episodi di storia del '900
La crisi del 1929
Il 24 ottobre 1929, i titoli della Borsa di New York crollano, provocando un crac che è il più doloroso della storia.
Il “martedì nero”
Dovuta ad una speculazione sfrenata, l’aumento dei titoli accelera dal 1927. Culmina il 19 settembre 1929 e s’innesca una svolta il 3 ottobre. Le transazioni quotidiane di Borsa sono in media circa 4 milioni di titoli, mentre il 24 ottobre sono venduti 13 milioni di titoli. L’intervento immediato delle grandi banche limita tuttavia il ribasso dei titoli, ma il sogno di un arricchimento illimitato si allontana. Lo choc decisivo avrà luogo il “martedì nero” il 29 ottobre: 16 milioni di titoli sono venduti e i titoli affondano; l’eccessiva fiducia derivante dalla prosperità del dopoguerra è sostituita da un’ondata di panico che fa piombare l’America nel pessimismo.
«Come guadagnare un milione di dollari alla Borsa di New York? Semplice, è sufficiente investirne due!».
Questa battuta circola dopo il crollo del mercato dei titoli il 24 e il 29 ottobre 1929, ma gli Americani non sono in vena di ridere. Ancora i più ottimisti, come il loro Presidente repubblicano Hoover, credono che si tratti di una semplice recessione e che “la prosperità si trovi dietro l’angolo“. Al contrario, il crollo della Borsa provoca una crisi senza precedenti, con una serie di effetti domino: fallimento di molte banche, diminuzione dei consumi, difficoltà alle industrie, disoccupazione, che a sua volta, alimenta la depressione, riducendo in modo catastrofico i redditi di milioni di potenziali investitori. Peggio, l’onda di choc, nata negli Stati Uniti, si propaga dappertutto dove gli investitori americani avevano piazzato i fondi brutalmente ritirati. La Grande Depressione rivela così la complessità del moderno capitalismo internazionale.
Il 29 ottobre 1929, detto il “martedì nero“ il panico si impadronisce della Borsa di New York e 13 milioni di titoli cambiano di mano. Cinque giorni dopo, il crollo è confermato dalla vendita di 6 milioni di titoli. Gli Stati Uniti cadono nella crisi trascinando il mondo con loro.
Il New York Times dedica la sua prima pagina della sua edizione del 30 ottobre 1929 al crollo nazionale: il rialzo speculativo delle quotazioni che avviene tra il 1926 e il 1929 è annullato in cinque giorni. Benché non tocchi più di un milione di Americani (su una popolazione di 123 milioni), il crollo borsistico ha un impatto considerevole sul piano psicologico. La crescita cieca in un avvenire economico radioso è spazzata via.
L’America sotto choc
Molto rapidamente la recessione tocca il sistema bancario; il ritiro massiccio effettuato dai risparmiatori fa fallire 640 banche nel 1929. L’anno seguente 1300 e più di 2200 nel 1931. Questa brutale paralisi del credito blocca tutti gli investimenti e frena i consumi. La caduta delle vendite accresce gli stock e fa crollare i prezzi: diversi industriali sono rovinati. Dal 1929 al 1932, la produzione americana diminuisce del 46 per cento.
La chiusura delle industrie provoca un tasso di disoccupazione fino ad allora sconosciuto. Il 3% degli attivi nel 1929, il 24% nel 1932.
I colletti blu, - gli operai – per primi, poi i colletti bianchi – gli impiegati e i quadri delle classi medie – perdono il lavoro. Non beneficiando di alcun aiuto piombano nella miseria. Non sono i soli.
Le quotazioni agricole si abbassano della metà durante lo stesso periodo; gli agricoltori, incapaci di pagare i loro debiti, emigrano in California.
Lo choc sociale si ripercuote sulla vita politica: la distruzione delle derrate deperibili, quando milioni di persone soffrono la fame, la nascita di bidonville, ribattezzate “hoverville” dove abitano famiglie una volta agiate, incitano gli elettori a respingere i discorsi del presidente repubblicano, il cui indefettibile ottimismo sembrava molto inadatto alla gravità della situazione.
Nel novembre 1932, Hover cede il posto al democratico Franklin Delano Roosevelt. Contrario ad idee preconcette, questi non ha dei programmi ben definiti né soluzioni miracolose per ristabilire la situazione, ma si impegna tuttavia – questa è un’innovazione – a far intervenire lo Stato nella vita economica.
La depressione del mercato americano tocca rapidamente il Giappone e l’America latina; le loro esportazioni crollano e sono costretti a stabilire un controllo sui cambi a partire dal 1930.
Nello stesso anno il marasma arriva nell’Europa centrale. Il ritiro massiccio dei capitali americani provoca il fallimento di numerose banche che avevano spesso investito a lungo termine le somme di denaro a loro disposizione.
Anche se Hover aveva proposto, per la durata di un anno, la moratoria della riparazione dei danni di guerra dovuti dalla Germania, tuttavia la Germania mise ugualmente, nel luglio 1931, il controllo dei cambi, quando ormai l’orizzonte politico è oscurato dall’accresciuto seguito dei partiti estremisti.
Due mesi più tardi, vista la rapida riduzione della giacenza di oro nelle sue casse, il Regno Unito sospende la convertibilità della lira sterlina, che perde quasi il 30% del suo valore. Quaranta paesi seguono questa svalutazione e formano la “zona sterling”; i prodotti britannici diventano così più competitivi, ma la crisi si estende in tutta l’Europa occidentale e ai suoi fornitori africani o asiatici. Solo l’Unione Sovietica sembra sfuggire al disastro: la collettivizzazione nelle campagne è in pieno sviluppo, la pianificazione industriale ed agricola è esaltata dalla propaganda staliniana, che vuole dimostrare, per mezzo delle statistiche, la superiorità del sistema comunista su un capitalismo senza scampo.
La produzione industriale del globo conosce una diminuzione eccezionale: nel 1929, 120 milioni di tonnellate di acciaio escono dagli altoforni, contro i 50 milioni di tre anni dopo. Le industrie dei beni di consumo sono colpite di riflesso. 1,9 milioni i veicoli fabbricati nel 1932 contro i 6,3 milioni nel 1929.
La disoccupazione esplode; il numero dei disoccupati nei paesi industrializzati è valutato sui 30 milioni nel 1932, di cui 12 milioni di Americani (il 24% della popolazione attiva) e più di 6 milioni di Tedeschi il 17% della popolazione attiva).
Ad eccezione della Gran Bretagna, dove dal 1908 è stato introdotto un sussidio di disoccupazione, gli aiuti ufficiali sono pressoché inesistenti; gli altri paesi sopperiscono come possono alla miseria improvvisa. Molti disoccupati sono costretti a mendicare e sopravvivono unicamente grazie alle mense popolari e ai dormitori.
Una superproduzione agricola fa cadere le quotazioni di oltre la metà o più; ciò spinge a distruggere le scorte con grande scandalo per chi soffre la fame: i Brasiliani utilizzano il caffè invenduto come combustibile per le locomotive a vapore.
Una parte della società trae profitto dagli sconvolgimenti economici: così i risparmiatori vedono aumentare il loro potere d’acquisto man mano che i prezzi diminuiscono; i proprietari di terreni o di immobili beneficiano di un aumento reale delle rendite. Il periodo è nello stesso tempo favorevole a chi conserva il proprio lavoro poiché i salari diminuiscono meno rapidamente dei prezzi. Ma queste disuguaglianze attirano la collera contro i governanti: i regimi parlamentari sono minacciati dal sorgere di movimenti estremisti (partito nazista e comunista in Germania), formazioni di tipo fascista in Europa centrale, leghe in Francia.
Per gli economisti liberali il solo modo di favorire la ripresa è di risanare l’economia con dei rimedi classici: riduzione delle spese pubbliche per ristabilire l’equilibrio del bilancio, la difesa della parità monetaria accompagnata da una diminuzione dei prezzi e dei salari per rilanciare le esportazioni (deflazione).
La deflazione è combattuta con vigore da un economista inglese, John Keynes, autore della “Teoria generale del lavoro, dell’interesse e della moneta”. Apparsa nel 1936, quest’opera attribuisce la crisi ad una insufficienza della domanda. I disoccupati sono costretti a consumare meno, questo aggrava le difficoltà dell’industria. Per uscire da questo circolo vizioso, lo Stato ha un ruolo fondamentale da giocare, con il ricorso sistematico al deficit di bilancio, alla diminuzione del tasso d’interesse e, se necessario alla svalutazione.
Conosciute dopo la loro pubblicazione, le idee di Keynes ispirano in parte le politiche economiche delle democrazie: nel 1934 Roosevelt svaluta il dollaro, instaura un deficit di bilancio e mette in moto una politica di grandi lavori pubblici per assorbire la disoccupazione.
La risposta migliore alle difficoltà del momento sembra venire dalle dittature, che basano il rilancio sul riarmo, sull’esclusione dal mondo del lavoro delle donne e sull’autarchia.
Dei successi spettacolari, amplificati dalla propaganda, rasentano dei fallimenti lampanti: l’industria tedesca del 1936 supera quella del 1929, ma l’agricoltura non è autosufficiente. La massa dei disoccupati è quasi interamente riassorbita, tuttavia il Paese è sottomesso al terrore, mentre il riarmo indica la volontà dei dirigenti di conquistare uno “spazio vitale” con la forza.
Le scelte dell’Italia di Mussolini vanno in questa direzione: lo Stato controlla un’ulteriore parte dell’economia, esalta l’autarchia, procede alla bonifica delle terre per uso agricolo, come la celebre “battaglia del grano”. La conquista dell’Etiopia è conclusa nel 1935 e 1936; in quest’occasione, l’avversione inglese e l’indecisione francese creano delle ostilità con le democrazie occidentali e spingono così il Duce nelle braccia di Hitler.
La dittatura militare giapponese impone dal 1931 un protettorato sulla Manciuria, ricca di minerali, prima di attaccare la Cina nel 1937. La ripresa economica del Giappone, favorita dalla caduta dello yen, si orienta verso le industrie strategiche.
L’arretramento generale delle economie suscita delle guerre commerciali e monetarie che non migliorano le relazioni internazionali. Dal 1930 gli Stati Uniti aumentano i loro dazi doganali più del 50%; nel 1932, la Gran Bretagna interrompe un secolo di libero scambio per il protezionismo. In base agli accordi di Ottawa, stabilisce dei rapporti di preferenza con il Commonwealth, cioè i territori dell’impero britannico.
La Francia agisce allo stesso modo con le colonie e contingenta le sue importazioni.
La Germania e l’Italia si proclamano “nazioni proletarie” e cercano di essere autosufficienti. In un tale contesto, il valore degli scambi commerciali si riduce di due terzi e il volume totale diminuisce del 30% tra il 1929 e il 1932. A tutto ciò si aggiunge una divisione delle nazioni in aree monetarie: la “zona sterling” esiste dal 1931; l’influenza del dollaro si estende al Canada e all’America latina; il marco domina tutta l’Europa centrale e fin al 1936, l’Unione latina (o “blocco oro”) raggruppa i paesi che si rifiutano di svalutare (Francia, Italia, Belgio, Svizzera, Polonia e Olanda).
Al di là dei suoi effetti destrutturanti immediati, la crisi del 1929 segna la fine del liberalismo economico, di cui i teorici non hanno saputo prevedere ne guarire i danni: molti di loro hanno voluto credere che la crisi si sarebbe assorbita spontaneamente. L’intervento regolatore dello Stato si attua in modo empirico, ben prima di essere legittimato dall’analisi di Keynes. I contemporanei assistono così all’apparizione dello Stato-previdenza: i poteri pubblici aiutano le industrie in difficoltà, combattono l’aggravarsi del disagio degli agricoltori e soccorrono i disoccupati. In modo paradossale i gravi problemi dell’economia capitalista conducono alla realizzazione di una legislazione sociale molto spinta. La crisi del 1929 ha così contribuito a mettere a punto un nuovo capitalismo che trionferà dopo il 1945, che associa la libera impresa, il ruolo in economia dello Stato e la solidarietà sociale.
10 febbraio: Giorno del ricordo
le tragedie del confine orientale dell'Italia: fascismo, foibe, esodo
«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale "Giorno del ricordo" al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» (legge 30 marzo 2004 n. 92)
Articoli sull’argomento pubblicati nel sito:
Per comprendere il perché delle foibe o dell’esodo di molti italiani che risiedevano lungo i confini orientali dell’Italia:
La fine per fame e malattie di donne, bambini e antifascisti. Nel campo fascista di Arbe morirono centinaia di sloveni e croati.
http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Il_campo_fascista_di_Arbe-4520561.html
Le dimensioni dell'Esodo degli italiani
http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Le_dimensioni_dellEsodo-8515033.html
Le motivazioni a spingere gli istriani ad abbandonare la loro terra
http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Le_motivazioni_degli_esuli-8515038.html
Tra il 1944 e la fine degli anni Cinquanta, alla frontiera orientale d'Italia più di 250.000 persone, in massima parte italiani, dovettero abbandonare le proprie sedi storiche di residenza, vale a dire le città di Zara e di Fiume, le isole del Quarnaro - Cherso e Lussino - e la penisola istriana, passate sotto il controllo jugoslavo.
http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/LEsodo_dei_giulianodalmati-8515028.html
Storia di una tragedia: agosto 1968 l’invasione della Cecoslovacchia
Cinquantadue anni fa l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle armate dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia
Praga agosto 1968
L’incubo di un tradimento
di Ludvlk Vesely (*)
Ogni nazione vanta documenti che entrano a far parte integrante della sua storia. Non tutti recano la firma di gente famosa. Molti, anzi, sono e restano anonimi. Di tali documenti l'agosto 1968 cecoslovacco ne conta parecchi. Rientra senz'altro tra i più interessanti la sequenza di notizie riportata dalle tele scriventi della Pragair nelle prime ore di mercoledì 21 agosto 1968: «Il primo apparecchio occupante si è posato sulla pista dell'aeroporto alle 01,37 - gli altri sono atterrati a intervalli di un minuto fino alle 05,50. In seguito altri arrivi meno regolari ogni 5-10 minuti. Il traffico viene regolato dal volo aggiunto AN 124 arrivato come volo civile straordinario alle 09,52. Gli aerei occupanti hanno scaricato mezzi di trasporto e da Kladno sono arrivati in gran quantità carri armati cannoni mortai armamenti leggeri. Noi tutti sotto la minaccia delle armi siamo stati ammassati nelle sale d'aspetto delle linee nazionali, dove siamo rimasti fino alle 06.00 e solo allora siamo riusciti a fare in modo di informare tutti».
La sera di martedì 20 agosto, dunque, sul suolo cecoslovacco, sul suolo di uno Stato libero e sovrano, era atterrato un aereo. Non era preannunziato, ma aveva chiesto e ottenuto di atterrare secondo le consuetudini internazionali. Un aereo civile. E in abiti civili erano anche i suoi passeggeri. In Cecoslovacchia nessuno perquisisce i visitatori stranieri. In questo caso, però, sarebbe valso la pena di farlo: tutti gli occupanti di quell'apparecchio erano armati fino ai denti e avevamo ben poco in comune con dei normali turisti. Erano tutti appartenenti all'NKVD, la polizia segreta sovietica, venuti col preciso compito di assicurare l'atterraggio agli aerei occupanti.
Alle 21,52 del 20 agosto 1968 ha avuto così inizio la seconda occupazione della Cecoslovacchia nel corso degli ultimi trent'anni. Senza un annuncio, senza un preavviso. Se Hitler, nel 1939, aveva convocato a Berlino l'allora presidente della repubblica cecoslovacca Hacha, costringendolo almeno a salvare le forme con la firma di un triste accordo (il residuo territorio rimasto alla Cecoslovacchia dopo il diktat di Monaco doveva essere occupato, smembrandosi con l'istituzione del protettorato di Boemia e Moravia e la formazione di uno Stato slovacco autonomo), questa volta nessuno si è preoccupato di certe formalità. L'URSS non le ha ritenute necessarie.
Quello stesso 21 agosto 1968 l'agenzia uffici sovietica Tass comunicava: «Personalità del partito e del governo della Repubblica Socialista cecoslovacca si sono rivolte all'Unione Sovietica con una richiesta di urgente aiuto per il fratello popolo cecoslovacco, ivi incluso un aiuto militare Questo appello traeva origine dal fatto che le legittime istituzioni socialiste si trovavano sotto minaccia di forze controrivoluzionarie, le quali stavano cospirando con forze esterne ostili socialismo».
Più di mezzo milione di soldati dell'Unione Sovietica, della Polonia, della Repubblica Democratica Tedesca, della Bulgaria e dell'Ungheria, pronti a rispondere alla «chiamata», sono entrati in territorio di uno Stato sovrano e qui, come dice una popolare battuta umoristica, stanno ancora cercando coloro che li avrebbero chiamati.
La sera di quel giorno critico alcuni alti ufficiali sovietici giunsero alla sede del Ministero della Difesa nazionale a Praga. Al ministro Martin Dzur comunicarono che gli eserciti alleati occupavano la Cecoslovacchia, e al tempo stesso lo misero nell'impossibilità di dare la notizia al capo del governo Cernik, al segretario generale del partito comunista cecoslovacco Alexander Dubcek, al presidente della Repubblica Socialista cecoslovacca, il generale d'armata e due volte eroe dell'Unione Sovietica, Ludvik Svoboda.
Nella sede del comitato centrale del partito comunista cecoslovacco sulla riva della Moldava il politburo del partito, che era riunito, discuteva in una normale seduta i preparativi del congresso straordinario, che avrebbe dovuto esser convocato il 9 settembre, e con il quale si sarebbe conclusa, tra l'altro, la prima fase del processo di democratizzazione in Cecoslovacchia. Quando finalmente il presidente del consiglio dei ministri e membro del politburo Cernik fu informato che nel Paese si trovavano già decine di migliaia di soldati stranieri, ed ebbe comunicato la notizia al capo dei comunisti cecoslovacchi, lo choc fu generale.
Dubcek reagì con voce rotta dal dolore: «Per tutta la mia vita mi sono adoperato ad approfondire e a consolidare l'amicizia tra l’Unione Sovietica e la Cecoslovacchia, e adesso mi ricambiano in questo modo. È la tragedia della mia vita».
Praga, Agosto 1968
(*) Ludvik Vesely, è stato vice direttore . del «Literarni Listy», settimanale dell'Unione degli scrittori cecoslovacchi, la rivista che a Praga ha acceso le polveri dell'antistalinismo, ispirando il nuovo corso cecoslovacco. Per la posizione che occupava, si è trovato direttamente impegnato nelle difficili e drammatiche operazioni politiche che hanno portato Alexander Dubcek al potere e alla elaborazione del socialismo democratico nel suo Paese.
Nei momenti in cui a Cierna e a Bratislava si decidevano le sorti della Cecoslovacchia, Vesely è stato uno degli uomini più vicini al primo segretario del partito. Il suo giornale, il giorno successivo all'invasione delle truppe del Patto di Varsavia, uscì in edizione straordinaria e fu distribuito sotto gli occhi dei primi reparti sovietici. L'editoriale si intitolava «Appello a tutti i cittadini» e invitava alla resistenza non violenta e alla difesa degli organi di governo e di partito. Mentre i carri armati sovietici assumevano il controllo del Paese, Vesely cercò rifugio nella Germania occidentale insieme con la moglie per sfuggire a una sicura rappresaglia.
FASCISMO FOIBE ESODO 1918 1956: Le tragedie del confine orientale
13 luglio 2020: Il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella a Trieste.
Nell’incontro con il Presidente della Repubblica di Slovenia Borut Pahor e la visita del Narodni Dom, è stato firmato un Protocollo di intesa che prevede un percorso che si concluderà con la restituzione del Narodni Dom, incendiato il 13 luglio del 1920, alla minoranza linguistica slovena in Italia.
Nel suo discorso il Presidente Sergio Mattarella ha detto:
«Oggi, qui a Trieste - con la presenza dell’amico Presidente Borut Pahor -segniamo una tappa importante nel dialogo tra le culture che contrassegnano queste aree di confine e che rendono queste aree di confine preziose per la vita dell’Europa».
L’incontro con i rappresentanti delle comunità slovene e italiane, la deposizione di una corona presso la Foiba di Basovizza e, successivamente, presso il monumento ai Caduti sloveni, rendono di attualità i problemi che hanno interessato il confine orientale.
Per comprendere il perché delle foibe o dell’esodo di molti italiani che risiedevano lungo i confini orientali dell’Italia, occorre inquadrare questi avvenimenti in un più vasto contesto storico. È quello che si è tentato di fare nei capitoli successivi.
Le vicende del confine orientale
1918 1922 Dopo la vittoria arriva il fascismo
La conclusione della prima guerra mondiale con il conseguente disfacimento dell’Impero asburgico, consegnarono all’Italia la Venezia Giulia e Zara. Nel 1924 venne annessa anche la città di Fiume. Il Regno d’Italia si estese così su terre abitate sia da popolazioni di origine italiana, soprattutto nelle zone costiere, sia da sloveni e croati, in prevalenza nei paesi dell’interno.
In questa mescolanza di etnie e nel complesso intreccio di vicende storiche locali, trovò alimento un nazionalismo fascista particolarmente virulento e aggressivo. Già all’inizio del 1919 vengono costituiti forti gruppi di squadristi che – come si legge in un documento dell’epoca – «insegnarono a tutti i Fasci d’Italia il metodo più efficace di lotta contro l’Antinazione e inaugurarono per prime, come divisa ufficiale, la gloriosa Camicia nera».
Gli effetti della violenza fascista non tardarono a farsi sentire. Non solo gli antifascisti furono presi di mira, come avvenne in quegli anni nel resto d’Italia, ma le squadracce fasciste si accanirono soprattutto contro la popolazione di etnia slovena e croata. Gli squadristi, capeggiati da Francesco Giunta, incendiarono a Trieste il 13 luglio 1920 l’hotel Balkan, sede del “Narodni Dom”, il più importante e moderno centro culturale delle organizzazioni slovene in città.
Questo gravissimo episodio verrà definito da Mussolini «il provvidenziale incendio del Balkan». Dopo questo autorevole avallo, la violenza fascista dilaga con l’obiettivo della completa italianizzazione delle popolazioni di etnia non italiana che abitavano quelle terre da tempo immemorabile.
Così racconta un testimone di allora, lo scrittore Boris Pahor, nel libro “Necropoli”:
“Già in gioventù ogni illusione ci era stata spazzata via dalla coscienza a colpi di manganello e ci eravamo gradualmente abituati all' attesa di un male sempre più radicale, più apocalittico. Al bambino a cui era capitato in sorte di partecipare all' angoscia della propria comunità che veniva rinnegata e che assisteva passivamente alle fiamme che nel 1920 distruggevano il suo teatro nel centro di Trieste, a quel bambino era stata per sempre compromessa ogni immagine di futuro. Il cielo color sangue sopra il porto, i fascisti che, dopo aver cosparso di benzina quelle mura aristocratiche, danzavano come selvaggi attorno al grande rogo: tutto ciò si era impresso nel suo animo infantile, traumatizzandolo. E quello era stato soltanto l'inizio, perché in seguito il ragazzo si ritrovò a essere considerato colpevole, senza sapere contro chi o che cosa avesse peccato. Non poteva capire che lo si condannasse per l'uso della lingua attraverso cui aveva imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo. Tutto divenne ancora più mostruoso quando a decine di migliaia di persone furono cambiati il cognome e il nome, e non soltanto ai vivi ma anche agli abitanti dei cimiteri.”
1922 1940 Proibita anche la messa in sloveno
Su un intreccio perverso di antislavismo e antisocialismo si incardina la politica del fascismo negli anni successivi alla presa del potere. «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone», si legge in un proclama diffuso dal fascismo in quegli anni.
Gli abitanti di etnia slovena e croata, definiti “allogeni” (termine neutro dal punto di vista scientifico, ma caricato in quegli anni da un forte senso di estraneità, di disprezzo e di inferiorità), sono sottoposti a una serie inaudita di angherie: si chiudono i circoli culturali sopravvissuti alle devastazioni squadristiche , si obbligano le popolazioni alla italianizzazione dei loro cognomi, altrettanto avviene per i nomi slavi dei paesi, e soprattutto si impone l’obbligo della lingua italiana in qualsiasi luogo pubblico (ne soffriranno soprattutto i bambini a scuola, costretti a studiare in una lingua che non conoscono affatto).
Si arriva a proibire l’uso della lingua persino in chiesa, durante le funzioni religiose.
Il clero cerca di resistere, ma inutilmente.
Nel 1928 il vescovo Fogar così si rivolgeva al clero e ai fedeli commentando le decisioni del governo italiano che colpivano anche la Chiesa: «Cosa possiamo fare noi sacerdoti, combattuti tante volte da quelli stessi che dicono di credere in Gesù Cristo?
Dove l’empietà comincia a trionfare, ivi non tarderà a scatenarsi la persecuzione».
1941 L’aggressione alla Jugoslavia
Il 6 aprile 1941 cinquantasei divisioni tedesche, italiane, ungheresi e bulgare attaccano da ogni parte il Regno di Jugoslavia. La debole resistenza del paese aggredito viene subito sopraffatta. Lo stato crolla, l’esercito si scioglie e la Jugoslavia viene smembrata.
La Slovenia settentrionale è assegnata alla Germania nazista, quella meridionale viene annessa all’Italia con la denominazione “Provincia di Lubiana”. L’Italia ingrandisce, a spese della Croazia, la provincia di Fiume e quella di Zara annettendosi anche la parte centrale della Dalmazia. La Croazia viene dichiarata formalmente uno stato indipendente: si insedia al governo il capo degli ustascia Ante Pavelic, un criminale di ideologia nazifascista, mentre Aimone di Savoia viene designato re con il nome di Tomislavo II. Il regime di occupazione della Jugoslavia da parte della Germania e dei suoi alleati fu spietato. Migliaia di persone vennero uccise e centinaia di villaggi incendiati. La resistenza all’occupazione si sviluppò sin dall’estate 1941, cominciando dal Montenegro ed estendendosi ben presto a Serbia, Croazia e Slovenia.
Nell’ottobre del ’41 si ebbero le prime condanne a morte. Nei 29 mesi di occupazione italiana nella sola provincia di Lubiana vennero fucilati circa 5.000 civili e altre 7.000 persone, in gran parte anziani, donne e bambini, trovarono la morte nei campi di concentramento italiani. Tristemente noti sono quelli di Gonars (Udine) e Rab in Croazia.
1943 L’occupazione tedesca
L’annessione di fatto al Terzo Reich dei territori del confine orientale sottratti alla sovranità italiana è la prima reazione da parte nazista alla dissoluzione dell’esercito italiano dopo la caduta del fascismo del 25 luglio e l’armistizio dell’8 settembre 1943.
La perdita di controllo dei territori entro i confini dello Stato italiano e anche di quelli sottoposti a occupazione militare, risultato del collasso politico-militare del regime fascista, offre alla Wehrmacht la possibilità di occupare rapidamente l’area della Venezia Giulia, della provincia di Lubiana e del territorio dalmata.
Dal settembre del 1943 all’aprile del 1945 le province di Trieste, Gorizia, Udine, Pola, Fiume e Lubiana furono riunite nella speciale zona di operazione definita Adriatisches Küstenland (litorale adriatico) che venne inclusa nelle strutture amministrative della Germania nazista. Analoga sorte subì la zona comprendente le province di Trento, Bolzano e Belluno.
L’Adriatisches Küstenland sopravvivrà per più di venti mesi. La Repubblica di Salò nasce come struttura amministrativa di collaborazione voluta dai tedeschi. Queste mutilazioni regionali la screditarono ulteriormente. L’Italia è privata brutalmente della sovranità su un’area in cui aveva profuso l’ambizione nazionalistica di una grande espansione nei Balcani e del controllo totale dell’Adriatico. Il Gauleiter Rainer, incaricato da Hitler per le soluzioni amministrative e di gestione, impone condizioni durissime alle popolazioni con l’obiettivo finale di abbattere ogni resistenza e di annettere in via definitiva questi territori al Grande Reich. Le violenze e gli eccidi che vengono perpetrati nell’Adriatisches Küstenland, con la complicità delle “bande nere” di Salò, aggravano ulteriormente le tensioni nazionali nell’area giuliana, che nel dopoguerra conosceranno una nuova stagione di violenze di massa, questa volta a danno degli italiani.
1943 1945 La Resistenza e la Risiera
La Resistenza ha inizio in Istria sin dagli anni successivi alla presa fascista del potere. Sono del 1929 le condanne del Tribunale Speciale, insediato per l’occasione a Pola, di 5 antifascisti croati: uno fu condannato a morte e gli altri a trent’anni di reclusione. L’anno successivo il Tribunale Speciale riunito a Trieste condannò a morte 4 sloveni imputati di cospirazione contro l’Italia.
Con l’occupazione nazista della Venezia Giulia (Adriatisches Küstenland) tra il 1943 e il 1945, i tedeschi cercano di accattivarsi le simpatie della popolazione locale recuperando i miti asburgici.
Ma il volto del nazismo aveva ben altre sembianze.
Nell’estate-autunno 1941 iniziò in Jugoslavia la Resistenza contro l’occupazione italo-tedesca. A seguito dell’annessione della Slovenia all’Italia, lo Stato fascista si trovò con la guerriglia in casa. Venne istituito un tribunale straordinario e introdotta la pena di morte non solo per coloro che fossero stati sorpresi armati, ma anche per chi avesse posseduto materiale di propaganda o partecipato a riunioni o assembramenti giudicati di carattere eversivo.
Anche per questo nella Venezia Giulia la Resistenza ebbe inizio con netto anticipo rispetto al resto d’Italia.
Infatti già nei primi mesi del 1943 la guerriglia partigiana, sempre più estesa in Jugoslavia, travalicò il vecchio confine e cominciò a lambire la stessa città di Trieste. Alla data dell’8 settembre il Movimento di liberazione jugoslavo era già presente nella regione ed era in grado di proporsi come contropotere rispetto al regime instaurato
dalle forze nazifasciste.
Parallelamente si sviluppò l’organizzazione della Resistenza da parte italiana. A Udine, tra il febbraio e l’aprile del 1945, avvenne la fucilazione di 52 partigiani. Questi eccidi vennero compiuti dai nazisti con la collaborazione attiva dei fascisti di Salò. L’asprezza del contrasto tra partigiani italiani e le mire espansionistiche jugoslave, portò a uno dei più tragici episodi della Resistenza: nel febbraio del 1945 nelle malghe di Porzus, nel Friuli orientale, un gruppo di fanatici garibaldini massacrò, cogliendolo di sorpresa, l’intero comando della Brigata Osoppo, composta in prevalenza da partigiani che si riconoscevano nel movimento “Giustizia e Libertà”, accusato ingiustamente di tradimento. Forti furono anche i contrasti tra il CNL triestino che tendeva a marcare la propria italianità e la resistenza slovena che si batteva per l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia.
Il Polizeihaftlager (campo di detenzione di polizia), della Risiera di San Sabba, destinato a detenuti politici ed ebrei è l’unico campo di concentramento nell’intera area dell’Europa occidentale provvisto di forno crematorio. È il luogo dal quale si conduce contro la popolazione civile, sospettata di appoggiare il Movimento di liberazione, una vera e propria campagna di deportazione, di violenze e di uccisioni. La Risiera fu innanzitutto una istituzione dedicata all’attività di cattura e deportazione degli ebrei e di tutti gli oppositori sia italiani che slavi. Qui si applicarono le tecniche di uccisione di massa, proprie della logica SS: abbattimento, gassazione, fucilazione, strangolamento; l’invio di deportati nei campi di sterminio in Germania. Nella Risiera furono deportate circa 20.000 persone, di cui, secondo calcoli approssimati ben 5.000 persero la vita.Oggi l’edificio della Risiera è monumento nazionale. Fascismo
Infatti già nei primi mesi del 1943 la guerriglia partigiana, sempre più estesa in Jugoslavia, travalicò il vecchio confine e cominciò a lambire la stessa città di Trieste. Alla data dell’8 settembre il Movimento di liberazione jugoslavo era già presente nella regione ed era in grado di proporsi come contropotere rispetto al regime instaurato dalle forze nazifasciste.
1943 1945 L’orrore delle foibe
Quando si parla di "foibe" ci si riferisce alla violenza di massa nei confronti di militari e di civili, in prevalenza italiani, in diverse zone della Venezia Giulia. La prima ondata di violenze si ebbe dopo l'8 settembre 1943 in Istria contro cittadini italiani. Nel maggio 1945 con l'occupazione della Venezia Giulia da parte dell'esercito jugoslavo, la violenza riprese con maggior vigore. Ne furono vittime migliaia di persone civili e militari. Tra di esse vi erano anche esponenti antifascisti che si opponevano al passaggio di queste terre alla Jugoslavia.
Almeno 5.000 persone scomparvero nelle stragi chiamate “foibe”, dal nome delle voragini tipiche dei terreni carsici in cui spesso venivano gettati i cadaveri, anche se non tutte trovarono la morte in tale modo.
Tra le foibe più note vanno ricordate quella di Vines, presso Albona, in Istria, e il pozzo della miniera di Basovizza - monumento nazionale - nei pressi di Trieste. Più numerosi furono i deceduti nelle carceri e nei campi di concentramento jugoslavi. Tuttavia l'immagine simbolo delle stragi è rimasta quella della sparizione in un abisso del Carso.
Dopo l'8 settembre 1943 l'Istria interna, avendo i tedeschi occupato subito solo i centri di Trieste, Pola e Fiume, divenne temporaneamente terra di nessuno.Approfittando di questa situazione gli antifascisti sloveni e croati, legati al movimento di liberazione jugoslavo, occuparono le posizioni chiave senza opposizione, avviarono la raccolta delle armi abbandonate dalle truppe italiane e proclamarono l'annessione di quel territorio alla Jugoslavia.
Cominciarono subito arresti di rappresentanti dello Stato, podestà, segretari comunali, carabinieri, guardie, esattori, uffici postali, con l'evidente volontà di rimuovere tutta l'amministrazione italiana, odiata per le prevaricazioni del passato e anche soltanto perché rappresentative di un nazionalismo profondamente avversato. Nelle campagne furono considerati "nemici" anche i proprietari di terra italiani, visti, per un chiuso antagonismo di classe, come contrapposti ai coloni e ai mezzadri croati. Così avvenne anche per i commercianti, gli insegnanti, i farmacisti, i veterinari, i medici condotti, le levatrici, per tutti coloro che rappresentavano il ceto italiano preminente delle comunità.
Drammatico fu l'uso, per le esecuzioni, delle foibe istriane. L'eco del settembre 1943 si ripercosse nella propaganda dei nazisti e dei fascisti della repubblica sociale italiana, al fine di dilatare le diffidenze e i timori dei giuliani di sentimenti italiani nei confronti di un movimento partigiano egemonizzato dai comunisti jugoslavi.
Zona A
1943 1945 Obiettivo: i “nemici del popolo”
Nel maggio del 1945 le truppe jugoslave, partigiani del 9° corpo d'armata e unità regolari della 4a armata, occuparono tutto il territorio della Venezia Giulia e, come un esercito vittorioso, procedettero all'internamento di tutti i militari e di tutti gli appartenenti alle forze di polizia catturate e dei cittadini ritenuti ostili all'annessione del territorio alla Jugoslavia.
Il trattamento inflitto ai prigionieri fu durissimo. Molti perirono di stenti o furono liquidati nei campi di concentramento, come nel famigerato campo di Borovnica.
Molti perirono durante marce di trasferimento che divennero marce della morte. Centinaia furono le esecuzioni sommarie, decise senza l'accertamento di effettive responsabilità personali in atti criminosi.
Fra gli uccisi vi erano anche i responsabili di violenze, protagonisti di rappresaglie e sevizie, spie, sloveni e croati, aguzzini del famigerato ispettorato speciale di polizia di sicurezza per la Venezia Giulia. Il criterio degli arresti e delle esecuzioni si fondava su una ipotetica responsabilità collettiva e a essere travolti dalla repressione furono in maggior misura i quadri intermedi che non i vertici delle strutture politiche o militari della occupazione nazista. In questa logica rientra anche la deportazione delle guardie di finanza, che pure non avevano partecipato ad azioni antipartigiane e di molti membri della guardia civica di Trieste, che era stata dipendente dai comandi tedeschi, ma che non era stata impiegata in attività repressive. Persino alcuni membri delle brigate partigiane italiane, dipendenti dal Comitato di liberazione nazionale di Trieste, furono considerati alla stregua dei militari germanici e della repubblica sociale.
L'esercito jugoslavo non risparmiò le strutture politiche e le forze militari facenti capo al Comitato di liberazione nazionale italiano, solo perché non erano disponibili ad accettare la subordinazione al movimento di liberazione jugoslavo ed erano impegnati a cercare, mediante l'insurrezione armata, una autonoma legittimazione antifascista agli occhi della popolazione e degli angloamericani. L’obiettivo principale dei massacri fu quindi l’eliminazione dei “nemici del popolo”, cioè di chiunque si opponesse all’annessione della Venezia Giulia e dell’Istria alla Jugoslavia e alla costruzione di un regime comunista.
1946 1956 L’esodo dei 250.000
Alla fine della guerra la Jugoslavia rivendicò nei confronti dell’Italia una consistente espansione territoriale, che comprendeva anche la città di Trieste. In attesa della definizione di questo contrasto, il territorio giuliano venne diviso in due parti: la Zona A, comprendente Trieste, sottoposta ad un governo militare anglo-americano, e la Zona B, governata dall’autorità militare jugoslava. Soltanto nel 1954 la Zona A passò definitivamente all’Italia, mentre la Zona B rimase alla Jugoslavia. Con il 1956, data convenzionale della fine dell’esodo, il 90% della comunità italiana di Fiume e dell’Istria aveva dovuto abbandonare la propria terra.
Negli anni 1946-1956 si compì il tragico esodo degli italiani dalle loro terre. La quasi totalità degli italiani che vivevano nei territori passati sotto il definitivo controllo della Jugoslavia, fu costretta ad abbandonare i paesi nei quali vivevano da molte generazioni. Un’intera comunità nazionale, calcolata sulle 250.000 persone, si disperse nel mondo. Solo una parte degli esuli trovò ospitalità in Italia, mentre gli altri furono costretti a emigrare soprattutto nelle Americhe, in Australia o in Nuova Zelanda.
Lasciarono una terra sconvolta: borghi, soprattutto quelli costieri, ridotti a città fantasma, gravemente spopolate anche le campagne, completamente disarticolata la società locale con la scomparsa di interi ceti sociali (possidenti e artigiani), spezzati i legami con aree tradizionalmente unite da una fitta rete di legami, come Trieste e l’Istria.
La prima città a svuotarsi fu Zara, abbandonata da larga parte della popolazione in seguito ai bombardamenti anglo-americani del 1944, che recarono gravissime distruzioni alla città dalmata.
Subito dopo la fine della guerra iniziò a svuotarsi Fiume, stabilmente occupata dagli jugoslavi fin dalla primavera del 1945.
Il governo di Tito avviò nei confronti degli italiani una politica assai dura, fatta di espropri mirati a colpire le posizioni economiche della piccola e media borghesia, di arresti e uccisioni, con lo scopo di eliminare qualsiasi embrione di dissenso politico. Gli esodi di massa si intensificarono dopo il 1946, con la firma del trattato di pace, che sancì il passaggio dell’Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia.
Simile a Fiume fu la situazione di Pola, dopo che le truppe anglo-americane lasciarono la città. Uguale fu il comportamento degli italiani residenti in altri territori dell’Istria, il cui esodo fu diluito nel tempo.
1946 1956 L’amara accoglienza
Il rancore e l’odio accumulati da sloveni e croati per la criminale oppressione fascista spiega solo in parte l’asprezza dei comportamenti degli jugoslavi nei confronti della popolazione italiana, che veniva identificata in blocco come nemico storico del nazionalismo sloveno e croato.
Per le decine di migliaia di profughi che trovarono rifugio in Italia la vita fu all’inizio estremamente dura. Il governo italiano era del tutto impreparato ad accogliere una massa così imponente di profughi e una vera e propria politica di accoglienza venne approntata purtroppo con gravi ritardi.
Inoltre nel 1948 la condanna di Stalin contro Tito aveva modificato la posizione della Jugoslavia nello scacchiere internazionale, con la conseguenza di azzerare i toni della denuncia contro il governo di Belgrado anche in riferimento alle condizioni dei 250.000 profughi. I campi di assistenza allestiti in diverse parti d’Italia (nel Bergamasco, in Toscana, in Sardegna e nel Meridione) erano privi di tutto.
Ecco come un profugo descrive la vita in uno di questi campi: «Questo infame campo era situato in una vallata a fianco del fiume Arno e noi dovevamo accontentarci di vivere in casematte usate dai prigionieri di guerra con una coperta militare e un sacco di paglia. Il cibo era razionato e gli abitanti della zona ci trattavano peggio dei delinquenti».
Altrettanto dure furono, almeno nei primi tempi le condizioni di vita di coloro che furono costretti ad emigrare in paesi lontani. Quella dei 250.000 italiani costretti a lasciare le terre passate sotto il controllo del governo jugoslavo è una tragedia troppo spesso ignorata, provocata dalla guerra e dall’esplodere di un nazionalismo che anche in tempi più recenti ha causato distruzioni, sofferenze e morte nelle popolazioni che hanno avuto la sventura di esserne coinvolte.
Documenti tratti da “Fascismo, foibe, esodo. Una mostra della Fondazione Memoria della Deportazione”
e per un approfondimento si possono consultare gli Atti del convegno "Fascismo, foibe, esodo" tenutosi a Trieste nel settembre 2004 che la Fondazione Memoria della Deportazione ha anche pubblicato, disponibili anche online.
Come è stato possibile Hitler?
Abbiamo l’impressione di conoscere tutto di Hitler. Si conosce soprattutto la sua carriera dopo il suo arrivo al potere nel 1933. Ma tutto ciò che lo precede, e che è pertanto fondamentale se si vuol comprendere la complessità del personaggio e rispondere alla domanda: Come è stato possibile Hitler?
Per Hitler niente era predestinato per diventare un giorno il Führer, il dittatore della Germania. È nelle trincee della guerra del 1914-1918 che l’artista mancato e solitario scopre la sua missione: salvare la Germania. Ma per la maggioranza dei tedeschi, Hitler non è che una persona istruita e irrilevante.
La grande svolta, è la crisi economica del 1929. Per paura del caos, i tedeschi votano in massicciamente per lui. La dittatura nazista estende la sua ombra spietata sul paese. Hitler sostiene di volere la pace, ma prepara la guerra.
Hitler: la minaccia
Nel 1924 Hitler scrisse nel suo libro Mein Kampf: «Uno stato che rifiuta la contaminazione delle razze, un giorno comanderà il mondo». E ancora: «La prima guerra mondiale è stato il momento più invidiabile e il più sublime della mia vita».
Caporale, è decorato della “croce di ferro” che sempre porterà. Diventato nazionalista, partecipa alla prima guerra mondiale. Nel novembre 1918, ferito, viene portato a Berlino. Quando si riprende, viene a conoscenza dell’abdicazione dell’imperatore Guglielmo II, della fine della monarchia, della creazione della repubblica e della firma dell’armistizio.
Una sua ossessione: «L’aquila tedesca è stata pugnalata dagli ebrei». Scrisse nel Mein Kampf: «Se all’inizio e nel corso della guerra, si fossero mandati in una sola volta 15.000 di questi ebrei corruttori del popolo sotto i gas asfissianti, il sacrificio di milioni di uomini non sarebbe stato inutile».
Già nel 1916, le gerarchie militari ultranazionaliste avevano ordinato un censimento dei militari ebrei sospettati di non essere dei patrioti. L’antisemitismo è già diffuso; gli ebrei, sia quelli poveri nei ghetti sia quelli borghesi “assimilati” sono i capri espiatori di tutte le crisi. In Russia all’inizio del XX secolo gli ebrei furono vittime di massacri, i progrom. Molti si erano rifugiati in Germania.
Una grande domanda: Hitler era anche lui un ebreo? Uno dei segreti meglio tenuti nascosti dal suo regime fu quello di non poter provare il contrario. Hitler non conobbe uno dei suoi nonni. Suo padre era figlio di padre ignoto. La nonna aveva sposato un mugnaio chiamato Johan Hitler che aveva riconosciuto il bambino e gli aveva dato il suo nome. Una legge nazista stabiliva che per avere «la protezione del sangue» (legge imposta a tutti i tedeschi) occorreva dimostrare che i quattro nonni non erano ebrei. Così Hitler non ha mai potuto dimostrare di non essere ebreo.
Adolf Hitler nacque il 20 aprile 1889 in una famiglia cattolica, in quello che era l’impero d’Austria, a Branan sull’Inn, un piccolo paese al confine con l’impero tedesco. Suo padre, vedovo, si era sposato con una cugina molto più giovane di lui: un matrimonio tra consanguinei, Klara Hitler Alois Hitler.
A otto anni, scolaro modello, Hitler serve la messa in un monastero. Ammira il senso della missione dei monaci. All’ingresso del monastero, sul frontone, vi era una strana croce che prefigura la croce uncinata che diventerà il simbolo nazista. Hitler ricorderà questo simbolo del monastero come il segno della sua predestinazione.
Questa croce uncinata, in India, è un millenario simbolo benefico del movimento perpetuo dell’umanità, trasformato dai nazisti in simbolo del popolo ariano, mito della razza pura di biondi dagli occhi azzurri ai quali Hitler aggiungerà l’elmetto e la mistica di una razza superiore: «Noi siamo determinati a far crescere una nuova razza».
Suo padre voleva che diventasse un funzionario. Nel 1908, diciannovene, alla morte della madre, parte per Vienna: sogna di entrare all’Accademia di Belle Arti. Grazie ad una sua piccola eredità può condurre vita d’artista e di bohemien. Vienna era allora un centro culturale d’Europa. Hitler scopre questo mondo di aristocratici e di borghesi cui si contrappongono le bandiere rosse dei socialisti. Scopre le molteplici comunità che popolano la capitale dell’impero, tra cui anche quella degli ebrei. Egli più tardi dirà: «Quelli mi sembrarono l’incarnazione della profanazione razziale». Si presenta al concorso di Belle Arti, ma viene respinto. Segue un periodo difficile: vive in un pensionato di uomini, copiando e vendendo cartoline per i turisti. I soldi gli servono per andare a teatro e ascoltare Wagner che lo manda in uno stato di trance. Hitler sogna di diventare uno di quegli eroi della leggenda tedesca. Una delle sue opere preferite è Rienzi, in cui un giovane guerriero riceve la missione di salvare il suo popolo.
Hitler ha venticinque anni quando il 2 agosto 1914 c’è la mobilitazione e la dichiarazione di guerra.
Fugge dall’Austria per non fare il servizio militare e va in Germania, a Monaco, portato dall’ondata di follia nazionalista che trascina gli Europei.
Hitler è entusiasta della dichiarazione di guerra: ci sono delle immagini che lo ritraggono tra la folla; queste appariranno durante la campagna elettorale del 1932 e saranno diffuse più volte durante il nazismo, anche se gli avversari sosterranno che si tratti di un fotomontaggio.
Partecipa alla guerra. Dopo quattro anni torna a Monaco con il suo reggimento, in una Germania in piena rivoluzione. Hitler ha trent’anni. Inizia un periodo determinante per lui. Vuole rimanere nell’esercito che ormai garantisce l’ordine e la stabilità del nuovo regime del presidente socialista Friedrich Ebert. La giovane repubblica deve fronteggiare dei rivoluzionari marxisti, gli Spartachisti, che tentano di impadronirsi del potere, come i bolscevichi aveva fatto due anni prima.
L’esercito schiaccia la rivolta aiutato dai volontari nazionalisti, i Corpi franchi, vivaio del futuro partito nazista. Nell’esercito Hitler è zelante. Diventa un agente provocatore, informatore della polizia. Denuncia alcuni dei suoi camerati sospettati di essere dei rossi. Le sue convinzioni lo mettono in luce davanti a degli ufficiali che combattono le idee comuniste. Incaricano Hitler di una missione: rieducare politicamente i soldati e i prigionieri rimpatriati. I suoi superiori scrivono nel loro rapporto: «È un tribuno nato. Il suo fanatismo, il suo stile populista attirano l’attenzione e inducono a pensare come lui». Hitler disse: «Fu in quei momenti che capii che sapevo parlare». Apprenderà poi l’arte di mettersi in scena e di dominare il suo pubblico.
Nel 1919 denuncia l’onta del trattato di Versailles.
Versailles, 29 giugno 1919: dopo i negoziati, i vincitori, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti imposero alla Germania delle condizioni di pace molto dure, come se fosse la sola responsabile dell’immensa carneficina. Il trattato di Versailles, firmato il 28 giugno 1919, condannava la Germania al pagamento di enormi indennizzi e di riparazioni che andranno a pesare sulla sua economia e saranno le cause principali della contestazione tedesca. La Germania perde il 13% del suo territorio e 1/10 della sua popolazione. L’Alsazia e la Lorena ritornano alla Francia e tutta la riva sinistra del Reno è smilitarizzata. La cosa peggiore è la separazione della Prussia orientale dal resto del Paese, per ricreare la Polonia del XVIII secolo e consentirle l’accesso al mare. Questo corridoio di Danzica sarà la causa scatenante della II guerra mondiale.
I tedeschi si sentono umiliati. Sottomarini, corazzate e aerei sono distrutti. L’esercito tedesco è ridotto a 100.000 uomini. Hitler è smobilitato. Partecipa alle manifestazioni della DAP, il partito dei lavoratori tedeschi, a cui si era iscritto, dal 1919, per ordine l’esercito tedesco, come un infiltrato. Diventa un agitatore politico a tempo pieno.
Mentre la Baviera è governata dall’estrema destra, il potere a Berlino è nelle mani del centro- sinistra e porta il nome di Repubblica di Weimar, dal nome della città dove è stata votata la nuova Costituzione.
Hitler, diventato bavarese, fustiga i criminali di novembre, cioè coloro che hanno firmato l’armistizio e l’onta del trattato di Versailles. Le sue idee sono condivise dall’esercito e dagli ex combattenti che si riuniscono nei grandi caffè di Monaco, dove Hitler fa il suo ingresso, il 13 agosto 1920, con una conferenza dal titolo: «Perché noi siamo antisemiti?». Hitler, al di là del suo odio viscerale per gli ebrei, comprende che l’antisemitismo è il mezzo migliore per attrarre i nazionalisti.
Nel luglio del 1921 diventa il capo del suo gruppo di nazionalisti, che gli procurano un’auto, segno della sua importanza. Allora cambia il nome del partito: associa i due termini nazionale e socialismo per incrementare le adesioni e per dimostrare il suo anticapitalismo. Il DAP diventa il NSDAP, il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, che sarà abbreviato in “nazi”. In un locale di un caffè di Monaco, disegna il simbolo del partito. Scriverà nel Mein Kampf: «Dopo innumerevoli tentativi, scelsi una bandiera rossa per dimostrare la dimensione sociale del nostro movimento, con un cerchio bianco per simbolizzare il nazionalismo e la croce uncinata simbolo dell’ariano, eterno antisemita». Per proteggere le sue riunioni crea le SA, le Sezioni d’assalto, una piccola milizia a cui procura delle divise come quelle degli ex doganieri austroungarici.
Il suo radicalismo fa aumentare di dieci volte in un anno i suoi membri: da 2.000 a 20.000, grazie al sostegno di un gruppo razzista, la società di Thulé, dal nome di un leggendario regno nordico. I suoi membri finanziano un giornale con fondi di dubbia origine. “L’osservatore razziale”, è questo il nome del giornale, diventa l’organo del partito nazista; il suo direttore è Alfred Rosemberg, membro della società di Thulé, che si proclama il teorico dell’antisemitismo. Confuso e sovente delirante sarà uno dei grandi ispiratori della Shoah. Un altro ex membro della società di Thulé, allora studente, è Rudolph Hesse che diventerà segretario di Hitler e uno dei più servili e fanatici complici. A questi si unirà un eroe della Grande Guerra, Hermann Goering, uno dei più celebri piloti di aerei tedeschi. Diventerà il numero due del regime e uno degli istigatori dei campi di concentramento.
L’11 gennaio 1923, per il rifiuto a pagare i danni di guerra imposti dal trattato di Versailles, i tedeschi assistono, come ipnotizzati, all’entrata sul loro territorio di soldati francesi e belgi che occupano la Ruhr, regione mineraria e siderurgica. Francesi e belgi esigono di essere pagati direttamente con il carbone. Il governo di Berlino ordina una resistenza passiva, uno sciopero dei ferrovieri e minatori, che i francesi intendono rimpiazzare. Non c’è più carbone per i tedeschi e la situazione diventa particolarmente tesa.
Il 10 marzo 1923, un ufficiale francese, il tenente Colpin, viene assassinato. La sua salma attraversa la città e gli ufficiali francesi schiaffeggiano i tedeschi che non si tolgono il cappello. Questo episodio e quello dei quindici operai della Krupp, uccisi dai francesi il 31 marzo, saranno utilizzati dalla propaganda nazista, come l’esecuzione di un sabotatore, diventato un martire per il giornale nazista. Soldati di origine africana dell’esercito francese sono implicati in stupri: Hitler farà sterilizzare i meticci nati da queste unioni poi si vendicherà crudelmente nel 1940.
Hitler denuncia la debolezza dello Stato che consente ai francesi di trattare la Germania come una colonia. I tedeschi patiscono il freddo e la fame: tentano di rubare del carbone ai francesi. La Repubblica di Weimar è costretta a importare del carbone e a pagare i suoi scioperanti. La banca centrale deve stampare banconote a getto continuo. Il marco si deprezza in modo esagerato. In questa situazione di inflazione e di disoccupazione, l’estrema destra bavarese si mobilita, con alla sua testa il generale Lundendorff. Grazie a questo generale Hitler è riuscito a riunire tutti gli ex combattenti e vuol tentare un colpo di Stato, un putsch. Marciare su Monaco, poi su Berlino. Hitler disse: «Le nostre genti sono sottomesse a tali pressioni economiche che, se non agiamo, passeranno con i comunisti». I nazisti si procurarono delle armi grazie alla complicità dei militari, ma l’esercito e la polizia rimasero fedeli al governo.
9 novembre 1923. A Monaco, per Hitler tutto è perso. Ma Lundendorff ha la stravagante illusione di riuscire a trascinare la popolazione: fa, perciò, avanzare le sue truppe verso gli sbarramenti della polizia. I due campi si fronteggiano con Hitler al centro con il suo impermeabile bianco: un fotomontaggio nazista destinato a costruire la leggenda del coraggio di Hitler. In realtà si proteggeva dietro la sua guardia del corpo che rimase ucciso da un colpo di fucile, perché la polizia sparò, ponendo fine al putsch. Dieci anni dopo, quando Hitler si sarà impadronito del potere, istituirà, ogni 9 novembre, una cerimonia funebre alla memoria dei quattordici militanti nazisti uccisi durante il putsch. I loro nomi sono scanditi e i giovani gridano: «Presente». Hitler ha fatto costruire a Monaco un mausoleo dove i tedeschi hanno l’obbligo di sfilare salutando con il braccio teso coloro che vengono definiti da Hitler «i martiri di novembre». Continuando l’esaltazione del mito del putsch, Hitler inventerà un’altra grande cerimonia nazista, la bandiera di sangue. Ogni anno al congresso di Norimberga, mette in contatto, con delle mimiche feroci, le reliquie sacre, la bandiera del putsch macchiata di sangue, con gli stendardi delle nuove unità del partito come per consacrarle. Queste celebrazioni, quasi mistiche, fanno parte della scienza nazista della menzogna. In realtà Hitler aveva preparato male il suo putsch. Si era rivelato impulsivo e ne aveva ignorato le conseguenze. Queste scenografie nascondono un fiasco che metterà fine all’avventura nazista: il putsch è fallito, Hitler arrestato e il partito nazionalsocialista messo fuori legge.
Un grande scrittore austriaco, Stefan Zweig, scrisse: «Così, nell’anno 1923, sparirono le croci uncinate, le truppe d’assalto e il nome di Hitler ritornò nell’oblio».
Tre mesi dopo l’arresto di Hitler, a Monaco si apre il processo sul putsch.
2 febbraio 1924: Hitler è accusato di alto tradimento e della morte di quattro poliziotti. È passibile della pena di morte. Lundendorff, che non è stato nemmeno incarcerato, arriva al processo su un’auto di lusso con i suoi avvocati. È subito rimesso in libertà per rispetto al suo «glorioso passato» e perché gode di appoggi influenti. Sarà assolto.
Hitler, che voleva suicidarsi, comprende che il tribunale non gli è ostile; ritrova i suoi talenti di oratore e si lancia in invettive contro il governo e contro gli ebrei. Questo processo diventa una tribuna insperata, davanti a dei giudici sempre più compiacenti e ad un pubblico sempre più numeroso. Il verdetto è logicamente meno pesante di quello che Hitler avrebbe potuto temere. È condannato a cinque anni di prigione e incarcerato in una cella relativamente confortevole, che dà sulla campagna. Le condizioni di detenzione sono simili a quelle di un hotel perché può ricevere in qualsiasi momento dei simpatizzanti nazisti.
Hitler può ricevere tutti i giornali che desidera e inizia persino la lettura di opere di Marx. Rudolf Hesse, condannato a quindici mesi per la sua partecipazione putsch, occupa la cella vicina.
Il ritorno di Hitler diventa una necessità per i partiti di destra. Dei complici, all’esterno, intraprendono una procedura per la liberazione anticipata. Hitler sa che uscirà presto e sente la necessità di manifestare la sua visione del mondo e i suoi principi politici. Detta il suo libro a Rudolf Hesse, che lo batte su una macchina per scrivere di un banchiere e su della carta di Winifred Wagner, la nuora del compositore adulato da Hitler, che è razzista come Wagner e ammira il suo grande amico Adolf. Il testo del libro, raffazzonato, è riscritto da alcuni giornalisti nazisti; Hitler lo vuole intitolare «quattro anni e mezzo di lotta contro la menzogna, la stupidità e la vigliaccheria». Questo titolo, troppo lungo, viene cambiato in Mein Kampf, La mia battaglia. Il libro, che i nazisti vogliono considerare come la nuova Bibbia, conferma la concezione del mondo di Hitler. Nel libro, scritto come le sacre scritture e rilegato come i grandi manoscritti del medioevo, Hitler delira sulla lotta della razza superiore, quella dell’ariano biondo germanico, sulla conquista dello spazio vitale, sullo sradicamento del comunismo o sull’annientamento della Francia, per non parlare degli ebrei, che per Hitler non appartengono alla specie umana. Molti sono coloro che giudicano il libro demenziale, ma, all’epoca, sarebbe stato opportuno leggerlo e prenderlo seriamente perché è all’origine di 50 milioni di morti.
Hitler esce da prigione il 20 dicembre 1924, liberato per buona condotta. Immagina di essere l’erede dei grandi fondatori della Germania come Bismarck. Disse: «Il mio soggiorno in prigione mi ha dato una fiducia, una convinzione e un ottimismo che niente poteva più distruggere.
Il Mein Kampf è un fiasco. Venderà solamente ventimila copie del primo volume.
Hitler passa molto tempo in un villaggio della Baviera, dove affitta un piccolo chalet, a Berchtesgarden. Conosce una giovane e bella serva, Maria Reiter, di sedici anni, con la quale ha una relazione. Lei si vuole sposare ma lui rifiuta. Le propone di essere un’amante segreta, come ad altre donne, per non ostacolare la sua missione. Lei lo lascia. Scrive il secondo volume del Mein Kampf, dedicato al suo progetto di espansione dello spazio vitale verso la Russia. Il libro conoscerà una media diffusione fino alla presa del potere nel 1933. Dopo, il Mein Kampf sarà quasi obbligatorio. Lo Stato lo offrirà ai giovani che si sposano. Non averlo nella biblioteca di casa può essere motivo di denuncia da parte di una collaboratrice familiare; Sarà distribuito dalle acciaierie Krupp agli operai più meritevoli. Il Mein Kampf si venderà in un modo o nell’altro in più di 80 milioni do copie e sarà tradotto in tutte le lingue. I diritti d’autore raggiungeranno cifre astronomiche e renderanno Hitler molto ricco.
Il 27 febbraio 1925, Hitler ritorna alla politica nella sala del caffè dove aveva lanciato il putsch, riaffermando di essere il capo dei nazisti. È allora che si verificherà un avvenimento che gli potrà essere utile. L’incarnazione della nuova democrazia tedesca, il primo presidente della repubblica di Weimar, il socialista Ebert muore, all’età di 57 anni, di un’appendicite malcurata. È un dolore sentito dai tedeschi perché il suo governo era riuscito a controllare l’inflazione e il paese si stava riprendendo. I tedeschi devono eleggere un nuovo presidente e vedono il ritorno delle croci uncinate per la campagna elettorale. L’interdizione del partito è stata tolta perché giudicato non più dannoso. Il candidato dell’estrema destra unita, che è ancora Ludendorff, ottiene appena l’1% dei voti. La sconfitta di Ludendorff, auspicata da Hitler per sbarazzarsi del suo rivale per il quale finge di battersi, rivela il suo fiuto politico. Hitler dice: «Gli abbiamo dato il colpo di grazia».
È l’altro grande capo del 1914-18, il maresciallo Von Hindenburg che viene eletto. Giovane ufficiale nel 1870, ha assistito alla proclamazione dell’impero tedesco a Versailles. Rassicura l’esercito, unisce i conservatori preoccupando la sinistra e l’Europa. Hitler rimane in secondo piano.
Il partito nazista si estende in tutto il paese, fino a contare circa 170.000 aderenti. Hitler ha fatto delle SA un vero esercito privato. Sono molto giovani, ma questi paramilitari sono dei bruti, dei fanatici, degli assassini. La loro nuova uniforme di color marrone li fa soprannominare le “camicie brune”, imitazione delle camicie nere della “marcia su Roma”, qualche anno prima. Un altro segno copiato da Mussolini è il saluto romano, il braccio teso accompagnato da un grido che per Hitler sarà: “Heil Hitler”, “Salute a Hitler”.
L’uniforme delle SA è stata disegnata e fabbricata da un’equipe di stilisti tedeschi, che disegneranno anche quelle nere delle SS e della gioventù hitleriana. I fondi sono frutto della generosità degli aderenti e dei simpatizzanti del fascismo, come il magnate della siderurgia Fritz Thyssen, le cui acciaierie sono pronte a forgiare nuovi cannoni, e uno dei più grandi costruttori di automobili, Henry Ford. L’antisemita Henry Ford, aiuta generosamente il partito nazista, donandogli tutti i guadagni delle vendite in Germania. In più Ford, a ogni compleanno di Hitler, gli fa un dono personale di 50.000 dollari, una bella somma per quell’epoca. Ford sarà il primo straniero decorato dai nazisti dell’Ordine della Grande Aquila tedesca.
1927: una grande riunione del partito per lanciare grandi operazioni di propaganda per galvanizzare l’esercito. Lo stendardo nazista proclama «Germania svegliati».
Dal 1927 Hitler sceglie Norimberga quale bastione nazista e centro storico medievale, scenografia storica wagneriana che esalta i legami con i guerrieri germanici del medioevo. Hitler la definisce la sua capitale ideologica. Hitler vuole dimostrare la sottomissione del partito al Führer, al capo. Questo culto della personalità sarà ben curato dal fotografo ufficiale di Hitler, Heinrich Hoffman, che realizzerà una serie di foto per mostrare il lato umano del grande uomo e sedurre l’elettorale femminile, tale e quale se lo immaginano i nazisti. Nello studio del fotografo a Monaco, Hitler studia tutti i movimenti degli attori delle opere wagneriane per poi utilizzarle nei raduni nazisti. Hitler disse: «La massa delle donne è stupida. Ciò che la rende stabile è l’emozione e l’odio». L’odio è quello che seminano in tutta la Germania le SA, a cominciare nei quartieri ebrei delle grandi città. In questa società ancora pacifica, Stefan Zweig vede nascere la violenza. Egli scrisse: «Era il metodo fascista ma alla tedesca, esercitato con una precisione militare». Al suono di fischietto, le SA saltavano dai camion con la rapidità di un fulmine, colpivano con i manganelli e al suo di un altro fischietto balzavano sui camion e ripartivano com’erano venuti». Ma l’intimidazione e il terrore danno magri risultati.
Alle elezioni legislative del 1928 i nazisti non ottengono che il 2,6% dei voti, meno di un milione di voti; i comunisti tre volte di più; i centristi 4 milioni e i socialisti 10 milioni di voti.
Al Reichstag, la Camera dei deputati di Berlino, questi 2,6% di elettori tedeschi, soprattutto delle campagne, hanno consentito l’entrata di 12 deputati nazisti. Ciò fa impressione perché sono quasi tutti in uniforme delle SA. Tra loro, Herman Goering. Ferito al basso ventre durante il putsch, è ingrassato parecchio e ha una dipendenza alla morfina. Un’altra grande entrata: Joseph Goebbels, che corrisponde alla definizione di Nietzsche del secolo precedente: «Il fanatismo è la sola forma di volontà che può essere instillata ai deboli e ai timidi». Goebbels è lontano dall’essere un grande biondo ariano. È piccolo, zoppica e il suo piede lo fa soffrire dall’infanzia di un complesso d’inferiorità. Ma la sua intelligenza compensa questo handicap. È un rivoltoso contro la società, tentato dal marxismo prima del grande incontro della sua vita con Adolf Hitler. Tutto diventa luminoso per lui. Gli editori ebrei gli hanno impedito di diventare scrittore rifiutando i suoi manoscritti e questi sono i comunisti che seminano il caos. Egli dice: «Noi entriamo nel Reichstag come il lupo entra nell’ovile». Nessuno degli altri deputati, né il pubblico se ne rendono conto. Ciò che pensano, il giornale Frankfurter Zeitung lo scrisse allora: «Hitler non ha né pensiero né riflessione. È un folle pericoloso, ma se è arrivato là è perché ha avuto l’ideologia della guerra e l’ha interpretata in modo primitivo come se si fosse all’epoca delle invasioni barbariche, alla caduta dell’impero romano». La Germania non si preoccupa. Ci vorrà una grande catastrofe perché Hitler avesse un minimo avvenire. Lo storico Ian Kershaw scrisse: «Senza la Grande Depressione, senza la crisi del 1929, senza la disintegrazione dei partiti liberali e conservatori, Hitler sarebbe rimasto un visionario ai margini della vita politica». Ma Hitler non abbandonerà niente. «Noi continueremo la nostra battaglia».
Il Führer
Quando Hitler sarà il dittatore della Germania, applicherà quello che ha scritto nel Mein Kampf: «Una razza più forte spazzerà via le razze deboli perché la corsa finale verso la vita li annienterà per lasciare il posto ai forti».
Come ha fatto Hitler a impadronirsi del potere e a diventare Führer?
Norimberga 1929
Al congresso del partito nazista comincia quello che il drammaturgo Bertold Brecht chiama “la resistibile ascesa” di Adolf Hitler.
Una nuova crisi economica partita dagli Stati Uniti d’America devasta il mondo e soprattutto la Germania.
Ottobre 1929.
Le fabbriche chiudono una dietro l’altra e il numero dei disoccupati raggiunge i sei milioni. Disperati, molti si volgono ai nazisti e verso i comunisti, che anche loro hanno le proprie truppe paramilitari in divisa.
Comunisti e nazisti si scontreranno in tutte le elezioni che seguono. Hitler provoca i disordini e pretende di essere il solo a poterlo fermare. Questo vero ricatto si rivela efficace.
Hitler riunisce i commercianti e i piccoli proprietari denunciando “la peste rossa”, i marxisti egalitari che spaventano i contadini. Il risultato è incredibile.
Settembre 1930: cento deputati nazisti sono eletti al Parlamento, il Reichstag.
Hitler è a capo della seconda formazione politica del paese, dopo i socialisti. Ciò non preoccupa i dirigenti che disprezzano Hitler. Stefan Zweig: «Per loro il potere è sempre stato riservato ai baroni, ai principi e a chi ha una cultura universitaria. Niente ha tanto accecato gli intellettuali tedeschi che l’orgoglio della cultura». Hitler invece continua la sua ascesa.
Ottobre 1931. In un anno Hitler s’impone alla estrema destra tedesca. Le federazioni degli ex combattenti, che hanno 500.000 aderenti, si dovranno sottomettere.
Dietro questa postura dominatrice, Hitler nasconde un terribile segreto. Uno scandalo da cui non è riuscito a rimettersi. Delle voci circolano. Vive un dramma personale. Una passione per la sua nipote, Geli Ranbal, di ventitré anni. Egli l’ha amata in un modo irrazionale, possessivo. Lei si toglie la vita. Viveva con lui nel suo appartamento di Monaco. Aveva confidato a un amico: «Mio zio è un mostro. Nessuno immagina quello che esige da me». Aveva voluto lasciarlo. È morta.
Una campagna di stampa si scatena contro di lui, accusandolo di deviazioni sessuali e di aver fatto uccider Gali. Hitler, molto depresso, minaccia a sua volta di suicidarsi. Il suo entourage si preoccupa e decide di reagire. Il suo fotografo, Heinrich Hoffman, gli aveva presentato una segretaria. Rassomiglia a Geli. Si chiama Eva Braun. Ha diciannove anni. È già disinvolta. Farà l’affare. È sedotta dalla popolarità del capo del partito nazista. Hitler la fa diventare la sua amante segreta. Si proclama celibe, sposato alla Germania, per sedurre l’elettorato femminile.
Le donne in Germania hanno già il diritto di voto grazie al movimento femminista.
Eva Braun è una sportiva, sogna di diventare attrice a Hollywood. Dopo il suo incontro, Hitler ritrova il suo fiuto di animale politico. Nel 1932, quando si annuncia la fine del mandato del presidente della repubblica Hindenburg, Hitler si candida alla sua successione. Dieci anni dopo il suo tentativo di putsch e la prigione, Hitler potrebbe diventare presidente della Germania. I tedeschi scoprono dei manifesti impressionanti. Il capo della propaganda nazista, Goebbels, inventa una campagna elettorale ultramoderna con un aereo: la prima in Europa. Il più grande aereo commerciale è messo a disposizione dal direttore della compagnia aerea Lufthansa che non rifiuta questa possibilità di farsi pubblicità. Hitler con un casco di cuoio fa un giro di cento città della Germania dove può misurare la sua popolarità. Il suo pilota, Hans Baur, testimonia: «Abbiamo volato con tutte le condizioni di tempo; nessuna riunione è stata annullata. Le persone hanno incominciato a perdere la loro paura per l’aereo». E termina: «Hitler ha contribuito allo sviluppo del traffico aereo». Goebbels inventa lo slogan: «Il Führer sopra la Germania».
Crea il mito di Hitler, salvatore supremo, con il suo sorvolare accuratamente filmato e proiettato in tutto il paese. Ma Goebbels non è così tranquillo. La campagna elettorale costa caro e gli industriali non si fidano ancora delle violenze di Hitler. I nazisti devono far pagare l’equivalente di un euro a chi vuole vedere Hitler. Questi non rifiutano. Al contrario. Uno spettatore, Von Spaum, racconta questa esperienza: «Improvvisamente ho sentito gli occhi di Hitler su di me e ne sono rimasto colpito per tutta la vita».
4 aprile 1932
Una settimana prima delle elezioni presidenziali Hitler raduna centomila berlinesi, stanchi dei partiti tradizionali che si dimostrano incapaci di far fronte alla crisi. Tra la folla Jutta Rüdiger, vent’anni: «La disoccupazione ci aveva fatto sprofondare in uno stato terribile. Si pensava che solamente Hitler ci avrebbe fatto uscire da questa miseria. Nessuno parla delle decine di migliaia di persone che ogni anno si tolgono la vita con il gas perché stanno male».
Grazie al suo discorso pseudo sociale, Hitler è un serio candidato alla presidenza. Allora la stampa si scatena. A destra, Hitler è presentato come il prototipo dell’avventuriero politico. A sinistra gli insulti sono più personali. Hitler viene definito effeminato, truffatore semi pazzo, ciarlatano vanitoso, falso duro dal frustino di pelle di rinoceronte.
Il presidente uscente, il maresciallo Hindenburg, reazionario e monarchico, ha tuttavia il sostegno della sinistra.
Il 10 aprile 1932, il verdetto: Hitler non sarà presidente. Tredici milioni di tedeschi hanno votato per lui, un terzo dell’elettorato. È una cifra enorme ma non è sufficiente. Hindenburg, rieletto grazie ai voti dei socialisti, tuttavia non vuole più dipendere da loro. Ciò causa nuove elezioni.
E Hitler continua la sua “resistibile ascesa”. Riparte la campagna elettorale. Pronuncia cinque discorsi al giorno. Il suo entourage è sbalordito. È drogato dalla tribuna e dalla violenza. «I nostri avversari dicono che noi siamo, ed io in particolare, intolleranti e odiosi. E ci rimproverano di rifiutare la cooperazione con altri partiti. E bene, questi signori hanno ragione, noi siamo intolleranti. Il mi sono prefissato un obiettivo: sopprimere tutti i partiti».
Per Hitler il primo partito da sconfiggere è quello comunista. Le SA sono incaricate di questo compito. Sono quattrocentomila che si autofinanziano pagando le loro uniformi e il loro equipaggiamento. Uno di loro, Wolf Teubert, lavora in una pasticceria di Amburgo. Può velocemente raggiungere la sua coorte motorizzata. Dice: «Io non penso che a rischiare la mia vita per la Germania. L’umiliazione di Versailles ha fatto di me un appassionato difensore di Hitler». Egli ha la solidarietà, il cameratismo e la fierezza di avere un’uniforme. «Noi che eravamo troppo giovani per combattere nella Grande Guerra, noi approfittiamo dell’esperienza degli anziani». Goebbels ha fatto di loro un idolo. Un piccolo mascalzone berlinese, Horst Wessel, era stato promosso capo della Squadre d’Assalto: ucciso dai comunisti un anno prima, è diventato il martire del nazismo. Ai suoi funerali grandiosi, il capo della propaganda Goebbels, ha paragonato il suo sacrificio a quello di Cristo. Ha fatto filmare il suo funerale per mostrare che il nazismo è una devozione come il cristianesimo. Poi ha fatto diffondere una musica, ispirata come a un poema delle SA, per farla diventare l’inno del partito, il “Horst Wessel Lied”. Il canto “Horst Wessel” è il credo della violenza. «Presto la bandiera di Hitler sventolerà in tutte le strade; Presto la schiavitù non ci sarà più. I nostri camerati uccisi dal Fronte Rosso marciano ancora con noi».
Il Fronte Rosso erano le milizie comuniste, che si distinguevano perché indossavano un berretto da operaio e la casacca alla russa. Anche i loro militanti avevano un canto di battaglia: «Sinistra, sinistra, sinistra, suoniamo i tamburi, diamo un colpo potente al nemico, mettiamo la dinamite sotto il sedere della borghesia, minacciamo i fascisti che avanzano all’orizzonte. Proletari armatevi. Fronte Rosso, Fronte Rosso».
Luglio 1932: l’estate di sangue della campagna elettorale.
Le SA con la complicità della polizia affrontano i comunisti in veri combattimenti per le strade. I comunisti hanno 100 morti e 1000 feriti. Molti tedeschi, sfiniti per l’impotenza dello Stato, approvano le violenze naziste. In base ai risultati delle elezioni, 230 sono i deputati nazisti. Hitler è ormai il capo del primo partito politico del paese. Per la prima volta il potere è alla sua portata. Rapidamente, però l’euforia lascia il posto alla delusione: il presidente Hindenburg rifiuta di nominarlo cancelliere, capo del governo. Hindenburg dice a Hitler: «Davanti a Dio, alla mia coscienza e alla patria non posso dare il potere a un partito così intollerante come il vostro». Hindenburg gli propone di entrare in un governo ma Hitler, che non si considera come un politico ordinario alla ricerca di un posto ministeriale, vuole tutto il potere per fondare uno Stato totalitario.
In qualche settimana, Goebbels, a capo dell’enorme numero di parlamentari nazisti, riuscì a paralizzare il gioco democratico: nessuna maggioranza si poté formare. Goebbels annuncia: «Occorre sciogliere quest’assemblea che non rispecchia più la volontà del nostro popolo».
Si tengono nuove elezioni: le terze in un anno. Avranno luogo nel mese di novembre. Hitler pensa di approfittarne ancora: «Ho avuto la forza e la tenacia di trasformare le migliaia di aderenti degli inizi in quattordici milioni di elettori, ora ne otterrò venti milioni e poi trenta».
Novembre 1932: i risultati sono molto deludenti. Circondato dalla sua guardia personale, Hitler rimugina sulla sua sconfitta: ha perso due milioni di elettori e quaranta deputati.
Goebbels legge con amarezza la stampa mondiale. Il Daily Herald di Londra scrive: «L’hitlerismo, come forza politica, è morto». Il quotidiano francese Le Populaire, diretto da un grande nome del socialismo, Léon Blum, titola «La fine di Hitler». No, tre mesi dopo, Hindenburg, nell’impossibilità di formare una maggioranza, finisce per designare Hitler cancelliere.
Uno studente berlinese Sebastian Haffner scrive: «Apprendo la notizia, sono agghiacciato dal terrore. Sento l’odore del sangue e del fango. Percepisco un pericolo, come una grossa zampa sporca di un predatore che mette i suoi artigli sul mio volto».
Per arrivare là, il lupo diventa un agnello. Hitler ha rassicurato Hindenburg domandando solo due ministeri per i nazisti: gli Interni per un poliziotto di Monaco, Wilhelm Ftick, e Hermann Goering per controllare la polizia, due posti chiave.
30 gennaio 1933. Nomina, ai posti più importanti, un conservatore, Franz Von Papen, che è già stato cancelliere e l’uomo forte della estrema destra, Alfred Hugenberg, ministro dell’economia e dell’agricoltura, un temperamento autoritario e aggressivo. Hitler chiama il suo gabinetto “Governo di unione nazionale” perché non abbia l’aria di un governo nazista, ma di una coalizione nazionalista. Von Papen si sbaglia dicendo a Hugenberg: «Hitler è un nostro uomo». L’altro risponde: «Noi lo inquadreremo».
La sera stessa del 30 gennaio 1933, Goebbels organizza a Berlino, come in tutte le grandi città, una fiaccolata che vuole grandiosa, con i caschi d’acciaio, le SS, e soprattutto le SA. Goebbels dichiara che sono un milione a sfilare. Ma l’addetto militare inglese li stima in meno di 15.000 che Goebbels fa girare intorno per quattro ore. Passano sotto le finestre di Hindenburg, 85 anni, che crede di ritornare ai tempi di Verdun nel 1916 e dice al suo aiutante di campo: «I nostri uomini sfilano bene. Hanno fatto molti prigionieri». Hitler, alla Cancelleria, riceve degli omaggi deliranti. Un insegnante di Berlino, Luise Solmiz, dice: «Era un’ubriacatura senza vino – e aggiunge – ho sentito delle grida “Morte agli ebrei” e “Il sangue degli ebrei sgorgherà sotto i coltelli”».
Il 10 febbraio 1933 al Palazzo dello Sport di Berlino, Hitler pronuncia il suo primo discorso da Cancelliere. Qual è il piano di Hitler: il potere assoluto, ma a tappe. Al Parlamento siedono ancora 200 deputati socialisti e comunisti. La prima decisione di Hitler è di sciogliere l’assemblea e indire nuove elezioni. Nel suo discorso radiodiffuso chiama tutti gli elettori a votare per lui, anche quelli di sinistra: «Sono convinto che verrà l’ora per quei milioni di persone che ci maledicono, di entrare nei nostri ranghi e di salvare quello che noi abbiamo ottenuto con tanta fatica, questo nuovo Reich tedesco, quello della grandezza, dell’onore e della forza». Tuttavia, anche con questo discorso conciliante, Hitler continua ad agire di nascosto. Ma Goebbels precisa, tornando ai fondamentali per l’elettorato nazista di base: l’antisemitismo e la violenza: «Se i giornali ebrei credono di poterci spaventare con delle minacce larvate, attenzione a loro. La nostra pazienza ha dei limiti; un giorno si chiuderà il becco a questi sporchi mentitori ebrei. I membri del partito e delle SA possono stare tranquilli. La fine del terrore rosso è più vicino di quanto immaginate».
Due settimane dopo, a Berlino, durante la notte il grande edificio del Reichstag, il Parlamento tedesco, brucia. Di questo simbolo della democrazia tedesca non resta più niente.
10 febbraio 1933: l’inchiesta condotta dalla polizia agli ordini di Goering, incrimina un comunista olandese Marinus Van der Lubbe, 24 anni, sospettato per un passato da piromane. Rapidamente dichiarato colpevole, sarà decapitato. A chi porta profitto il crimine? Ai nazisti. Hitler e Goering agitano lo spettro del complotto dei Rossi; Goering fa arrestare 4000 comunisti e i loro capi. Ma il partito comunista non è ancora messo fuori legge. Hitler vuol dare un’apparenza di legalità per le elezioni legislative che devono dar fiducia al suo potere. I tedeschi, benché stanchi delle campagne elettorali e dei disordini, vanno a votare in tutto il paese. Le SA si impegnano, come dicono i nazisti, a prevenire tutti gli attentati dei comunisti e a proteggere la popolazione. Le SA sono più di un milione, armati; per il loro statuto, sono come degli ausiliari della polizia. In tutta la Germania, si posizionano davanti alle sedi dei partiti di sinistra e dei sindacati. Vogliono ancora seminare la violenza mente Hitler mostra di gestire responsabilmente il voto elettorale, per continuare ad assicurare un Hindenburg affaticato. Goering, con fare minaccioso, seduto sulla sua poltrona gotica e impugnando il suo pugnale, dà la sua versione menzoniera dei risultati elettorali: «Il 5 marzo 1933 significa un’immensa vittoria per un uomo e per un movimento. Il vincitore è Adolf Hitler e il movimento è il nazionalsocialismo. E i due non sono che un tutt’uno con il popolo e il Reich!».
Hitler e la sua coalizione, in realtà, raggiungono appena la maggioranza. Nonostante la sua propaganda e le intimidazioni della SA, Hitler non è riuscito a impedire ai comunisti di ottenere il 12% dei voti. Allora Hitler getta la maschera ed entra nell’illegalità con la complicità del suo governo. Fa arrestare i deputati comunisti e li manda nei campi di concentramento di Oranienburg, vicino a Berlino, e di Dachau, che sono allestiti dai nazisti. Sono i primi dei sedici campi aperti nel solo anno 1933. Il numero dei detenuti politici passa a 100.000 nel primo mese del regime. Lo studente comunista Klaus Bastian racconta: «Le guardie li frustano, li immergono nell’acqua gelida, li minacciano di morte, di giorno e di notte». I nazisti sostengono, al contrario, che questi parlamentari, questi funzionari e questi sindacalisti vengono rieducati. L’ombra malefica della dittatura si estende su tutta la Germania. Essendo stato bruciato il Reichstag, Hitler riunisce il Parlamento all’Opéra Royal, circondato dalle SA, per chiedere i pieni poteri.
20 marzo 1933. Nel Parlamento non ci sono più deputati comunisti; i 94 socialisti ancora presenti avranno il coraggio di votare contro Hitler. Saranno anche loro arrestati, imprigionati o costretti all’esilio. 441 deputati, dall’estrema destra al centro cattolico, ascoltano uno scaltro discorso di Hitler destinato a imbrogliare. Promette tutto, come sempre, la fine della disoccupazione, la salvezza dei contadini, il rispetto dei diritti e soprattutto la pace. L’assemblea si suicida votando i pieni poteri a Hitler per quattro anni. Il presidente Hindenburg non potrà più opporsi alle decisioni del Cancelliere. Sotto gli evviva, la democrazia in Germania muore.
Che Hitler, un uomo che ha consolidato il suo potere con l’antisemitismo, possa dirigere uno dei paesi più industrializzati del mondo è sentito come una minaccia universale.
New York. Nel mondo intero le manifestazioni contro Hitler denunciano la sua barbarie, il suo oscurantismo e proclamano che «il giudaismo sopravviverà all’hitlerismo». Tutti gridano al boicottaggio mondiale dei prodotti tedeschi. Hitler, per dissuaderli, ordina una giornata di boicottaggio dei negozi ebrei in Germania. È l’inizio della persecuzione. Edwin Landau, proprietario di un grande supermercato della Prussia orientale, prima di emigrare con tutta la sua famiglia in Palestina, scrive: «In poco tempo è avvenuta in me una trasformazione. Questo paese e questo popolo che avevo amato e stimato fino ad ora sono diventati miei nemici. Non ero più tedesco e non dovevo più esserlo. Mi vergognavo di essere appartenuto a questo popolo, della fiducia che avevo accordato a tante persone che si rivelavano essere miei nemici».
L’antisemitismo ha contagiato le università. Il nazismo ha istigato gli animi contro la cultura moderna e ha imposto un’ideologia settaria e intollerante che spinge gli studenti a bruciare essi stessi dei libri. Con l’aiuto degli studenti, inquadrati dalle SA, in tutta la Germania vengono raccolte dalle biblioteche, dalle librerie e presso gli editori, tutte le opere che corrispondono a quello che Hitler ha definito di «spirito antitedesco». Sulla lista nera nazista vi sono i libri di Karl Marx, Sigmund Freud, Stefan Zweig, e più di trecento autori, soprattutto ebrei. 12.000 titoli sono condannati: centinaia di migliaia di libri devono essere bruciati. E le SA preparano il rogo. A Berlino, in piazza dell’Opéra, Goebbels pronuncia il discorso radiodiffuso che apre la “messa nera” di questo incendio di libri di stampo medioevale: «Cari studenti e studentesse di Germania, l’epoca dell’intellettualismo ebreo è passata. L’essere tedesco del futuro non sarà più un essere da libro ma un essere di volontà».
10 maggio 1933. Una giovane berlinese, Dorothea Gunther, che assiste al rogo dei libri e al rituale nazista, testimonia: «Le SA e gli studenti gridavano il titolo del libro e il nome dell’autore e urlando “che era ebreo, pacifista, femminista o semplicemente moderno”, pronunciavano la sentenza “noi ti consegniamo al fuoco”. Sono rimasta ammutolita e offesa perché quegli studenti avevano letto e discusso molte di quelle opere che andavano in fumo».
Léon Blum scrisse: «In Germania, sarebbe stato necessario che i comunisti e i socialisti lottassero insieme». Ma i socialisti non avevano voluto. Per i comunisti, Mosca impartiva gli ordini: «Niente alleanze con i socialisti, i socialisti traditori». Le consegne suicide di Stalin hanno aiutato Hitler.
Hitler soppresse i sindacati e il 21 luglio 1933 mise fuori legge il partito socialista.
«SA e SS, Heil. Una grande epoca si apre davanti a noi – pronuncia in un discorso Hitler – La Germania finalmente si è svegliata. Noi abbiamo conquistato il potere. Ora dobbiamo conquistare il popolo tedesco».
Estate 1933. Il popolo tedesco può andare in vacanza. Il partito nazista è ormai il partito unico. I suoi slogan antisemiti non interessano troppo la gente. La sorte dei loro compatrioti di origine ebrea li interessa poco. Sono appena 500.000 mila, meno dell’1% della popolazione. La metà di questi ebrei tedeschi riuscirà a emigrare.
Gerda Blachmann testimonia: «Abbiamo potuto imbarcarci a condizione di lasciare tutti i nostri beni». Gli ebrei più poveri resteranno bloccati in Germania. Saranno deportati nei ghetti dell’Est e poi sterminati nei lager. Gli oppositori del regime fuggiranno come e dove potranno: soprattutto in Francia, dove saranno ripresi in seguito alla guerra e riconsegnati ai nazisti. Molti di loro che non partiranno per tempo e che vorranno resistere, saranno catturati e uccisi nei lager.
La grande maggioranza dei tedeschi si adatta alla dittatura. Alcuni cominceranno ad alzare ogni mattina la bandiera nazista a croci uncinate, diventata l’emblema ufficiale della Germania. Gli altri, una volta messo il bavaglio alla stampa, non potranno che leggere i giornali nazisti. Le bambine impareranno il saluto nazista, i bambini entreranno nella “gioventù hitleriana”, che svilupperà molto bene in loro l’aggressività. A scuola l’insegnante farà imparare ai ragazzi a maneggiare le armi. Nell’insegnamento della matematica, utilizzerà degli esempi del tipo: «Quanto costa in un anno allo Stato un alunno? Un handicappato 1.800 marchi, un alunno medio 320 marchi e un alunno brillante solo 125 marchi». Conclusione: la società non può sopravvivere se non quando i suoi cittadini sono geneticamente sani.
La figlia maggiore di ogni famiglia entrerà nella BDM, la Lega delle giovani tedesche e diventerà una brava sposa che avrà molti piccoli soldati, che si faranno uccidere a dieci anni negli ultimi combattimenti a Berlino, alla fine della seconda guerra mondiale. Ma i tedeschi non lo sapevano ancora in questa estate del 1933. Hitler non è interamente il capo supremo: deve ancora anestetizzare il popolo tedesco con la propaganda.
30 agosto 1933: primo congresso del partito nazista dopo la conquista del potere. Tra i partecipanti Rudolph Hesse, uno dei redattori della legge antiebraica, Goebbels che ha reso grande il Ministero della propaganda, Herman Goering, che ha fatto rinascere l’aviazione tedesca, Ernst Röhm, il capo dell’orda di fanatici che sono le SA. Röhm, che aveva partecipato al putsch del 1923 sarà accusato di tradimento. Le SA sono ormai due milioni, una forza che fa concorrenza all’esercito. Hitler, per avere il sostegno dei militari, deve metterli in riga ed elimina Röhm. Tutto inizia nell’estate del 1934 quando Hitler si reca a Venezia per incontrare Mussolini: è il 16 giugno 1934. Hitler è impressionato dal suo grande modello. Cerca l’accordo con Mussolini per il suo progetto di annessione dell’Austria. Mussolini rifiuta: non vuole la presenza tedesca alle sue frontiere. Mussolini disse: «Questo tipo mi sembra un monaco chiacchierone». Mussolini gli mostra la sua flotta, mentre Hitler non ha una marina. Hitler torna a Berlino mortificato. Comprende che fino a quando non avrà ricostituito la sua forza militare non potrà fare niente.
Hitler si reca alle manovre dell’esercito tedesco, piccolo in seguito al trattato di Versailles, ridotto a 100.000 uomini ma molto addestrato. Hitler sa che per fare una guerra occorrono dei generali, degli ammiragli, degli strateghi degli specialisti competenti. Ha promesso all’esercito di non rispettare il trattato di Versailles, di ridargli i suoi effettivi e il suo armamento. Ma i generali vogliono di più: vogliono la testa di Röhm e delle SA, più importanti per il loro numero dell’esercito. Röhm viene criticato per la sua mania di grandezza: fa ombra a Hitler. Goebbels disse: «È un bolscevico camuffato». Sono complici da più di quindici anni ma Hitler ha deciso di eliminare Röhm accusandolo di preparare un colpo di Stato. Hitler designa i boia: Himmler, capo delle SS, Heydrich, capo della Gestapo, Sepp Dietrich, un ex garzone macellaio divenuto capo della guardia di protezione del Führer. Tra il 30 giugno e il 2 luglio 1934, quella che Hitler chiamerà «la notte dei lunghi coltelli», le SS uccidono Röhm e 85 possibili oppositori o testimoni ingombranti del passato di Hitler. Dopo la fine di Röhm, le SA perdono tutta la loro influenza e sono ridotte a servizio d’ordine. L’esercito è soddisfatto, come gli industriali che temevano quando sentivano Röhm dire: «La rivoluzione nazionale socialista non è ancora terminata». Sepp Dietrich è promosso generale delle SS. Quando la regista Leni Riefensthal gira “Il Trionfo della Volontà” sul congresso del partito nazista del 1934, solo le uniformi nere delle SS sfilano. Ormai in alto nella piramide del potere Hitler è solo.
Un mese dopo “la notte dei lunghi coltelli” l’ultimo presidente della repubblica, il maresciallo Hindenburg, muore all’età di 87 anni. La democrazia è morta e sepolta da lungo tempo. La dittatura continua la sua marcia implacabile. Hitler diventa il capo delle Forze armate. Il suo potere è totale. E tutti i soldati giurano fedeltà «al Führer nostro capo e del popolo tedesco, Adolf Hitler».
Luglio 1935. Hitler si reca al festival di Bayreuth per ascoltare Wagner, il suo musicista preferito. La nuora del compositore, Winifred Wagner, che l’ha sostenuto fin dal suo così difficile debutto, lo riceve ora come capo della Germania. Hitler può valutare il cammino percorso; ha realizzato il sogno assurdo della sua gioventù: diventare Rienzi, il suo eroe wagneriano preferito che si sacrifica per il suo popolo in adorazione davanti a lui. S’imbarca come Sigfrido, sul mare del Nord verso le sue chimere, accompagnato da coloro che l’hanno creato e che non possono più domare, colui che è diventato il golem, la creatura della Bibbia fatta di argilla e che accecherà gli umani con la sua potenza infernale.
Hitler si appropria dei successi della repubblica di Weimar, come le famose autostrade, che diventeranno le vetrine del regime nazista.
Hitler si batte per promulgare le leggi razziali di Norimberga. Brucerà le sinagoghe nei grandi pogrom della “Notte dei cristalli”, preludio della “soluzione finale”. Si prepara a violare il trattato di Versailles rioccupando le zone smilitarizzate del 1919. Quando Francia e Inghilterra non reagiranno, la loro debolezza porterà Mussolini a riavvicinarsi a Hitler, lasciandolo annettere l’Austria per compiere la sua “missione”, riunire la Germania e i popoli che parlano il tedesco. Interverrà nella insanguinata guerra di Spagna, lanciando i suoi bombardieri, uccidendo la popolazione di Guernica e assicurando la vittoria ai fascisti di Franco sui repubblicani della Spagna.
Sogna il suo grande esercito, come quello di Napoleone. Marcerà verso Mosca, proclamando sempre che vuole la pace. «Noi vogliamo essere un solo e unico Reich, e voi dovete prepararvi. Noi vogliamo che il popolo diventi ubbidiente, e siete voi che dovete trascinarlo. Noi vogliamo che questo popolo diventi pacifico ma anche coraggioso, e siete voi che dovete essere pacifici!».
La Germania, trascinata dai discorsi e dalle manifestazioni grandiose, perderà i contatti con la realtà.
Quando la Germania sarà pronta, Hitler, feroce ed ostinato, la trascinerà, e il mondo intero con lei, in una lunga notte popolata di fantasmi di cinquanta milioni di morti.
Bibliografia:
Apocalypse Hitler Dvd
Francia, anno 1936: il FRONT POPULAIRE
Toccata più tardi, ma non meno gravemente dalla crisi mondiale (del 1929), la Francia subisce allo stesso tempo il discredito che subisce il sistema repubblicano. Alla fine, la sinistra prende il potere e si impegna a promuovere un nuovo ordine sociale ed economico, incontrando delle forti opposizioni.
I mezzi economici francesi, benchè reali, si rivelano ben presto insufficienti per far fronte ad una crisi mal compresa dai responsabili politici, che rifiutano l’adozione di misure drastiche, utilizzate da altri paesi, specialmente la svalutazione. Sebbene l’economia francese non fosse crollata come quella degli stati vicini, tuttavia era in costante flessione; nel 1935, la produzione industriale raggiunge ancora il 75 per cento di quella del 1929, e i disoccupati, tra l’altro poco assistiti, non sono ufficialmente che 465.000.
La classica politica di deflazione e la diminuzione per legge degli stipendi o dei prezzi (decreti legge Laval del 1935) accrescono il malessere sociale, che aumenta per un antiparlamentarismo accresciuto dagli scandali che agitano la cronaca: l’affare Stavisky, seguito dalle dimissioni di Chautemps e dalla sostituzione del prefetto Chiappe, esaspera l’opinione pubblica.
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Nel febbraio 1934, non c’è stato un «complotto fascista» ma la gravità dei moti testimonia un malessere sociale e politico.
Nel gennaio 1934, l’ antiparlamentarismo dell’opinione pubblica è esacerbato dal misterioso suicidio di Stavisky,truffatore legato al mondo politico. Inoltre Chiappe, prefetto di Parigi, giudicato troppo indulgente con le leghe, viene sostituito. Queste ultime scendo allora nelle strade il 6 febbraio, giorno dell’investitura del governo Daladier. Si formano diversi cortei: la Croix-de-Feu (organizzazione di ex combattenti, antiparlamentare e nazionalista, fondata nel 1927, e sciolta dal governo del Front Populaire) manifesta in ordine, l’Union nationale des combattants mostra invece una maggiore aggressività nei confronti delle forze dell’ordine; infine, l’Action française e le Jeunesses-Patriotes hanno intenzione di marciare verso il Palais-Bourbon (la sede dell’Assemblea Nazionale). Lo scontro cercato avviene in place de la Concorde; i poliziotti, bombardati da proiettili, fanno fuoco. Negli scontri ci saranno 17 morti e 2.000 feriti. Per cercare di rappacificare gli animi, Daladier, nonostante il sostegno della Camera, si ritira, sostituito da Doumergue: il governo legittimo ha ceduto alla strada, ma il regime ha retto.
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LA NASCITA del FRONT POPULAIRE
Il 6 febbraio 1934, a Parigi, diverse leghe manifestano con estrema violenza contro «i ladri e i corrotti» ma senza cercare di abbattere il regime benchè screditato. Questi gravi incidenti - 17 morti e più di 2.000 feriti – finiscono tuttavia per suscitare un riflesso di «difesa repubblicana» tra i partiti di sinistra, nonostante una profonda ostilità reciproca, aggravata dall’isolamento del partito comunista, dovuto alla strategia di «classe contro classe» imposta da Mosca.
Qualche giorno dopo tutto evolve. La spinta della «base» si vede il 12 febbraio: i cortei socialista e comunista fraternizzano durante una sfilata di protesta.
Preoccupato della situazione tedesca, il Comintern impone al partito comunista la politica della «mano tesa». Nel giugno del 1934, Maurizio Thorez propone un patto di unità d’azione alla S.F.I.O. (Section Française de l’Internationale Ouvriere, dal 1969 PS, Parti Socialiste), che, il mese seguente, l’accetta; il 13 novembre rivolge la sua proposta ai radicali, con l’idea di un «Front Populaire del lavoro, della libertà e della pace».
Le sconfitte elettorali del partito radicale nel 1934 e nel 1935, la foga dei suoi «Jeunes-Turc» (corrente del partito radicale) - Cot, Mendès France e Zay – spingono questa formazione a partecipare a una giornata comune con la S.F.I.O. e il partito comunista, il 14 luglio 1935, vero atto di nascita del «Rassemblement populaire».
VITTORIA ELETTORALE
La manifestazione è un successo che prelude all’alleanza dei partiti e dei sindacati di sinistra in vista delle elezioni del 1936. Il programma di governo, pubblicato nel mese di gennaio, è composto di tre parti: difesa delle libertà contro le leghe faziose, lotta contro la crisi economica e sociale, sicurezza collettiva, che si riassume nella formula «pace, pane, libertà». La S.F.I.O. vi inserisce diverse misure precise e concrete che spera di realizzare. La destra conduce una campagna difensiva sul pericolo bolscevico. Un attentato dei Camelots du roi (organizzazione monarchica) contro Léon Blum in occasione delle esequie di Jacques Bainville (storico monarchico), la rimilitarizzazione della Renania condotta da Hitler, che la Francia lascia fare, la vittoria del Frente popular spagnolo pesano sulle ultime settimane precedenti le votazioni. Alla vigilia del primo turno elettorale, l’Humanité rassicura l’elettorato delle classi medie, intitolando: «Per l’ordine, votate comunista».
Nonostante un tasso di partecipazione record, la sinistra non ottiene che 300.000 voti di più di quelli ottenuti nel 1932, e i ballottaggi sono molto numerosi. Ma l’accordo di votare il candidato meglio piazzato assicura una netta maggioranza al Front Populaire in occasione del secondo turno: 378 seggi su 598. Due sorprese: da una parte, distanziati per la prima volta dai socialisti, i radicali perdono 49 seggi; dall’altra i comunisti moltiplicano per sette il numero dei loro eletti. Più che l’elettorato, il mondo politico va a sinistra. Vincitore della coalizione, Léon Blum diventa presidente del Consiglio alla riapertura delle Camere, il 4 giugno 1936. Primo problema: i comunisti declinano la loro partecipazione al governo; la pressione di Mosca li mantiene lontano dalle responsabilità, per lasciarli liberi di esercitare dal di fuori «una sorta di ministero delle masse», secondo il motto di Paul Vaillant Couturier, direttore de l’Humanité.
I socialisti occupano i ministeri economici e sociali, i radicali ottengono dei posti più politici. Questa prudente distribuzione degli incarichi ministeriali è innovativa per certi aspetti, tra cui la nomina di tre donne segretario di Stato - quando le donne non avevano ancora il diritto di voto – e un manifesto ringiovanimento. Inoltre, Léon Blum ha la saggezza di non cumulare la presidenza del Consiglio con altri ministeri.
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LÉON BLUM
L’affare Dreyfus e il prestigio di Jean Jaurés (fondatore del foglio socialista l’Humanité, pacifista, energico difensore di Alfred Dreyfus, assassinato da un nazionalista francese) sono determinanti per l’ingresso in politica di questo brillante e raffinato studente dell’Ecole Normale, proveniente da una famiglia di ebrei dell’Alsazia.
Consigliere di Stato, capo di gabinetto del ministro socialista Marcel Sembat nel 1914, ostile all’Internazionale comunista, artefice del cartello delle sinistre, fa crescere il numero dei votanti la S.F.I.O. fino a farla diventare il primo partito di Francia nel 1936; generoso, idealista, perfino entusiasta, il nuovo presidente del Consiglio è un riformista che tenta di piuttosto di conciliare giustizia sociale ed economia liberale. Il suo programma non manca di coerenza, ma ignorava le regole del mercato e si scontrava con l’incomprensione di un padronato distaccato a causa delle difficoltà dell’anteguerra. Capro espiatorio del governo di Vichy, Léon Blum è tradotto davanti alla corte di Riorn nel febbraio 1942, ma si difende così bene che il processo ridicolizza il regime. Deportato in Germania dopo l’invasione della zona libera, presiede un gabinetto effimero dal dicembre 1946 al gennaio 1947, poi si ritira dalla vita politica.
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UNA KERMESSE PRIMAVERILE
Una settimana dopo la vittoria del FRONT POPULAIRE, scoppiano degli scioperi spontanei che travalicano le tradizionali organizzazioni sindacali. Il movimento ha inizio il 12 maggio a Le Havre, raggiunge Parigi il 14, poi si propaga in provincia. Il 10 giugno, tre milioni di scioperanti occupano i loro luoghi di lavoro in un clima da “buoni ragazzi”. La gioia della vittoria elettorale, il timore diffuso di non poterne raccogliere i frutti, ma con la speranza di un miglioramento delle condizioni della vita quotidiana e il sentimento di una dignità acquisita, sono i principali caratteri di questi scioperi né rivoluzionari né aggressivi: gli operai rispettano gli attrezzi di lavoro e limitano i loro obiettivi alla fabbrica in cui lavorano.
Léon Blum, preso alla sprovvista, calma questo sfogo collettivo con una serie di decisioni spettacolari che vanno oltre il suo programma elettorale: L’11 e il 12 giugno 1936, alcune leggi istituiscono la settimana di 40 ore, 15 giorni di ferie pagate per tutti i salariati e dei contratti collettivi per tutte le categorie professionali.
Già la Confederazione nazionale francese del padronato negozia con la C.G.T. (Confédération Générale du Travail) con la mediazione del governo: gli «accordi Matignon» del 7 giugno rivalutano i salari dal 7 al 15 per cento, garantiscono la libertà sindacale, istituiscono i contratti collettivi così come l’elezione dei delegati del personale. Gli scioperi diminuiscono, mentre i «biglietti Lagrange (Ministro delle Attività ricreative)», a tariffe preferenziali, facilitano le prime vacanze per milioni di francesi. Nel corso dell’estate 1936, la volontà di giustizia sociale legata ad un rilancio dell’economia, induce il governo Blum ad una intensa attività legislativa: le industrie degli armamenti e l’industria aeronautica vengono nazionalizzate, sono riformati gli statuti della Banca di Francia (organizzazione privata), la scolarità obbligatoria è prolungata fino ai 14 anni, viene dato un forte impulso al tempo libero e alla cultura. Grandi lavori sono programmati per riassorbire la disoccupazione. Infine la creazione di un Ufficio del grano dovrebbe contribuire a far aumentare le tariffe agricole falcidiate dalla crisi.
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LO SCIOPERO BIANCO
Per la prima volta, le sospensioni dal lavoro assumono un carattere sorridente. Novità, le fabbriche e le officine sono occupate e diventano un luogo di festa popolare: gli scioperanti giocano a carte o alle bocce, ballano al suono delle fisarmoniche e sono riforniti dalle loro famiglie. Questo entusiasmo tutto pacifico resterà nella memoria.
Sorprende i partiti e le stesse centrali sindacali, perchè gli scioperi paradossalmente non riguardano i settori più sindacalizzati. Ordinati, le violenze sono rarissime, piuttosto moderati nelle loro rivendicazioni, questi scioperi cambiano il clima delle imprese; un padrone favorevole al Front Populaire parla di «cura psicoanalitica» della Francia.
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LE PRIME DIFFICOLTÀ
L’euforia è di breve durata. Il Front Populaire si scontra rapidamente con l’amara realtà della politica estera e dell’economia. La guerra civile spagnola, che scoppia il 18 luglio 1936, provoca la prime crepe nella coalizione di governo: ostili ad ogni sostegno ai repubblicani spagnoli, mentre i socialisti si dimostrano favorevoli, i radicali minacciano di far cadere il governo, Blum cede, ma il non intervento della Francia provoca lo stupore degli «antifascisti» e preannuncia la prossima rottura con i comunisti, fautori accaniti del sostegno.
La conclusione del patto Roma-Berlino sconvolge le alleanze e obbliga la Francia ad aumentere le spese militari, che appesantiscono il bilancio dello Stato. L’attività economica resta stagnante, malgrado una timida ripresa: i prezzi aumentano per compensare le concessioni accordate a giugno. Pierre Gaxotte, un acuto uomo di destra, sottoliea «questa cattiva abitudine del padronato di lasciarsi strappare quello che potrebbero concedere di buona grazia». Gli industriali si rifiutano di investire, alcuni speculano contro il franco; le riforme sono costate caro, senza dare i risultati sperati: la generalizzazione delle «quaranta ore» non ha fatto crescere l’occupazione. Il 28 settembre 1936, il ministro delle Finanze Vincent Auriol svaluta il franco del 25% .
La vita politica interna è avvelenata dagli odiosi attacchi dell’estrema destra, le cui calunnie spingono il ministro degli Interni al suicidio. Sciolte nel mese di giugno, le leghe si ricostituiscono in partiti politici e denunciano la «sovietizzazione della Francia». La stampa moderata approva in coro. Il malessere aumenta: i radicali si preoccupano per l’inefficacia delle riforme, i comunisti, al contrario, reclamano delle misure più dirigiste, come il controllo dei cambi. L’elettorato è sconcertato per l’aumento dei prezzi e per la svalutazione, che decurtano gli aumenti salariali; in autunno degli scioperi sporadici riprendono in tutti i settori ed altri, tuttavia, non possono essere evitati dall’intervento delle commissioni di conciliazione e di arbitrato, istituite nel mese di dicembre. La fiducia nel governo diminuisce: la fuga dei capitali si aggrava, il deficit del bilancio e l’inflazione aumentano.
LA FINE DEL FRONT POPULAIRE
Di fronte ad una situazione così delicata, Léon Blum auspica una «pausa» delle rivendicazioni. Il 13 febbraio 1937, il suo annuncio della sospensione delle riforme non frena l’agitazione sociale. Deluso, il presidente del Consiglio così si esprime durante l’inaugurazione dell’Esposizione internazionale del 1937: «I lavoratori non devono confondere libertà e licenza». Qualche settimana prima, la «sparatoria di Clichy» (5 morti e 500 feriti) aveva aggravato la tensione nella coalizione di governo. I comunisti non sostengono più il governo, già minato dal sabotaggio finanziario del padronato. La maggioranza moderata e radicale del Senato rifiutano a Blum la concessione dei pieni poteri, che gli consentirebbero di combattere la speculazione. Il presidente del Consiglio preferisce dare le dimissioni, fedele alle sue convinzioni: «Sono determinato ad affrontare tutto tranne una cosa: un disaccordo con il partito o con l’insieme della classe operaia». Quattro governi prolungano l’agonia del Front Populaire, a poco a poco abbandonato dai radicali. Il gabinetto Chautemps, appoggiato ancora dai socialisti, nazionalizza le compagnie ferroviarie deficitarie. La persistenza degli scioperi, appoggiati dai comunisti, ostacola la ripresa, ma i socialisti fanno dimettere Chautemps che vuole rimettere in discussione il principio delle quaranta ore. Un secondo gabinetto Blum dura qualche giorno. Il 10 aprile 1938, Daladier forma un governo di radicali e di centrodestra; il Front Populaire è ormai un ricordo e un decreto legge del novembre 1938 sopprime la settimana di quaranta ore lavorative.
UN MITO POLITICO
Il Front Populaire, primo esercizio del potere da parte di una maggioranza socialista riformista, non ha resistito alla congiunzione di un contesto internazionale teso e all’ostilità degli ambienti finanziari. Le numerose promesse del partito comunista all’elettorato e gli errori di gestione riducono ancora la sua portata politica. Ma l’eredità sociale pone un’ipoteca sul futuro e consente al Front Populaire di diventare un mito per la sinistra francese.
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LE QUARANTA ORE
La crisi economica rende popolare l’idea di una diminuzione del tempo di lavoro da quarantotto a quaranta ore settimanali, a parità di salario. I sindacati prevedono una miglioramento della produttività e la possibilità di una riduzione della disoccupazione, ma gli ambienti economici, al contrario, avanzano una serie di riserve. I decreti di applicazione promulgati dall’ottobre 1936 alla primavera del 1937 mancano di elasticità. Applicate troppo rapidamente, le «quaranta ore» producono pochi effetti sulla ripresa economica ed il padronato è reticente nell’applicare questa legge. D’altra parte, le imprese non possono sostituire il loro personale qualificato con dei lavoratori con poca esperienza e devono sopportare un aumento del costo del lavoro, soprattutto intervenuto in un periodo di recessione.
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LE FERIE PAGATE
Le «vacanze pagate» non erano un’innovazione: gli impiegati degli uffici già ne usufruivano. Di più, la recessione induce alcune aziende a fermarsi per qualche settimana durante il mese di agosto; ma queste ferie forzate sono una disoccupazione tecnica mascherata e non remunerata. Da ultimo, il Senato respinge tutti i progetti di legge. Tuttavia, l’11 giugno 1936, un voto quasi unanime – meno un voto – estende le «ferie pagate» a tutti i salariati che hanno almeno un anno di anzianità. L’iniziativa non figurava in modo esplicito nel programma elettorale, ma gli scioperi spingono Léon Blum a prendere tale misura. All’inizio dell’estate i beneficiari si affrettano a salire sui «treni del piacere» a tariffe ridotte del 40%. Scoprono la Francia, sacco in spalla o sui tandem,
alcuni vedono il mare per la prima volta nella loro vita o ritornano, dopo lungo tempo, ai paesi lasciati. Leo Lagrange; ministro dello Sport e del Tempo libero, moltiplica il numero degli stadi, le piscine, gli ostelli della gioventù. Certamente, qualche privilegiato scontroso deplora il degrado delle spiagge da parte dei «poveracci col baschetto che vogliono coprire la Francia di cartacce unte». Benchè molte famiglie rimangono a casa per mancanza di mezzi, le ferie pagate non saranno mai rimesse in discussione. Più commoventi le migliaia di cartoline postali che affluiscono al Matignon (residenza del Primo ministro) con queste semplici parole: «Grazie signor Blum».
L'avvento del regime nazista in Germania
Leggendo il libro “Come si diventa nazisti” di William Sheridan Allen, pubblicato nel 1968 da Einaudi, si può comprendere come una democrazia civile abbia potuto precipitare e affondare in una dittatura.
L’autore analizza la storia di una piccola città della Germania durante gli ultimi anni della repubblica di Weimar e i primi del Terzo Reich. William Sheridan Allen sostiene che: «Se un microcosmo ha il difetto di non essere rappresentativo, ha però il vantaggio di permettere uno studio preciso e dettagliato. ... La realtà immediata acquista risalto; le azioni possono essere inquadrate nello schema della vita quotidiana e così si riesce a stabilire perché gli individui agirono in quel dato modo, perché i tedeschi fecero quelle scelte che permisero a Hitler di salire al potere».
Le misure naziste a livello locale furono una delle chiavi che aprirono la via all'affermarsi del totalitarismo in Germania. Prima di giungere al potere, Hitler aveva ricevuto un forte appoggio dal virtuosismo e dall'adattabilità delle sue organizzazioni locali di partito, la NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi). L'avvento al potere, nella primavera del 1933, si compì in gran parte per spinta dal basso, pur essendo facilitato e reso possibile dalla posizione di cancelliere tedesco cui Hitler era pervenuto: il Führer raggiunse la vetta, perché i suoi seguaci avevano avuto successo al livello di base.
La situazione economica, per quanto preoccupante, era soltanto una delle componenti della situazione nelle cui spire sempre più opprimenti si sentivano avvolti i tedeschi. A oltre dieci anni di distanza il trattamento punitivo riservato alla Germania dal Trattato di Versailles era sentito dalle masse di tedeschi come un'offesa personale. Essere costretti dai vincitori a pagare danni di guerra onerosissimi, doversi piegare al divieto (peraltro aggirato sin dalla metà degli anni Venti) di riarmare esercito e marina, veder rimessa in discussione la sovranità tedesca sulla Renania dopo aver già perso nel 1919 l’Alsazia, era un'onta per la nazione che ricadendo a livello individuale prendeva alla gola l'operaio come l'insegnante, il funzionario statale come l'agricoltore. Il tutto - l'ansia per lo stato dell' economia e il risentimento per l'umiliazione di Versailles - si era trasformato da anni in un diffuso discredito della classe politica, giudicata incapace di trovare soluzioni decenti all'una come all'altra questione.
I nazisti si seppero muovere con rapidità ed efficacia, proonendosi alle paure reali e fittizie delle classi medie come i soli capaci di sopprimere alla radice le loro cause.
Ad attrarre i voti della media borghesia fu la capacità dei nazisti di distribuire sicurezza, di ridurre con le loro promesse in campo economico e sociale il livello collettivo di angoscia. Al contrario, le forze porogressiste, tra cui SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Partito Socialdemocratico di Germania) sommarono errore a errore. La borghesia era terrorizzata dallo spettro del comunismo: la NSDAP si presentava come un baluardo d'acciaio nei confronti del nemico rosso, laddove la SPD continuava a ricoprire con slogan massimalisti quelle che erano modeste proposte per una politica socialdemocratica. Sul piano dei rapporti internazionali, non solo tra le file della borghesia, ma anche tra quelle degli operai e dei contadini erano in molti a. sentire lesa la propria personale dignità per il modo in cui la Germania era stata trattata a Versailles e dopo.
Perciò gli articoli di giornale, i volantini, i discorsi dei rappresentanti della NSDAP battevano senza fine su tale tasto, assicurando che se loro fossero giunti al potere si sarebbero impegnati a morte - è la parola - per riscattare l'onore tedesco.
La SPD, infine, si mostrò del tutto incapace di stringere alleanze sia alla propria sinistra che alla propria destra, mentre i nazisti, di elezione in elezione, seppero allacciare le alleanze più spregiudicate con diversi partiti moderati e conservatori, adattandosi di volta in volta a cambiare linguaggio, programmi, slogan, uomini per assumere l'aspetto ora più battagliero, ora pru posato che conveniva al momento per irretire il potenziale alleato. Con questi mezzi i nazisti seppero convincere le classi medie d'essere il partito che le avrebbe, tutt'insieme, protette dai rossi, guarite dall'onore offeso, rimesse in condizione di far prosperare pacificamente i loro affari. Le classi medie li compensarono con una valanga di voti.
Il penultimo giorno di gennaio del 1933 il presidente Hindenburg, rispettando scrupolosamente la legge, nomina Hitler cancelliere del Reich. Il presidente sa che i nazisti sono tipi alquanto invadenti ma ritiene di aver preso adeguate contromisure: nel nuovo gabinetto i ministri nazisti sono soltanto due, Frick e Göring. Molto più perspicaci del vecchio maresciallo, alla notizia che Hitler ha ufficialmente varcato il soglio della Cancelleria, l suoi seguaci inondano la Germania di canti, bandiere, fiaccole e violenze a danno degli avversari politici. In effetti quella notte il colpo di stato a rate, come qualcuno appropriatamente lo definì, era legalmente cominciato. I tedeschi incoraggiarono Hitler a perfezionarlo assegnando al suo partito, alle elezioni nazionali del marzo 1933, quasi il 44 per cento dei voti; e Hitler capitalizzò tale consenso assumendo poco più di un anno dopo, alla morte di Hindenburg, anche la carica di capo dello stato.
Come in tutte le dittature, il primo scopo perseguito è la distruzione dei rapporti associativi tra gli individui, seguito dalla loro sostituzione con il rapporto diretto tra i singoli così isolati e atomizzati e un capo che li controlla. Con i pretesti più vari vengono progressivamente sciolti o costretti alla chiusura quasi tutti i gruppi politici, i centri culturali, le antiche associazioni religiose, le società di mutuo soccorso. Al loro posto subentrano associazioni preposte caso per caso all'inquadramento e all'indottrinamento dei giovani, delle donne, degli impiegati pubblici, degli insegnanti, degli operai, dei contadini: tutte controllate rigidamente sia dalla NSDAP, sia dalle pubbliche autorità, una volta che queste erano divenute semplicemente il braccio operativo di quella. Aumentano paurosamente le violenze, che sino al 1933 non avevano superato il tasso osservabile di regola nei momenti di aspra lotta politica di quei decenni. Con un sapiente dosaggio di percosse e di arresti, di distruzioni di case e di deportazioni nei primi campi di concentramento, la violenza dei nazisti si dirige dapprima contro gli avversari, per estendersi poi a coloro che danno segni pur minimi di dissenso o appaiono indifferenti ai richiami a partecipare con entusiasmo alle manifestazioni organizzate dalla NSDAP. In tutta l'amministrazione pubblica, dalla carica di bidello a quella di sindaco, subentrano uomini ligi al nazismo. Avvolta in una simile maglia, alla fine del 1935 la comunità di Thalburg (la città presa in considerazione dall’autore del libro per la sua analisi e per il suo studio), culturale e morale, ha cessato di esistere.
Bibliografia:
William Sheridan Allen - “Come si diventa nazisti” - Einaudi 1968
Vichy contro la scuola
La capitolazione della Francia
Il 14 giugno 1940 i nazisti entravano a Parigi, mentre un'ondata di profughi dalle regioni circostanti cercava salvezza in una fuga disperata verso il Sud della Francia. In un solo mese la Germania aveva liquidato il suo storico avversario che pure disponeva del più numeroso esercito d'Europa ed era dotato di mezzi corazzati e di un'aviazione di tutto rispetto.
Le cause di questa clamorosa sconfitta vanno cercate principalmente negli errori strategici dei comandi militari, legati a una vecchia concezione del conflitto, ferma ai parametri del 1914. Ci si era preparati, cioè, a una lunga guerra di logoramento, costruendo grandi fortifìcazioni su tutto il confine franco-tedesco che la Wehrmacht (l'esercito tedesco) aveva invece del tutto ignorato, invadendo la Francia dal Belgio.
La Repubblica di Vichy
Si comprende così l'umiliante resa decisa dal nuovo presidente del Consiglio, l'ultra ottantenne maresciallo Philippe Pétain, vecchia gloria della Prima guerra mondiale, schierato da tempo su posizioni di destra al punto da non nascondere la sua ammirazione per Hitler e il nazismo.
Molti alti ufficiali condividevano questo atteggiamento, convinti che solo un sistema autoritario avrebbe potuto forgiare un popolo e un esercito in grado di vincere. Scaricata dalle proprie spalle ogni responsabilità della sconfitta, i militari gettavano la colpa sulle istituzioni democratiche che avevano retto la Francia negli anni passati. Per Pétain, capo del governo collaborazionista, dalla fine della Prima guerra mondiale si era indebolita la fibra morale dei francesi e questi erano diventati sordi ai veri valori della tradizione: la famiglia, la religione, il rispetto delle gerarchie, l'ubbidienza all'autorità.
A questi ideali faceva dunque appello il capo del governo collaborazionista con sede nella cittadina termale di Vichy, al quale i tedeschi avevano concesso una sovranità limitata alle regioni centrali e meridionali della Francia e alle colonie d'oltremare. II resto del territorio francese restava sotto l'occupazione degli eserciti del Fuhrer.
Vichy contro la scuola
Estate 1940: il regime di Vichy ritiene la scuola laica e repubblicana responsabile della sconfitta della Francia: una delle sue priorità è, perciò, «far pulizia nell’insegnamento». Il maresciallo Pétain ha la sua rivalsa.
All’inizio dell’estate 1940, l’esercito francese si è sfasciato trascinando nella sua caduta tutta la III Repubblica; i tre quinti dei paesi sono occupati, i tedeschi sono a Parigi, la bandiera nazista sventola sull’Arco di Trionfo, più di un milione e mezzo di francesi sono prigionieri in Germania, e la cosa più urgente sarebbe far portare il peso della sconfitta sull’Università, sui professori e sugli insegnanti?
L’offensiva è stata iniziata dai militari. Prima dell’armistizio, i generali Gamelin e Weygand lavorano alla loro difesa: secondo loro nessuno nell’esercito ha sbagliato. Rimproverano, invece, agli insegnanti di essere i principali responsabili del disfattismo ed insistono perchè vengano severamente puniti.
In luglio, il maresciallo Pétain dichiara al suo ufficiale di collegamento con le truppe inglesi Edward Spears, che sono «gli insegnanti e i politici, e qualche militare che hanno messo la Francia in ginocchio». Presto saranno accusati di essersi battuti male e nello stesso tempo di aver abbandonato il loro posto durante la sconfitta.
La stampa si allinea. Il 4 luglio 1940, all’indomani dell’affondamento della flotta francese da parte degli inglesi a Mers El-Kebir, si legge sulla prima pagina del “Petit Marseillais”, di fianco all’articolo che denuncia la catastrofe, un titolo: «Gli insegnanti sono responsabili della sconfitta». Si diffonde il sospetto. Il 3 ottobre, “Paris-Soir” scrive: «Alcuni capi, che avrebbero dovuto dare l’esempio, sono stati tra i primi a diffondere il panico. Fatto sta che non sono ancora ritornati.
Come spiegare questa campagna d’odio e la sua risonanza presso l’opinione pubblica?
Nel suo libro “Vichy et l’Ecole”, lo storico Rémy Handourtzel, professore alla Businnes School di Rouen, dimostra che l’attacco è partito dall’esercito vinto.
Poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, in Francia 6 milioni sono i bambini scolarizzati. La schiacciante maggioranza di loro (5,2 milioni) frequentano la scuola primaria, 400.000 sono alla scuola materna e 200.000 alle primarie superiori. Questo sistema coesiste con il mondo elitario della secondaria (200.000 allievi) che ha delle piccole classi. Fino al 1933, il suo insegnamento era a pagamento. Il diploma di maturità (28.000 diplomati ogni anno) apre le porte all’Università ad un’infima minoranza: la Francia del 1939 conta un po’ meno di 40 milioni di abitanti e solamente studenti. Il corpo insegnante è dunque principalmente composto da insegnanti (132.000 contro 15.000 professori della scuola secondaria). Questi funzionari, formati nelle scuole normali, sono, dopo l’instaurazione della III Repubblica, gli instancabili propagandisti delle sue idee egalitarie e del suo laicismo militante.
Un’istituzione fu oggetto, particolarmente, di tutti gli attacchi, il Sindacato nazionale degli insegnanti (SNI) che, con 100.000 aderenti, rappresentava circa l’80% del corpo insegnanti. La sua considerevole influenza lo rende indispensabile nell’elaborazione dei programmi, perfino nella gestione delle carriere. Inoltre, i suoi membri sono stati molto attivi nel diffondere le tesi del Fronte Popolare. Queste prese di posizione, naturalmente, saranno utilizzate contro di loro nel momento del trionfo della “Révolution nationale”.
Un’altra colpa attribuita agli insegnanti è il pacifismo radicale. Su questo tema il sindacato ha dato prova di una singolare cecità. Rémy Handourtzel sottolinea che lo SNI, dopo il 1918, sosteneva d’aver intrapreso «un’azione tenace al fine di modificare il contenuto dell’insegnamento impartito nelle scuole al fine di eliminare tutto ciò che poteva avere un carattere bellicistico». A due mesi dalla mobilitazione generale, la sezione del Dipartimento della Seine propose al Congresso di Montrouge una curiosa mozione che asseriva: «Anche se i tedeschi e gli italiani seguono Hitler e Mussolini, hanno diritto di vivere. Se fosse necessario cedere delle colonie per salvare la pace, noi le doneremo!»
Questo pacifismo integrale non fu appannaggio solamente degli insegnanti, ma si deve riconoscere che, prima dell’entrata in guerra, trovò tra di loro un’eco particolare.
Il sospetto verso gli insegnanti era largamente diffuso negli ambienti conservatori e particolarmente nell’esercito. Da qualche anno il maresciallo Pétain è letteralmente ossessionato dal problema. Al momento della sua ascesa al governo, nel 1934, in seguito all’emozione che avevano suscitato i moti del 6 febbraio, il vecchio soldato aveva rivendicato, oltre che il Ministero della Guerra, il controllo sull’educazione nazionale. Il suo programma? É chiaro: «Io mi occuperò degli insegnanti comunisti». In un numero speciale della Revue des deux mondes pubblicata nel 1934, Pétain esponeva la sua visione dell’insegnamento: «Prima di decidersi sui campi di battaglia, i destini di un popolo si elaborano sui banchi di scuola e nelle aule universitarie. L’insegnante, il professore, l’ufficiale, condividono lo stesso compito, devono ispirarsi alle stesse tradizioni e agli stessi valori». Se c’è una continuità tra la scuola e la caserma, non c’è da meravigliarsi che Vichy abbia iniziato, fin dalle prime ore, di ricercare nelle aule i responsabili della sconfitta militare.
I tedeschi non tentarono mai di immischiarsi nel sistema educativo di Vichy: volevano evitare che le scuole diventassero dei focolai di ribellione.
A partire dal 17 luglio, tutti i funzionari possono essere revocati con un semplice decreto. L’epurazione raggiungerà il culmine sotto la direzione del ministro dell’Educazione nazionale Geoges Ripert. Il suo obiettivo è senza ambiguità: «Ripulire l’insegnamento primario». L’elenco delle sanzioni è vario: spostamenti, revoche, pensionamenti d’ufficio. L’assenza di statistiche nazionali sull’argomento impedisce una visione d’insieme dell’ampiezza del fenomeno, ma si stima che un migliaio siano stati gli insegnanti colpiti dai provvedimenti: insegnanti ebrei, o franco-massoni, militanti dello SFIO (Section Française de l’Internationale Ouvriére) particolarmente attivi ...
Le cifra può apparire irrisoria su scala nazionale. In realtà è, invece, ragguardevole rispetto alla situazione: nel 1939, 26.000 insegnanti sono stati mobilitati. La metà vengono fatti prigionieri, e i tedeschi li rilasciano con molta parsimonia. La mancanza di braccia diventa il pricipale freno ad una epurazione più ambiziosa. Vichy deve rimettere in moto la macchina dello Stato.
L’anno scolastico 1939-1940 finisce in un disordine generale e il rientro non si annuncia sotto i migliori auspici.
L’esodo ha spinto 8 milioni di francesi sulle strade e una parte di loro non sono ritornati alle loro case.
Migliaia di professori mancano all’appello. E per gli allievi non è meglio: all’inizio del mese di agosto, 90.000 bambini non hanno ancora ritrovato la loro famiglia.
I locali delle scuole non sono sempre utilizzabili: molti sono stati bombardati o requisiti dall’occupante. Come sottolinea Rémy Handourtzel, questi spazi «si adattano bene alle esigenze dell’economia militare: un cortile per riunire le truppe e per lo stazionamento dei mezzi, un portico per immagazzinare del materiale, delle aule o degli internati per l’alloggiamento dei soldati, dei servizi sanitari collettivi, un refettorio ...». Secondo lo storico, il 20% delle aule scolastiche ed universitarie sarebbero state requisite.
Jérôme Carcopino, esperto di storia romana, direttore dell’Ecole normale supérieure della rue d’Ulm (e futuro ministro dell’Istruzione pubblica di Vichy nel 1941-1942) raccontava: «Mentre ero a Vichy, si era diffusa la voce che a Parigi il distaccamento dei Panzerjünger, che si era accampato dal 26 agosto in rue d’Ulm, si apprestava a lasciare il luogo. Il 15 settembre i Panzerjünger se ne andarono ma furono sostituiti da cento altri. Il 18 settembre, alcuni ufficiali della Luftwaffe vennero dal Palais de Luxembourg per vedere i nostri locali, con l’intenzione di trovare una rapida sistemazione nel palazzo centrale, compresa la biblioteca, per 300 loro aviatori.
Tra le prime decisioni del governo di Vichy (il 3 settembre 1940) vi è l’abrogazione della legge del 1904 che vietava alle congregazioni religiose d’insegnare; il 18 settembre le Ecoles normales (che avevano lo scopo di formare degli insegnanti) vengono soppresse. Poi si passa al rinnovamento dei programmi: una apposita commissione si riunisce a Vichy.
Nell’impossibilità di stampare dei nuovi libri di testo, le autorità accademiche si limitano a redigere una lista di libri proibiti, oltre a formulare alcuni orientamenti. I programmi di storia tralasciano la parte sulla Rivoluzione francese e così pure le guerre franco-tedesche. Inoltre si passerà sotto silenzio la storia di Napoleone e le conquiste della Repubblica. Sarà invece argomento di studio Jeanne d’Arc, la nemica degli inglesi.
Ogni mattina gli scolari rendono omaggio al capo dello Stato, il maresciallo Pétain, intonando il canto «Maréchal, nous voilà!»
Nello stesso tempo Vichy intende sviluppare l’insegnamento delle discipline sportive. A Nantes, in un articolo di Le Phare de la Loire del 1° settembre si afferma che si dovrà virilizzare l’insegnamento: «La Repubblica di ieri che si diceva ateniese era diventata piuttosto bizantina, se non levantina. Riportiamola verso l’Attica ... passando da Sparta». Vichy organizza così dei corsi di educazione generale e sportiva di cinque ore alla settimana, ma la scarsa alimentazione degli allievi costringerà ben presto il ministero a mostrarsi meno ambizioso.
Nelle aule delle scuole Vichy ha le mani libere. È lì che si deve inventare la “Rivoluzione nazionale» ed è lì che regna il suo principale nemico, l’insegnante.
Il “nuovo ordine”
La “Rivoluzione Nazionale” mette l’accento sul ritorno ad una società tradizionale, patriarcale, gerarchica dove regni l’ordine morale
L’altra guerra, la vera, è persa da tempo. A Vichy, nessuno pensa che la situazione possa essere rovesciata. Nell’incontro di Berlino del 9 novembre 1940, il vicepresidente del Consiglio, Pierre Laval, assicura il numero due del Reich, Hermann Göring, che «alla gioventù francese sarà indicato un ideale diverso dall’idea di rivalsa».
Traduzione da un articolo di “Le Monde” di Lunedì 2 agosto 2010
La guerra di Spagna 1936-1939
argomenti trattati nel seguente articolo: |
Le origini del conflitto |
La guerra civile |
Un conflitto internazionale |
Volontari da tutto il mondo in aiuto della Repubblica |
La Chiesa cattolica e la guerra di Spagna |
21 marzo 1937: Guadalajara,la prima sconfitta del fascismo |
26 aprile 1937: il bombardamento di Guernica |
La caduta di Teruel, punto di svolta nella guerra civile |
George Orwell: "Omaggio alla Catalogna" |
Lissonesi alla guerra civile spagnola |
Lissone: tra i banchi di una scuola elementare negli anni della guerra di Spagna |
L’origine del conflitto
La guerra civile spagnola mette in luce una società arcaica ed oppone, in Europa, i difensori della democrazia ai sostenitori di regimi totalitari.
Il conflitto trae origine dall’instabilità politica che seguì le dimissioni di Miguel Primo de Rivera, generale che era salito al potere con un colpo di stato nel settembre 1923.
Il re Alfonso XIII, applicando la Costituzione, tenta due gabinetti di transizione, affidati al generale Berenguer e all’ammiraglio Aznar, ma le elezioni amministrative dell’aprile 1931 assegnano la vittoria ai repubblicani. Scoraggiato, Alfonso XIII va in esilio, senza firmare l’abdicazione.
Un governo provvisorio proclama la repubblica e indice delle elezioni legislative per il mese di giugno. Le Cortes accusano una netta spinta a sinistra e prendono delle misure anticlericali, provocando una scissione con i moderati: il primo ministro dimissionario, Alcalá Zamora è sostituito, nel mese di ottobre dal socialista Azãna, che in dicembre diventa presidente della Repubblica. La nuova Costituzione stabilisce che la Spagna è una “Repubblica democratica dei lavoratori di tutte le classi”. Stato laico con sistema parlamentare monocamerale, con suffragio universale esteso alle donne e ai militari. Vengono promesse riforme agrarie in aiuto ai contadini più poveri.
Le prime misure, legalizzazione del divorzio, riduzione del numero pletorico degli ufficiali, confisca dei beni dei gesuiti, irritano le destre, già preoccupate dalle violenze antireligiose.
L’autonomismo, gli scioperi e diverse ribellioni preoccupano gli ambienti della finanza e i capitali fuggono.
Il centrista Lerroux sostituisce Azãna alla fine del 1933, blocca tutte le riforme della sinistra, stronca l’autonomia della Catalogna e la rivolta operaia delle Asturie. Gli operai sono divisi tra gli anarchici della C.N.T. (Confederación Nacional del Trabajo) e il partito comunista legato al Comintern. Nel settembre 1935 nasce anche il P.O.U.M. (Partido Obrero de Unificación Marxista), che riunisce soprattutto dei comunisti catalani vicini al trotzkismo e poco favorevoli a Mosca.
La destra, ispirandosi ai modelli italiano e portoghese, fonda la Falange e le Juntes d’offensive national-sindacaliste, dove si riuniscono gli avversari più risoluti della Repubblica.
Il Fronte popolare trionfa alle legislative del febbraio 1936, e Azãna succede a Zamora a capo dello Stato. Il debole governo di Prieto lascia degradare una situazione molto preoccupante: confisca sommaria delle terre, saccheggi, incendi, scioperi, attentati alle persone. Questi tumulti contribuiscono a far perdere il sostegno dell’opinione pubblica moderata. L’uccisione del capo dei monarchici Calvo Sotelo da parte di alcuni poliziotti, il 1° luglio 1936, da fuoco alle polveri.
La guerra civile
Proclamato dai generali Sanjuro e Franco nel Marocco spagnolo, il pronunciamiento del 18 luglio 1936 fa sollevare tutte le guarnigioni contro il governo legale. In breve tempo i ribelli prendono il controllo dell’Andalusia, Galizia, Asturie, León, Navarra e Vecchia Castiglia; riuniscono quasi tutto l’esercito, i Falangisti, un gran numero di moderati e beneficiano dell’appoggio morale del clero.
I repubblicani, o lealisti, che si appoggiano sul triangolo Madrid-Valencia-Barcellona, dispongono delle forze di polizia, dell’aviazione e di una parte della marina. Arruolano dei volontari tra gli operai, una parte dei contadini e della piccola borghesia oltre a numerosi intellettuali.
È una guerra selvaggia; da entrambi gli schieramenti, i prigionieri sono quasi sistematicamente eliminati. Alle uccisioni di preti e di religiosi commessi dai repubblicani, si contrappongono le epurazioni di Badajoz e di Saragozza.
Alla fine del 1936, i nazionalisti si impadroniscono di Toledo ma falliscono davanti a Madrid.
Un fronte molto stabile si stabilisce fino agli inizi del 1938: i repubblicani resistono vittoriosamente a Guadalajara e riprendono Tereul ma per poco tempo. Nell’aprile del 1938 i nazionalisti isolano la Catalogna interrompendo i collegamenti con la capitale Valencia e il Mediterraneo. Un’ultima offensiva rompe il fronte della Catalogna: Barcellona è presa il 26 gennaio 1939. Madrid si arrende il 28 marzo 1939. Molti combattenti si rifugiano a Perthus e sono internati dalle diffidenti autorità francesi.
Per i franchisti la guerra civile era una lotta delle forze dell’ordine e della vera religione contro una cospirazione giudaico-massonica-bolscevica.
Per i repubblicani sconfitti, invece, la guerra civile era stata la lotta di un popolo oppresso per conquistare una vita più degna, e proprio per questo si erano scontrati con le arretrate oligarchie della Spagna agraria e industriale alleate ai nazisti e ai fascisti.
Nella tetra Europa degli anni della Depressione l’esperimento spagnolo appariva una novità interessante. Lo sintetizzò molto bene George Orwell, quando disse: “Vi riconobbi immediatamente uno stato di cose per cui valeva la pena battersi”. Le conquiste in campo culturale e scolastico realizzate dalla Spagna repubblicana non furono che gli aspetti più noti di una rivoluzione sociale. I suoi esperimenti sociali si verificarono in un contesto in cui era diffusa la delusione per i fallimenti del capitalismo.
Fra le cause del conflitto spagnolo vi fu la violenta opposizione dei ceti privilegiati e dei loro alleati stranieri ai tentativi dei governi repubblicano-socialisti di migliorare le condizioni di vita dei più deboli.
La guerra civile spagnola non fu che un ultimo tentativo dei reazionari per reprimere qualsiasi riforma che minacciasse la loro posizione di privilegio.
La Spagna non aveva conosciuto la rivoluzione borghese classica che altrove aveva frantumato la struttura dell’ancien régime: il potere della monarchia, dell’aristocrazia terriera e della Chiesa rimase quasi intatta anche per buona parte del Novecento.
L’internazionalizzazione della guerra di Spagna
La Francia e l’Inghilterra optarono per il non intervento; anche l’Italia, la Germania e l’U.R.S.S. aderirono a questo accordo, ma non pensarono che a violarlo. Ciascuna di queste potenze aveva un interesse politico o economico nel conflitto: la Germania pensa alle materie prime di cui ha bisogno, l’Italia a soddisfare le sue ambizioni sul Mediterraneo. Il Duce invia dei carri armati e degli aerei con 70.000 volontari delle milizie fasciste. La Germania hitleriana manda qualche piccola formazione e del materiale che i tecnici sperimentano: il bombardamento aereo di Guernica operato dalla legione Condor è un sinistro banco di prova.
Hitler passa in rassegna le truppe della legione Condor in partenza per la Spagna
Il coinvolgimento sovietico nella guerra civile spagnola non fu diretto a creare una Spagna comunista. Anzi, piuttosto il contrario: l'intento era appoggiare illegittimo governo democratico, cosicché la Spagna potesse restare una controparte negli affari internazionali per diventare, insieme ad altri governi democratici occidentali, un possibile alleato in qualunque futuro conflitto tra nazisti e sovietici.
«Fraternità e solidarietà» sembravano diventare parole vuote di fronte al contrasto sempre più profondo tra anarchici e comunisti, i primi decisi a trasformare la guerra civile in una rivoluzione sociale, i secondi determinati a battere prima il franchismo per poi costruire uno Stato sull'esempio dell'Unione Sovietica di Stalin.
Nel maggio del 1937 la situazione precipitava in una sanguinosa guerriglia tra le opposte fazioni.
Volontari da tutto il mondo nelle Brigate internazionali
“Voi siete la storia. Voi siete la leggenda. Voi siete l'esempio eroico della solidarietà e della universalità della democrazia” Dolores Ibarruri, la Pasionaria
A Barcellona, il 29 ottobre 1938, le Brigate internazionali sfilarono per l'ultima volta prima di lasciare la Spagna. Davanti a migliaia di spagnoli che applaudivano e piangevano Dolores Ibarruri, la Pasionaria, tenne un discorso commovente e commosso: «Compagni delle Brigate internazionali! Ragioni politiche, ragioni di stato, il bene di quella stessa causa per cui avete offerto il vostro sangue con illimitata generosità, costringono alcuni di voi a tornare in patria, altri a prendere la via dell'esilio. Potete partire con orgoglio. Voi siete la storia. Voi siete la leggenda. Voi siete l'esempio eroico della solidarietà e della universalità della democrazia ... Noi non vi dimenticheremo; e quando l'ulivo della pace metterà le foglie, intrecciate con gli allori della vittoria della Repubblica spagnola, tornate! Tornate da noi e qui troverete una patria».
Molti furono i volontari italiani che accorsero in Spagna al fianco dei repubblicani: “Oggi in Spagna, domani in Italia” era il motto di Carlo Rosselli, fuoriuscito antifascista in Francia che, con il fratello Nello, aveva fondato “Giustizia e Libertà” (verranno assassinati il 9 giugno 1937 da sicari fascisti).
Carlo Rosselli, il 13 novembre 1936, fece un discorso via radio da Barcellona che rimase storico: «Compagni, fratelli, italiani, ascoltate. Un volontario italiano vi parla dalla radio di Barcellona per portarvi il saluto delle migliaia di italiani antifascisti esuli che si battono nelle file dell'armata rivoluzionaria per l'ideale di un popolo intero che lotta per la sua libertà. Vi chiedono che l'Italia proletaria si risvegli. Che la vergogna cessi. Dalle fabbriche, dai porti italiani non debbono più partire le armi omicide. Dove non sia possibile il boicottaggio aperto, si ricorra al boicottaggio segreto. Il popolo italiano non deve diventare il poliziotto d'Europa. Quanto più presto vincerà la Spagna proletaria, e tanto più presto sorgerà per il popolo italiano il tempo della riscossa».
Un gran numero di quadri e di organizzatori delle “brigate internazionali”, costituite nell’ottobre del 1936, giocheranno in seguito, nei rispettivi paesi, in ruolo importante nella Resistenza: tra gli Italiani, oltre ai fratelli Rosselli, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Leo Valiani, Giovanni Pesce, Randolfo Pacciardi. Diversi gli scrittori di varie nazionalità: André Malraux, Ernest Hemingway, George Orwell, Antoine de Saint-Exupery, John Dos Passos.
I volontari portavano come distintivo una stella a tre punte, emblema del “Fronte Popolare”
“O ci si opponeva alla diffusione del fascismo e si andava a combatterlo, oppure si era acquiescenti con i suoi crimini e colpevoli di permetterne la diffusione».
Calcolare con esattezza quanti fossero i volontari è difficile. Le stime sul numero degli uomini che da cinquanta diversi paesi accorsero in Spagna a combattere il fascismo, variano da un minimo di 40 a un massimo di 60 mila unità. Di questi, quasi il 20 per cento morirono e molti erano stati almeno una volta feriti.
Nell'ottobre del 1938 c'erano ancora 12.673 brigatisti in Spagna: intrapresero il lento cammino verso la patria o l'esilio, molti andando incontro a una sorte ancora più terribile di quella che avevano conosciuto. Finirono nei campi di concentramento francesi, e molti caddero poi nelle mani delle SS e morirono nelle camere a gas.
Chi ne uscì vivo non poté tornare in Spagna fino alla morte di Franco, trentasette anni dopo. La profezia di Dolores Ibarruri si realizzò, tuttavia, almeno in parte nel 1995 quando il governo socialista di Felipe Gonzalez concesse la cittadinanza spagnola a tutti i superstiti delle Brigate internazionali.
La Chiesa cattolica e la guerra di Spagna
La causa franchista ebbe una legittimazione dalla Chiesa. Nella sua secolare ostilità per il razionalismo, la massoneria, il liberalismo, il socialismo e il comunismo, la Chiesa ebbe un ruolo di punta nella vita politica nella zona nazionalista. Con l’unica eccezione del clero basco, sacerdoti e religiosi si schierarono con i ribelli: attaccavano i «rossi» dal pulpito ; benedicevano le bandiere dei reggimenti nazionalisti, a volte combattevano persino nei loro ranghi.
Ci furono ecclesiastici che adottarono il saluto fascista. In occasione del congresso dell’Azione Cattolica, a Burgos nel 1936, venne espresso entusiasmo per l’alzamiento.
I cattolici di tutto il mondo si raccolsero dietro la bandiera del franchismo. Al suo successo diede un contributo non indifferente il papa, proclamando ufficialmente martiri tutte le vittime dei repubblicani.
Il Vaticano riconobbe di fatto Franco il 2 8 agosto 1937 e il 7 ottobre inviò un delegato apostolico. Il riconoscimento de iure avvenne il 18 maggio 1938, quando l’arcivescovo Gaetano Cicognani fu nominato nunzio apostolico e Franco inviò un proprio ambasciatore presso la Santa Sede.
Pio XII, appena asceso al soglio pontificio, salutò la vittoria finale di Franco con un messaggio che si apriva con le parole «con immensa gioia».
La Chiesa fu ricompensata per l’appoggio fattivo che aveva dato ai nazionalisti con la concessione del monopolio in materia scolastica nello Stato emerso dalla guerra civile.
Guadalajara: 21 marzo 1937, la prima sconfitta del fascismo
Il 21 marzo le truppe repubblicane, coadiuvate dal battaglione Garibaldi delle Brigate internazionali e dei carri armati sovietici, andarono al contrattacco. I carri armati leggeri degli italiani, con le mitragliatrici fisse, non erano in grado di competere con i T-26 russi provvisti di torretta girevole e armati di cannoni.
Con grande umiliazione di Mussolini le truppe italiane furono messe in fuga dopo cinque giorni di combattimento. La sconfitta aveva molte cause: l’inclemenza del tempo, il morale basso e l’equipaggiamento inadeguato degli italiani, il testardo coraggio dei repubblicani.
Dal punto di vista militare Guadalajara fu soltanto una piccola vittoria difensiva, ma dal punto di vista morale fu per i repubblicani un enorme trionfo: si impadronirono di armi per loro preziose e anche di documenti che dimostravano come gli Italiani non fossero volontari, bensì soldati regolari.
Durante la guerra civile i nazionalisti ricevettero armi e aiuti per un valore di circa 700 milioni di dollari. Di questi, buona parte fu concessa gratuitamente, soprattutto dall’Italia. Fra il mese di dicembre del 1936 e l’aprile 1937 Roma inviò circa 100.000 soldati.
Guernica: 26 aprile 1937
Fu il primo esempio di obiettivo civile indifeso raso al suolo dall’aviazione.
La legione Condor tedesca, che utilizzava tecniche di attacchi coordinati terra-aria e i bombardamenti in picchiata e a tappeto, lunedì 26 aprile 1937, passò all’azione a Guernica; era giorno di mercato. La cittadina, che aveva grande valore simbolico per i baschi, venne distrutta in un unico terribile pomeriggio di incessanti incursioni aeree.
Uno dei primi giornalisti ad arrivare sulla scena fu George Steer, corrispondente del “Times”.
Dal suo reportage:
“Guernica, la più antica città dei baschi e il cuore della loro tradizione culturale, è stata rasa al suolo dalle incursioni aeree degli insorti. Il bombardamento di questa città aperta, distante dalle linee del fronte, è durato esattamente tre ore e un quarto. Durante tutto questo tempo un possente squadrone aereo, composto di tre tipi di velivoli tedeschi, ha continuato a sganciare sulla città bombe da mille libre in giù e, si calcola, oltre tremila proiettili incendiari.
Contemporaneamente i bombardieri si tuffavano sul centro della città, mitragliando i civili che vi si erano rifugiati.
Il bombardamento di Guernica è diventato il simbolo della guerra civile, immortalato nel quadro di Pablo Picasso: La città fu la prima nella storia mondiale ad essere distrutta dall’aviazione.
Il punto di svolta nella guerra civile: 21 febbraio 1938, la caduta di Teruel
L'egemonia del Caudillo trovò conferma ai primi del 1938. Il 30 gennaio egli istituì il suo primo governo regolare, chiudendo così l'epoca della giunta militare di Burgos, composta da soli generali. Suo cognato Ramón Serrano Sufter, il cuñadísimo, ottenne il dicastero degli Interni, mentre gli altri incarichi furono distribuiti con grande oculatezza fra le rappresentanze dei militari, dei monarchici, dei carlisti e dei falangisti. Il governo franchista era comunque a prevalenza militare: il ministero della Difesa, quello dell'Ordine pubblico e degli Affari esteri erano tutti in mano a generali. Alla Falange fu assegnato il controllo del movimento del Lavoro, che divenne una forma estremamente lucrativa di sottogoverno. Anche la chiesa fu ricompensata per i suoi servigi con la concessione della autorità assoluta nella sfera educativa. Franco la ringraziava così anche per il riconoscimento ufficiale che il Vaticano gli aveva concesso nell'agosto del 1937. Il nuovo stato si ispirava a una ideologia totalmente reazionaria e si preoccupava soprattutto di distruggere i simboli del progresso, quali la democrazia parlamentare e il sindacalismo. Si proponeva di ricostruire la Spagna a immagine e somiglianza del suo passato imperiale. Le uniche novità erano i raduni e altri aspetti di pura facciata che servivano a inserirlo nel contesto dell'ordine mondiale fascista prefigurato da Hitler e Mussolini.
Dopo l'offensiva repubblicana in Aragona ci fu una pausa nei combattimenti, ma verso la fine del 1937 Franco decise di riprendere l'attacco contro Madrid, che era diventata la sua ossessione. Egli prevedeva di sfondare sul fronte di Guadalajara e quindi calare sulla capitale e assestarle il colpo di grazia. I repubblicani erano però riusciti a infiltrare alcuni loro agenti fra i nazionalisti e a scoprire i piani di battaglia del Caudillo. Grazie alle informazioni raccolte a dicembre i repubblicani poterono sferrare un attacco preventivo nella speranza di distogliere Franco da Madrid. Scelsero come obiettivo Teruel, il capoluogo della più desolata delle province dell'Aragona, già quasi circondata dalle forze repubblicane e con deboli difese nazionaliste.
L'attacco colse di sorpresa i ribelli. L'offensiva partì nel cuore di uno degli inverni più aspri che la Spagna avesse mai avuto, con il freddo reso ancora più pungente dal terreno roccioso intorno a Teruel. I nazionalisti si trovarono con gli aerei tedeschi e italiani costretti a terra dal maltempo e con i rinforzi trattenuti dalla neve e dalle strade ghiacciate. Le forze repubblicane, costituite per lo più da unità dell'Esercito popolare, poterono quindi spingere a fondo l'attacco, approfittando del vantaggio iniziale. I ribelli dovettero rinviare l'offensiva contro Madrid e spostare a est le proprie truppe. Il contrattacco, fu rallentato dalle terribili condizioni atmosferiche. Il 29 dicembre smise di nevicare, ma il 31 il termometro segnò la temperatura più bassa di tutto il secolo. In quelle condizioni a entrambi i fronti non restava che la guerra di logoramento, in cui i nazionalisti erano nettamente avvantaggiati: con più armi e soldati, sotto la spietata guida di Franco, essi potevano resistere più a lungo dei repubblicani.
L'8 gennaio, dopo sanguinosi combattimenti, i repubblicani riuscirono a espugnare la guarnigione nazionalista, ma subito dopo l'artiglieria e l'aviazione nemica cominciarono a bombardarli. Il freddo polare non giovava al morale. Dall'una e dall'altra parte molti morirono congelati, spesso sorpresi nel sonno indotto dall'alcol che avevano ingerito per riscaldarsi. Il 21 febbraio 1938, dopo avere difeso ancora una volta a caro prezzo una modesta avanzata, i repubblicani furono costretti a ritirarsi perché Teruel stava per essere circondata. Ai primi del 1938 Franco godeva ormai di una superiorità schiacciante in uomini e armamenti. Se ne ebbe la riprova con la riconquista franchista di Teruel, che segnò il punto di svolta della guerra civile. Le perdite su entrambi i fronti erano state spaventose: i nazionalisti ebbero 50 mila morti, i repubblicani oltre 60 mila.
Il diavolo è rosso
Melilla, estate 1936 scoppia il colpo di stato contro la Repubblica spagnola. La base ideologica sarà spiegata, tempo dopo, dal ministro dell'Informazione, Gabriel Arias Salgado:
- Il Diavolo vive in un pozzo di petrolio, a Bakù, e da lì dà istruzioni ai comunisti.
L'incenso contro lo zolfo, il Bene contro il Male, i crociati della Cristianità contro i nipoti di Caino. Bisogna farla finita coi rossi prima che i rossi la facciano finita con la Spagna: i prigionieri si danno alla dolce vita, i maestri fanno sloggiare i preti dalle scuole, le donne votano come fossero uomini, il divorzio profana il sacro vincolo del matrimonio, la riforma agraria minaccia il diritto della Chiesa sulle terre ..
Il colpo di stato nasce uccidendo, e dall'inizio è molto espressivo.
Il Generalissimo Francisco Franco:
- Salverò la Spagna dal marxismo a qualsiasi prezzo.
- E se questo volesse dire fucilare mezza Spagna?
- Costi quello che costi.
Il Generale José Millan-Astray.
- Viva la morte!
Il Generale Emilio Mola:
- Chiunque sia, apertamente o in segreto, difensore del Fronte Popolare dev'essere fucilato.
Il Generale Gonzalo Queipo de Llano
- Andate a scavare le fosse!
Guerra Civile è il nome della macelleria scatenata dal colpo di stato. Il linguaggio, così, segnala l'uguaglianza fra la democrazia che si difende e il golpe che l'attacca, fra i miliziani e i militari, fra il governo scelto dal voto popolare e il caudillo scelto dalla grazia del Signore.
da "Omaggio alla Catalogna" di George Orwell
Ero arrivato in Spagna con la vaga idea di scrivere articoli per la stampa, ma poi mi ero arruolato quasi subito nella milizia, perché in quel momento e in quell'atmosfera sembrava l'unica cosa concepibile da fare. Gli anarchici mantenevano ancora il virtuale controllo della Catalogna e la rivoluzione era ancora in pieno corso. Qualcuno che fosse stato lì sin dall'inizio forse avrebbe avuto l'impressione già a dicembre e a gennaio che il periodo rivoluzionario stesse finendo; ma se si era appena arrivati dall'Inghilterra bastava guardarsi attorno a Barcellona per essere sorpresi e soggiogati. Era la prima volta che mi trovavo in una città dove la classe operaia era saldamente in sella. Praticamente tutti gli edifici, piccoli o grandi che fossero, erano stati occupati dagli operai ed erano pavesati di bandiere rosse o di quelle rosso-nere degli anarchici; su ogni muro c'erano disegnati falci e martelli e le sigle dei partiti rivoluzionari; quasi ogni chiesa era stata saccheggiata e le immagini sacre bruciate. [ ... ] Lungo le Ramblas, l'ampia arteria centrale della città percorsa avanti e indietro da un costante flusso di folla, gli altoparlanti lanciavano a tutto volume canti rivoluzionari nel corso dell'intera giornata e fino a notte fonda.
Ed era proprio l'aspetto della folla la cosa più strana di tutte. Apparentemente sembrava di essere in una città in cui le classi agiate avevano praticamente cessato di esistere. [ .... ] Appena arrivato a Barcellona l'avevo considerata una città in cui quasi non esistevano distinzioni di classe e grandi dislivelli di ricchezza. E senza dubbio l'apparenza era quella. I vestiti "eleganti" erano un'anomalia, nessuno era servile o accettava mance, camerieri, fioraie e lustrascarpe non abbassavano lo sguardo e davano del "compagno" a tutti. Quello che non avevo capito che tutto questo era un misto di speranza e di mimetizzazione. [ ... ] Perché sotto l'aspetto superficiale della città, sotto il lusso e la povertà crescenti, sotto l'apparente spensieratezza nelle strade, con le bancarelle dei fiori, le bandiere multicolori, i manifesti propagandistici e le resse di folla, scorreva un inconfondibile e orrendo senso di rivalità politica e di astio. Persone appartenenti a tutte le sfumature dello spettro politico esprimevano un oscuro presentimento: «Prima o poi scoppierà qualche guaio». Il pericolo era molto semplice e comprensibile. Era costituito dall'antagonismo fra coloro che volevano che la rivoluzione andasse avanti e quelli che, al contrario, volevano tenerla sotto controllo o addirittura evitarla - insomma, tra anarchici e comunisti. [ ... ] Ma che stava succedendo, chi combatteva contro chi e chi stava vincendo, era a prima vista molto difficile da scoprire. [ ... ] Guardando fuori dall'alto dell'osservatorio riuscivo a capire che le Ramblas, una delle principali arterie della città, formavano una specie di linea di demarcazione. A destra i quartieri operai erano anarchici in maniera compatta; a sinistra c'era una confusa lotta in mezzo ai vicoli contorti. [ ... ] Su alla fine delle Ramblas, dalle parti di plaza de Cataluña, la situazione era così complessa che sarebbe stata del tutto inintellegibile se ogni palazzo non avesse esposto una bandiera di partito. [ ... ]
Nessuno che si sia trovato a Barcellona in quel periodo o nei mesi successivi dimenticherà mai l'orribile atmosfera creata da paura, sospetto, odio! giornali censurati, prigioni traboccanti, code sterminate per procurarsi il cibo e bande di uomini armati in giro per le strade. [ ... ] Questa guerra, in cui ho avuto un ruolo così insignificante, mi ha lasciato ricordi che sono per la maggior parte brutti, eppure non vorrei non avervi partecipato. Quando si è riusciti a intravedere uno squarcio di un disastro così grande - e comunque vada a finire, la guerra di Spagna si rivelerà un tremendo disastro, anche senza contare la carneficina e le sofferenze fisiche - il risultato non è necessariamente segnato da delusione e cinismo. Può sembrare strano, ma tutta questa esperienza non ha scalfito, bensì rafforzato la mia fede nella dignità degli esseri umani.
Lissonesi alla guerra di Spagna
Tre furono i lissonesi che partirono per la Spagna a difesa della Repubblica: Leonardo Vismara, Carlo Mariani e Alessandro Panzeri.
Leonardo Vismara, chiamato Nando da Biel, dal soprannome dato a suo nonno, e Alessandro Panzeri sono coscritti, classe 1899. Vengono chiamati alle armi nei giorni della disfatta di Caporetto. Nando, di idee socialiste e con una cultura superiore alla media, fortemente avverso all’intervento in guerra da parte dell’Italia, diserta e si rifugia a San Marino. Ha vent’anni alla fine della guerra; viene però mandato a Valona, in Albania, che è un protettorato italiano, per svolgere il servizio di leva. Tornato alla vita civile, aderisce alla Gioventù Comunista, diventando poi il segretario della sezione lissonese, frequentata anche da Carlo Mariani e Alessandro Panzeri. Sono in contatto con la Sezione monzese, diretta da Amedeo Ferrari, primo segretario del Partito Comunista di Monza. All’avvento del fascismo e con lo scioglimento dei partiti politici, diventano dei sorvegliati speciali dei Carabinieri.
Le camicie nere non lo lasciano in pace: purghe con olio di ricino, bastonate fino allo svenimento, incarcerato più volte nel carcere monzese, un giorno viene appeso a testa in giù ad un balcone davanti a tutti.
Carlo Mariani nel frattempo era emigrato in cerca di lavoro in Francia, dove era rimasto due anni.
Come maturò in loro il desiderio di espatriare ed unirsi a tanti volontari provenienti da tutto il mondo per lottare contro il fascismo?
Nando, di professione fa il macellaio. Spesso, durante le ore serali, un gruppo di amici si ritrova nella sua cucina, dietro il negozio di Via Madonna, nel centro di Lissone, per ascoltare le trasmissioni di stazioni radio straniere. Dopo lo scoppio della guerra civile in Spagna, il gruppo di antifascisti lissonesi si sintonizza sulle frequenze radio di stazioni spagnole repubblicane, che trasmettono notiziari anche in lingua italiana. Da questi ascolti e dalla frequentazione degli antifascisti monzesi, in Nando matura il desiderio di partire per la Spagna. Animato da principi di solidarietà, di giustizia e di libertà, nel settembre 1937, all’età di 37 anni, abbandona tutto, saluta moglie e figlia, e sfidando ostilità e pericoli, attraverso la Svizzera, raggiunge Parigi. Con lui sono anche Carlo Mariani
e Alessandro Panzeri. Da Parigi proseguono verso Perpignan. In ottobre arrivano al fronte. Si incontrano con altri brianzoli e vengono inquadrati nella Brigata Garibaldi.
Fronte d’Aragona, Teruel, Estremadura, Ebro sono alcune zone dove i garibaldini si battono con coraggio ed eroismo.
Alessandro Panzeri, il 18 marzo del 1938, durante la battaglia dell'Ebro rimane ferito ad una gamba e viene ricoverato in ospedale nei pressi di Barcellona.
Alla caduta della Repubblica spagnola, i tre lissonesi, giunti in territorio francese come tanti altri volontari antifascisti, vengono internati in campi di concentramento per poi essere impiegati nella costruzione di fortificazioni, inquadrati in squadre di lavoro, sul confine orientale della Francia.
Altre vicissitudini li attendono prima e dopo il loro ritorno in Italia.
Ritroveremo Leonardo Vismara, con il nome di battaglia Raimondo, impegnato nella Resistenza a Lissone, dal luglio 1944 nel CLN locale, e comandante della piazza militare nei giorni della Liberazione.
Episodi accaduti a Lissone durante gli anni della guerra civile spagnola
Durante la quaresima del 1937, il prevosto Don Gaffuri, chiamò a tenere una conferenza sulla situazione della Spagna monsignor Llovera, fuggito da Barcellona. Il suo intervento fece accrescere nei presenti l’approvazione dell’appoggio ai nazionalisti di Franco.
L’Italia, e con lei la Lissone fascista, è schierata con Franco. Il Fascio di Lissone, accolse con tutti gli onori undici falangiste spagnole in visita propagandistica nella zona.
La retorica fascista sui banchi di scuola
Dal "Giornale di Classe" della classe V maschile della scuola elementare "Vittorio Veneto" di Lissone
Anno scolastico 1937 -1938
21 febbraio 1938
I miei Balilla seguono con emozione le vicende, da me brevemente illustrate, per la riconquista di Teruel, nel cui cielo l’aviazione legionaria sta scrivendo pagine gloriose, contribuendo possentemente alla battaglia e alla vittoria.
15 marzo 1938
Esultanti, i miei Balilla seguono con me sul giornale e sulla carta di Spagna il nuovo balzo dei Legionari, invano frenati dalle orde bolsceviche, verso il Mare Nostro. La nostra certezza e la nostra allegrezza li accompagna.
3 maggio 1938
Vacanza. Festa nazionale per l’arrivo di Adolfo Hitler.
16 maggio 1938
Ieri, domenica, tutti i Balilla sono con me intervenuti, unitamente a quelli delle altre classi e alle Piccole Italiane, alla commemorazione solenne del lissonese Legionario Dorigo Giovanni, recentemente caduto sul sacro suolo di Spagna.
Anno scolastico 1938 -1939
Dal "Giornale di Classe" della classe V maschile della scuola elementare "Vittorio Veneto" di Lissone
26 gennaio 1939
Illustro ampiamente ai miei scolari la splendida vittoria di Barcellona dovuta all’eroismo dei Nazionali spagnoli e specialmente dei legionari italiani. Dopo aver dimostrato loro lo scopo nobilissimo di questa guerra spagnola, insisto soprattutto nel porre in risalto il valore dei nostri legionari perché nei piccoli cuori degli scolari cresca sempre più l’amore per la Patria e il desiderio di incitarli. Il polpolo italiano è in giubilo. Stamane l’Egr. Sig. Direttore ha parlato agli scolari della redenzione della città ; voglia il destino prepararci presto l’annuncio della redenzione di Madrid.
29 marzo 1939
Madrid è liberata, é tornata a Dio, all’ordine, alla luce del bene. Commemoro la liberazione della capitale spagnola suscitando amor di patria.
1 aprile 1939: la guerra spagnola è finita. L’ha dichiarato il Caudillo Franco in un suo proclama al popolo. Ritorni il popolo spagnolo alla vera grande verità! Dio e giustizia.
Bibliografia
- "Histoire du monde. De 1918 à nos jours" – Larousse – Paris 2008
- Paul Preston – "La guerra civile spagnola" – Mondadori – 2005
- Silvano Lissoni "E questa fu la storia" – Arti Grafiche Meroni – Lissone 2005
- Archivi della scuola elementare "Vittorio Veneto" di Lissone
- Archivi del Comune di Lissone
Pio XII e il giudizio della Storia
Alla morte del Papa, nel 1958, Golda Meir rese omaggio al suo operato in aiuto agli Ebrei. Oggi il Memorial Yad Vashem condanna i suoi silenzi.
Si chiamava Eugenio Pacelli, prima di diventare Papa Pio XII.
Fu Nunzio apostolico a Monaco nel 1917. Qualche anno dopo negoziò un concordato tra la Chiesa e il nuovo regime nazista a Berlino. Germanofilo convinto, tanto che gli Italiani lo avevano soprannominato “il Tedesco” per il suo ruolo di instancabile sostenitore della revisione del Trattato di Versailles.
Il futuro Papa Pio XII si inseriva nella tradizione vaticana, che già sotto Benedetto XV, aveva tentato, nel 1917, di salvare dalla sconfitta gli Imperi Centrali, per una “pace bianca”. Il Vaticano aveva sempre avuto un debole per gli Asburgo. Inoltre, la minaccia comunista sovietica, dopo la Rivoluzione del 1917, rese ancora più cara al Papa la potenza tedesca.
Ma i nazisti non erano gli Asburgo ne gli Hohenzollern. I nazisti avevano una concezione del mondo, una “Weltanschauung”, che si ispirava ad un niceismo traviato, che vedeva nel cristianesimo una religione una religione di schiavi che “voleva purificare le sue brutture ebraiche”.
In un libro intitolato “Hitler mi ha detto”, apparso nel 1939, scritto da Hermann Rauschining, si leggono queste frasi sul cancelliere tedesco: “una gioventù violenta, impetuosa, intrepida, crudele ...é così che purificherà la razza dalle sue migliaia di anni di assoggettamento e di obbedienza …”.
L’uomo prende il posto di Dio, tale è semplicemente la verità. L’uomo è il dio in divenire. Il nazionalsocialismo è più che una religione: é la volontà di creare un Uomo nuovo. Si é cristiani o si é tedeschi; non si può essere tutti e due insieme. Il nazismo è un paganesimo.
Nel 1937 Pio XI fece conoscere il proprio pensiero nell’enciclica Mit Brennender Sorge, redatta con l’aiuto di Pacelli: “Chiunque consideri la razza o il popolo o lo Stato o i depositari del potere o tutti gli altri valori fondamentali della comunità umana e li divinizzi in un culto idolatrico, stravolge l’ordine delle cose create e ordinate da Dio”.
I nazisti, furiosi, censurarono il testo sulla stampa tedesca, un gesuita fu arrestato, i vescovadi di Rotterburg, di Friburgo e Monaco furono saccheggiati dalla Gioventù hitleriana.
La situazione dei cattolici tedeschi era delicata: alle elezione del 1932 le regioni cattoliche, Baviera, Palatinato, furono quelle in cui i nazisti ottennero il minor numero di voti.
Divenuto papa a sua volta, nel 1939, Pio XII seguì le orme del suo predecessore. Nel suo discorso di Natale del 1942, quando lo sterminio degli Ebrei era diventato sistematico, oserà solamente evocare “le centinaia di migliaia di persone che, senza alcuna loro colpa, ma unicamente in ragione della loro nazionalità o della loro razza, sono destinati alla morte o al deperimento”. I difensori di Pio XII notano la presenza del termine “razza”; i suoi detrattori denunciano la sua mancanza di coraggio.
Opere su Pio XII:
Le Vicaire (piece teatrale di Rolf Houchuth del 1963
Amen (film di Costa-Gavras del 2002)
Il Papa di Hitler (libro di John Cornwell)