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25 APRILE 2020
Il capo dello Stato: "I valori della Resistenza sono la nostra riserva etica". "La Liberazione è la nostra forza, tutti insieme oggi come allora possiamo farcela"
Il Presidente della Repubblica, SERGIO MATTARELLA,
da solo con la mascherina all'Altare della Patria (video)
MESSAGGIO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
«Nella primavera del 1945 l’Europa vide la sconfitta del nazifascismo e dei suoi seguaci.
L’idea di potenza, di superiorità di razza, di sopraffazione di un popolo contro l’altro, all’origine della seconda guerra mondiale, lasciò il posto a quella di cooperazione nella libertà e nella pace e, in coerenza con quella scelta, pochi anni dopo è nata la Comunità Europea.
Oggi celebriamo il settantacinquesimo anniversario della Liberazione, data fondatrice della nostra esperienza democratica di cui la Repubblica è presidio con la sua Costituzione.
La pandemia del virus che ha colpito i popoli del mondo ci costringe a celebrare questa giornata nelle nostre case.
Ai familiari di ciascuna delle vittime vanno i sentimenti di partecipazione al lutto da parte della nostra comunità nazionale, così come va espressa riconoscenza a tutti coloro che si trovano in prima linea per combattere il virus e a quanti permettono il funzionamento di filiere produttive e di servizi essenziali.
Manifestano uno spirito che onora la Repubblica e rafforza la solidarietà della nostra convivenza, nel segno della continuità dei valori che hanno reso straordinario il nostro Paese.
In questo giorno richiamiamo con determinazione questi valori. Fare memoria della Resistenza, della lotta di Liberazione, di quelle pagine decisive della nostra storia, dei coraggiosi che vi ebbero parte, resistendo all’oppressione, rischiando per la libertà di tutti, significa ribadire i valori di libertà, giustizia e coesione sociale, che ne furono alla base, sentendoci uniti intorno al Tricolore.
Nasceva allora una nuova Italia e il nostro popolo, a partire da una condizione di grande sofferenza, unito intorno a valori morali e civili di portata universale, ha saputo costruire il proprio futuro.
Con tenacia, con spirito di sacrificio e senso di appartenenza alla comunità nazionale, l’Italia ha superato ostacoli che sembravano insormontabili.
Le energie positive che seppero sprigionarsi in quel momento portarono alla rinascita. Il popolo italiano riprese in mano il proprio destino. La ricostruzione cambiò il volto del nostro Paese e lo rese moderno, più giusto, conquistando rispetto e considerazione nel contesto internazionale, dotandosi di antidoti contro il rigenerarsi di quei germi di odio e follia che avevano nutrito la scellerata avventura nazifascista.
Nella nostra democrazia la dialettica e il contrasto delle opinioni non hanno mai, nei decenni, incrinato l’esigenza di unità del popolo italiano, divenuta essa stessa prerogativa della nostra identità. E dunque avvertiamo la consapevolezza di un comune destino come una riserva etica, di straordinario valore civile e istituzionale. L’abbiamo vista manifestarsi, nel sentirsi responsabili verso la propria comunità, ogni volta che eventi dolorosi hanno messo alla prova la capacità e la volontà di ripresa dei nostri territori.
Cari concittadini, la nostra peculiarità nel saper superare le avversità deve accompagnarci anche oggi, nella dura prova di una malattia che ha spezzato tante vite. Per dedicarci al recupero di una piena sicurezza per la salute e a una azione di rilancio e di rinnovata capacità di progettazione economica e sociale. A questa impresa siamo chiamati tutti, istituzioni e cittadini, forze politiche, forze sociali ed economiche, professionisti, intellettuali, operatori di ogni settore.
Insieme possiamo farcela e lo stiamo dimostrando.
Viva l’Italia! Viva la Liberazione! Viva la Repubblica!»
La Presidente nazionale dell'ANPI, CARLA NESPOLO: l'attualità del 25 aprile, la forza della Liberazione, l'esempio di lotta e speranza dei combattenti per la libertà.
L’intervento di LORIS MACONI, Presidente dell'ANPI di Monza e Brianza
Il contributo di RENATO PELLIZZONI, dell’ANPI Sezione di Lissone, per la Festa della Liberazione dal nazifascismo
Ricordo del partigiano lissonese ARTURO AROSIO (video)
"Arturo Arosio: io muoio contento di aver fatto il mio dovere di vero soldato…"
ALCUNE IMMAGINI DEL 25 APRILE A LISSONE
foto di Gianni Radaelli
i 97 anni di Egeo Mantovani
Il 12 luglio Egeo Mantovani, Presidente onorario dell’ANPI provinciale di Monza-Brianza e membro del Comitato Onorario Nazionale della nostra associazione, compie 97 anni.
Ha scritto Loris Maconi, presidente dell’ANPI provinciale di Monza-Brianza
“L’ANPI provinciale intende festeggiare questa felice ricorrenza.
Pensiamo che rappresenti il giusto riconoscimento per chi, come lui, ha partecipato attivamente alla lotta di liberazione e allo sviluppo del movimento democratico, grazie alla partecipazione alle lotte dei lavoratori negli anni difficili del dopoguerra.
L’impegno di Egeo, come tutti sappiamo, continua in modo costante anche ora. Infatti non solo è la figura più rappresentativa dell’ANPI provinciale, ma anche colui che, con il suo incessante lavoro, assicura alla nostra associazione un ruolo importante sul territorio.”
Martedi’ 12 luglio 2018 alle ore 18 presso il circolo Cattaneo tutti gli iscritti all’ANPI festeggeranno i bellissimi 97 anni di Egeo Mantovani.
Chi è Egeo Mantovani
Figlio di braccianti agricoli, trasferitisi a Carpi e poi nell'Agro Pontino, a undici anni inizia a lavorare come bracciante e meccanico. Mobilitato durante la Seconda guerra mondiale, Mantovani fa parte della divisione Ariete, di stanza nell'Africa settentrionale, e partecipa anche alla battaglia di El Alamein. L'8 Settembre 1943 si trova a Bologna; la sua caserma è occupata dai nazisti, ma lui riesce a scappare. Si rifugia prima da una zia (che con altre donne aiutava i soldati sbandati, fornendo loro abiti e calzature borghesi), ma presto entra nelle formazioni partigiane che si vanno organizzando sulle montagne tosco-emiliane. Partecipa così a numerose azioni contro i nazifascisti e ha modo di salvare molti soldati inglesi. Mantovani, che è stato fra i protagonisti della liberazione della sua città, ha ricevuto dal comune di Carpi un riconoscimento ufficiale del contributo dato alla Resistenza. Entrato nel 1946 alla "Magneti Marelli", dal 1954 al 1970 è stato membro della commissione interna. rendendosi protagonista di numerose conquiste sindacali. In quegli stessi anni ha ricoperto numerosi incarichi, tra cui quello di presidente della Cooperativa "Carlo Cattaneo" di Monza, membro del direttivo provinciale della Fiom, segretario del Coordinamento nazionale della Magneti-Marelli. Da diversi anni è l'anima e il punto di riferimento dell'ANPI di Monza e della Brianza. Nel 2008 è stato eletto Presidente onorario della nuova ANPI provinciale di Monza-Brianza. Instancabile nella sua quotidiana attività di coordinatore e divulgatore dei principi dell'antifascismo, Egeo Mantovani dice sempre: "C'è molto da lavorare: dobbiamo tirarci su le maniche".
Il suo racconto:
«L’8 settembre 1943 mi trovavo a Bologna presso la Caserma “Marconi” del VI Reggimento del Genio, ero sergente. Quel giorno, mentre ero in libera uscita, passai davanti a un bar situato nei pressi della stazione centrale di Bologna e distante poche centinaia di metri dalla Caserma; dall’interno sentii delle grida, mi fermai e appresi, attraverso il bollettino radio, che era stata accettata la domanda di armistizio da parte delle forze anglo-americane. Capendo subito l’importanza di quel comunicato, feci dietro front e rientrai in Caserma dove vi era stato il cambio della guardia e al Caporal Maggiore che la comandava domandai se fosse arrivato qualche Ufficiale dato il momento così delicato. Attesi qualche ora e nessuno si fece vivo: debbo anche dire che gli Ufficiali e Marescialli dormivano fuori dalla Caserma o addirittura con la famiglia. Verso le ore 19,00 decisi di formare una ronda, composta da due soldati e me, per andare a vedere che cosa succedeva in città. Nel centro di Bologna percorremmo strade e portici e notammo che tutto era calmo, solo in alcune osterie si festeggiava l’evento: «Finalmente la guerra è finita!» gridavano. Mi ricordo che incontrammo un tedesco un po’ anzianotto e un uomo che era sulla soglia di casa sua ci sussurrò: «Prendetelo!», ma io dissi: «Noi non abbiamo nessun ordine!». Forse quell’uomo aveva capito la gravità di quel momento.
Alle ore 23,00 ritornammo in Caserma e al Caporal Maggiore che comandava il picchetto di guardia dissi: «Stai attento, chiudi bene i cancelli perché non si sa mai che cosa può succedere». Io e i due soldati di ronda andammo a dormire: loro in camerata ed io nelle camerette dei sottufficiali con i quali mi fermai una mezz’ora a parlare e verso mezzanotte ci coricammo in branda. In piena notte verso le ore due sentii una voce stridula che diceva: «VECH! VECH!» e mi vidi puntata una pila in faccia. In quel momento mi si agghiacciò il sangue, mi alzai in fretta e invece di indossare la mia divisa infilai una tuta da meccanico.
In fretta e furia, con un fucile puntatomi addosso uscii dalla cameretta e andai nel cortile a raggiungere gli altri sottufficiali che erano già stati presi. Dalle camerate fecero scendere in cortile tutti i soldati e graduati. Nel cortile il cerchio degli ormai prigionieri si stringeva sempre più e così per loro fu facile disarmarci. lo nella mia testa pensavo: «Stai a vedere che dopo quasi due anni di guerra contro gli inglesi in Africa settentrionale con la Divisione Ariete, avanti e indietro in quel maledetto deserto, fino ad El Alamein da cui sono riuscito a scamparla, vengo fatto prigioniero proprio da coloro che combattevano fianco a fianco con me».
Conoscendo bene la Caserma e sapendo che da un lato di essa scorreva il fiume Lame, mi acquattai dietro il corpo di guardia e strisciando arrivai alla scarpata. Dopo aver percorso ancora circa venti metri mi portai sotto un ponte dove sapevo esserci solitamente due sentinelle a guardia dell’entrata della Caserma. Al mio arrivo le sentinelle chiesero: «Chi va là?». Risposi che ero il Sergente Mantovani e avvicinandomi dissi loro che cosa stava succedendo e che i tedeschi avevano occupato la caserma e fatto tutti prigionieri senza sprecare un colpo. Le sentinelle mi chiesero che cosa potevano fare e io consigliai loro di gettare il fucile, di scappare e di nascondersi da qualche parte. Mi ascoltarono e così ci separammo.
La prima cosa che mi venne in mente era quella di andare da mia zia Maria che abitava a Porta S. Vitale e così di corsa alle tre di notte, passando di portico in portico, di strada in strada, raggiunsi la casa della zia e questo fu il mio primo rifugio. Mia zia, aiutata anche da amiche e conoscenti, mi diede degli abiti borghesi e un paio di scarpe. In seguito seppi che alcuni soldati pur essendo in abiti borghesi erano stati arrestati perché calzavano scarponi da militare. In città regnava una parvenza di calma: solo qualche automezzo blindato, perché la maggior parte della forza tedesca era impegnata a trasferire i prigionieri delle caserme di Bologna e dintorni all’interno del campo sportivo cittadino.
I tedeschi trasferirono questi prigionieri in Germania nei campi di concentramento, trasportandoli su convogli ferroviari di tipo carro bestiame. Seppi poi che ne deportarono oltre 600.000.
Io rimasi a Bologna, ma circa una settimana dopo venni a conoscenza che vi era in atto da parte dei tedeschi una caccia spietata nei confronti di coloro che erano riusciti a non farsi prendere. Per vedere che cosa si poteva fare, incontrai di nascosto alcuni ufficiali e sottufficiali e venni a sapere da loro che alcuni commilitoni altoatesini della mia caserma avevano subito aderito alle formazioni tedesche.
Di nascosto mi trovai altre volte con gli altri ufficiali nel centro di Bologna, ma poi per paura di essere individuati e spiati scegliemmo di andare ognuno per la propria strada. Verso il 20 settembre decisi di darmi alla macchia e così la mia ragazza mi fece conoscere l’ing. Carlini, suo datore di lavoro, persona antifascista di origine marchigiana il quale mi fece arrivare sulle montagne tosco-emiliane della provincia di Bologna… Ma da qui in poi, inizia un’altra storia».
Dall’ANPI di Lissone
Caro Egeo,
in occasione del tuo compleanno, l’ANPI di Lissone desidera ringraziarti per il tuo costante impegno per la nostra associazione.
La tua assidua presenza costituisce per tutti noi un utile punto di riferimento.
I tuoi consigli, i tuoi suggerimenti nelle varie occasioni sono sempre preziosi.
La tua scelta di vita, prima da partigiano poi nella vita civile, è un esempio per i giovani con i quali cerchi di mantenere frequenti contatti nelle scuole.
Il tuo modo di dire "C'è molto da lavorare: dobbiamo tirarci su le maniche" è uno sprone ad agire: la vitalità della nostra associazione, l’incremento del numero degli iscritti e delle sezioni sul nostro territorio brianzolo sono anche merito del tuo impegno.
Per questo te ne siamo grati e ti auguriamo ancora ogni bene e
... lunga vita ai partigiani!
Il direttivo dell'ANPI di Lissone
Le donne e le conquiste del dopoguerra
Dopo il 1946.
La Costituzione repubblicana aveva stabilito l’uguaglianza formale fra i sessi, ma la conquista dei diritti civili si intrecciava da parte delle donne con la percezione, che divenne via via più nitida negli anni Sessanta e Settanta, di aver raggiunto diritti non completi, di avere di fronte consuetudini sociali e culturali che ancora non riconoscevano loro una reale parità.
Dalla fine degli anni Sessanta il cambiamento dell’idea stessa di politica diffuso dai movimenti giovanili e studenteschi iniziò a investire anche la sfera del privato, modificando le forme di partecipazione alla vita pubblica. Per settori consistenti della popolazione femminile, soprattutto nelle grandi città, l’adesione alla mobilitazione del '68 significò in molti casi una forma di iniziazione alla politica. Il bisogno di impegnarsi attivamente fu anche un modo per dar voce a istanze di emancipazione e di liberazione che fino a quel momento erano state scarsamente recepite a livello istituzionale.
Gli anni Settanta furono il periodo in assoluto più importante per il movimento femminista italiano, che dovette fronteggiare sia la crisi del Paese, sia una difficile modernizzazione. Questi anni, grazie anche e, forse, soprattutto, alle battaglie condotte dalle donne, segnarono importanti vittorie civili, sociali e culturali. In Italia, dal dopoguerra ad oggi, la condizione sociale e giuridica delle donne si è infatti lentamente ma radicalmente modificata. Ecco alcune tappe fondamentali di tale cammino:
1948
Entra in vigore la Costituzione. Gli articoli 3, 29, 31,37,48 e 51 sanciscono la parità tra uomini e donne.
Angela Maria Cingolani Guidi è la prima donna sottosegretario (Industria e commercio con delega all'artigianato).
1950
Varata la legge 26 agosto 1950, n. 860, «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri».
1956
Le donne possono accedere alle giurie popolari col limite massimo di tre su sei (la norma rimarrà in vigore fino al 1978) e ai tribunali minorili.
Le funzioni riconosciute alle donne sono ancora quelle legate alla figura materna. Il loro intervento viene giudicato opportuno in quei casi in cui i problemi vadano risolti, «più che con l'applicazione di fredde formule giuridiche con il sentimento e la conoscenza del fanciullo che è proprio della donna».
1958
La legge Merlin chiude definitivamente le case di tolleranza: legge 20 febbraio 1958, n. 75, «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui».
1959
Viene istituito il Corpo di polizia femminile.
1963
Il matrimonio non è più ammesso come causa di licenziamento: legge 9 gennaio 1963, n. 7, «Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e modifiche della legge 26 agosto 1950, n. 860».
Marisa Cinciari Rodano è eletta vicepresidente della Camera. Le donne sono ammesse alla magistratura: legge 9 febbraio 1963, n. 66, «Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni».
Un ulteriore passo avanti nell'effettiva attuazione dell'art.51 della Costituzione: le donne possono accedere a tutti i pubblici uffici senza distinzione di carriere né limitazioni di grado.
1968
L'adulterio femminile non è più considerato reato.
L'art. 559 del Codice penale recitava: «La moglie adultera è punita con la reclusione fino ad un anno. Con la stessa pena è punito il correo». Per il marito non esisteva nulla del genere: la disparità di trattamento non rispettava le norme fondamentali della Costituzione. Con due sentenze del 19 dicembre 1968, la Corte costituzionale abroga l'articolo sul diverso trattamento dell'adulterio maschile e femminile e quello analogo del Codice penale.
1970
Viene approvata la legge sul divorzio: legge 1° dicembre 1970, n. 898, «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio».
L'introduzione del divorzio in Italia era stata collegata alla questione del voto alle donne. In sede costituente, il PCI, per una scelta di fondo sfociata nell'approvazione dell'art. 7, non aveva sollevato la questione. La Commissione dei 75 avrebbe voluto includere l'indissolubilità del matrimonio nel testo della carta costituzionale, ma, dopo un'aspra battaglia in aula, la parola «indissolubile» non era stata inserita, bocciata con un esiguo margine di voti.
Nel 1965, il socialista Loris Fortuna avanzò la prima proposta di legge, sulle orme del collega Renato Sansone, che negli anni Cinquanta aveva proposto a più riprese e senza successo una legge di «piccolo divorzio», per i casi estremi di ergastolani, malati di mente, scomparsi, divorziati all'estero.
Dopo l'approvazione della nuova normativa, nel 1974 sarebbe stato indetto un referendum abrogativo, ma in seguito alla vittoria del fronte del NO col 59% dei voti la legge sarebbe rimasta in vigore.
1971
La Corte costituzionale cancella l'articolo del Codice civile che punisce la propaganda di anticoncezionali.
Dall'inizio degli anni Sessanta la pillola contraccettiva era in commercio in molti Paesi europei, ma nel 1968 la Chiesa condannò aspramente la contraccezione. Nel 1969 la pillola cominciò, tuttavia, a essere venduta anche in Italia, come farmaco per le disfunzioni del ciclo mestruale. Nel 1971 la Corte costituzionale, dopo un'aspra battaglia, abrogò l'art. 535 del Codice penale che vietava la propaganda di qualsiasi mezzo contraccettivo e puniva i trasgressori col carcere.
Viene approvata la legge sulle lavoratrici madri: legge 30 dicembre 1971, n. 1204, «Tutela delle lavoratrici madri».
Sono istituiti gli asili nido comunali: legge 6 dicembre 1971, n. 1044, «Piano quinquennale per l'istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato».
1975
Riforma del diritto di famiglia: legge 19 maggio 1975, n. 151, «Riforma del diritto di famiglia».
Fino a questa riforma, il peso dell'educazione dei figli gravava, di fatto, sulle madri, ma tale impegno non aveva un adeguato riconoscimento giuridico. La patria potestà spettava ad entrambi i genitori, ma il suo esercizio toccava al padre, secondo l'art. 316 del Codice civile.
Col nuovo diritto di famiglia, la legge riconosce parità giuridica tra i coniugi che hanno uguali diritti e responsabilità e attribuisce ad entrambi la patria potestà.
1976
Per la prima volta una donna, Tina Anselmi, viene nominata ministro (Lavoro e previdenza sociale).
1977
È riconosciuta la parità di trattamento tra donne e uomini nel campo del lavoro: legge 9 dicembre 1977 n. 903, «Parità fra uomini e donne in materia di lavoro».
1978
Viene approvata la legge sull'aborto.
Nel 1974 i radicali avevano iniziato una campagna per un referendum al fine di abrogare le norme che penalizzavano l'aborto. Gli articoli dal 546 al 551 del Codice penale stabilivano, infatti, che la donna che si procurava un aborto dovesse essere punita con la reclusione da uno a quattro anni (ma, se l'aborto era effettuato per "salvare l'onore", era prevista una riduzione, che andava da un terzo alla metà della pena).
Dopo l'approvazione della legge, un referendum abrogativo del maggio del 1981 non avrebbe avuto successo.
1979
Nilde Jotti è la prima donna presidente della Camera.
1981
Il motivo d'onore non è più attenuante nell'omicidio del coniuge infedele.
1983
La Corte costituzionale stabilisce la parità tra padri e madri circa i congedi dal lavoro per accudire i figli.
1984
Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è costituita la Commissione nazionale per la realizzazione delle pari opportunità, presieduta da Elena Marinucci.
1986
La commissione nazionale per la parità uomo e donna elabora il «Programma azioni positive»: aziende e sindacati devono tutelare accesso, carriera e retribuzioni femminili.
1989
Le donne sono ammesse alla magistratura militare.
1991
Legge 10 aprile 1991, n. 125, «Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro».
La legge dovrebbe essere in grado di intervenire nel rimuovere le discriminazioni e valorizzare la presenza e il lavoro delle donne nella società. Purtroppo, è ancora poco applicata.
1992
Legge, 25 febbraio 1992, n. 215, «Azioni positive per l'imprenditorialità femminile».
La legge sull'imprenditoria femminile favorisce la nascita di imprese composte per il 60% da donne, società di capitali gestiti per almeno 2/3 da donne e imprese individuali.
1993
Con la legge 25 marzo 1993, n. 81 per la prima volta vengono introdotte le "quote rosa" in merito alle elezioni dei rappresentanti degli enti locali.
Si stabilisce che per le elezioni regionali e comunali, i candidati dello stesso sesso non possano essere inseriti nelle liste in misura superiore ai due terzi: ciò riserva, di fatto, un terzo dei posti disponibili al sesso sottorappresentato (cioè le donne). Per le elezioni nazionali, viene introdotta l'alternativa obbligatoria di uomini e donne per il recupero proporzionale ai fini della designazione alla Camera dei deputati.
Nel 1995 questa serie di interventi legislativi è stata annullata con la sentenza n. 422 della Corte costituzionale, avendo il giudice stabilito che, in materia elettorale, debba trovare applicazione solo il principio di uguaglianza formale e che qualsiasi disposizione tendente ad introdurre riferimenti al sesso dei rappresentanti, anche se formulata in modo neutro, sia in contrasto con tale principio.
1996
La legge 15 febbraio 1996, n. 66, «Norme contro la violenza sessuale», punisce lo stupro come delitto contro la persona e non contro la morale come in precedenza.
Il governo nomina un ministro per le pari opportunità, Anna Finocchiaro.
2000
Legge 8 marzo 2000, n. 53, «Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città».
Sia il padre che la madre possono chiedere l'aspettativa, da sei a dieci mesi, entro gli otto anni di vita del bambino. La cura dei figli smette di essere, dal punto di vista legislativo, esclusiva prerogativa delle madri.
2003
Legge costituzionale 30 maggio 2003, n. l, «Modifica dell'art. 51 della Costituzione».
L’art. 51 della Costituzione («Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge») viene modificato, con l'aggiunta: «A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».
2004
La legge sulle elezioni dei membri del Parlamento europeo introduce una norma in materia di "pari opportunità": legge 8 aprile 2004, n. 90, «Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell'anno 2004».
L’art. 3 prescrive che le liste circoscrizionali, aventi un medesimo contrassegno, debbano essere formate in modo che nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati.
Una bella notizia
Nel luglio 2011, la nostra associazione aveva chiesto all’Amministrazione comunale allora in carica, di dedicare alla memoria del defunto presidente della Repubblica, Sandro Pertini, un luogo di Lissone.
Oggi con la Giunta di Concettina Monguzzi sindaco, il nostro desiderio è diventato realtà.
dal sito del Comune di Lissone:
LISSONE INTITOLERA' UN PIAZZALE A SANDRO PERTINI
«La Giunta Comunale ha deciso di intitolare l'area verde collocata di fronte a Villa Magatti (compresa tra la via Garibaldi e via Paradiso) al Presidente Sandro Pertini. L'intitolazione di questo spazio, che prenderà il nome di "Piazzale Sandro Pertini - Settimo Presidente della Repubblica Italiana - 1896-1990", vuole ricordare il ruolo determinante del Presidente Pertini in un momento particolarmente difficile per la vita del Paese e quanto il suo mandato presidenziale sia stato caratterizzato da una forte impronta personale, tanto da essere ricordato come il "Presidente più amato dagli italiani" e come uno dei "padri della Patria" in virtù della sua opera nell'ambito della Resistenza e dell'Assemblea Costituente».
Domenica 14 settembre 2014 con un “VIAGGIO DELLA MEMORIA” eravamo andati a Stella (SV) alla casa di Sandro Pertini. La casa di Sandro Pertini è in Via Muzio 42 a Stella San Giovanni (SV). È sede Museale e biblioteca, nonché sede dell’Associazione “Sandro Pertini”, che mantiene e diffonde il patrimonio storico, umano e politico del presidente Pertini
Alessandro Pertini è nato a Stella (Savona) il 25 settembre 1896. Laureato in giurisprudenza e in scienze politiche e sociali. Coniugato con Carla Voltolina. Ha partecipato alla prima guerra mondiale; ha intrapreso la professione forense e, dopo la prima condanna a otto mesi di carcere per la sua attività politica, nel 1926 è condannato a cinque anni di confino. Sottrattosi alla cattura, si è rifugiato a Milano e successivamente in Francia, dove ha chiesto e ottenuto asilo politico, lavorando a Parigi. Anche in Francia ha subito due processi per la sua attività politica. Tornato in Italia nel 1929, è stato arrestato e nuovamente processato dal tribunale speciale per la difesa dello Stato e condannato a 11 anni di reclusione. Scontati i primi sette, è stato assegnato per otto anni al confino: ha richiesto di non dare seguito alla domanda di grazia presentata da sua madre. Lettera di Pertini, scritta dal confino di Pianosa, il 23 febbraio 1933, in cui rinuncia alla domanda di grazia.
Tornato libero nell'agosto 1943, è entrato a far parte del primo esecutivo del Partito socialista. Catturato dalla SS, è stato condannato a morte.
La sentenza non ha luogo. Nel 1944 è evaso dal carcere assieme a Giuseppe Saragat, ed ha raggiunto Milano per assumere la carica di segretario del Partito Socialista nei territori occupati dal Tedeschi e poi dirigere la lotta partigiana: è stato insignito della Medaglia d'Oro.
Il discorso di Sandro Pertini, segretario del Partito Socialista nell'Italia occupata, pronunciato la sera del 27 aprile 1945 dal microfono di Radio Milano, liberata dalle formazioni “Matteotti”.
Conclusa la lotta armata, si è dedicato alla vita politica e al giornalismo. E' stato eletto Segretario del Partito Socialista Italiano di unità proletaria nel 1945. E' stato eletto Deputato all'Assemblea Costituente. E' stato eletto Senatore della Repubblica nel 1948 e presidente del relativo gruppo parlamentare. Direttore dell'"Avanti" dal 1945 al 1946 e dal 1950 al 1952, nel 1947 ha assunto la direzione del quotidiano genovese "Il Lavoro". E' stato eletto Deputato al Parlamento nel 1953, 1958, 1963, 1968, 1972, 1976.
E' stato eletto Vice-Presidente della Camera dei Deputati nel 1963. E 'stato eletto Presidente della Camera dei Deputati nel 1968 e nel 1972. Dopo il fallimento della riunificazione tra P.S.I. e P.S.D.I,. aveva rassegnato le dimissioni, respinte da tutti i gruppi parlamentari.
E' stato eletto Presidente della Repubblica l'8 luglio 1978 (al sedicesimo scrutinio con 832 voti su 995). Ha prestato giuramento il giorno successivo. Ha rassegnato le dimissioni il 29 giugno 1985: è divenuto Senatore a vita quale ex Presidente della Repubblica. E' deceduto il 24 febbraio 1990.
Questo è il racconto di Pertini, socialista, confinato politico nell'isola di Ventotene.
«Domenica 25 luglio: una serata come tutte le altre. Quando la radio diede il comunicato ci avevano già rinchiusi nel camerone. Eravamo più di settecento, nella stragrande maggioranza comunisti: Longo, Terracini, Scoccimarro, Camilla Ravera, Secchia. Poi c'erano Ernesto Rossi e Riccardo Bauer del Partito d'Azione, e anche degli anarchici, gente che veniva dalle prigioni, naturalmente, che aveva fatto la guerra in Spagna, che era stata nei campi di concentramento francesi.
Alcuni di noi, ritenuti "pericolosissimi", godevano di un trattamento speciale: venivano sorvegliati a vista. La mattina del 26 notai che i militi che avevano la consegna di pedinarmi erano costernati. Un agente gridò: "C'è una comunicazione importante: tutti in piazza". Era lì che ci riunivano per l'appello; quando veniva letto il nostro nome bisognava rispondere "Presente". Una guardia non seppe star zitta, e si lasciò scappare una notizia che aspettavamo da vent'anni: "Hanno arrestato Mussolini".
Scoprimmo così che c'era un nuovo governo, presieduto dal maresciallo Badoglio, che la guerra continuava. Scoppiò un applauso, ma non si videro scene di esultanza clamorose; il sentimento che prevalse fu un senso di angoscia per quel che ci aspettava: una eredità fallimentare.
Presi subito contatto con alcuni compagni: "Se non stiamo attenti," dissi "può accadere qualcosa di grave". Costituimmo un comitato, ne facevano parte, ricordo, anche un albanese, che fu ucciso al ritorno in patria, e un libertario, Giovanni Damaschi, impiccato poi durante la lotta partigiana.
Chiedemmo di essere ricevuti dal direttore della colonia penale, il commissario Guida, che diventò poi questore di Milano. Lo trovammo nel suo ufficio, era pallido, nervoso, aveva già fatto togliere il ritratto del duce. Gli spiegai che da quel momento era il comitato che comandava, e lui doveva collaborare con noi, e come primo gesto, come prima prova di conversione, era opportuno che impartisse l'ordine alla Milizia smetterla di tenerci dietro, e quei giovanotti avrebbero fatto anche bene a togliersi la camicia nera e i distintivi e le cimici come le chiamavamo. Il dottor Guida poteva, saggiamente per evitare inconvenienti, incorporarli nell'Esercito. Gli chiedemmo di far presente, con forte urgenza, al ministero dell'Intemo, che c'era una logica conseguenza dei fatti: dovevamo essere tutti liberati e senza troppe formalità [...].
Il tempo, nell'attesa, passava lentamente, continuava ad arrivare il battello che partiva da Gaeta e trasportava i rifornimenti, la posta, i giornali; quando doveva sbarcare bestiame non c'era attracco, lo buttavano in acqua, con forti urla lo spingevano alla riva.
Vedemmo arrivare anche una corvetta, che gettò l'ancora in una insenatura. A bordo c'era Mussolini. Scesero dei funzionari della Sicurezza, e avevano già deciso: lo avrebbero scaricato lì, ma ad un tratto si imbatterono in un ufficiale tedesco. Chiesero a Guida cosa ci stava a fare e così seppero che sulla costa c'era una batteria antiaerea, con cento soldati. Allora pensarono di cambiare rotta. Non tenevano in alcun conto la nostra presenza e il rischio che comportava. Andammo subito dal direttore per fargli presente il pericolo; ci disse: "So perché siete venuti, ma state tranquilli. Lo hanno già portato a Ponza".
«Lo misero nella casa dove lui aveva fatto alloggiare Ras Imerù, l'abissino che aveva guidato le truppe del Negus e che, dopo la sconfitta, rifiutò di sottomettersi. Era un uomo pieno di dignità, alto, severo, portava un lungo mantello nero.
«Mussolini io lo vidi dunque una sola volta: all'arcivescovado di Milano, nell'aprile del 1945, lui scendeva le scale, io le salivo. Era emaciato, la faccia livida, distrutto [...].
Ed ecco il fausto momento: partì finalmente il primo veliero, ci furono molti abbracci, e quelli che se ne andavano stavano aggrappati alle sartie per salutarci, e noi eravamo lì sul molo, quelli sventolavano i fazzoletti, c'era un confinato che aveva portato con sé il bombardino, lo aveva salvato nelle trincee delle Asturie, nei campi di Vichy, attaccò l'Inno di Mameli e noi ci mettemmo a cantare, con passione, con ira, "va fuori d'Italia", e quelli della Wehrmacht, che capivano, ci fissavano cupi [...].
Un giorno il direttore mi mandò a chiamare: "Ho una bella novità per voi. E arrivato un telegramma che dispone per la vostra liberazione". Grazie, dissi. Però non me ne vado finché qui resta uno solo di noi. Ma Camilla Ravera, che diede sempre prova di una straordinaria forza morale, Terracini e altri, mi convinsero che dovevo partire, per andare a perorare la causa dei detenuti, così non diedi pace a Senise, Capo della Polizia, e a Ricci, che era agli Interni, li andavo a trovare ogni giorno con Bruno Buozzi. Erano restii, avevano nei confronti dei comunisti paura e odio. Minacciammo uno sciopero generale, e l'argomento li convinse. Quando arrivò l'ultimo di Ventotene, potei andare a trovare mia madre. Era molto vecchia e mi attendeva. Stava sempre seduta su un muretto che circondava la nostra casa. "Che cosa fa, signora?" le domandavano. "Aspetto Sandro", rispondeva. Poi rientrai nella capitale. Ero diventato, con Nenni, con Saragat, membro dell'esecutivo del partito e con Giorgio Amendola e Bauer facevo parte della Giunta Militare.
Venne l'8 settembre e fui a Porta San Paolo, c'erano anche Longo, Lussu e Vassalli, e gli ufficiali dei granatieri sparavano e piangevano: "Il re ci ha lasciati, il re ci ha traditi”. Vittorio Emanuele III e Badoglio fuggivano verso Pescara, i tedeschi si preparavano a liberare Mussolini, cominciava un'altra triste e lunga storia».
I FASCISTI NON SONO COME GLI ANTIFASCISTI
Lissone, 20 aprile 2015
In relazione agli articoli comparsi sull'ultimo numero de IL Cittadino, agli equivoci e alle polemiche che essi hanno suscitato, l'ANPI di Lissone vuole fare chiarezza definitiva.
L'unica mostra che la nostra Sezione ha promosso è quella dedicata ai quindici lissonesi vittime del nazifascismo. Essa compare sul sito del Comune di Lissone che ha ovviamente condiviso l'iniziativa e non comprende alcun altro pannello.
Il presidente dell'ANPI lissonese, Renato Pellizzoni, su richiesta dell'assessore Beretta, ha fornito allo stesso alcune schede relative ad altri protagonisti delle vicende della seconda guerra mondiale. Fra di esse, una comprende i nomi dei fascisti che, a Lissone, nei giorni successivi al 25 aprile furono sommariamente giustiziati. In nessun modo l'ANPI ha avallato una forma di parificazione tra i partigiani e i fascisti, che, invece, sembra chiaramente trasparire dalle parole dell'assessore Beretta e, purtroppo, anche dall'editoriale del direttore de IL Cittadino.
La scelta dei fascisti che sostennero la repubblica sociale italiana e quella dei partigiani di tutte le provenienze politiche che lottarono per dare all'Italia una Costituzione democratica non possono in nessun modo essere equiparate sul piano storico, etico e politico. La pietà per i morti, per tutti i morti, non ha niente a che vedere col giudizio storico sulle scelte che fecero i vivi. I partigiani erano dalla parte della ragione, i fascisti dalla parte del torto.
70° anniversario della fondazione dell'ANPI
Il 6 e 7 giugno l'ANPI celebra a Roma il 70° anniversario della sua fondazione, che avvenne appunto il 6 giugno 1944, in Campidoglio, a soli due giorni dalla liberazione della città Roma. I promotori, partigiani delle formazioni cittadine e delle brigate che avevano operato a ridosso dei due fronti, di Cassino e Anzio, nel deporre le armi e dedicarsi all'avvio della democrazia nella città ritornata capitale d'Italia, vollero creare un sodalizio che riunisse i reduci, fosse di sostegno ai familiari dei caduti, promuovesse gli ideali patriottici, di libertà e solidarietà umana che avevano animato la Resistenza e spinto molti di loro ad unirsi ai combattenti del rinnovato esercito italiano integrato nelle forze armate alleate. A tali propositi l'ANPI è stata coerentemente fedele in questi 70 anni di vita repubblicana, perseguendo il bene comune, nel nome dei valori democratici che la Costituzione ha recepito dagli oppositori al regime fascista e dal popolo italiano che nella grande maggioranza ha espresso e sostenuto la lotta partigiana contro occupanti nazisti e collaborazionisti subendo anche innumerevoli stragi, persecuzioni di innocenti ed atti di vera barbarie.
A partire dal 2006, l’ANPI si è poi arricchita della presenza e partecipazione attiva di molti “antifascisti” che si riconoscevano nelle sue finalità statutarie e di tantissimi giovani. Ciò ne fa oggi una prestigiosa garante del rispetto, difesa ed attuazione della Costituzione e dei valori che in essa sono espressi. Una garanzia che nasce non solo dalla presenza di più di 130.000 iscritti, ma anche dalla autorevolezza di un’Associazione che è stata definita, in un importante documento giudiziario, come “erede e successore” dei valori resistenziali. Insomma, un’Associazione fortemente radicata nel migliore passato del nostro Paese, ma che guarda costantemente al futuro, nella speranza che si realizzino al meglio i sogni, le attese e le speranze dei combattenti per la libertà.
Il manifesto con le iniziative
I partigiani salirono al Campidoglio e fondarono la loro Associazione
Un articolo di Wladimiro Settimelli, dal numero di maggio di Patria Indipendente.
25 aprile 2013
Lissone, 25 aprile 2013
Pubblichiamo l'intervento del prof. Giovanni Missaglia, presidente vicario dell'ANPI di Lissone e rappresentante dell'ANPI provinciale di Monza e Brianza.
25 APRILE 2013
La retorica che quasi inevitabilmente accompagna le celebrazioni è spesso insopportabile. Oggi – nel mezzo di una situazione così cupa – sarebbe persino imperdonabile. Mi capirete, perciò, se il tono e i contenuti della riflessione che sto per proporvi saranno intrisi di un’amarezza che qualcuno giudicherà inadatta ad un giorno di festa come il 25 aprile.
La festa della liberazione dell’Italia dal nazifascismo cade quest’anno in un momento particolarmente difficile della vita pubblica. La crisi economica che da diversi anni ci colpisce ha ormai ampiamente superato i livelli di guardia determinando forme di vera e propria disperazione sociale come ci raccontano le cronache dei troppi suicidi o, meno tragicamente, i dati di una nuova emigrazione, specie giovanile, degli italiani all’estero. Alla crisi economica si lega, naturalmente, una crisi sociale che si manifesta soprattutto nelle crescenti disuguaglianze e nella progressiva erosione del ceto medio, non a torto considerato un vero e proprio pilastro degli ordinamenti democratici, la garanzia, l’assicurazione contro le avventure populiste e fascistoidi che hanno sempre trovato un terreno fertile negli squilibri della distribuzione della ricchezza. Le società nelle quali i troppo ricchi chiedono una fortezza che tuteli i loro privilegi e li protegga dall’assalto degli affamati o, viceversa, nelle quali i troppo poveri si offrono alle seduzioni dei sedicenti salvatori della Patria sono il terreno di coltura ideale degli esperimenti autoritari. Alla crisi economica e a quella sociale si aggiunge, con ogni evidenza nel caso italiano, una crisi politico istituzionale che le ultime elezioni politiche non solo non hanno contribuito a risolvere ma hanno persino aggravato. Le difficoltà nella formazione di un nuovo governo sono state e sono sotto gli occhi di tutti e per uscire dall’impasse nell’elezione presidenziale è stato confermato Giorgio Napolitano. Al quale dobbiamo rispetto e riconoscenza, senza tacere, però, che non appartiene alla fisiologia della vita politica di un Paese la rielezione di un uomo di 88 anni alla guida della Repubblica. Il Paese è spaccato, le forze politiche e parlamentari non sono facilmente componibili, il discredito verso la politica, verso l’idea stessa di politica, ha raggiunto livelli di guardia e i principali partiti italiani sono quelli dell’astensione e della protesta. Una specie di furia distruttrice sembra travolgere tutto e tutti.
In questo quadro così desolante, mi sembra che la prima lezione che ci viene dall’esperienza dell’antifascismo e della Resistenza sia il richiamo a una piena assunzione di responsabilità, individuale e collettiva. Gli antifascisti prima, negli anni del ventennio, e i resistenti poi, nel biennio 43-45, sono innanzitutto coloro che non hanno aspettato, che non hanno scaricato su altri la responsabilità, coloro che hanno saputo distinguersi dal tradizionale indifferentismo di tanta parte del popolo italiano. Sono coloro che hanno chiesto innanzitutto a se stessi: qual è il mio ruolo, la mia responsabilità, in questo frangente così drammatico della vita del Paese? Non era facile ieri e non è facile neppure oggi: l’indifferenza alla vita pubblica, il sospetto preconcetto verso ogni forma di impegno politico, la delega all’uomo della provvidenza che risolva miracolisticamente tutti i problemi sono tratti reali del carattere italiano. A suo modo, lo ricordava Emanuele Artom nel suo splendido diario. Emanuele Artom era un giovane di 29 anni quando, a seguito delle brutali torture fasciste, morì il 7 aprile 1944 in una cella delle Carceri nuove di Torino:
“… il fascismo – scrive Artom - non è una tegola cadutaci per caso sulla testa: è un effetto della apoliticità e quindi della immoralità del popolo italiano. Se non ci facciamo una coscienza politica non sapremo governarci e un popolo che non sa governarsi cade necessariamente sotto il dominio straniero o sotto una dittatura”
. Artom aveva, ha, ragione. La apoliticità è, in ultima analisi, una forma di immoralità, se è vero come è vero che la vita morale comincia con un’assunzione di responsabilità: quando la Storia chiama, bisogna rispondere, personalmente e collettivamente, bisogna scegliere da che parte stare, che è una cosa ben diversa dall’indistinto grido qualunquistico contro i politici e contro la politica, dall’indistinto “tutti a casa” che, per quanto contenga una legittima esasperazione per i difetti e le colpe della politica, è anche una forma di insopportabile autoassoluzione collettiva: noi siamo il popolo, oggi diremmo la società civile o, più volgarmente, la gente, la parte sana del Paese, loro sono i politici, oggi diremmo la casta, la sola responsabile delle sciagure che ci accadono. No, direbbe Emanuele Artom: il fascismo non è una tegola cadutaci per caso sulla testa, ma un effetto della apoliticità e quindi della immoralità del popolo italiano. Che infatti per vent’anni aveva tributato un consenso largo al fascismo e aveva lasciato soli, molto soli, i grandi protagonisti di quella minoranza antifascista a cui deve andare la nostra infinita riconoscenza. Non a caso il 25 luglio 1943 il fascismo cadde non per una sollevazione popolare, ma fondamentalmente a causa della piega che la guerra stava prendendo – gli angloamericani erano sbarcati in Sicilia quindici giorni prima e stavano risalendo la penisola – e delle conseguenti divisioni interne al regime, plasticamente visibili nella notte tra il 24 e il 25 luglio, quando il Gran Consiglio del Fascismo sfiduciò Mussolini e molti gerarchi con la complicità del Re tentarono di separare il loro destino da quello dell’ormai perdente Duce che fino al giorno prima avevano sostenuto ed esaltato.
Aveva ragione Artom come aveva e ha ragione Giacomo Ulivi, un partigiano ancora più giovane. Impegnato nelle fila della Resistenza, Giacomo fu arrestato per ben tre volte dai tedeschi fino a che, il mattino del 10 novembre 1944, a soli diciannove anni, venne fucilato sulla Piazza Grande di Modena da un plotone della Guardia Nazionale Repubblicana, un corpo armato della Repubblica Sociale Italiana. In una lettera scritta agli amici tra il secondo e il terzo arresto, Giacomo ci ha lasciato un testamento meraviglioso nel quale il richiamo alla responsabilità, individuale e collettiva, ha una forza straordinaria.
Cari amici,
dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami al flagello. Vorrei che pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano.
Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto …
Mi chiederete, perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco, per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro ? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà: nel desiderio invincibile di “quiete”, anche se laboriosa, è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. E’ il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato, è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della “sporcizia” della politica …
L’errore, vuole dirci Giacomo, è rifugiarsi nel “privato”, perché in questa comprensibile aspirazione si può nascondere un grande pericolo, quello di abbandonare qualsiasi forma di partecipazione o, almeno, di consapevolezza politica. Per vent’anni – Ulivi si sta riferendo al ventennio della dittatura fascista- ci hanno detto che la politica è una cosa sporca, un’attività che deve essere lasciata agli “esperti”. Ancora oggi, a ben pensarci, l’immagine della “sporcizia” della politica è molto diffusa. E’ impressionante l’elenco di luoghi comuni che si possono ricordare: “i politici sono tutti uguali”, “rubano tutti”, “pensano solo ai loro interessi”, “non cambierà mai niente”, ecc. Sono frasi fatte, luoghi comuni, appunto, prodotti di un pericoloso qualunquismo che in genere serve a giustificare il proprio disimpegno. La realtà è che i politici non sono né migliori né peggiori degli insegnanti, degli imprenditori, degli impiegati, dei liberi professionisti e degli operai. Guai a contrapporre il mondo politico “cattivo” e la società civile “buona”. Il bene e il male non si distribuiscono per categorie! Giacomo Ulivi sarebbe insorto di fronte a queste dilaganti banalità.
La seconda lezione che oggi, in questo panorama politico, sociale ed economico così difficile, mi sembra di particolare attualità è quella che ci viene dalla Costituzione nata dalla Resistenza. Si continua a parlare con troppa leggerezza della necessità di riformare la Costituzione. Qualche aggiustamento è effettivamente sensato: ridurre il numero dei parlamentari e superare il bicameralismo perfetto, per esempio, sono obiettivi che potrebbero aiutare a rendere più efficiente la macchina dello Stato. Ma dovremmo smettere di chiedere alla Costituzione o troppo o troppo poco. Le chiediamo troppo, quando ci illudiamo che una grande riforma costituzionale possa magicamente risolvere i problemi del Paese. Tali problemi, in quanto sono economici e sociali, hanno la loro radice nelle grandi contraddizioni della globalizzazione, nelle gigantesche trasformazioni produttive che stanno determinando una nuova divisione del lavoro e una redistribuzione della ricchezza su scala planetaria, non certo negli articoli della nostra Costituzione. Quando poi questi problemi sono politici, più che originarsi dal nostro assetto costituzionale, dipendono dallo statuto ancora incerto della UE e, soprattutto, dalla crisi morale e ideale che ha dissanguato la capacità di proposta delle forze politiche e il loro radicamento popolare. Ma alla nostra Costituzione, proprio per essere davvero eredi fedeli della Resistenza, dovremmo chiedere molto di più. Essa delinea un programma che in troppe parti è ancora inattuato. Negli ultimi tre decenni, il tema dell’attualità della Costituzione ha cambiato completamente di segno. Potrei dire, con una semplificazione non fuorviante, che l’aggettivo “inattuale”, riferito alla Costituzione, ha smesso di significare “non sufficientemente attuata”, “ancora da attuare”, ed è invece diventato sinonimo di “invecchiata”, “superata”. E’ un passaggio che – ad avviso mio ma soprattutto di molti costituzionalisti e dello stesso popolo italiano che nella sua maggioranza ha respinto, nel referendum del giugno 2006, una proposta di modifica costituzionale così vasta da dare origine, di fatto, ad una nuova Costituzione – è un passaggio, dicevo, infondato. O, se si preferisce, fondato sull’illusione che la crisi del sistema politico italiano potesse essere imputabile alla Costituzione e, perciò, superabile proprio agendo sul sistema costituzionale. Ma la crisi del sistema politico –dei partiti, della loro credibilità, del loro radicamento, delle loro basi ideologiche – è altra cosa dal sistema costituzionale –che invece definisce i diritti e i doveri dei cittadini e l’architettura istituzionale dello Stato.
Penso, invece, che si dovrebbe ricominciare a parlare di inattualità della Costituzione nel primo senso che ho segnalato: la Costituzione è inattuale perché non è ancora stata sufficientemente attuata. Consiglio sempre un esercizio salutare: leggere la Costituzione e poi guardarsi intorno. Si scoprirà che il progetto costituzionale è ancora lontano dall’essere realizzato. A puro titolo di esempio, mi limito a segnalare i dati più evidenti. Quanti sono i giovani capaci e meritevoli che ancora non possono giungere ai più alti gradi dello studio a causa della loro condizione sociale (art. 34)? O gli inabili che non possono fruire di un’idonea formazione professionale per meglio inserirsi nella società (art. 38)? E – tema quanto mai “attuale” quanti lavoratori non percepiscono un salario sufficiente ad assicurare a sé e alla loro famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36)? E quante sono le discriminazioni sessiste di cui le donne sono vittime nelle famiglie, nella società e nel mondo del lavoro, a dispetto di quanto statuito dagli articoli 3 e 37 della Costituzione? Se dal campo dei diritti sociali passiamo a quello dei diritti civili, il panorama non è più consolante. Possiamo considerare compiuto il cammino della libertà religiosa se oggi molti fedeli non possono neppure disporre di un luogo di culto dove pregare, o se le minoranze religiose non hanno alcuna possibilità di far conoscere la loro storia neppure nelle scuole pubbliche (artt. 8 e 19)? Qualcuno si sentirebbe di dire che tutti hanno identico accesso al diritto di difesa a prescindere dal loro reddito (art. 24)? O che la pena, nonostante alcune esperienze d’avanguardia di molti operatori carcerari, consente davvero la realizzazione del fine costituzionale della rieducazione del detenuto (art. 27)? E infine, per venire ai fondamenti della stessa democrazia: non è forse vero che abbiamo appena votato, per la terza volta consecutiva, sulla base di una legge elettorale che stravolge il principio della sovranità popolare, attribuendo un abnorme premio di maggioranza alla Camera dei deputati che stravolge il principio di uguaglianza del voto sancito dall’articolo 48 e impedendo sostanzialmente agli elettori di scegliere gli eletti?
L’elenco potrebbe e dovrebbe continuare. Non per misconoscere i progressi che sessant’anni di vita costituzionale e repubblicana hanno realizzato. Ma per capire una volta per tutte che i progressi, quando ci sono stati, sono stati resi possibili da una classe dirigente radicata nello spirito del 25 aprile. E che i passi indietro, il vero e proprio regresso costituzionale che ha dominato i due decenni della cosiddetta seconda Repubblica, sono dipesi tra l’altro da uno smarrimento ideale, dal non aver più posto a fondamento del proprio pensiero e della propria azione politiche l’antifascismo, la Resistenza, il 25 aprile e la Costituzione.
Giovanni Missaglia
l'intervento della Sindaco Concettina Monguzzi
Sant'Anna di Stazzema, la strage archiviata
Sant'Anna di Stazzema, la strage archiviata: "Una sentenza inaudita"
la posizione dell'ANPI sulla sentenza:
“Che si possa archiviare 'per mancanza di prove' una vicenda storicamente accertata e per la quale dieci cittadini tedeschi sono stati condannati in Italia, in tutti i gradi di giudizio, all’ergastolo, è veramente inaudito e incredibile, perché significa che non ci si è resi conto dell'orrenda tragedia compiuta, per mano tedesca e fascista, e non si è pensato non solo alle ragioni imposte dal diritto ma neppure a quelle imposte dalla umanità”.
Con queste parole il presidente dell'Anpi nazionale, Carlo Smuraglia, ha commentato il provvedimento di archiviazione della strage di Sant'Anna di Stazzema deciso dalla procura di Stoccarda.
Dieci erano stati gli ergastoli decisi dalla magistratura italiana, in tre gradi di giudizio, per ex soldati della Reichsführer SS che, nell'agosto 1944, compì la strage.
La sentenza del tribunale di La Spezia era chiara: gli indagati, essendo in servizio nelle forze armate tedesche, nemiche durante la fine della Seconda guerra mondiale dell'Italia: “Con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, tutti, secondo la specifica qualità e mansione, contribuendo alla materiale realizzazione del crimine e comunque reciprocamente rafforzandosi nel proposito delittuoso, il mattino del 12 agosto 1944, alle ore 7 circa e seguenti, in Sant'Anna di Stazzema, senza necessità e senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra e anzi nell'ambito e con finalità di un'ampia operazione di rastrellamento pianificata e condotta contro i partigiani e la popolazione civile che a quelli si mostrava solidale, cagionava la morte di numerose persone - verosimilmente tra le 457 e le 560 circa, tra le quali, e in prevalenza, anziani, donne e bambini - le quali non prendevano parte alle operazioni militari, agendo con crudeltà e premeditazione”.
Tuttavia, per otto degli ex militari - due sono deceduti in questi anni – il tribunale tedesco non considera provata la responsabilità individuale, nonostante l'appartenenza al reparto colpevole dell'eccidio, e pertanto li ha prosciolti. Non è tutto. In un comunicato i magistrati tedeschi sostengono che la strage non fu programmata da parte dell'esercito nazista, poiché non esistono documenti in merito. Giungono a ipotizzare che l'obiettivo delle SS fosse la guerra ai partigiani e la deportazione di uomini abili al lavoro, e che la violenza sui civili fu conseguente al fallimento dell'azione.
Ma la storia ha raccontato, e la giustizia italiana ne ha tenuto conto, di come fosse in atto nei venti mesi di occupazione nazista del nord Italia una vera e propria guerra alla popolazione civile. Inoltre, come ha dichiarato il pm al processo italiano, Marco De Paolis, alcuni dei dieci indagati erano rei confessi.
“Così - ha aggiunto Smuraglia - le 560 vittime, i loro familiari, i loro figli e nipoti, restano sullo sfondo, come figure irrilevanti, perché non si è stati in grado di capire che così si rinnova il loro dolore, visto che da anni invocano verità e giustizia, senza successo. C’è da restare attoniti e sgomenti a fronte di provvedimenti come questo, che si muovono su un filone mai estinto, ed al quale non è mancato l’apporto della Corte dell’Aja, che ha dato più rilievo al ruolo del diritto che non ai valori ed ai diritti umani”.
E' dunque necessario continuare l'azione di testimonianza, di studio perché, come dichiarato sempre dal presidente Anpi: “Bisogna perseguire la verità ed affermare le ragioni della storia, contrapponendole ad ogni tentativo di ridurre la gravità estrema di quanto accaduto in Italia, tra il ‘43 e il ‘45. Bisogna arricchire le ricerche storiche, condurre in porto i procedimenti penali ancora aperti. Ma bisogna anche ottenere una discussione parlamentare seria sulle stragi, sulle responsabilità tedesche e fasciste, sulle responsabilità collegate all’armadio della vergogna nella loro complessità non solo giuridica ma anche politica".
"Deve andare avanti - precisa Smuraglia - l'interrogazione presentata da un gruppo di senatori e reiterata alla Camera, e la raccolta firme sotto la petizione popolare lanciata a Marzabotto. E infine bisogna premere sul governo, perché si proceda nella 'trattativa' con la Germania, che doveva avviarsi dopo la sentenza dell’Aja e di cui non si sa nulla”.
“Noi - ha concluso Smuraglia - ci riteniamo impegnati a tutto questo e riteniamo che sia la migliore risposta ai magistrati di Stoccarda, così come ai tanti tentativi di far cadere l’oblio su vicende imprescrittibili. Ed è anche questo il modo migliore per esprimere la solidarietà più forte, affettuosa e sincera, alle vittime, ai sopravvissuti ed ai familiari della strage di S. Anna di Stazzema, così come a tutte le vittime ed i familiari della strage di Marzabotto e di tante altre terribili stragi”.
Gemma Bigi
L'eccidio di Sant'Anna di Stazzema
Commemorazione della strage in Toscana, alla presenza del presidente tedesco del Parlamento europeo Martin Schulz.
SANT'ANNA DI STAZZEMA - "M'inchino di fronte alle vittime di Sant'Anna. E' per loro che abbiamo la responsabilità di costruire l'Europa e di proteggerla dalla speculazione che fa soffrire i popoli e nutre i nazionalismi". Lo ha scritto, in italiano, il presidente del Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, che oggi era in Toscana a commemorare - insieme con autorità italiane e familiari delle vittime - i 560 morti provocati dall'orrore nazista 68 anni fa nel paesino in provincia di Lucca. Ad aprire il corteo che porta all'ossario sul Colle di Cava c'erano, con Schulz, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, il sindaco di Stazzema Michele Silicani e le autorità religiose, civili e militari, oltre a tantissimi gonfaloni di comuni. Una giornata dedicata anche al ricordo dei milioni di morti causati dalla 'follia nazista'.
Sotto l'ossario che ricorda l'eccidio, davanti ai pochi superstiti, ai familiari delle vittime e ai tanti gonfaloni dei Comuni il presidente del parlamento europeo parla in tedesco avvalendosi di una traduzione simultanea. E dice : "La lingua che io parlo è la stessa degli uomini che hanno compiuto questo eccidio. Non lo dimentico. Sono qui come tedesco e come europeo. l'Europa è la via migliore per non ripetere crimini come questo".
Schulz ha detto di non riuscire a "descrivere con parole la crudeltà di tali fatti. Mi presento oggi a voi come tedesco, profondamente scosso dalla disumanità dell'eccidio qui perpetrato in nome del mio popolo". Eppure, ha proseguito il presidente del parlamento europeo, anche oggi c'è chi dice di voler smantellare l'Europa: "Abbiamo cambiato le strutture, facendo nascere l'Europa, ma non abbiamo cambiato gli uomini. Questi sono sempre uguali e sono sempre capaci di commettere crimini come questo". Solo l'Europa, invece, può impedirlo: "E non possiamo permettere oggi che l'Europa venga distrutta da quelle forze speculative che hanno ridotto tanta gente alla disperazione".
"Bisogna non dimenticare mai - ha ammonito Schulz - bisogna mantenere vivo il ricordo. Affinché mai più in Europa ideologie disumane e regimi criminali tornino a mostrare il loro ghigno odioso... La libertà, l'umanità devono essere riconquistate ogni giorno. Questo è il nostro compito di epigoni, questa è la missione che ci hanno assegnato i martiri di Sant'Anna di Stazzema. Vi ringrazio di cuore per tenere vivo il ricordo dei martiri e per permettermi, come tedesco, di commemorarli e di unirmi al vostro lutto. E' un dono fatto a me personalmente"
"Noi tutti dobbiamo scendere in campo contro il ritorno di modi di pensare che hanno sempre portato ai popoli europei nient'altro che disgrazie - ha proseguito Schulz - e minacciano ora di mandare in rovina anche l'Unione europea. Non possiamo permetterci di ricadere negli antichi errori. Se questo spirito foriero di sciagure per i popoli europei conquistasse la maggioranza degli Stati membri dell'Unione, se gli riuscisse di rimettere in questione il carattere di collante di popoli di questa Unione, allora ritornerebbero con esso anche gli spettri della prima metà del XX secolo".
Martin Shultz ha parlato poi di Europa: "Io non vorrei un imperialismo del marco. Abbiamo bisogno di una valuta comune perchè solo una valuta comune ci rende più forti. In Germania - ha aggiunto - ci sono persone che dicono che si dovrebbe reintrodurre il marco perchè così saremmo più forti, mentre la lira, la peseta e il franco sarebbero deboli. Io rispondo, è vero. Ma in questo modo la Germania diventerebbe troppo grande per l'Europa e troppo piccola per il mondo. Da sola non potrebbe affrontare i mercati globali".
Il messaggio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
Tra i numerosissimi ricordi dell'eccidio, quello del presidente Napolitano. In un messaggio al sindaco Silicani, e a tutti i convenuti alla commemorazione, Napolitano scrive: "Quel 12 agosto 1944 che vide cadere sotto il piombo della barbarie nazifascista 560 vittime inermi, in gran parte vecchi, donne, bambini, è una data scolpita nella memoria di chi visse quei terribili avvenimenti e di chiunque ne conservi il ricordo".
'Il dolore e l'orrore di quella giornata hanno trovato un nuovo momento di commossa rievocazione nella recente concessione a Cesira Pardini della Medaglia d'Oro al Merito Civile per l'eroico gesto compiuto, in quel terribile frangente di efferata brutalità, per salvare a rischio della propria vita la madre e le sorelle" - prosegue Napolitano - "Esempi di generosa solidarietà sono essenziali per tramandare, soprattutto alle giovani generazioni, i principi di libertà, giustizia e solidarietà che animarono le scelte di allora e sono stati posti a fondamento della rinascita civile e democratica del nostro paese".
da un articolo di MASSIMO VANNI
La Repubblica (13 agosto 2012)
Lissone, 25 aprile 2012
Discorso pronunciato dal prof. Giovanni Missaglia, dell’ANPI di Lissone, durante la celebrazione del 25 aprile a Lissone.
A quasi Settant’anni della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, nel quadro di un contesto storico così profondamente trasformato sia sul piano nazionale che su quello internazionale, il dovere della memoria deve essere accompagnato dal tentativo di individuare e valorizzare gli elementi più attuali dell’esperienza resistenziale. A me pare che oggi, fra le tante possibili, siano tre le questioni sulle quali vale la pena concentrarsi per vedere se l’esperienza storica della Resistenza può ancora parlarci: la questione del ruolo e della funzione dei partiti politici; la questione dell’Europa e della sua unità; infine, la questione del razzismo.
Il ruolo dei partiti politici è stato fondamentale nelle vicende della Liberazione. Basti pensare alla funzione del Comitato di Liberazione Nazionale prima e a quella dell’Assemblea Costituente poi. In un caso come nell’altro, forze politiche diverse e persino configgenti rispetto all’assetto politico e sociale da dare all’Italia da liberare e all’Italia liberata hanno saputo costruire delle esperienze unitarie: al di là delle loro differenze ma anche a partire dalle loro differenze. Insomma, l’esatto opposto del Fascismo, che, mentre negava alla radice le differenze politiche imponendo per legge il partito unico, il Partito Nazionale Fascista appunto, seminava in realtà divisioni laceranti e drammatiche che sfociarono tra l’altro in una “guerra nella guerra”, la lotta tra i partigiani e i fascisti che si svolgeva sullo sfondo delle vicende della seconda guerra mondiale.
I partiti antifascisti seppero operare al di là delle loro differenze, dicevo. Ci sono momenti in cui devono prevalere le ragioni dell’unità. Fu così quando i dirigenti del C.L.N. decisero di accantonare la questione istituzionale, che li vedeva divisi tra repubblicani e monarchici, per farla decidere direttamente dal popolo a liberazione avvenuta, come poi accadde attraverso il referendum del 2 giugno 1946. Fu così durante i lavori dell’Assemblea Costituente, quando le forze politiche, nonostante le posizioni assai diverse che erano emerse durante i lavori preparatori, seppero trovare tutte le convergenze necessarie per votare a larghissima maggioranza, quasi all’unanimità, il testo finale della Costituzione. Trovare le ragioni dell’unità nei momenti più difficili della storia di un Paese è la responsabilità più rilevante di una classe dirigente.
Forse è proprio questo il motivo per cui, oggi, nonostante tutte le differenze del caso, molti apprezzano il cosiddetto governo tecnico: dopo anni di delegittimazione dell’avversario politico è forte in molti la speranza, per qualcuno l’illusione, di poter entrare in una nuova stagione della vita politica, caratterizzata appunto più dalla capacità di costruire sintesi che di seminare divisioni.
Dicevo, anche, però, che i partiti antifascisti seppero operare, non solo al di là delle loro differenze, ma anche a partire da queste differenze. L’unità, insomma, non fu, non è e non dovrebbe mai essere, l’inesistenza delle differenze, ma il convergere di soggetti diversi che stabiliscono modalità comuni per regolare il loro fisiologico conflitto. Dalle differenze (differenze di visioni della società e dell’economia, differenze di valori morali e politici di riferimento, differenze di interessi sociali e materiali rappresentati) si deve costruire un’unità, cioè quell’insieme di norme condivise – e per questo costituzionali - per regolare la coesistenza ma anche il conflitto tra tutte queste differenze per tanti versi irriducibili. E può darsi che sia questo il lato negativo di ciò che chiamiamo governo tecnico: l’illusione che in una società possano non esistere differenze, che vi siano soluzioni neutrali, tecniche appunto, che il conflitto non abbia anche un ruolo propulsore e positivo.
Dunque: lavorare al di là delle differenze ma a partire dalle differenze. Questo seppero fare i partiti. E oggi ne sentiamo un gran bisogno. Critichiamoli, lavoriamo per rinnovarli, inventiamone di nuovi, ma non delegittimiamo il sistema dei partiti. Senza i partiti tradiremmo la Resistenza. Senza i partiti non c’è democrazia. “Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, recita l’articolo 49 della Costituzione. Senza i partiti non ci sarebbe che il plebiscitarismo e, a determinare la politica nazionale, non resterebbe che il duce, l’unto del Signore, il demagogo senza scrupoli; oppure, se così si può dire, il partito unico della Tecnica, un potere apparentemente neutrale ma nella realtà capace di imporre come neutrali delle scelte di parte, legittime, ma di parte. Perciò guardiamo con interesse alla proliferazione di liste civiche, nel nostro territorio come in tutto il Paese, non perché rappresentano un’alternativa ai partiti, ma, al contrario, perchè si tratta pur sempre di parti, partiti sui generis se si vuole, di cittadini che prendono parte, che prendono partito non a caso per candidati e progetti diversi, a dimostrazione del carattere originariamente e costitutivamente conflittuale della scena politica e del carattere parziale, partitico, delle opzioni e delle soluzioni di volta in volta proposte. Non lasciamoci fuorviare, perciò, dalla sterile contrapposizione tra i partiti, che sarebbero il male assoluto, e la società civile, che rappresenterebbe invece il bene. Ricordiamoci, piuttosto, della lezione di un grande antifascista, Gaetano Salvemini che, riferendosi alla classe politica del suo tempo, scriveva: “Per un dieci per cento rappresenta la parte migliore del paese, per un altro dieci per cento rappresenta la feccia, per il restante ottanta per cento rappresenta il paese come esso è”.
Per venire al tema dell’Europa e della sua unità, vorrei cominciare col richiamare il nome di Altiero Spinelli, l’esule antifascista che, al confino sull’isola di Ventotene, nel 1941 vide con straordinaria lucidità le ragioni della catastrofe che attraversava l’Europa e le forme per superarla. Spinelli scrisse il celebre Manifesto per un’Europa libera e unita, per una federazione degli Stati Uniti d’Europa. I nazionalismi dilaganti nella prima metà del Novecento avevano prodotto due guerre mondiali sorte proprio a partire dalle rivalità tra paesi europei. Sessanta milioni di morti furono il prezzo di questa cecità nazionalistica. Spinelli vide che solo un processo di integrazione europea avrebbe potuto evitare una nuova, una terza catastrofe. E la costruzione della CECA nel 1951, della CEE nel 1957 e della UE nel 1992 hanno rappresentato, pur tra molte manchevolezze, una politica di pace oltre che una politica economica. Per questo dobbiamo guardare allarmati alla crisi che l’Unione Europea sta attraversando. Essa non è soltanto una crisi economica scandita dagli impietosi dati sulla recessione e neppure soltanto una crisi politica segnata dal deficit di legittimità democratica di molte istituzioni europee capaci di assumere decisioni importantissime senza adeguate procedure per misurare il consenso dei popoli. Crisi economica e crisi politica sono ormai due aspetti di una più generali crisi spirituale dell’Europa, se è vero che persino un popolo tradizionalmente europeista come quello italiano avverte sempre più l’Europa come un ostacolo o un fattore di impoverimento. Sono già molti i segnali che ci parlano dell’emergere di nuovi nazionalismi e di nuovi localismi. Ma la strada per risolvere i problemi non è un di meno, ma un di più di Europa. Le chiusure nazionalistiche e localistiche le abbiamo conosciute bene e non abbiamo nessun desiderio di rivederle. Il progetto di integrazione europea è stato forse il più grande risultato della sconfitta del nazifascismo. La crisi di questo progetto, perciò, è un’offesa alla Resistenza e allo spirito dell’antifascismo, che è sempre stato patriottico senza mai essere nazionalista. L’amore di patria, il patriottismo, la volontà di riscattare il Paese, sono stati fattori essenziali della lotta antifascista, ma, come insegna la lezione di Altiero Spinelli, essi non si sono mai confusi con un gretto nazionalismo, perché ne facevano parte integrante la consapevolezza della libertà e dell’uguaglianza di tutti i popoli e quella della necessità di creare istituzioni sovranazionali.
Infine, lasciatemi dire che, se è vero che la xenofobia e il razzismo sono l’essenza del nazifascismo, nella sua visione gerarchica della società e dell’umanità, ossessivamente divise in superiori ed inferiori, in superuomini e in sottouomini, non possiamo non guardare con orrore ai tanti episodi di cronaca che ci parlano di intolleranza per chi è straniero, per chi è nero, per chi è ebreo, per chi è omosessuale, per chi è diverso. Ma l’orrore non basta. Il razzismo è un fenomeno sociale e culturale complesso che l’indignazione non basta certo a sconfiggere. Nel quadro della drammatica crisi economica che stiamo attraversando, poi, esso trova un terreno fertile di sviluppo, che innesca con molta facilità meccanismi atavici come quello della ricerca del capro espiatorio. Per questo occorre combattere il razzismo su più fronti. Quello economico sociale, perché la dilagante crescita delle disuguaglianze che attraversa anche il nostro Paese non può non favorire una guerra tra poveri. Quello culturale, perché il sapere e la cultura servono a dare un nome alle cose e perciò a non esserne schiacciati e a non alimentare reazioni violente e irrazionali. Ma anche quello politico e amministrativo, perché il governo della cosa pubblica, anche e soprattutto a livello locale, è uno strumento per favorire occasioni di conoscenza, di incontro e di composizione pacifica dei conflitti.
Difendere e rinnovare il sistema dei partiti e contrastare il qualunquismo dell’antipolitica; lottare per forme più democratiche di integrazione europea e contrastare il ritorno dei nazionalismi e dei localismi; combattere il razzismo e le sue cause sono, oggi, i compiti che ci spettano, che spettano a tutti coloro che sanno ancora vedere nella Resistenza l’atto fondativo della Repubblica italiana e della sua Costituzione.
alcune immagini della Festa della Liberazione a Lissone