il secondo dopoguerra
il Muro di Berlino
9 novembre 1989 - 9 novembre 2024: 35 anni dalla caduta del muro di Berlino
... ma bisogna aspettare il 9 novembre 1989, vedere la felicità impazzita delle due Berlino che in una notte ritornano per sempre una sola città, per capire come quella breccia che squarcia il Muro segni in realtà il passaggio da un'epoca all'altra.
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Il 13 agosto 1961, una domenica di festa, prima dell’alba, sotto l’occhio vigile della polizia, le strade che collegano la parte orientale alla parte occidentale vengono interrotte, disselciate, e si erigono barricate fatte di pali e filo spinato lungo la frontiera con Berlino Ovest; poco tempo dopo queste barricate saranno sostituite da un muro che attraverserà la città da una parte all’altra.
La capitolazione della Germania nel 1945 implica per Berlino dei cambiamenti radicali, di cui non si misura ancora l’ampiezza alla fine della guerra. Importante metropoli internazionale, è al centro dei giochi politici mondiali.
1948
La Guerra Fredda
La città viene divisa in 4 settori d’occupazione, come il resto del Paese: Berlino Est è sotto controllo sovietico mentre i distretti dell’Ovest sono divisi in tre settori amministrati rispettivamente dagli Americani, i Francesi e i Britannici.
I disaccordi politici e amministrativi tra l’URSS e gli Alleati non tardano a farsi sentire. Prendendo a pretesto una riforma monetaria varata dalle potenze occidentali e introdotta nei territori dell’Ovest, il 24 giugno 1948, l’URSS decreta il blocco totale di Berlino, interrompendo ogni comunicazione da e verso la città. Gli Alleati organizzano allora un ponte aereo per rifornire la popolazione durante gli 11 mesi in cui le strade, le ferrovie e le vie d’acqua sono totalmente bloccate.
Il 23 maggio 1949 è fondata la Repubblica federale tedesca (RFT) e il 7 ottobre la Repubblica democratica tedesca(RDT). Tutto ciò, ovviamente, avrà delle conseguenze per Berlino. La Legge fondamentale (Grundgesetz) fa dell’agglomerato urbano berlinese un Land della RFA, mentre la Costituzione della RDT rivendica la città come capitale. Tutte e due si riferiscono a Berlino nel suo complesso.
In pratica, i settori occidentali sono controllati da un’amministrazione tripartita, mentre la parte orientale è sotto il controllo sovietico.
La costruzione del Muro
Il 17 giugno 1953, a Berlino Est, uno sciopero contro le cadenze di lavoro eccessive viene repressa dai carri armati sovietici. Negli anni ’50 sono sempre più numerosi i Tedeschi orientali che fuggono verso la Germania occidentale.
Nel novembre 1958, Kruscev lancia un ultimatum: le potenze occidentali dispongono di sei mesi per ritirare le loro truppe e accettare la trasformazione di Berlino Ovest in una unità politica indipendente; l’Ovest lascia scadere l’ultimatum senza conseguenze.
Nel 1961, Mosca minaccia nuovamente di regolare il «problema di Berlino Ovest» entro un anno. Il presidente americano Kennedy ribatte con le «Three Essentials»: difesa della presenza occidentale, tutela del diritto di accesso, autodeterminazione degli abitanti di Berlino Ovest e garanzia della libera scelta del loro modo di esistenza; in quanto agli abitanti di Berlino Est, non vengono menzionati.
Il 13 agosto 1961, una domenica di festa, prima dell’alba, sotto l’occhio vigile della polizia, le strade che collegano la parte orientale alla parte occidentale vengono interrotte, disselciate, e si erigono barricate fatte di pali e filo spinato lungo la frontiera con Berlino Ovest; poco tempo dopo queste barricate saranno sostituite da un muro che attraverserà la città da una parte all’altra.
Nel 1963, il Presidente Kennedy, durante una visita molto attesa a Berlino, conclude il suo discorso davanti al Municipio di Schöneberg con la celebre frase: «Ich bin ein Berliner».
Nel dicembre 1963, dopo 28 mesi di separazione totale, viene concluso un accordo con le autorità dell’Est per permettere agli abitanti di Berlino Ovest di recarsi all’Est per un periodo massimo di 18 giorni.
La frontiera tra i due settori diventa allora l’unico punto di passaggio tra l’Est e l’Ovest. La costruzione di questo Muro, evento che ha segnato la memoria di tutti i Berlinesi, simboleggia anche la consolidazione delle sfere del potere in Europa.
Lo sgelo degli anni ‘70
Fino all’entrata in vigore dell’accordo quadripartito del 1971, dell’accordo sul transito e del Trattato di base nel 1972, e persino dopo, la questione dello statuto di Berlino rimane un problema. Con il Trattato di base, la Repubblica federale tedesca riconosce infine la Repubblica Democratica Tedesca come uno Stato della Germania. In cambio ottiene la garanzia dello statu quo di Berlino Ovest, ma deve accettare che questa parte della città non faccia parte integrante del suo territorio. Si afferma anche che il collegamento con i settori occidentali e la Repubblica federale va mantenuto e persino rafforzato, di qui l’insediamento sul posto di autorità federali. In realtà non cambia niente, ma esiste finalmente una base giuridica di referenza chiaramente definita. Il Cancelliere Willy Brandt (RFT) e il presidente del Consiglio di Stato Erich Honecker (RDT) conducono una politica di avvicinamento (Ostpolitik): la RDT semplifica le autorizzazioni di viaggio fuori dalle sue frontiere e consente ai Tedeschi dell’Ovest di soggiornare brevemente nelle regioni frontaliere.
Lo sviluppo parallelo
A Ovest come a Est, la pianificazione urbana è al centro delle discussioni politiche. A causa della divisione è necessario ricreare al più presto le istituzioni e gli organismi che mancano nelle due parti della città. I dintorni della Chiesa del Ricordo diventano il centro città di Berlino Ovest, e Alexanderplatz il punto forte della rinnovazione del centro città a Est. Le due parti vengono trasformate, a furia di sussidi, come vetrina dei loro sistemi politici rispettivi. A dispetto delle circostanze, da una parte e dall’altra del Muro, una certa «normalità» s’installa nella vita della maggior parte dei Berlinesi.
La caduta del Muro
Nel 1987, Berlino celebra il suo 750° anniversario. Il presidente americano Ronald Reagan pronuncia queste parole durante un discorso tenuto davanti alla Porta di Brandeburgo: «Signor Gorbacev, apra questa porta, signor Gorbacev demolisca questo muro! » All’Est, la festa si trasforma in tafferuglio quando la polizia caccia un gruppo di giovani che ascolta, vicino al Muro, un concerto di rock organizzato all’Ovest.
Dopo le elezioni comunali del maggio 1989, un movimento di resistenza inabituale e molto violento solleva Berlino Est e la RDT; i difensori dei diritti civili si rivoltano contro le accuse di manipolazione. Le prime manifestazioni hanno luogo contro il sistema politico del SED (Partito Socialista Unificato della RDT). Facilitati dall’apertura della frontiera tra l’Ungheria e l’Austria, i Tedeschi della Germania orientale partono in massa verso l’Ovest. Le ambasciate della RFT situate nei «paesi fratelli» socialisti sono occupate dai rifugiati, che vogliono ottenere i visti di uscita dal territorio.
11 novembre 1989
Il 7 ottobre 1989, l’esecutivo guidato da Erich Honecker festeggia i quarant’anni della repubblica Federale Tedesca a Berlino Est; tuttavia, appena 12 giorni dopo, il presidente del Consiglio di Stato deve abbandonare il SED, dopo esser stato a capo del partito per 18 anni. Il 4 novembre, più di mezzo milione di uomini e di donne si riuniscono in Alexanderplatz per reclamare riforme democratiche e la fine del dominio del partito unico.
Durante una conferenza stampa, il 9 novembre, Günther Schabowski, membro dell’ufficio politico del SED, annuncia un cambiamento nella rigida amministrazione dell’Est: sono autorizzati i viaggi all’estero «senza condizioni preliminari, autorizzazione particolare, né legame di parentela». Interrogato sulla data di entrata in vigore di questa nuova normativa, risponde: «Subito. Immediatamente.»
La notizia si sparge in men che non si dica. Decine di migliaia di Berlinesi dell’Est affluiscono ai posti di frontiera. Le guardie di confine sono sorprese e non avendo ricevuto istruzioni, li lasciano passare. Le barriere vengono aperte dapprima al punto di controllo della Bornholmer Straße e numerosi Berlinesi dell’Est fanno così una breve incursione all’Ovest.
Un immenso movimento d’euforia invade la città che rasenta il caos generale. I Berlinesi, armati di martelli e scalpelli, incominciano a smantellare il Muro. Altri checkpoint sono aperti le settimane seguenti. L’apertura della porta di Brandeburgo, il 22 dicembre 1989, ha un valore particolarmente simbolico.
Il famoso violoncellista Rostropovitch, dovutosi esiliare all’Ovest, viene a suonare ai piedi del Muro per incoraggiare i demolitori (designati con il termine di Mauerspechte, i «picchi verdi del Muro»).
Una vita bruciata dalla Stasi
Un incontro commovente con Heinz Kamisnski, 60 anni, tedesco dell’Est. Quando sua madre era fuggita all’Ovest, fu rapito dalla Stasi (Stasi è l'abbreviazione di Ministerium für Staatssicherheit, "Ministero per la Sicurezza di Stato") all’età di 7 anni. Per i suoi tentativi di fuga ha subito delle persecuzioni di cui ancora soffre.
Tutti abbiamo sentito parlare della Stasi, soprattutto dopo il bellissimo film “La vita degli altri”.
La Stasi è il simbolo di una macchina terribile per distruggere gli uomini.
Abbiamo incontrato una vittima di questa repressione poliziesca che vigeva nella Germania dell’Est, ancora in terapia.
L’incontro avviene nel quartiere Wedding, al centro Gegenwild, un centro psicosociale di Berlino ovest. L’ambiente è caloroso, i mobili in legno, un locale per i colloqui individuali un altro per riunioni di gruppo. Bettina, una delle psicologhe, ci attende con Heinz Kaminski, un uomo robusto di 60 anni, che ha portato con lui un grosso dossier.
Bettina ci spiega che attualmente ha in cura una trentina di persone. Sono vissute tutte nella ex Repubblica Democratica di Germania.
Il centro è stato creato 11 anni fa da un vecchio militante dei diritti civili della Germania dell’Est, Yurger Fox. Più di mille persone hanno avuto contatti con l’equipe del centro, la metà hanno chiamato, gli altri hanno preferito passare direttamente. Bettina racconta che molti hanno ancora paura di raccontare per telefono le loro vicissitudini, per il timore di essere ascoltati.
Heinz Kamisnski è nato nel 1950 a Berlino est. Sua madre era fidanzata con un ufficiale dell’esercito della Germania est. Un giorno decise di andare all’ovest, lei e suo figlio, che allora aveva tre anni. Siamo nel 1953, il muro non esisteva ancora. Heinz cresce nella Germania ovest finché un giorno sua madre perde il diritto di affidamento. La Stasi viene a cercare Kamisnski e lo porta in una casa a Berlino est, controllata dal partito, la SED. Durante la sua adolescenza, la sua ossessione sarà quella di rivedere sua madre. Heinz Kamisnski tenterà, a più riprese, di scappare ma ogni volta viene ripreso e riportato a casa dove viene cresciuto con metodi duri. Un giorno tenta di passare la frontiera con la Cecoslovacchia. Ha 19 anni. Viene arrestato e posto in una cella di isolamento in una prigione di Berlino est. Per 12 mesi vivrà in una cella di 2 metri per 3. In prigione resiste a tutti gli interrogatori della Stasi che vuole sapere se ha dei contatti con l’Ovest. Lo minacciano dicendogli che scomparirà se non parla, che nessuno saprà che è esistito. La Stasi utilizza questi metodi di lavaggio del cervello per farlo cedere. Il giovane Kamisnski resiste ma si ammala perdendo tutti i capelli. La Stasi redige un rapporto sul suo stato di salute che contribuirà a considerarlo come un prigioniero politico della Germania Ovest, cosa che allora accadeva spesso.
Tornato libero Heinz Kamisnski decide di andare a vivere all’estero. Va negli Stati Uniti e in America del sud dove fa dei piccoli lavori. Poi ritorna in Germania, si sposa e trova un lavoro come capocantiere. Ma un giorno “perde le staffe”, litiga sempre più spesso con i suoi colleghi, diventa incontrollabile. Sua moglie lo lascia, perde il lavoro. Gli consigliano di consultare uno psicologo che lo consiglia di rivolgersi ad un centro di terapia sociale più adatto al suo caso.
Heinz Kamisnski viene una volta alla settimana. Quest’estate ha vinto una causa contro lo Stato tedesco ed ha avuto un’indennità di 20.000 euro come vittima, quasi una pensione con la quale possa vivere. Una vittoria per questo uomo che soffre di solitudine, una vittoria dal gusto terribilmente amaro. Heinz Kamisnski non riesce a voltare pagina dopo un passato che lo perseguita da 30 anni. Lo si vede: consulta freneticamente le pagine del suo enorme dossier, che ha recuperato nel 1996, dagli archivi della Stasi, in cui è depositata la storia di tutta la sua vita da quando aveva 7 anni. “Provo ancora odio” dice “contro quegli uomini che mi hanno fatto ciò”.
(Valérie Cova di France Info)
Monumento alla pace
Da un’intervista di ENZO BIAGI con KENZO TANGE
Architetto e urbanista giapponese (Imabari 1913 - Tokyo 2005). Tra i più noti protagonisti dell'architettura contemporanea, svolse una intensa attività a livello internazionale, che lo vide presente con numerose realizzazioni sia in Giappone sia in Italia, Stati Uniti, Australia, Arabia, Asia e Singapore. In Italia progettò diverse opere tra cui l'urbanizzazione di Librino, Catania (dal 1970), il piano per la Fiera di Bologna (1971-74), il Centro direzionale di Napoli (dal 1982) e i quartieri S. Francesco e Affari a San Donato Milanese (dal 1991).
La prima opera importante affidata a Kenzo fu lo progettazione del Centro della pace sui resti della città di Hiroshima distrutta.
Come ricorda lo scoppio della seconda guerra mondiale?
«Il 1939 credo sia stato l'anno successivo a quello in cui io terminai i miei studi di architetto. A quel tempo pur essendo laureati, per gli architetti non c'era quasi lavoro. Era un'epoca in cui non si poteva costruire nient'altro che con legno, e non era possibile usare né cemento né ferro. Ma, noi, ci siamo resi conto della guerra praticamente solo quando il Giappone ha attaccato a Pearl Harbour. Molta gente rimase stupita chiedendosi perché il Giappone s'era gettato in un'impresa così stupida. Poi ci fu l'atomica su Hiroshima, e con ciò finì la guerra. Per caso i miei genitori vivevano ad Imabari, una piccola città sul mare che si trova dall'altra parte di Hiroshima; erano sfollati là per sfuggire alle conseguenze della guerra. Invece morirono entrambi: mio padre per le radiazioni e mia madre colpita da una bomba incendiaria. I miei fratelli si erano sistemati poco più lontano da Imabari presso nostri parenti, e là io mi diressi non appena seppi del lancio dell'atomica su Hiroshima. E fu lì, in quella piccola città di campagna, che ascoltai alla radio l'annuncio della fine della guerra. Per me fu come se l'estrema tensione dello spirito fosse all'improvviso scomparsa».
Quella dura vicenda che cosa ha insegnato ai giapponesi?
«Nel mio caso, la morte dei miei genitori e la bomba su Hiroshima si sono sovrapposti e mi hanno lasciato quindi una impressione estremamente forte. Ma penso che, in un certo senso, sono stati proprio questi due fatti luttuosi, terribili che mi hanno insegnato il valore della pace. Finita la guerra noi giovani architetti fummo mobilitati per tracciare i piani di ricostruzione delle città giapponesi distrutte nel conflitto. Però, ad Hiroshima erano pochi ad andarci, volentieri: si diceva che, ad andarci subito ci si sarebbe ammalati e si sarebbe morti certamente. Io, non ebbi paura e chiesi quella destinazione. Fu così che venni mandato ad Hiroshima».
Che cosa significa per lei il "Memorial" che ha progettato per ricordare la bomba di Hiroshima?
«Per Hiroshima vi fu una specie di concorso nazionale e quando seppi di avere vinto pensai che non fosse vero. Del resto, ritenevo che non ci sarebbe mai stato il finanziamento per un'opera del genere. Poco alla volta, tuttavia, nel giro di due anni i denari, furono trovati. Occorse poi quasi un decennio prima che la costruzione potesse essere completata. Per me, quindi, Hiroshima rappresenta la prima opera della mia carriera di architetto, ed è quindi qualcosa di molto importante come punto di partenza nella evoluzione della mia produzione».
Bibliografia
Enzo Biagi - la Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti - Corriere della Sera 1990
Delitti e castighi: il 20 novembre 1945 iniziava il processo di Norimberga
Criminali nazisti nel processo di Norimberga (20 novembre 1945 – 31 agosto 1946).
Nella seduta inaugurale del processo di Norimberga ai criminali nazisti, il 18 ottobre 1945 a Berlino, viene nominato presidente del tribunale un magistrato inglese, Lord Geoffrey Lawrence. Il 20 novembre, alle dieci del mattino, il processo propriamente detto inizia nel Palazzo di Giustizia di Norimberga.
Otto giudici, di cui quattro supplenti, rappresentanti le quattro nazioni vincitrici della guerra, prendono posto sul palco di fronte ai 21 accusati, fisicamente presenti. Gli accusati dovevano essere in numero maggiore, ma gli esponenti di spicco del regime nazista, Hitler, Goebbels, Himler, si erano suicidati (Goering lo farà per sfuggire all’impiccagione). Il segretario particolare di Hitler, Martin Bormann, si è reso irreperibile; la sua morte non è mai stata provata: sarà giudicato in contumacia. Due altri accusati eviteranno il giudizio della corte: l’industriale Gustav Krupp, vecchio e mentalmente in uno stato da renderlo impossibilitato a comparire, e il capo del Fronte del Lavoro nel III Reich, Robert Ley: il 25 ottobre si era suicidato nella sua cella.
Alla 405ma udienza, il 31 agosto 1946, vi furono le ultime dichiarazioni degli imputati, la cui difesa era stata assicurata da ventisette avvocati, aiutati da cinquantaquattro assitenti e sessantasette segretari.
I capi d’accusa:
1) « congiura »: messa in atto di un piano tendente alla conquista del potere assoluto al fine di realizzare ulteriori crimini
2) « crimini contro la pace »: violazione di 34 trattati internazionali e guerre di aggressione che scatenano un conflitto mondiale
3) « crimini di guerra »: uccisioni collettive su grande scala (ordinati o tollerati), toture, lavoro forzato, sfruttamento economico
4) « crimini contro l’umanità »: persecuzione degli avversari politici e delle minoranze razziali e religiose, sterminio di comunità etniche: quest’ultimo definito come genocidio, secondo il diritto internazionale, fissato nel 1944.
Oltre alle persone fisiche, l’accusa si applica anche alle organizzazioni legate al potere hitleriano : Gabinetto del Reich, enti dei capi politici del partito nazista, alti comandanti delle forze armate, SS, SA.
Il verdetto viene pronunciato il 1° ottobre 1946.
da sinistra a destra: Hermann Goering, Rudolf Hesse, Joachin von Ribbentrop
Dodici imputati vengono condannati alla pena di morte, di cui uno in contumacia (Martin Bormann).
Nella notte del 16 ottobre 1946, dieci uomini sono impiccati nella palestra della prigione di Norimberga, da un boia texano, John C. Woods, sergente dell’esercito americano, (Hermann Goering si era suicidato alla vigilia della sua esecuzione, assumendo una capsula di cianuro verosimilmente fornitagli dal generale delle SS von dem Bach_Zelewski, il responsabile del massacro nel ghetto di Varsavia).
Il primo giustiziato è Joachin von Ribbentrop, ministro degli Esteri. Dopo di lui, il maresciallo Wilhem Keitel, capo dell’Alto Comando della Wermacht (che aveva firmato la resa incondizionata della Germania); Ernt Kaltenbrunner, capo dell’Ufficio centrale della sicurezza e responsabile dei campi di concentramento; Alfred Rosemberg, teorico del razzismo, ministro dei territori occupati dell’Est; Hans Frank, governatore generale della Polonia; Wilhelm Frick, ministro degli Interni poi protettore della Boemia-Moravia; Julis Streicher, antisemita fanatico, direttore del giornale Dër Stürmer (L’attaccante); Friz Sauckel, organizzatore del lavoro coatto nei territori occupati dal Reich; Alfred Jodl, generale capo di Stato Maggiore; Arthur Seyss-Inquart, austriaco, artefice dell’Anschluss. Gli altri imputati sfuggirono alla pena di morte. Il delfino di Hitler, Rudolf Hesse, fu condannato all’ergastolo (detenuto, dal maggio 1941 in Inghilterra dove si era rifugiato clandestinamente per tentare di negoziare una pace separata, non potendo ritenerlo responsabile delle atrocità legate all’invasione delll’URSS). Morirà ufficialmente « suicidato » - nel 1987 – all’età di 93 anni, nel carcere berlinese di Spandau, di cui era il solo e ultimo detenuto, dopo una detenzione record di quarantasei anni (contando anche quelli trascorsi oltre Manica). Sono stati condannati alla prigione a vita anche Walter Funk, presidente della Reichbank (liberato nel 1957 perché giudicato inadatto alla detenzione) e il Grande Ammiraglio Erich Raeder liberato nel 1955 per ragioni di salute), Baldur von Schirach, fürer della gioventù, e Albert Speer, ministro degli Armamenti e dell’Economia di guerra, condannato a venti anni di prigione. L’uno e l’altro furono liberati nel 1966 dopo aver scontato completamente la loro pena. Kostantin von Neurath, predecessore di Ribbentrop, al Ministero degli Esteri, e il Grande Ammiraglio Karl Dönitz, organizzatore della guerra sottomarina, presidente del Reich, nominato da Hitler nell’aprile del 1945, furono condannati rispettivamente a quindici e dieci anni di prigione. Infine tre imputati furono assolti: Hjalmar Schacht, ex ministro dell’Economia, Franz von Papen, ex cancelliere «recuperato» dai nazisti, e Hans Fritzche, aiutante di Goebbels al Ministero della Propaganda, ex commentatore di Radio Berlino. Schacht, arrestato dopo il fallito attentato ad Hitler nel luglio 1944, restò per un po’ di tempo nelle prigioni tedesche malgrado la sua assoluzione nel processo di Norimberga. Lo stesso per von Papen e Fritzche che furono condannati alla prigione dai tribunali della denazistificazione.
La nascita della prima Repubblica
Il 1948 si è aperto con uno storico alzabandiera al Quirinale, la mattina di Capodanno, per significare che l'antico palazzo, già residenza dei papi e poi sede dei re sabaudi, era diventato la casa ufficiale del presidente della Repubblica.
L'alza bandiera (il tricolore ovviamente epurato dello stemma sabaudo) era storico, perché voleva dire anche e soprattutto che da quella mattina era in vigore la nuova Costituzione, la Carta fondamentale dell'Italia democratica.
Un altro degli obiettivi per cui molti italiani si erano battuti durante la guerra di Liberazione veniva così raggiunto. Ma quali erano stati gli avvenimenti più importanti per la vita della Nazione che erano accaduti tra la fine della guerra e l’inizio del 1948?
La nascita della prima Repubblica
«La liberazione non fu solo merito delle forze alleate e delle quattro divisioni dell'esercito italiano. Fu anche il popolo a liberarsi da sé: innanzitutto con l'opera tenace ed eroica delle formazioni partigiane, nelle campagne, nelle montagne, nelle città. Quel 25, aprile del 1945, all'indomani dell'ordine di insurrezione generale delle forze della Resistenza dato dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, molte città del Nord, grandi e piccole, vennero liberate dai partigiani, prima dell'arrivo delle forze alleate. In quello stesso giorno, nelle città che avevano già visto la fine della lunga occupazione, gli italiani si unirono in cortei spontanei ed esultanti. Fu una grande festa di popolo nelle strade e nelle piazze, un popolo che si ritrovava rinato, libero e unito. Le gesta di quelle giornate formarono, per sempre, la nostra coscienza democratica. Gloria a coloro che salvarono l'onore del popolo italiano e diedero il loro vitale contributo alla riconquista della libertà: la libertà per tutti, anche per coloro che li avevano combattuti».
Carlo Azeglio Ciampi, decimo Presidente della Repubblica Italiana
Dopo il 25 aprile 1945, che aveva visto la fine della guerra in Italia con la liberazione del Nord dall’occupazione nazista e il crollo definitivo del fascismo, per l'effetto congiunto dell'azione militare alleata e dell'insurrezione partigiana, i capi della Resistenza si ritrovano a Roma e con loro arriva il cosiddetto «vento del Nord», termine coniato da Pietro Nenni. Vento del Nord voleva dire aria di cambiamento, politico e sociale, voleva dire portare fra le alchimie della nuova politica «romana» la lezione della lotta partigiana, una spinta a un profondo rinnovamento. E lo stesso Nenni si è candidato a guidare questa nuova fase, suscitando però l'opposizione di democristiani e moderati. Alla fine si è raggiunto un accordo sul nome di Ferruccio Parri, uno dei dirigenti del Partito d'azione e soprattutto esponente di punta della Resistenza col nome di battaglia «Maurizio».
Parri ha preso il posto di Bonomi, il cui secondo governo, costituito sei mesi dopo il primo, e durato sei mesi anch'esso, si è dimesso definitivamente il 12 giugno. Nove giorni dopo, è nato il governo del «vento del Nord», in versione moderata, con il leader democristiano De Gasperi agli Esteri, quello comunista Togliatti alla Giustizia e Nenni alla vicepresidenza. Questi governi andavano dai liberali ai comunisti, cioè comprendevano forze politiche diametralmente opposte, che tuttavia collaboravano nel segno dell'emergenza nazionale seguita alla guerra e alla sconfitta.
Nonostante le doti personali di onestà e d'impegno del presidente del Consiglio, Ferruccio Parri, nel governo era cominciato un braccio di ferro tra sinistra e centrodestra su come articolare le prime elezioni democratiche (se subito quelle politiche o quelle amministrative) e sui poteri della futura Assemblea costituente (se dovesse o meno decidere sulla forma istituzionale dello Stato e se dovesse o no avere anche normali poteri legislativi, nell'ambito della sua durata). Il secondo problema era il più importante.
Lo aveva sollevato per primo Umberto di Savoia, come Luogotenente,
in un'intervista al «New York Times» del 7 novembre 1944, sostenendo che un apposito referendum, e non l'Assemblea costituente, dovesse decidere tra monarchia e repubblica. Lo scopo era chiaro: le chances monarchiche sarebbero state molto più grandi in una consultazione popolare che in un'assemblea elettiva, dato l’orientamento prevalentemente repubblicano dei partiti antifascisti. Il contrasto si era riproposto sui poteri dell'Assemblea: doveva limitarsi a redigere la nuova Carta costituzionale (conservando ovviamente una funzione di controllo politico generale e di ratifica dei trattati internazionali), lasciando al governo il potere di legiferare, oppure il suo mandato doveva essere quello di un normale Parlamento, con in più la funzione costituente?
Dopo solo sei mesi, il governo Parri viene messo in crisi dai liberali; alla guida del Paese arriva il leader della Democrazia cristiana Alcide De Gasperi che forma un governo di estrazione “ciellenistica” con Nenni vicepresidente e Togliatti alla Giustizia.
Sulla svolta, la prima di una serie che avrebbe portato due anni dopo allo scontro elettorale tra gli ex alleati, decisivo per il futuro del Paese, non hanno mancato di esercitare una notevole influenza gli anglo-americani. Tre giorni dopo l'insediamento del primo governo De Gasperi, le autorità militari anglo-americane hanno deciso di restituire all'amministrazione italiana le regioni del Nord, rimaste ancora sotto il loro controllo.
Di fronte a quella che era ormai la prospettiva di un referendum istituzionale e di una distinta elezione dell'Assemblea costituente i partiti hanno serrato le file, con una serie di congressi. Quello del Partito comunista si svolse dal 29 dicembre 1945 al 7 gennaio 1946. Quello della Democrazia cristiana e quello del Partito liberale, in aprile, hanno registrato, nel primo caso, un senso di ascesa, di responsabilità crescenti, e nel secondo un senso di declino.
Il congresso del Partito d'azione, che si svolse dal 4 all'8 febbraio nel teatro romano Teatro Italia, ha significato l'uscita dalla scena italiana di un piccolo-grande partito, che aveva raccolto le speranze di quanti auspicavano una formazione politica capace di essere una «terza forza» tra i due poli emergenti, entrambi in qualche misura estranei o laterali alla tradizione dell'Italia unita e «risorgimentale», il polo comunista e quello cattolico.
Una terza forza laica e democratica, occidentale ma riformatrice, anche in senso socialista, erede di un gruppo glorioso della Resistenza, non a caso chiamato Giustizia e Libertà. Una terza forza modernizzatrice, potenzialmente incubatrice di uno schieramento democratico-progressista, alternativo a quello democratico-conservatore, in un sistema liberale «compiuto». In questo senso, era stata vista con interesse dalla stessa America, nella fase «rooseveltiana».
Membri del partito erano uomini come Ugo La Malfa, Leo Valiani, Altiero Spinelli, Luigi Salvatorelli, Ferruccio Parri, Emilio Lussu, Riccardo Lombardi, Piero Calamandrei, Guido Calogero, Tristano Codignola, Francesco De Martino, Vittorio Foa, e vari altri). In ogni caso, essa è crollata nella notte tra il 7 e l'8 febbraio 1946, con l'uscita dal Teatro Italia della componente più spiccatamente «liberale» (Parri, La Malfa), che avrebbe dato vita a un Movimento democratico-repubblicano, di breve durata, abbandonando le correnti tendenzialmente o dichiaratamente «socialiste».
C'è stato scontro anche nel congresso socialista, svoltosi a Firenze dall'11 al 17 aprile. Il Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria, questo era il nome ufficiale) era reduce da forti affermazioni nel primo gruppo di elezioni amministrative, che si era tenuto già in marzo. A Milano era risultato addirittura vincitore assoluto, distanziando Dc e Pci. Era, di fatto, il primo partito della sinistra.
E tuttavia era ormai diviso tra due «anime», che riflettevano anch'esse, nello stesso ambito del socialismo, due modi diversi di vedere il futuro nazionale, e le alleanze necessarie per perseguirlo. Una era l'anima, appunto, «proletaria», legata alla tradizione dell'unità della classe operaia, l'altra era l'anima socialdemocratica e riformista, che riemergeva dopo il periodo della lotta comune della «unità di azione», contro il nazifascismo. Riemergeva quando il nazifascismo era stato ormai sconfitto e si delineava sempre più nettamente una divaricazione, e anzi un conflitto, tra i vincitori dell'Est e quelli dell'Ovest, cioè tra l'Unione Sovietica e l'Occidente liberaldemocratico, ma anche, eventualmente, socialdemocratico: in Gran Bretagna, per dire, il governo laborista di Attlee aveva preso il posto, all'indomani della vittoria, di quello conservatore di Churchill.
Le due anime del Psiup si sono identificate essenzialmente in due volti. Uno, quello di Pietro Nenni e l'altro quello di Giuseppe Saragat.
Il congresso di Firenze non ha fatto una scelta tra l'uno e l'altro, ha rimosso i motivi dell'incompatibilità, ha cercato una soluzione «unitaria». Ma l'equilibrio di partito che ne è emerso è subito apparso un equilibrio precario, destinato a rompersi alla prima occasione. Nella prospettiva, ancora, di schierarsi in un senso o nell'altro, per l'Est o per l'Ovest.
Per il referendum istituzionale e per l'elezione dell'Assemblea costituente (ferma restando la funzione legislativa del governo) è stata infine fissata una data: il 2 giugno 1946.
La campagna elettorale si è svolta sostanzialmente nella calma. Il clima si è ravvivato dopo il 9 maggio, per la decisione di Vittorio Emanuele III di abdicare in favore del figlio, che da luogotenente è diventato il nuovo re, col nome di Umberto II. Per l’occasione Togliatti inventò uno slogan ironico che definiva Umberto «il re di maggio».
In realtà, la mossa di Vittorio Emanuele (sgombrare il campo della sua persona, comodo bersaglio dei repubblicani e degli antifascisti), subito seguita dalla partenza per l'esilio in Egitto, ha ridato slancio ai sostenitori della monarchia, aiutati anche da una serie di viaggi pre-elettorali di Umberto e da suoi rassicuranti discorsi sull'avvenire della democrazia. Così, una consultazione che sembrava destinata a un sicuro successo della repubblica è ridiventata incerta, e l'attesa è cresciuta.
Alla fine la repubblica ha vinto e la monarchia ha perso, ma la proclamazione ufficiale del cambiamento istituzionale è stata molto più laboriosa del previsto.
I voti sono stati 12.717.923 per la repubblica e 10.719.284 per la monarchia. Ma c'è stato un clamoroso imprevisto: questo risultato si riferiva ai voti validi, mentre la legge parlava della maggioranza dei voti espressi, quindi calcolando le schede bianche e nulle.
La Corte di Cassazione ha infine appurato che i voti non validi erano 1.509.735 e che comunque la monarchia aveva perso, sia pure per mezzo milione di voti. Quanto a Umberto II, egli si è deciso a partire per l'esilio il 13 giugno diretto a Lisbona: lo ha fatto lasciando dietro di sé una scia di risentimenti, e senza neppure uno scambio di saluti col presidente del Consiglio De Gasperi, che si era preparato a un commiato formale e rispettoso.
Tuttavia finalmente è nata la Repubblica italiana, e con essa l'Assemblea costituente, chiamata a redigere la Carta fondamentale del nuovo Stato democratico.
Ne sono stati chiamati a far parte 207 democristiani, 115 socialisti, 104 comunisti, 41 rappresentanti dell'Unione democratica nazionale (PLI e Democrazia del lavoro), 30 appartenenti all’Uomo Qualunque, 23 repubblicani (del PRI), 16 esponenti del Blocco nazionale della libertà (monarchici), 9 residui azionisti (col concorso del Partito sardo d'azione), 4 rappresentanti del Movimento indipendentista siciliano e così via, fino a completare il numero di 555 membri dell'Assemblea.
Dopo la proclamazione della Repubblica, il governo ha varato una legge di pacificazione nazionale, l'amnistia generale per i reati politici, firmata dal Guardasigilli Togliatti.
De Gasperi, dopo l'elezione di Enrico De Nicola a capo provvisorio dello Stato,
ha formato il suo secondo governo, al quale partecipava anche il PRI, non più trattenuto dalla pregiudiziale antimonarchica, e dal quale era uscito Togliatti: al suo posto, alla Giustizia, un altro comunista, Fausto Gullo.
Ma andava cambiando radicalmente anche il quadro internazionale. Già il 5 marzo, nel famoso discorso di Fulton, Churchill aveva denunciato il calare di una «cortina di ferro» tra Est e Ovest.
Questo metteva quanto meno in grande imbarazzo il rapporto di governo tra De Gasperi e i partiti di sinistra.
Oltre a ciò c'era il problema del Trattato di pace, in via di definizione a Parigi. Il 3 ottobre, la conferenza ha raggiunto un accordo sul confine orientale, che sostanzialmente toglieva all’Italia la penisola istriana e creava il Territorio libero di Trieste, sotto il controllo dell'Onu. Una concessione, anche se incompleta, alla Jugoslavia comunista e all'Urss, ancora alleate e un’altra fonte di disagio per Togliatti, costretto a conciliare la difesa degli interessi italiani con quella del movimento comunista internazionale.
Bibliografia:
Aldo Rizzo - “L’anno terribile. 1948: il mondo si divide” - Laterza 1977
La nascita dell'ONU
Un nuovo ordine internazionale
All'inizio, il trauma della terribile tragedia vissuta dall'umanità spingeva tutti gli Stati a rifondare l'intero sistema internazionale su basi diverse, capaci di garantire per sempre il mondo da altre follie. Da un lato, si cercava di chiudere i conti con il passato: era un tentativo difficile, non privo di contraddizioni e veri e propri drammi. L’evento più eclatante a questo proposito fu il processo di Norimberga che si tenne tra il novembre del 1945 e l'ottobre del 1946, destinato a lasciare un segno indelebile nella coscienza dei popoli e nella giurisprudenza internazionale.
Dall'altro lato, sin dal 1941 le potenze alleate si erano poste il problema di stabilire nuove regole di convivenza che venivano formalizzate durante la Conferenza di San Francisco con la nascita, il 26 giugno 1945, della Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu).
La nuova organizzazione internazionale sostituiva la Società delle Nazioni e si proponeva di emendarne i difetti, anche se ne ereditava gran parte dei princìpi guida, a partire da quello dell'eguaglianza delle nazioni, tutte con diritto di voto nell'Assemblea Generale, massimo organo deliberante dell'Onu. Come contrappeso veniva creato il Consiglio di Sicurezza, le cui decisioni erano vincolanti su questioni fondamentali, quali le modifiche allo statuto, l'adesione di nuovi Stati e alcuni interventi di particolare rilievo, per esempio azioni militari. Lo componevano quindici membri, dieci eletti a turno tra tutti gli Stati, cinque permanenti - Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e, a partire dal 1971, la Cina - dotati di diritto di veto, un diritto di cui soprattutto Urss e Usa fecero uso così ampio da diventare un potente freno all'attività dell'Onu. Al pari della Società delle Nazioni, anche l'Onu si sarebbe perciò trovata troppo spesso inadempiente rispetto ai due obiettivi che si era proposta: «salvare le generazioni future dal flagello della guerra» e «promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli».
Lo schema rappresenta i principali organi che compongono l'Onu in base alle regole determinate dalla Carta delle Nazioni Unite. Il Consiglio di Sicurezza rende applicative le proprie decisioni se ottiene 9 voti favorevoli su 15, compresi i voti di tutti e cinque i membri permanenti.
L’Assemblea Generale, composta attualmente da 191 rappresentanti per altrettante nazioni, si riunisce a New York una volta l'anno. L’Assemblea ha il potere di allestire un esercito internazionale (caschi blu) per preservare la pace in aree del mondo dove è minacciata o per garantire l'ordine in contesti di violenza etnica o politica.
Assemblea elegge ogni tre anni i membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza, i membri dei Consigli economici e sociali e della Corte internazionale di Giustizia dell'Aja. Alcune organizzazioni o agenzie internazionali, pur operando autonomamente, collaborano strettamente con l'0nu per promuovere iniziative a favore del tenore di vita e dei diritti dell'uomo. Tra queste ricordiamo l'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao), l'Organizzazione per l'educazione, la scienza e la cultura (Unesco), il Fondo internazionale per l'infanzia (Unicef), l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e il Fondo monetario internazionale (Fmi).
L'Uomo Qualunque
Nel dicembre 1944, proprio mentre la Resistenza subisce al nord la prova più dura e la Monarchia gioca la carta del referendum (Umberto di Savoia, come Luogotenente, in un'intervista al «New York Times» del 7 novembre 1944, sosteneva che un apposito referendum, e non l'Assemblea costituente, dovesse decidere tra monarchia e repubblica), nasce il settimanale L'uomo Qualunque, destinato a diventare l'organo di un vasto movimento e poi nel febbraio 1946 di un vero partito.
Ne è promotore Guglielmo Giannini, un geniale commediografo napoletano, che dimostra acuta sensibilità per contenuti di opinione e sentimenti che agiscono nel profondo della società italiana, ai quali dà voce in maniera brillante e polemica.
Giannini si oppone ad ogni idea di Stato etico «che pretende di insegnare a pensare al cittadino», nega ogni spazio alla politica che non sia quello della «amministrazione». Alle classi sociali contrappone la «folla» degli «uomini qualunque», nega ogni valore ideale alla patria; definisce come unico e ardente desiderio dell'uomo qualunque quello «che nessuno gli rompa più le scatole», come scrive il 27 dicembre nel primo numero del settimanale. Giannini non è un nostalgico del fascismo. Critica aspramente la guerra nella quale il fascismo ha trascinato il paese e che fra l'altro è costata la vita a un suo figlio, ma di fatto raccoglie tutti i sentimenti di delusione e di risentimento che vanno formandosi nell'Italia liberata nei confronti dei primi e incerti passi dei partiti e del C.L.N. L'uomo Qualunque, che raccoglie consensi diffusi anche in ambienti cattolici e polemizza aspramente contro la Democrazia Cristiana, rappresenta l'espressione più significativa di quello che è stato definito «il vento del sud» in contrapposizione al «vento del nord», alimentato dalla esperienza della Resistenza.
Per capire con precisione cosa sia L'Uomo qualunque, basti tener presente che nelle elezioni politiche del 2 giugno 1946 (alle quali partecipa col nome di Fronte dell'Uomo qualunque ) esso avrà 30 deputati. Sui 20 deputati eletti nei singoli collegi (gli altri 10 rientrano nel Collegio nazionale) uno soltanto proviene dal nord (dal collegio elettorale di Milano - Pavia): gli altri 19 vengono eletti nei collegi di Roma, Benevento-Campobasso, Napoli-Caserta e Bari-Foggia (il massimo: 4 per ogni collegio), a Salerno, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna. Alle elezioni amministrative del 1946, L'Uomo qualunque avrà 30 candidati, eletti nell'Italia Settentrionale, 68 nell'Italia centrale (di cui ben 58 a Roma e nelle province limitrofe), 981 nell'Italia meridionale, 218 in Sicilia e in Sardegna.
Alle elezioni dell'aprile 1948 avviene il crollo di questo movimento, il quale non è altro che un segno di protesta; il suo significato, per così dire, è quello d'una reazione: trascorso un certo periodo, il suo compito sarà esaurito.
L’anno terribile 1948: il mondo si divide
Fu l'anno del colpo di Stato comunista a Praga e del blocco sovietico di Berlino,
in Italia dello scontro elettorale del 18 aprile, della vittoria della Democrazia cristiana di De Gasperi sul Fronte socialcomunista di Togliatti e Nenni;
e ancora, nel resto del mondo, della nascita dello Stato d'Israele e dell'assassinio di Gandhi, e delle definitive vittorie militari dell'Armata Rossa di Mao Zedong in Cina.
Un anno di svolta. Da una parte, esso portò alle estreme conseguenze politiche la crisi dei rapporti tra i vincitori del secondo conflitto mondiale, sancendo, al di là di ogni residua speranza, la frattura dell'Europa e in buona misura del mondo tra l'Ovest liberaldemocratico, guidato dagli Stati Uniti d'America, e l'Est comunista, ispirato e controllato dalla Mosca di Stalin (la «guerra fredda»). Dall'altra, creò le premesse di quella che sarebbe stata, in qualche modo, al fondo di tutto, la stabilità internazionale, per oltre un quarantennio, cioè fino a quando, repentinamente, ma come effetto finale del lungo e severo confronto, l'Est comunista non crollò su se stesso (o quanto meno, come nel caso della Cina, non diventò qualcosa di nuovo e diverso).
Proprio cento anni prima, nel 1848, in febbraio, Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono il Manifesto del partito comunista, diretto a superare e anzi a rovesciare ogni percorso moderato e gradualista delle trasformazioni sociali e politiche, per annunciarne uno decisivo e apocalittico: la «dittatura del proletariato», la lotta all'ultimo sangue alla borghesia capitalistica. Un anno prima, nel 1847, Marx era entrato a far parte di un'associazione fondata a Parigi nel 1830, chiamata Lega dei Giusti, e poi Lega comunista, il cui slogan era: «Tutti gli uomini sono fratelli». Marx e Engels lo sostituirono con un altro, che chiamava al «rovesciamento violento di tutto l'ordine sociale esistente», intendendo gettare via tutto il socialismo cosiddetto visionario e utopistico di Owen e Saint-Simon, di Blanc e Fourier, in nome di una nuova dottrina «scientifica» della lotta di classe e della rivoluzione mondiale. Il Manifesto uscì a Londra in febbraio, quando ormai era cominciata, a Parigi, la rivoluzione quarantottesca che avrebbe portato alla Seconda Repubblica francese.
Come cominciò la «guerra fredda»
L'espressione «guerra fredda» fu coniata da quello che è stato forse il più importante giornalista politico americano, Walter Lippmann, nel 1947. Voleva dire ovviamente uno stato di tensione nelle relazioni internazionali talmente grave da somigliare a una guerra, senza tuttavia esserlo davvero, ma con il pericolo di diventarlo .
Tale era il tipo di rapporti che si andava instaurando tra l'Est e l'Ovest, e soprattutto tra Unione Sovietica e Stati Uniti, all'indomani della comune vittoria contro la Germania nazista.
È del 1946 un'altra espressione famosa: «cortina di ferro». A pronunciarla, il 5 marzo, fu l'ex primo ministro britannico Winston Churchill, uno dei grandi protagonisti della guerra contro Hitler, in un discorso al Westminster College di Fulton, nello Stato americano del Missouri.
Disse Churchill che una cortina o sipario di ferro, appunto, «è sceso attraverso il continente, da Stettino nel Baltico a Trieste nell'Adriatico», volendo significare la pretesa dell'Urss di fare dei Paesi liberati dall'Armata Rossa nell'Europa centro-orientale una sorta d'impero al servizio di Mosca.
A Churchill, Stalin rispose sprezzantemente che «le nazioni che non parlano la lingua inglese non vogliono una nuova schiavitù», evidentemente sottintendendo che non ci sarebbe stato posto per un nuovo Impero britannico, o, nella nuova situazione, anglo-americano, e quindi rivendicando per se stesso e per l'Urss un ruolo storico di alternativa al potere occidentale.
Prove tecniche, diremmo oggi, di guerra fredda, cioè di un confronto, che sarebbe diventato globale, europeo e planetario, tra due blocchi di potere geopolitico tradizionale, con in più due ideologie contrapposte e inconciliabili, frutto delle rivoluzioni degli ultimi due secoli. Insomma la preparazione di una fase storica che, per l'intreccio e la complessità dei fattori, e per la gravità del pericolo di una loro esplosione, poteva essere considerata senza precedenti. E che, tra alti e bassi, sarebbe durata quasi mezzo secolo.
La Guerra Fredda come scontro di due progetti ideologicamente contrastanti.
La Guerra Fredda non fu uno scontro inevitabile. Fu la guerra provocata dal Terzo Reich che portò nel cuore dell'Europa Stati Uniti e Unione Sovietica e li pose gli uni di fronte all'altra. Entrambi cercarono di inglobare nella propria sfera d'influenza gli Stati europei e in particolare entrambi inclusero nella propria coalizione uno dei due Stati tedeschi nati dalle macerie della guerra. La contrapposizione politica, economica e militare tra le due Germanie acuì l'ostilità tra Stati Uniti e Urss e fece venire meno le basi dell'alleanza che si era formata durante il periodo nazista.
«La guerra fredda si sviluppò come conseguenza dell'esistenza di due progetti mondiali ideologicamente contrastanti e che i due campi si adoperarono per diffondere politicamente, economicamente e infine anche militarmente. La particolare asprezza assunta in Europa da questo scontro trova la sua giustificazione nel fatto che, se è vero che il potenziale tedesco venne controllato in entrambi i campi, è anche vero che quello tedesco-occidentale, ben più rilevante, non solo venne consolidato, ma venne anche mobilitato contro L'Unione Sovietica. Anche la Guerra Fredda, quindi, fu una conseguenza della guerra di conquista scatenata dalla Germania nazista». Jost Duffler
Winston Churchill: il discorso di Fulton
Un'ombra è caduta sulle scene così recentemente illuminate dalla vittoria degli alleati. Nessuno sa ciò che la Russia sovietica e la sua organizzazione internazionale intendono fare nell'immediato futuro, o quali siano i limiti, se ce ne sono, alle loro tendenze all'espansione e al proselitismo. [...] Noi comprendiamo il bisogno della Russia di essere sicura alle sue frontiere occidentali di fronte a qualsiasi ripetersi dell'aggressione tedesca. [...] È tuttavia mio dovere porre davanti a voi certi fatti al riguardo dell'attuale situazione in Europa: è mio dovere farlo, penso, anche se senza dubbio preferirei farne a meno.
Da Stettino sul Baltico a Trieste sull'Adriatico, è scesa sul continente europeo una cortina di ferro. Dietro quella linea ci sono tutte le capitali degli antichi Stati dell'Europa centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia, tutte queste famose città e le popolazioni che le circondano si trovano nella sfera sovietica e sono soggette, in una forma o nell'altra, non soltanto all'influenza sovietica, ma a un'altissima e crescente misura di controllo da Mosca. [...] Governi polizieschi stanno prevalendo in quasi tutti i casi, e finora, esclusa la Cecoslovacchia, non c'è vera democrazia. [...] D'altra parte io respingo l'idea che una nuova guerra sia inevitabile; e ancor più che sia imminente. È proprio perché sono così certo che le nostre fortune sono nelle nostre mani e che possiamo salvare il futuro, che sento il dovere di parlare ora che ho l'occasione di farlo. Non credo che la Russia sovietica desideri la guerra. Ciò che essi desiderano sono i frutti della guerra e l'indefinita espansione della loro potenza e della loro dottrina. Ma quello che dobbiamo considerare qui, oggi, mentre siamo ancora in tempo, è la prevenzione permanente della guerra e la creazione di condizioni di libertà e democrazia, il più rapidamente possibile, in tutti i paesi. [...] Se le democrazie occidentali si uniscono nella stretta aderenza ai principi della Carta delle Nazioni Unite, immensa sarà la loro influenza nella spinta in avanti di questi principi e nessuno probabilmente le molesterà. Se, invece, si dividono o esitano nel compimento del loro dovere, e se si permette a questi anni tanto importanti di scivolare via, allora potrà davvero sopraffarci tutti una catastrofe [...].
Cit. in J. MORRAY, Storia della guerra fredda, Editori Riuniti, Roma, 1962
La Costituzione italiana e i diritti del lavoro
Un commento alla Costituzione repubblicana, scritto da Umberto Terracini nel 1948 .
Terracini, che nell' ultimo periodo era stato presidente dell'Assemblea costituente, si sofferma su quei punti della Costituzione che riguardano il mondo del lavoro, ribadendo che «le norme scritte nella Costituzione rimarranno sulla carta, non si realizzeranno automaticamente, se i lavoratori stessi non agiranno, non veglieranno affinché gli organi dello Stato le svolgano in nuove leggi, e l'amministrazione pubblica non esegua ciò che queste leggi disporranno».
«La nuova Costituzione della repubblica italiana è entrata in vigore il 1° gennaio di quest'anno. Il lavoratore italiano desidera sapere se ed in che modo la nuova legge fondamentale della repubblica provveda a soddisfare, dopo tante promesse, attese e speranze, le sue aspirazioni per un rinnovamento profondo della compagine sociale ed economica del nostro paese, in modo da assicurargli il posto che gli spetta nella vita nazionale.
A questo interrogativo si propone di rispondere brevemente questo scritto.
Il lettore della nuova Costituzione vede ricorrere in essa molte volte la parola «lavoro», completamente ignorata dallo statuto albertino del 1848. Sta di fatto che, dopo decenni e decenni di lotte tenaci, pur 'attraverso la parentesi obbrobriosa del fascismo, i diritti del lavoro hanno avuto finalmente il loro riconoscimento decisivo, diventando materia costituzionale e cioè parte integrante della legge fondamentale della repubblica.
La nuova Costituzione è ora patrimonio di tutto il popolo; e tutto il popolo deve sapere fino a qual punto in essa trovano corona le sue speranze e premio le sue battaglie.
Vediamola dunque più da vicino questa Costituzione, soffermandoci su quei punti che maggiormente interessano il lavoratore.
La Costituzione consta di 139 articoli e XVIII disposizioni transitorie e finali. Gli articoli sono raggruppati in Principi fondamentali e in due parti, di cui la prima è dedicata ai diritti e doveri dei cittadini e la seconda all'Ordinamento della repubblica. Ogni parte a sua volta è suddivisa in Titoli e alcuni Titoli in sezioni.
Le norme che riguardano particolarmente il cittadino lavoratore, sono raggruppate sotto il Titolo III della prima parte, che contempla i rapporti economici. Altre disposizioni sono poste all'inizio, fra i principi stessi fondamentali della Costituzione.
Infatti l'art. 1 stabilisce che «I'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro». Questa solenne affermazione evidentemente sta a significare non solo che il lavoro determina la prosperità ed il benessere della vita della nazione - che è vecchio assioma della scienza economica - ma anche che, a coloro che ne sono i portatori, debbono essere riconosciuti, nel quadro dello Stato, particolari funzioni, corrispondenti a quei diritti che numerosi articoli espongono.
A proposito dell'art. 1, giova ricordare che, nel corso della discussione avvenuta all'Assemblea costituente, era stata proposta la dizione: «l'Italia è una repubblica democratica di lavoratori» più impegnativa e più densa di significato: quasi ad affermare, che il titolo di cittadinanza nella repubblica presupponeva la qualità di lavoratore. Tuttavia questa proposta del deputato comunista Amendola, fu respinta per i voti contrari del centro e della destra.
Stabilito comunque che la repubblica è fondata sul lavoro, ne discendeva come conseguenza necessaria che tutti i cittadini devono essere messi in grado di lavorare, per riconfermare così ad ogni momento il loro titolo alla cittadinanza. Occorreva cioè affermare che il lavoro non può piu rimanere un fatto esclusivamente privato, di cui lo Stato si disinteressa, ma bensì un diritto oltre che un dovere del cittadino. Ecco quindi l'art. 4 proclamare non soltanto «il diritto al lavoro», ma anche l'obbligo per la repubblica di «promuovere le condizioni che rendono effettivo questo diritto». A nessuno può sfuggire l’importanza di questo impegno che poche altre Costituzioni assumono nei confronti dei cittadini; tra esse quella dell'Unione repubbliche socialiste sovietiche.
Ma anche l'art. 3 è interessante per questo nostro breve , studio, occupandosi come fa, dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Ma non già di una generica uguaglianza, basata sull'astratta parità di diritti. Noi sappiamo che una effettiva uguaglianza presuppone il superamento delle iniziali differenze di posizione economica. Ecco perché l'art. 3 sancisce: «È compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscano il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese». Sono queste le disposizioni di carattere generale sul lavoro. Passiamo ora alle disposizioni particolari.
La tutela del lavoro, in ogni sua forma ed applicazione, è stabilita dall'arto 35 che prevede anche la libertà di emigrazione e la tutela del lavoro italiano all'estero.
La giusta retribuzione del lavoro prestato, «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera. e dignitosa» è stabilita dall'art. 36. Lo stesso articolo si occupa anche della durata massima della giornata lavorativa, che dovrà essere fissata dalla legge; e inoltre del diritto del lavoratore al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, senza possibilità di rinunciarvi.
La tutela della donna lavoratrice è efficacemente costituita dall'art. 37 che prevede per la donna parità. di diritti e di retribuzione - a parità di lavoro - con l'uomo. Ciò vale anche nel confronto dei minori.
Per i cittadini inabili al lavoro, nonché per i lavoratori colpiti da infortunio, malattie, invalidità, vecchiaia e disoccupazione provvede l'art. 38, affermando il diritto dei primi al mantenimento e all'assistenza sociale, e per tutti gli altri alla tutela necessaria, esercitata attraverso organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
La libertà dell'organizzazione sindacale è sancita pienamente dall'art. 39 che prevede per i sindacati «rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti», la facoltà di «stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce». Questa norma rappresenta un forte incentivo al mantenimento dell'unità sindacale, sebbene si speri da alcuno che la «libertà sindacale » possa essere intesa come stimolo alla creazione di vari concorrenti sindacati. Infatti, è dalla forza numerica delle organizzazioni, e cioè dalla coesione delle categorie e dell'intera classe, che discende la capacità di convincere a patti vantaggiosi i datori di lavoro i quali non avrebbero
che da guadagnare dalle lotte intestine dei lavoratori.
Siamo giunti così all'arto 40 dedicato al diritto di sciopero, riconosciuto nell'ambito delle leggi che lo regolano. Ciò vuole dire che le leggi future potranno soltanto stabilire le modalità del suo esercizio, ma non mai sopprimerlo considerandolo, come già nel ventennio fascista, quale reato. Sarebbe stata in realtà desiderabile una formulazione più categorica del diritto di sciopero, quale contenuto nel primitivo progetto nel quale si leggeva: «tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero». Ma contro di questa si sono battute tutte le prevenzioni e le diffidenze coalizzate dei gruppi politici non ancora convinti della maturità di coscienza dei lavoratori. È interessante ricordare che non è mancato, in seno alla Costituente, chi voleva sopprimere nella Costituzione ogni accenno al diritto di sciopero, evidentemente per abbandonare questa fondamentale arma di difesa dei lavoratori alle oscillanti venture della sorte politica; e nemmeno chi voleva condizionare il diritto di sciopero a quello di serrata, o addirittura stabilire il divieto di sciopero. Ma tutte queste velleità hanno dovuto cedere dinanzi alla formula concordata tra i maggiori partiti, che salva almeno il principio e non ogni sua estrinsecazione.
L'art. 41 stabilisce la libertà dell'iniziativa economica privata a condizione che non si svolga in contrasto con l'utilità sociale o a danno della sicurezza, della libertà o della dignità umana. Esso aggiunge che, «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali», timido inizio questo di una economia programmata.
Secondo l'articolo 42 la proprietà privata è riconosciuta dalla legge, «che ne determina», però i «limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti», aspirazione forse utopistica, ma che autorizza larghe misure legislative di riforma agraria. È anche prevista dall' art. 43 la possibilità di esproprio per motivi di interesse generale, a favore di comunità di lavoratori o di utenti, qualora si tratti di servizi pubblici essenziali o di fonti di energia o di situazioni di monopolio; strada aperta, questa, a misure riformatrici in campo industriale.
La proprietà della terra è disciplinata dall'articolo 44, affermandovisi che «la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione» e «la trasformazione del latifondo». Dopo di che è sperabile che anche la magistratura rinuncierà a bollare di anticostìtuzionalità le leggi colpevoli solo di antilatifondismo!
Alla tutela ed allo sviluppo della cooperazione e dell'artigianato è dedicato l'art. 45, che erige un primo argine difensivo delle più modeste, ma più sane attività produttrici contro la spietata concorrenza delle maggiori intraprese capitalistiche.
Particolare attenzione merita l'art. 46, per il quale «la repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende». Echeggia in queste parole il grande moto operaio per il riconoscimento dei consigli di gestione, rivestito finalmente di valore giuridico e solo subordinato alle norme che la legge dovrà ormai sollecitamente emanare. I lavoratori, dopo questo solenne riconoscimento, non potranno più vedersi opporre le abusate accuse di illegalità nella loro azione innovatrice dei rapporti interni di fabbrica. Si deve peraltro ricordare che il testo del progetto di Costituzione era ancora più esplicito al riguardo, affermando «che i lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende dove prestano la loro opera». Ma anche qui, sotto il velo di preoccupazioni giuridiche, si sono coalizzate in fronte ostile ai lavoratori tutte le forze più o meno conservatrici; sicché ha finito di prevalere la formula più temperata e cauta, tale tuttavia da confortare i lavoratori nelle loro lotte per un diretto intervento nella dirigenza delle intraprese.
Occorre da ultimo far parola di una nuova assemblea rappresentativa creata dalla Costituzione: «il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro». Previsto dall'articolo 99, dovrà essere composto di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa; e sarà organo consultivo, darà cioè pareri alle Camere e al governo sulle materie che gli saranno attribuite dalla legge. Il Consiglio potrà. anche presentare all'approvazione del parlamento disegni di legge e contribuire alla legislazione economica e sociale. ...
Esaurito così l'esame delle norme scritte nella Costituzione circa i diritti del lavoro, i lavoratori italiani si domanderanno come e quando esse saranno realizzate nella vita concreta del nostro popolo.
A questa domanda la risposta deve essere chiara e precisa: le norme scritte nella Costituzione rimarranno sulla carta, non si realizzeranno automaticamente, se i lavoratori stessi non agiranno, non veglieranno affinché gli organi dello Stato le svolgano in nuove leggi, e l'amministrazione pubblica non esegua ciò che queste leggi disporranno. Se, cioè, i lavoratori non opereranno per permeare tutta la vita politica del nostro paese dello spirito nuovo e trasformatore che ha dettate le formule costituzionali, pur nella loro azione ancora troppo spesso timida ed incerta.
Come l'affermazione dei diritti del lavoro si deve in gran parte alla forza dei lavoratori che, stretti in un grande organismo unitario, hanno esercitato la loro influenza e hanno posto all'ordine del giorno del paese la soluzione dei problemi del lavoro, così la realizzazione concreta di quelle affermazioni dipenderà dall'azione che, per l'avvenire, essi sapranno svolgere nel quadro della legalità democratica, secondo gli orientamenti riformatori che furono propri della grande lotta popolare per la libertà».
UMBERTO TERRACINI, La Costituzione e i diritti del lavoro, in Costituzione della Repubblica, Roma, 1948.
Considerazioni di Piero Calamandrei sulla Costituzione italiana
«Tra il tipo di Costituzione breve, meramente organizzativa dell'apparato dello Stato, e il tipo di Costituzione lunga, che fosse anche ordinativa della società, l'Assemblea costituente scelse un tipo di Costituzione lunga, cioè contenente anche una parte ordinativa: la quale però, invece di esser volta ad effettuare una trasformazione delle strutture sociali, si limitava a prometterla a lunga scadenza, tracciandone il programma per l'avvenire». Piero Calamandrei
I lavori della Costituente, fino alla loro conclusione (dicembre 1947), si svolsero in un clima politico in rapida evoluzione In un articolo del 1955 Piero Calamandrei parla dei risultati apparentemente raggiunti con l'approvazione della Costituzione.
«La Costituzione non fu, come lo statuto albertino, una Costituzione regia, cioè elargita (octroyée) da un sovrano, ma fu una Costituzione popolare, deliberata, quando ormai ogni ingerenza dell’ex sovrano era stata esclusa dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946 che aveva scelto la forma repubblicana, da un'assemblea rappresentativa eletta dal popolo con metodo rigorosamente democratico. Ma non fu una Costituzione rivoluzionaria, nel senso che consacrasse in formule giuridiche una rivoluzione politicamente già compiuta. La generosa illusione del Partito d'azione che dalla unanimità antifascista della Resistenza potesse immediatamente uscire, subito dopo la liberazione, un rinnovamento delle strutture sociali ed economiche sulla base dei CLN, ebbe corta durata: con le dimissioni del breve governo di Ferruccio Parri, che rappresentò per qualche mese (dal giugno al novembre 1945) le superstiti speranze della Resistenza di dare all'Italia un governo di popolo che non implicasse la restaurazione della vecchia classe dirigente responsabile di aver dato vita al fascismo, la Costituente si aprì in un'atmosfera non più di unanime fervore rivoluzionario, ma di patteggiamento tra i grandi partiti di massa, da una parte i democristiani, dall'altra i socialisti e i comunisti. L'unica rivoluzione effettivamente già compiuta, della quale la nuova Costituzione doveva dare atto in formule giuridiche, era la caduta della monarchia: tutti erano concordi nell'assegnare alla Costituzione il compito di costruire giuridicamente un congegno di governo che avesse la forma repubblicana al luogo di quella monarchica, purché, al disotto di quella nuova forma politica, rimanessero invariate, almeno per il momento, le strutture economiche e sociali dell'Italia prefascista. Qualcuno avrebbe voluto che si desse alla Costituente non solo il compito di ricostruire in forma repubblicana le strutture fondamentali dello Stato, ma anche quello di deliberare almeno alcune fondamentali riforme di carattere economico-sociale, che rappresentassero l'inizio di una trasformazione della società in senso progressivo: avrebbe voluto cioè che la nuova Costituzione dovesse essere non semplicemente “organizzativa” dei congegni di governo (dello Stato-apparato), ma anche “ordinativa” della vita sociale italiana (dello Stato-comunità). Ma questa idea non fu accolta; o per dir meglio fu raccolta a metà, per dare ai suoi sostenitori l'illusione che non fosse stata respinta del tutto. Tra il tipo di Costituzione breve, meramente organizzativa dell'apparato dello Stato, e il tipo di Costituzione lunga, che fosse anche ordinativa della società, l'Assemblea costituente scelse un tipo di Costituzione lunga, cioè contenente anche una parte ordinativa: la quale però, invece di esser volta ad effettuare una trasformazione delle strutture sociali, si limitava a prometterla a lunga scadenza, tracciandone il programma per l'avvenire.
Questo singolare ibridismo fu la conclusione di un compromesso tra quelle forze politiche contrastanti, che, con espressione approssimativa, si possono chiamare le forze conservatrici di destra e le forze riformatrici di sinistra.
Non si può dire che le forze conservatrici si identificassero colla Democrazia cristiana, perché questo partito già fino da allora comprendeva in sé tendenze contrastanti, alcune delle quali nettamente progressive in senso cristiano-sociale; e perché forze nettamente reazionarie, oltreché all'ala destra di quel partito, si trovavano fuori di esso, alla destra. estrema, sotto le etichette del partito liberale o del partito monarchico; né si può dire viceversa che le forze progressive si identificassero coi partiti socialista e comunista, perché in altri gruppi numericamente minori, come il Partito d'azione o il partito repubblicano, o all'ala sinistra della stessa Democrazia cristiana, erano ugualmente sentite le istanze di un profondo rinnovamento sociale. Dall'urto di queste due tendenze venne fuori il compromesso: tutti parvero concordi (o almeno la gran maggioranza, formata dall'incontro dei grandi partiti) nella condanna di quel tipo di plutocrazia capitalistica dalla quale era nato il fascismo, e nel riconoscere la necessità di un profondo rinnovamento delle strutture economiche della società italiana. Ma questa apparente accondiscendenza da parte delle destre a inserire tale riconoscimento, meramente astratto e programmatico, nella Costituzione, fu condizionata a che le sinistre rinunciassero ad ogni tentativo anche parziale di attuazione immediata di questa trasformazione sociale vagheggiata (e quasi si direbbe sognata) per l'avvenire, e accettassero di procedere a questa trasformazione mediante graduali riforme proiettate nel futuro, da concretarsi in leggi ordinarie attraverso i metodi legalitari della democrazia parlamentare. Così, come già fu osservato, “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa“: purché l'estrema sinistra (e specialmente il partito comunista) accettasse i meccanismi “borghesi” della legalità parlamentare, le forze “borghesi” non si opponevano a lasciare aperta verso l'incerto futuro questa via legalitaria di un graduale e pacifico rinnovamento sociale, di cui già era segnato l'indirizzo e riconosciuta in anticipo la legittimità».
PIERO CALAMANDREI, La Costituzione, in AA.VV., Dieci anni dopo. 1945-1955, Bari, 1955, pp. 212- 215.