormai chiara. L'ordine del Comando supremo elimina ogni dubbio.

Alle ore 12 il Comando Divisione consegna in Argostoli al comando tedesco la seguente risposta: per ordine del Comando supremo Italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la Divisione Acqui non cede le armi. Il Comando tedesco farà conoscere le sue decisioni entro le ore 9 del giorno 15 Settembre.

Ormai non c'è più tempo da perdere, il comando Divisione, il Comando Artiglieria e il Comando Genio si trasferiscono presso il Comando tattico in località Procopata.

Alle ore 10.45 le batterie contraeree aprivano il fuoco contro due idroplani da trasporto e una batteria del 33° Artiglieria affondava un pontone carico di tedeschi che tentava di accostarsi alla riva.

Ha così inizio la grande battaglia di Cefalonia che trova le forze contrapposte in rapporto di sparirà perchè nel frattempo i tedeschi, durante le trattative facevano affluire sull'isola 5 battaglioni di fanteria e 2 Gruppi di artiglieria da montagna.

La battaglia di Cefalonia si protrasse aspra e sanguinosa dalle ore 14 del 15 Settembre alle ore 16 del 22 Settembre sotto il fuoco interrotto (24 ore su 24 ore) di bombardamenti aerei di STUKAS in picchiata che mitragliavano a vista d'uomo.

I nostri fanti nonostante il martellamento aereo reagirono con indicibile accanimento non cedendo di un sol palmo.

Nel corso della battaglia gli Stukas oltre a bombardare e mitragliare, lanciarono manifestini invitanti alla resa e alla diserzione a nome del Generale di Corpo d'Armata Libert Lanz.

Il testo era il seguente: "Italiani di Cefalonia, camerati italiani, ufficiali e soldati perchè combattere contro i tedeschi? Voi siete stati traditi dai vostri capi, voi volete ritornare nel vostro paese per stare vicino alle vostre donne, ai vostri bambini, alle vostre famiglie? Ebbene la via più breve per raggiungere il vostro paese non è certo quella dei Campi di Concentramento inglesi.

Conoscete già le infami condizioni imposte al vostro paese con l'armistizio angloamericano. Dopo avervi spinto al tradimento contro i compagni d'armi germanici, ora vi si vuole avvilire con lavoro pesante e brutale nelle miniere d'Inghilterra e d'Australia che scarseggiano di mano d'opera. I vostri capi vi vogliono vendere agli inglesi, non credete a loro. Seguite l'esempio dei vostri camerati dislocati in Grecia, Rodi e nelle altre isole, i quali hanno tutti deposto le armi e già rientrano in Patria; come hanno depositato le armi le divisioni di Roma e delle altre località del vostro territorio nazionale. E voi invece proprio ora che l'orizzonte della Patria si delinea ai vostri occhi, volete proprio ora preferire morte e schiavitù inglese. Non costringete, no, non costringete gli Stukas germanici a seminare morte e distruzione. Deponete le armi! La via della Patria vi sarà aperta dai Camerati tedeschi!" "Camerati dell'Armata italiana, col tradimento di Badoglio, l'Italia fascista e la Germania nazionalsocialista sono state abbandonate nella loro lotta fatale. La consegna delle armi dell'armata di Badoglio in Grecia è terminata completamente, senza spargere sangue.

Soltanto la Divisione Acqui al comando del Gen. Gandin, partigiano di Badoglio dislocata sulle isole di Cefalonia e Corfù e isolata dagli altri territori, ha respinto l'offerta di una consegna pacifica delle armi e ha cominciato la lotta contro i camerati tedeschi e fascisti.

Questa lotta è assolutamente senza speranza. La Divisione Acqui in due parti è circondata dal mare senza alcun rifornimento e senza possibilità d'aiuto da parte dei nostri nemici. Noi camerati tedeschi non vogliamo questa lotta. Vi invitiamo perciò a deporre le armi e ad affidarvi ai presidi tedeschi delle isole.

Allora anche per voi come per gli altri camerati italiani è aperta la via verso la Patria, se però sarà continuata l'attuale resistenza irragionevole sarete schiacciati e annientati fra pochi giorni dalle forze preponderanti tedesche che stanno raccogliendosi. Chi verrà fatto prigioniero allora, non potrà più tornare in Patria, perciò camerati italiani appena leggerete questo manifesto passate subito ai tedeschi. È l'ultima possibilità di salvarsi.

Il Generale Tedesco di Corpo d'Armata.

É inutile dire che tali manifestini hanno avuto l'effetto contrario riaffermando in tutti i soldati la più ferma volontà di vincere e di scacciare i tedeschi dall'isola.

Il Gen. Gandin dopo aver letto tale manifesto, in presenza del suo Stato Maggiore si strappò dal petto la croce di ferro gettandola sul tavolo e disse: Se perdiamo ci fucileranno tutti. Fu la convinzione di tutti, ma nessuno vacillò, nessuno esitò, bisogna andare fino in fondo e così fu. Mentre la battaglia infuriava, continuarono a sbarcare ingenti forze tedesche con armi automatiche e mezzi corazzati; il Gen. Gandin fece inviare al Comando Supremo italiano un radiogramma chiedendo l'invio di qualche aereo per contrastare l'avanzata tedesca. A questo telegramma fu risposto in questi termini:

"Marina Argostoli per Comando Divisione: Impossibilitati invio aiuti richiesti, infliggere nemico gravi perdite possibili ogni vostro sacrificio sarà ricompensato. Firmato Gen. Ambrosio".

Nel frattempo la lotta degenerava, ogni reparto catturato veniva passato per le armi, perchè i tedeschi non volevano fare prigionieri.

La sera del 21 Settembre e l'alba del 22 l'intera Divisione veniva decimata e il Gen. Gandin convocò per l'ultima volta il Consiglio di Guerra il quale decise di chiedere la resa senza condizioni.

La riunione per la resa durava circa due ore, quindi gli ufficiali del comando divisione deponevano sul tavolo le loro pistole di ordinanza diventando da quel momento prigionieri di guerra.

Nonostante la bandiera bianca in segno di resa issata sul Comando tattico, non finiva la fucilazione dei reparti che deponevano le armi.

Alle ore 16 del 22 Settembre la battaglia di Cefalonia era finita, ma le fucilazioni continuavano per tutta la giornata del 23 Settembre durante i rastrellamenti effettuati dai tedeschi.

Dopo le esecuzioni sommarie in massa sul campo di battaglia nel corso delle quali avevano incontrato la morte 155 ufficiali e 4750 uomini di truppa, sembrava che l'impeto di bestiale ferocia sanguinaria fosse giunto al suo epilogo. Purtroppo tra il 23 e il 28 Settembre i tedeschi massacrarono altri 5000 uomini di truppa e 129 ufficiali, compreso il Gen. Gandin, i rimanenti 163 ufficiali accantonati presso la palazzina dell'ex comando Marina e all'ex caserma Mussolini vengono caricati su autocarrette e trasferite a punto San Teodoro nella famigerata casetta rossa e, dopo un sommario processo vengono avviati al supplizio a 4 per volta.

Compiuto l'orrendo crimine bisognava far scomparire le tracce; ad eccezione di alcune salme lasciate insepolte gettate in cisterne artificiali, la maggior parte vengono bruciate in una fossa comune e i resti buttati in mare.

Secondo i più recenti accertamenti (non facili) le perdite complessive della Divisione Acqui e della Marina ammontano a 390 ufficiali su 525 e 9500 uomini di truppa su 11500.

Pertanto gli scampati, cioè i superstiti, erano 135 ufficiali e 2000 circa uomini di truppa, la maggior parte deportati in Germania e poi in Russia da dove una parte non è più tornata.

Terminato l'eccidio di Cefalonia le truppe tedesche sbarcarono a Corfù. Il piccolo presidio resisteva per qualche giorno ma sopraffatto dall'ingente forza tedesca dovette cedere le armi, lasciando sul campo di battaglia parecchi uomini. Alla resa la rappresaglia tedesca fu meno crudele che a Cefalonia, ma si accanì sugli ufficiali che furono fucilati e i loro corpi dopo averli appesantiti con sassi furono gettati in mare. L'epopea della Divisione Acqui era giunta al suo epilogo.

(tratto dalla pubblicazione dell’Associazione Nazionale Reduci e Caduti della Divisione “Acqui”, a cura di Marco Pazzini)

monumento agli italiani della divisione Acqui trucidati a Cefalonia dai tedeschi

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Terrore a Cefalonia

14 Octobre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Si batterono da eroi contro lo strapotere del nemico. Duemila di loro erano morti in battaglia sotto i bombardamenti degli stuka e dell' artiglieria tedesca. Il 21 settembre di quel 1943 i superstiti alzarono bandiera bianca. Si erano arresi, ma furono massacrati. Caddero, così, a Cefalonia, dai cinque ai sei mila e cinquecento soldati italiani della divisione Acqui. I corpi, depredati, furono gettati in mare o in specie di foibe dell'isola o sommariamente interrati. Disse a Norimberga il generale Telford Taylor, pubblico accusatore: "Questa strage deliberata di militari italiani è una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato". Hubert Lanz, comandante del XXII corpo d'armata della Wehrmacht, fu condannato alla pena irrisoria di 11 anni, ma presto fu graziato. In Italia i 30 responsabili diretti del gigantesco assassinio non sono mai stati citati in giudizio.

Quella di Cefalonia è sicuramente la più drammatica e la più nota delle tragedie che coinvolsero i reparti italiani subito dopo l’8 settembre. Intere armate, in Grecia, nei Balcani, in Albania, furono lasciate in balia di se stesse. Chi si rifiutò di consegnare le armi all'ex alleato ne subì la reazione violenta e criminale. Ma tutto finì nell'Armadio della vergogna. Nascosto per non turbare il nuovo sistema di alleanze. Nascosto per cercare di cancellare le gravissime responsabilità dell'Alto comando italiano. Gli assassini non furono neanche disturbati con 'avvisi di garanzia'. Hanno dormito sonni di giusti. I superstiti della divisione Acqui furono, invece, processati. Erano stati accusati di ribellione per aver convinto il generale Antonio Gandin a non arrendersi. Vennero assolti, però.

Così scriveva, nell’aprile 2004, Franco Giustolisi nel suo libro “L’Armadio della vergogna” Ed. Nutrimenti.

Roma, 19 novembre 2013

Alfred Stork condannato all'ergastolo dal Tribunale militare di Roma.

Chi è Alfred Stork?

Caporale del battaglione Cacciatori di montagna, si propose volontariamente per far parte di uno dei due plotoni di esecuzione che passarono per le armi 129 ufficiali italiani - l'intero Stato maggiore della Divisione Acqui - sparando dall'alba al tramonto.

«Ci hanno detto che dovevamo uccidere degli italiani, considerati traditori»; si è giustificato quando lo hanno sentito. Che quegli ufficiali fossero prigionieri di guerra fu considerato un dettaglio minore. Stork, aveva vent'anni nel 1943. Oggi è un arzillo novantenne, che risiede in Germania. Ieri è stato condannato in primo grado all'ergastolo dal tribunale militare di Roma. «Anche se ci fu un ordine del Fuhrer, questo non significa che partecipare a un atto barbaro e criminale, contrario a tutte le convenzioni internazionali, si possa considerare legittimo» dice il procuratore militare di Roma, Marco De Paolis.

I familiari delle vittime hanno dovuto aspettare 70 anni per avere giustizia. Con la sentenza del tribunale militare, l'Eccidio di Cefalonia esce dai libri di storia e diventa una verità giudiziaria.

Cosa accadde a Cefalonia?

«Le forze armate italiane non esistono più», afferma un comunicato tedesco del 10 settembre 1943. In questo giorno, infatti, l'occupazione dell'Italia è un fatto compiuto e confermato dalle cifre delle spoliazioni militari che il generale Jodl traccia in apporto per Hitler: un milione e 255.660 fucili; 38.383 mitragliatrici; 9.986i pezzi di artiglieria; 15.500 automezzi; 67.600 fra muli e cavalli, e vestiario per 500.000 uomini (ma non sono cifre vere perché forse nell'euforia del Gran Quartiere generale del Führer, si propinano anche dati di questo tenore: «catturati 4.553 aerei e 970 mezzi «corazzati» quando in realtà, al momento della resa, l'Italia non possiede che 272 carri armati e poche centinaia di aeroplani operativi).

Ogni resistenza dell'esercito italiano è sparita, in quanto forza organizzata, ma - al di là del mare e dei confini continentali - rimangono intatte, anche se non utilizzate nel loro potenziale offensivo, notevoli forze. Il loro atteggiamento, in generale, è quello di una vera e propria rivolta contro i tedeschi - gli odiati alleati di ieri - ma anche contro gli ambigui ordini di Roma; una rivolta tuttavia di tipo nuovo, nella storia d'Italia, perché vi confluiscono sia lo spirito degli ufficiali «ribelli» gelosi del proprio «onore militare», sia l'«aspirazione alla libertà» che viene dal basso. È la svolta storica in cui si inserirà la Resistenza.

Il disfacimento dell'esercito all'estero dovuto soprattutto al fatto che, nelle ore dell'agonia, il comando supremo lo ha abbandonato, lo ha lasciato a sé, ha consentito che si sfasciassero le armate purché si salvasse il gruppo di potere che sta attorno al re e alla Corte e che finge di credere che la sua salvezza coincide con quella del Paese travolto dalla tragedia. Ma dove questo veleno dell'ambiguità non giunge, l'esercito, dato così facilmente per spacciato in patria, si batte in terra straniera con un accanimento, con una ostinazione che trova ben pochi riscontri nella storia militare di tutti i tempi: e se crolla, crolla a testa alta.

Nei Balcani e in Dalmazia, dove abbiamo 30 divisioni, in Grecia e nel Dodecaneso - la situazione è simile a quella dell’Italia metropolitana: da tempo i tedeschi hanno già occupato le posizioni migliori per disgregare e disorganizzare l'esercito italiano e hanno istillato a più livelli l'illusione che, con l'uscita dell'Italia dalla guerra, i nostri soldati potranno sottrarsi al carattere perentorio di una scelta definitiva - o da una parte o dall'altra - e tornare in patria al più presto. È appunto facendo leva su questa illusione che i tedeschi ottengono i primi successi, trovano un facile terreno di intesa con gli Alti Comandi disorientati e avviliti, ora che non debbono più «obbedire alle direttive del regime fascista» (come scrive un ufficiale del presidio di Lero alla famiglia) ma decidere autonomamente.

Cefalonia-ufficiale-e-soldati.JPGGià la sera dell'8 settembre cadono le isole dell'Egeo (Rodi, Coo, Simi, Lero, Calino, Stampalia, Scarpanto, Caso, Castelrosso, Samo, Icarnia, Furni, Sira) le cui guarnigioni sono agli ordini ammiraglio Inigo Campioni: i tedeschi della divisione Rhodos (generale Kleemann) occupano di sorpresa gli aeroporti di Rodi, Marizza e Gaddura e l’indomani - 9 settembre - fanno prigioniero il comando dell'isola. Tuttavia parecchi reparti italiani - specialmente il battaglione del 3090 fanteria comandato dal maggiore Anacleto Grasso - impegnano i nazisti in una serie di scontri e di combattimenti, facendo addirittura 200 prigionieri. Il giorno seguente, però, data la situazione disperata in cui vengono a trovarsi a causa dei ripetuti bombardamenti aerei, i reparti italiani debbono cedere le armi anche se l'ammiraglio Campioni si rifiuta di emanare l'ordine del «cessate il fuoco»: il 18 settembre verrà catturato e deportato in Germania; più tardi sarà fucilato dalla repubblica di Salò. A Cefalonia e a Corfù la resistenza italiana è aspra e accanita ad opera dei reparti della divisione di fanteria Acqui, (generale Antonio Gandin a Cefalonia; colonnello Luigi Lusignani a Corfù) ed elementi della Marina e della Guardia di Finanza. A Cefalonia, dopo varie trattative, visto che le forze tedesche continuano a ricevere rinforzi, viene decisa la resistenza armata che dura dal 13 al 24 settembre. Gli italiani combattono ad Argostoli, Telegraphos, Pbaraklata, Rizocuzolo, Phassa, Lixuri, Kimoniko e Divarata con la perdita di 75 ufficiali e di circa 2.000 soldati.

Cefalonia-paesaggio.JPGLa strage di Cefalonia si inizia sul campo di battaglia. Il 22 settembre sono massacrati quasi 4.500 ufficiali e soldati; poi, nei due giorni successivi, vengono condotti a gruppi, dinanzi ai plotoni di esecuzione, gli ufficiali superstiti e alla Casa Rossa di San Teodoro  cadono 400 di essi, fra cui il generale Gandin, futura medaglia d'oro, finché gli stessi tedeschi si stancano di fucilare: restano in vita soltanto 37 ufficiali mentre la truppa, convogliata in mare, è ulteriormente decimata per l'affondamento delle navi sulle zone minate. In totale muoiono a Cefalonia 8.400 italiani e le loro spoglie sono abbandonate insepolte nell'isola perché - dice il nazista maggiore Harald von Hirschfeld - «i ribelli italiani non meritano sepoltura». Solo la pietà dei greci radunerà i poveri resti in primitivi tumuli.

Bibliografia:

Franco Giustolisi, “L’Armadio della vergogna”, Ed. Nutrimenti 2004

Enzo Biagi, "La seconda guerra mondiale. Parlano i protagonisti", Rizzoli 1990

 

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La Resistenza dei militari italiani a Cefalonia

14 Octobre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

L’8 settembre 1943 la Divisione Acqui che, forte di 525 ufficiali e 11.500 soldati, presidiava le isole di Cefalonia e Corfù agli ordini del generale Antonio Gandin, si trovò di fronte alla consueta alternativa: o arrendersi e cedere le armi ai tedeschi o affrontare la resistenza armata, sapendo di non poter contare su alcun aiuto esterno.

Tra il 9 e l’11 settembre si svolsero estenuanti trattative tra Gandin e il tenente colonnello tedesco Barge, che intanto fece affluire sull’isola nuove truppe. L’11 settembre arrivò l’ultimatum tedesco, con l’intimazione a cedere le armi. All’alba del 13 settembre batterie italiane aprirono il fuoco su due grossi pontoni da sbarco carichi di tedeschi. Barge rispose con un ulteriore ultimatum, che conteneva la promessa del rimpatrio degli italiani una volta arresi. Gandin chiese allora ai suoi uomini di pronunciarsi su tre alternative: alleanza con i tedeschi, cessione delle armi, resistenza. Tramite un referendum i soldati scelsero all’unanimità di resistere.

Il 15 settembre cominciò la battaglia che si protrasse sino al 22 settembre, con drastici interventi degli aerei Stukas che mitragliarono e bombardano le truppe italiane. I nostri soldati si difesero con coraggio, ma non ci fu scampo: la città di Argostoli distrutta, 65 ufficiali e 1.250 i soldati caduti in combattimento.

L’Acqui si dovette arrendere, la vendetta tedesca fu spietata e senza ragionevole giustificazione. Il Comando superiore tedesco ribadì che "a Cefalonia, a causa del tradimento della guarnigione, non devono essere fatti prigionieri di nazionalità italiana, il generale Gandin e i suoi ufficiali responsabili devono essere immediatamente passati per le armi secondo gli ordini del Führer".

Il 24 settembre Gandin venne fucilato alla schiena; in una scuola 600 soldati italiani con i loro ufficiali furono falciati dal tiro delle mitragliatrici; 360 ufficiali furono uccisi a gruppetti nel cortile della casetta rossa. Alla fine saranno 5.000 i soldati massacrati, 446 gli ufficiali; 3.000 superstiti, caricati su tre piroscafi con destinazione i lager tedeschi, scomparirono in mare affondati dalle mine. In tutto 9.640 caduti, la Divisione Acqui annientata.

Molti dei superstiti dell’eccidio si rifugiarono nelle asperità dell’isola e continuarono la resistenza nel ricordo dei compagni trucidati e si costituirono nel raggruppamento Banditi della Acqui, che fino all’abbandono tedesco di Cefalonia si mantenne in contatto con i partigiani greci e con la missione inglese operando azioni di sabotaggio e fornendo preziose informazioni agli alleati.

 

Dal discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi alla commemorazione dei caduti italiani della divisione "Acqui" Cefalonia, 1° marzo 2001

«Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento ...

La loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza, di un'Italia libera dal fascismo.

Con un orgoglioso passo avanti faceste la vostra scelta, "unanime, concorde, plebiscitaria": "combattere, piuttosto di subire l'onta della cessione delle armi".

Un filo ideale, un uguale sentire, unirono ai militari di Cefalonia quelli di stanza in Corsica, nelle isole dell'Egeo, in Albania o in altri teatri di guerra. Agli stessi sentimenti si ispirarono le centinaia di migliaia di militari italiani che, nei campi di internamento, si rifiutarono di piegarsi e di collaborare, mentre le forze della Resistenza prendevano corpo sulle nostre montagne, nelle stesse città».

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monumento agli italiani della divisione Acqui trucidati a Cefalonia dai tedeschi

 

 

versi in dialetto friulano di un fante della Acqui, Olinto G. Perosa.

 

Il dì plui trist

 

Nus puartin

vers Argostoli

incolonaz

sote la curte cane

del "mascin"

un puar drapel

batut

e dezimat

Vin piardut

guere e speranze

e i nestris muarz

son lì

par tiere

di cà e di là de'strade

cui voi sbaraz

E il mar...lajù

cui tant ò vin sperat

nus vuarde

ndiferent

e mut!

 

Il giorno più triste

 

Noi partivamo

verso Argostoli

incolonnati

sotto le corte canne

del mitra

un povero drappello

battuto

e decimato

Abbiamo perduto

guerre e speranze

e i nostri morti

sono lì

per terra

di quà e di là della strada

con gli occhi sbarrati

E il mare...laggiù

in cui tanto avevamo sperato

ci guarda

indifferente

e muto!

 

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La Grande rafle du Vel d’Hiv

13 Octobre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #la persecuzione degli ebrei

Vento primaverile”, così era stata denominata la retata degli ebrei in Francia, non sarà che una tappa della “soluzione finale”.

Due SS, il Haupsturmführer Dannecker e Röthke, sono gli ufficiali tedeschi organizzatori responsabili del “Vento primaverile” (così era stata denominata la retata degli ebrei). Dirigevano la Sezione IV B4 della Gestapo a Parigi, definita IV J “della repressione antiebraica”. Avevano avuto l’onore di ricevere le consegne per l’operazione “Vento primaverile” direttamente dal generale delle SS Reinhardt Heydrich, che era venuto a Parigi il 15 maggio (1942), poco tempo prima della sua morte. Tredici giorni dopo, infatti, il 28 maggio, Reinhardt Heydrich fu ucciso a Praga da due paracadutisti cechi venuti da Londra per compiere la loro missione.

Heydrich.jpg

Dando questi ordini, Heydrich non faceva che portare a termine le decisioni assunte nel corso della conferenza chiamata di Wannsee, nel corso della quale, nel gennaio 1942, era stato deciso lo sterminio degli ebrei europei. Infatti, è durante questa conferenza svoltasi a Berlino al 56 e 58 di Grossen Wannsee-Strasse, nell’ufficio di Eichmann, che i nazisti elaborarono definitivamente la “soluzione finale”, cioè l’annientamento totale degli ebrei europei. L’elite delle SS erano in quel giorno riuniti a Wannsee-Strasse, sotto la presidenza di Heydrich, Eichmann e l’SS Müller.

Vento primaverile”, in Francia, non sarà che una tappa della “soluzione finale”.

Il 16 luglio 1942, all’alba, iniziò a Parigi una vasta operazione di polizia, denominata “Vento primaverile”. Voluta dalle autorità tedesche, mobilitò circa 9.000 uomini delle forze del governo di Vichy. Quel giorno e quello seguente, 12.884 ebrei furono arrestati, tra loro 4.051 bambini. Mentre i celibi e le coppie senza figli furono condotte nel campo di internamento di Drancy, le famiglie, circa 7.000 persone, vennero rinchiuse nel Velodrome d’Hiver. Lì vi rimasero più giorni fino al loro internamento a Pithiviers e a Beaune la Rolande (prima di essere deportati nei lager in Germania e in Polonia), in condizioni spaventose, quasi senz’acqua ne viveri.

«L’alzata di spalle di una guardia è rimasta più profondamente impressa nella mia memoria che non le urla delle vittime» Arthur Koestler

Il libro “La Grande rafle du Vel d’Hiv” è frutto di una lunga inchiesta che mette in evidenza la schiacciante responsabilità del governo di Vichy nella deportazione degli ebrei di Francia. Rimane ancora oggi il documento di riferimento sul crimine del “Giovedì nero” del luglio 1942.

Gli autori del libro sono Claude Lévy e Paul Tillard.

Nato nel 1925 a Enghein-les-Bains, Claude Lévy partecipa alla Resistenza prima in Combat poi nel FTP-MOI (35a Brigata). Arrestato nel dicembre 1943, imprigionato, consegnato ai tedeschi, viene deportato il 2 luglio 1944. Riesce a fuggire e raggiunge i partigiani.

Sua madre, suo padre e numerosi altri membri della sua famiglia, arrestati dalla Polizia e dalla polizia di Vichy, perché ebrei, furono deportati e sterminati a Auschwitz.

Paul Tillard, nato nel 1914 a Soyaux (Charente), entrò presto nella Resistenza. Venne arrestato dalla polizia di Vichy nell’agosto 1942. Consegnato alla Gestapo venne inviato come ostaggio nel forte di Romainville e poi deportato nell’aprile del 1943 nel lager di Mauthausen, in Austria. Liberato il 6 maggio 1945, pubblicò, al suo ritorno, la prima testimonianza francese sui campi di concentramento nazisti.

Il 27 luglio 1966, a cinquantuno anni, Paul Tillard morì in seguito alle conseguenze della deportazione. 

Bibliografia:

Claude Lévy e Paul Tillard - La grande rafle du Vel d’Hiv – Ed. Laffont 1992

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La conferenza di Wannsee

13 Octobre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #la persecuzione degli ebrei

È durante questa conferenza svoltasi a Berlino al 56 e 58 di Grossen Wannsee-Strasse, nell’ufficio di Eichmann, che i nazisti elaborarono definitivamente la “soluzione finale”, cioè l’annientamento totale degli ebrei europei.

 

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La conferenza di Wannsee si doveva tenere il 7 dicembre 1941, ma fu rinviata a causa degli importanti avvenimenti che si verificarono quel giorno: attacco giapponese a Pearl Harbor, e la conseguente entrata in guerra degli Stati Uniti.

Convocata su incarico di Eichmann, per iniziativa di Heydrich, che a sua volta era stato incaricato da Goering, infine si tenne il 20 gennaio 1942, in un grande salone-ufficio del palazzo al numero 56-58 di Wannsee-Strasse. C’era un grande camino dove bruciava della legna. Il verbale della riunione specificava che “la soluzione finale del problema ebreo in Europa dovrà essere applicata a 11 milioni di persone ... Al fine di attuare la soluzione finale del problema, gli ebrei dovranno essere trasferiti sotto buona scorta all’Est ed essere impiegati nel servizio del lavoro. Incolonnati, gli ebrei validi, uomini da una parte e donne dall’altra, saranno condotti in questi territori per costruire strade; è implicito che gran parte di loro si autoeliminerà naturalmente per il loro stato di deperimento fisico; I rimanenti che sopravvivranno e quelli che si considereranno come la parte più resistente, dovrà essere trattata di conseguenza».

Diversi documenti attribuiscono il significato esatto alla parola “trattamento” e indicano, senza alcuna ambiguità, che si intendeva semplicemente la morte.

«Quando gli altri partecipanti se ne andarono, rimasero soli Heydrich, Müller e Eichmann nell’ufficio, scherzando mollemente seduti in comode poltrone dinnanzi al camino. Heydrich era particolarmente contento ... Fumava ... Heydrich mi chiese in che modo si dove essere redigere il protocollo d’intesa; poi siamo rimasti noi tre seduti; mi ha offerto uno o due bicchieri di cognac, o tre ... Poi loro se ne sono andati e io mi sono seduto nel mio ufficio per stendere il protocollo» racconterà poi Eichmann.

Bibliografia:

Claude Lévy e Paul Tillard - La grande rafle du Vel d’Hiv – Ed. Laffont 1992

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La guerra totale applicata all’Italia - La strage di Meina

8 Octobre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

15 settembre 1943

Tre fatti esemplari segnano, alle origini, il rapporto fra i resistenti e l'occupante (nazista): la strage di Meina, l'incendio di Boves, la battaglia di San Martino. Ovverossia il genocidio e la guerra totale applicati all'Italia. Questi tre episodi di paura e di sangue servono a illustrare i modi e le ragioni della guerra totale, e l'odio dell'italiano per chi non è più, scrive Croce, «l'umano avversario / nelle umane guerre / ma l'atroce presente nemico / dell'umanità». Un nemico omogeneo in cui l'italiano del settembre (1943) non distingue fra soldato e poliziotto, fra tedesco e nazista, fra giovane e vecchio, fra ardito e riservista: «I territoriali», si legge in un diario, «non è che siano meno feroci dei loro compagni combattenti. Torturano per dare l'esempio, fucilano, impiccano». Un nemico odiato dopo tanti nemici combattuti senza ragione e senza odio. Per gli italiani umili il tedesco è il diavolo. Su una cappella valdostana si legge la dedica alla Madonna: «Pour nous avoir sauvé des Allemands».

La strage di Meina (15 settembre 1943) 

Meina è un villaggio residenziale sulla riva del lago Maggiore, luogo di rifugio, nel settembre del 1943, di famiglie israelite. Alcune hanno qui le loro ville; gli ebrei rimpatriati da Salonicco dopo l'occupazione tedesca abitano in albergo. Le famiglie Fernandez, Mosseri, Torres, Modiano ali hotel Meina dove è arrivata da Milano, la famiglia Pombas; in tutto, diciassette persone. Nei giorni dell'armistizio passano le punte motorizzate tedesche che vanno a chiudere i valichi con la Svizzera, ma il 15 settembre un reparto SS mette presidi nei centri rivieraschi e il Comando a Baveno. Sono SS reduci dal fronte russo, specializzate nella strage dell’ebreo; lassù il massacro è finito, qui si può continuare, anche se, al confronto si tratterà di briciole.

Un plotone viene diritto all'hotel, cattura gli ebrei. Chi li ha indirizzati? Le voci corrono nel piccolo paese sulla riva del lago. Si dice che siano stati i Petacci, i parenti di Claretta l'amante di Mussolini, per vendicare le ironie e gli insulti del periodo badogliano. C'è chi parla invece di un cliente novarese: avendogli l'albergatore rifiutato una stanza, lo avrebbe denunciato come ebreo che favorisce gli ebrei. A fine guerra si racconterà di misteriosi giustizieri in divisa inglese (gli israeliani della VIII armata britannica?) venuti da Milano a regolare i conti. Ma non c'è niente di certo, i fatti certi sono questi, che avvengono, dal 15 settembre, nell'albergo.

I diciassette ebrei dopo la cattura sono stati riuniti in un salone al terzo piano. Sentinelle davanti alla 'porta, proibizione di avvicinarsi, unica eccezione per una signora milanese «ariana» fidanzata di un Pombas. Alla notizia della retata c'è stato il fuggi fuggi degli ebrei dalla costa, ma qualcuno non ha potuto evitare la cattura. Trascorrono sette giorni: gli ebrei sempre chiusi nel salone del terzo piano gli «ariani» che riprendono la solita vita. Siamo in tempi, di grandi egoismi e le SS si mostrano cortesi con gli «altri». Il 22 giunge da Baveno un giovane ufficiale di nome Krüger, riunisce gli «altri» e dice: «Vi avviso che stanotte trasporteremo gli ebrei in un campo di lavoro. Prego scusare se ci sarà un po' di disturbo». E agli ebri tramite l'interprete, la signora Rosenberg: «stanotte partite per un campo di lavoro che è a duecento chilometri. Restano, per il momento nonno Fernandez e i suoi tre nipotini. Troveremo per loro un mezzo di trasporto più comodo».

Il viaggio notturno degli ebrei di Meina non è lungo duecento chilometri, termina appena fuori il paese, in riva al lago. I tedeschi li fanno scendere, ordinano agli uomini di togliersi la giacca (hanno una lunga esperienza, una tecnica precisa, evitano le fatiche inutili come quella di togliere le giacche ai cadaveri da affondare nel lago). Poi li uccidono a colpi di rivoltella alla nuca, gli legano dei pietroni al collo con funicelle di acciaio, li buttano in acqua. E stato un lavoro notturno affrettato: le correnti del lago slegano i pietroni, l'indomani i cadaveri affiorano, i pescatori si avvicinano. Una barca ne traina due a riva mentre passa in bicicletta da Arona la signorina Galliani, frequentatrice dell'hotel Meina: «Ma li conosco» dice «lui è un Fernandez, lei è la signora Maria Mosseri». Arrivano i carabinieri. «Via», dicono, «lasciate stare. I tedeschi non vogliono che ci occupiamo di questa faccenda».

Nella notte fra il 23 e il 24 vengono trucidati il nonno Fernandez e i nipotini. Si odono gli urli dei bimbi, le implorazioni del vecchio, gli spari. La macabra pesca continua. Se affiora un cadavere, le SS lo raggiungono in barca e lo sventrano con le baionette perché si riempia d'acqua. Poi trovano un metodo più sicuro: li trascinano a riva e li bruciano con i lanciafiamme.

Negli altri paesi l'eliminazione avviene giorno per giorno.

Un rapporto dei carabinieri del 30 settembre dà queste cifre di ebrei uccisi e gettati nel lago: Arona 4, Meina 12, Stresa 4, Baveno 14. Forse non è la cifra esatta, ma non è questo che conta. L'ordine di uccidere è arrivato a Baveno da Milano, dal capitano Saewecke.

La lezione di Meina.

La strage degli ebrei sul lago Maggiore dà agli italiani del settembre la lezione agghiacciante del genocidio. Lezione diretta, inequivocabile, che dovrebbe mettere fine alle mormorazioni, ai dubbi. Ma l'incredulità è tenace, l'italiano, come gli altri occupati, come il mondo, non vuole credere a un delitto cosi fuori di misura. Da noi le voci sulla persecuzione sono arrivate da alcuni anni; poi il sospetto del massacro, portato dai nostri soldati, reduci dal fronte russo o dai Balcani. Tutti quegli ebrei deportati; gli altri usati come schiavi; e dietro qualcosa di spaventoso, di inconfessabile.

“Un ebreo vestito di nero correva agitando un bastone; allon­tanava i bambini dalla tradotta, sapeva che i tedeschi sparavano senza pietà. Una ragazza passando lungo la nostra tradotta senza mai sostare, con voce calda, lontana, ripeteva in latino una pre­ghiera: chiedeva pane. Era un'ombra, sembrava uscita da un mondo di bestie” (da “La guerra dei poveri” di Nuto Revelli).

Il diarista italiano che vede e scrive in una stazione polacca, nell'estate del 1942, arriva a immaginare un mondo di bestie, non lo sterminio burocratizzato e scientifico delle camere a gas. I reduci come lui raccontano, ma nell'Italia del 1943 l'opinione pubblica non può pensare la «soluzione finale», cioè lo sterminio di un popolo intero, donne vecchi e bambini. Non ci pensano neppure gli ebrei italiani, anche se ospitano dei correligionari austriaci, cecoslovacchi e francesi sfuggiti al massacro. Nessuno ha visto con i suoi occhi, tutti pensano che «qui non succederà». Molti israeliti italiani non ci credono neppure dopo Meina, neppure nei primi mesi della repubblica fascista. Ce ne sono che si rivolgono al ministro fascista Buffarini Guidi per sapere se è proprio vero. La guida politica della comunità ebraica italiana è mediocre, ferma su posizioni di prudentissima rassegnazione.

Dopo Meina si dà la caccia all'ebreo in tutte le provincie italiane, negli stessi giorni si fa la retata degli israeliti francesi riparati nella valle Gesso, vicino a Cuneo, al seguito della IV armata. Sono circa 900, ne vengono catturati 493, solo 25 sopravviveranno alla deportazione. Caccia ai 55.000 ebrei fra locali e forestieri che si trovano in Italia. I tedeschi occupanti non hanno bisogno di una istruzione particolare: il generale SS, Karl Wolff ha partecipato alla strage in Polonia; il suo braccio destro generale Wilhelm Harster ha eliminato giudei in Olanda; a Trieste c'è Odilo Globocnik, colui che ha insegnato a Adolf Eichmann, il grande organizzatore dell'eccidio, come si possono usare le camere a gas.

(da “Storia dell’Italia partigiana” di Giorgio Bocca)
 

 

Rebecca Behar, Becky, sopravvissuta alla strage di Meina e degli ebrei dal Lago Maggiore del settembre-ottobre 1943, quando aveva poco più di tredici anni, ha dedicato gran parte della sua vita a portare testimonianza di quei tragici avvenimenti in ogni dove e soprattutto nelle scuole. Assieme al marito Paolo, ha incontrato migliaia di studenti, ha raccontato la sua storia ovunque, si è battuta per la verità contro ogni tentativo di strumentalizzazione e banalizzazione, contro ogni forma di razzismo, per salvare la memoria e la dignità di chi in quella orrenda strage scomparve nel nulla.

La sua voce era roca e dolcissima allo stesso tempo, preziosa e insostituibile.

Era cittadina onoraria di Trecate, di cui era cittadina onoraria.

Dal suo prezioso diario che ha lasciato:

Era la camera 410, ultimo piano. Noi eravamo sei: i miei genitori, mia sorella, i miei fratelli. Ci spinsero dentro e c’erano altri sedici ospiti dell’albergo, sprangarono la porta con una sentinella dietro. Cedemmo i materassi agli anziani. C’era chi piangeva, chi pregava, i grandi provavano a farci coraggio. Fuori si sentivano urla, ordini, un gran via vai di tedeschi.

Dopo due giorni una SS, nemmeno ventenne, mi prese da parte e mi chiese: come ti chiami? Becky risposi. E lui: tu sei ebrea, un giorno ti sposerai, farai dei figli ebrei e saranno tutti nemici della grande Germania”.

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