tragedie del confine orientale: l'Esodo dei giuliano-dalmati
Tra il 1944 e la fine degli anni Cinquanta, alla frontiera orientale d'Italia più di 250.000 persone, in massima parte italiani, dovettero abbandonare le proprie sedi storiche di residenza, vale a dire le città di Zara e di Fiume, le isole del Quarnaro - Cherso e Lussino - e la penisola istriana, passate sotto il controllo jugoslavo.
I giuliani dell'epoca chiamarono «Esodo», termine di evidente ascendenza biblica, tale massiccio spostamento, per sottolineare che un intero popolo, con le sue articolazioni sociali, le sue tradizioni e i suoi affetti, era stato cacciato dalla propria terra. Il termine si è poi consolidato, nella memoria e nella storiografia italiana, nella sua versione completa, l'Esodo istriano.
La maggioranza dei profughi si stabilì in Italia, e di questi alcune decine di migliaia si insediarono nel brandelli di Venezia Giulia rimasti sotto la sovranità italiana, vale a dire le residue porzioni delle province di Trieste e di Gorizia. Molti altri esuli invece non trovarono posto sul territorio nazionale, e presero la via dell'emigrazione, principalmente verso le Americhe, l'Australia e la Nuova Zelanda. Rispetto al complesso della popolazione italiana di allora - circa cinquanta milioni di abitanti - non si trattò evidentemente di un'ondata di grandi dimensioni, e questo se da un lato la rese quasi inavvertita fra le mille disgrazie del secondo dopoguerra, dall'altro facilitò l'inserimento dei profughi nella società italiana. Tuttavia, la dimensione assoluta del fenomeno può in questo caso risultare fuorviante al fine di intenderne il senso, perché ciò che realmente conta è che a scomparire fu pressoché l’intera componente nazionale italiana residente nei territori passati alla Jugoslavia" oltre ad alcune aliquote di popolazione croata e slovena, trascinata via dalla partenza in massa degli italiani.
Solo guardando il problema da questo punto di vista possiamo comprendere come le conseguenze dei mutamenti di frontiera avvenuti dopo la Seconda guerra mondiale abbiano costituito un momento di frattura nella storia dell'area alto-adriatica. A venir meno infatti è stata una presenza che risaliva all'epoca della romanizzazione e che non era stata intaccata dai precedenti cambi di sovranità vissuti dai territori unificati dalla storiografia italiana nella dizione di «Venezia Giulia»: vale a dire il passaggio della maggior parte dell'Istria dalla repubblica di Venezia all'impero austriaco alla fine del Settecento, e dell'intera regione al regno d'Italia dopo la Prima guerra mondiale. Nessuno di tali eventi ebbe sul popolamento effetti paragonabili a quelli dell'Esodo, cioè la cancellazione pressoché integrale di un gruppo nazionale - posto che la minoranza italiana rimasta in Jugoslavia, e poi nelle repubbliche indipendenti di Slovenia e Croazia appare oggi solo una reliquia dell'antica presenza - e la sua sostituzione con nuovi soggetti, largamente estranei al territorio. Alla popolazione autoctona slovena e croata risultò infatti impossibile colmare il vuoto lasciato dagli esuli, non solo sul piano demografico, data la scomparsa di circa la metà della popolazione complessiva, ma anche su quello sociale, dal momento che tutti i ceti più elevati avevano preso la via dell'esilio. Dietro di sé lasciarono una situazione catastrofica: cittadine ridotte ad abitati fantasma, uffici e botteghe vuote, gli orti mediterranei abbandonati, il paesaggio antropico regredito di secoli in pochi anni.
Per far fronte allo spopolamento l'unica via percorribile era quella dell'immigrazione massiccia, spontanea e organizzata, non solo dalla Slovenia e dalla Croazia, ma anche da aree più lontane della Jugoslavia. Tant’è che più di trent’anni dopo, al momento della dissoluzione della repubblica federativa creata da Tito, l'Istria - e in particolare alcuni centri come Pola - sarebbe risultata una delle regioni più «jugoslave» dell'intero Paese e quindi attraversata meno di altre da fenomeni di radicalizzazione etnica. La sostituzione fisica degli italiani si accompagnò quindi alla costruzione di una nuova società, povera di legami con il passato, dal momento che ogni rapporto con la precedente civiltà a prevalente impronta italiana veniva negato o rimosso. L’impegno delle nuove classi dirigenti croate e slovene, a Zara; come a Fiume o in Istria, si rivolse pertanto non solo alla costruzione del futuro secondo i canoni del socialismo jugoslavo, ma anche alla riscrittura di una storia da cui la presenza italiana doveva essere espunta o circoscritta a una mera parentesi «coloniale». Si è trattato di una classica operazione di «invenzione della tradizione», tutt’altro che infrequente nella contemporaneità, ma non per questo meno devastante.
Naturalmente, se il nostro punto di osservazione si scosta dal tumulto dei fatti, l'immagine della frattura epocale muta e si restringe, senza però scomparire. Dilatando per esempio di alcuni secoli la spanna cronologica, si nota facilmente come fin dal tardo Medioevo la storia istriana sia stata segnata da oscillazioni demografiche di grandi proporzioni: vale a dire, da crisi di spopolamento che quasi cancellarono la presenza umana nella penisola e da conseguenti flussi migratori in entrata, anche da aree assai lontane, che determinarono un consistente ricambio della popolazione. Così, in più occasioni a partire almeno dalla seconda metà del Trecento, guerre, carestie ed epidemie dischiusero larghi vuoti nella popolazione istriana. Il fondo venne probabilmente toccato dopo la peste del 1630: l’Istria veneta non contava allora più di 30.000 abitanti - un terzo rispetto alle stime dei primi del Trecento -, Capodistria scese a 1800 abitanti rispetto ai 5000 dell'inizio del secolo, e Parenzo, sede vescovile, appena a una trentina. Per far fronte alle crisi ripetute e gravissime il governo veneziano intraprese numerose iniziative di ripopolamento, tentando dapprima di insediare gruppi di coloni provenienti dal Friuli e dal Veneto e poi, dopo il fallimento di tali esperimenti, offrendo rifugio in Istria a popolazioni slave, albanesi e greche in fuga dai Balcani a causa della conquista ottomana. In questo senso, quindi, appare legittimo dire che l'Esodo si inserisce in una tendenza di lungo periodo della storia istriana, rispetto alla quale però costituisce anche una novità rilevante. I precedenti flussi migratori erano avvenuti infatti in un'epoca pre-nazionale e nessun significato politico può essere attribuito al mutare degli equilibri tra l'elemento slavo - in parte già esistente fin dall'epoca delle ultime invasioni barbariche - e quello romanico addirittura anteriore, che seppe comunque mantenere la sua presenza nei centri urbani e la sviluppò nuovamente nei secoli successivi. L’Esodo invece riguardò pressoché in toto una componente che si definiva su base nazionale e che proprio per questo (almeno come motivo principale) fu costretta ad abbandonare la propria terra, che venne a sua volta sottoposta a un processo di rinazionalizzazione alternativa.
Tutto questo accadde anche nei territori alto-adriatici ex austriaci. Come nel resto d'Europa, i decenni precedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale avevano visto lo svolgersi dei processi di nazionalizzazione di massa, che però avevano condotto alla formazione di società nazionali separate e antagoniste all'interno del medesimo Stato. Le diversità riguardavano l'idea stessa di nazione - volontarista per gli italiani, etnicista per gli slavi -, ma ciò nonostante i movimenti nazionali italiano, sloveno e croato concordavano su un punto cruciale, e cioè quello relativo al rapporto fra nazione e istituzioni, fra nazione e Stato. Italiani e slavi condividevano infatti la convinzione per cui un nucleo centrale della competizione politica stava nella conquista delle istituzioni, perché erano proprio queste a condizionare fortemente i processi di nazionalizzazione. Perciò, fino a quando resse l’impero asburgico, con il suo sistema di larghe autonomie, il conflitto nazionale fu essenzialmente lotta per il potere locale, poi, con il crollo della duplice monarchia, divenne lotta per l'inserimento in uno Stato nazionale esclusivista, disposto a gettare tutto il peso delle sue istituzioni in favore della propria «scheggia» nazionale redenta, schiacciando nel contempo gli «avversari storici». Questo riuscì agli italiani dopo la Prima guerra mondiale, e a sloveni e croati dopo la Seconda.
Nell'area giuliana dunque, la fine della Grande Guerra segnò l’inizio di un dramma nel senso profondo del termine, cioè di una crisi senza alcuna possibilità di soluzione. Infatti, nel momento in cui ciascuno dei gruppi nazionali della regione ritenne che la salvaguardia della propria identità fosse possibile soltanto all'interno dello Stato nazionale di riferimento, il destino dell'intera area era segnato: la crisi avrebbe continuato ad avvitarsi fino a quando non si fosse realizzata la coincidenza dei confini dello Stato con quelli della nazione. Ciò avvenne solo nella seconda metà del secolo e la logica della guerra fredda stabilizzò poi il nuovo equilibrio, rendendolo permanente. Ma giungere a tale risultato fu possibile solo passando attraverso la tragedia: quella di un'altra guerra mondiale, ancora peggiore della precedente, e quella dell'Esodo.
Bibliografia:
Raoul Pupo – Il lungo Esodo – BUR Storia 2006