la persecuzione degli ebrei
16 ottobre 1943: il "sabato nero" del ghetto di Roma
La sinagoga di Roma
Ghetto di Roma, 16 ottobre 1943: alle 5.15 del mattino le SS rastrellano 1.024 persone. Due giorni dopo, diciotto vagoni piombati partono dalla stazione Tiburtina diretti al campo di concentramento di Auschwitz: solo sedici persone faranno ritorno.
È il 16 ottobre del 1943, il "sabato nero" del ghetto di Roma. Alle 5.15 del mattino le SS invadono le strade del Portico d’Ottavia e rastrellano 1024 persone, tra cui oltre 200 bambini. Due giorni dopo, alle 14.05 del 18 ottobre, diciotto vagoni piombati partiranno dalla stazione Tiburtina. Dopo sei giorni arriveranno al campo di concentramento di Auschwitz in territorio polacco.
Solo quindici uomini e una donna (Settimia Spizzichino) ritorneranno a casa dalla Polonia. Nessuno dei duecento bambini è mai tornato.
Documenti emersi dagli archivi americani fanno luce su una verità inquietante: il corso degli eventi poteva essere cambiato. Gli alleati sapevano dell’imminente rastrellamento, ma non fecero nulla per impedirlo.
Il 25 settembre del 1943, il tenente colonnello Herbert Kappler, capo delle SS a Roma, riceve l’ordine da Berlino di procedere al rastrellamento del Ghetto della capitale italiana. Il capitano decide però di non eseguire subito l’ordine. Insieme al console tedesco, Eitel Friedrich Moellhausen, assume sin dal principio un comportamento molto strano. I due uomini si rivolgono, all’indomani dell’ordine ricevuto da Berlino, al Feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante delle truppe tedesche in Sud Italia, che non concede immediatamente l’appoggio militare all’operazione.
L’oro di Roma
La sera stessa Kappler convoca a Villa Volkonsky, sede del comando tedesco a Roma, i massimi rappresentanti della comunità ebraica Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma e Dante Almansi, Presidente della Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, per ricattarli. La richiesta è cinquanta chili d’oro in cambio della salvezza. La consegna dell'oro avviene non già a Villa Volkonsky ma a Via Tasso, e precisamente al numero 155, che non era ancora il famigerato carcere delle SS, luogo di torture e terrore che diventerà in seguito, ma formalmente “l'Ufficio di Collocamento dei Lavoratori italiani per la Germania” (è ora sede del Museo Storico della Liberazione).
Kappler non si presenta. Non vuole abbassarsi alla formalità di ricevere quell'oro che ha estorto. Si fa sostituire da un ufficiale di grado inferiore, il capitano Kurt Schutz. La pesatura viene eseguita con una bilancia della portata di 5 chili. Ogni pesata viene registrata contemporaneamente da Dante Almansi e da un ufficiale tedesco, che si trovano alle due estremità del tavolo. Alla fine dell'operazione, mentre Almansi ha segnato dieci pesate, il capitano Schutz dichiarava risentito che le pesate sono nove. Le proteste di tutti gli ebrei presenti irritano ancor di più il capitano che si oppone anche a quella che era la via più semplice per sciogliere ogni dubbio, cioè ripetere l'operazione. Finalmente, di fronte alle vive insistenze da parte ebraica, il capitano Schutz dà l'ordine di ripetere le pesate. I chili sono 50.
La retata
La comunità non è, ovviamente, al corrente dell’accordo che i due hanno già fatto con Kesserling. Non può sapere che già è stato deciso di non portare avanti l’ordine di Berlino, almeno fino a quel momento. Kappler mente a tutti, mentirà anche durante il processo a suo carico. La città e il Vaticano si mobilitano per aiutare gli ebrei, l’oro è consegnato nei tempi prestabiliti e la comunità si sente finalmente al sicuro. Ma ai primi di ottobre il governo tedesco invia a Roma il Capitano delle SS Theo Dannecker per procedere alla deportazione e velocizzare i tempi. Dannecker è un “esperto” di fiducia di Eichmann che aveva dato il via ai rastrellamenti di Parigi. Grazie ai documenti ritrovati negli archivi degli Stati Uniti, si scopre ora che Kappler e Moellhausen temevano la reazione dei carabinieri se si fosse proceduto al rastrellamento. Ma a Dannecker questo aspetto non spaventa e organizza la retata. Oggi, però, sempre grazie ai documenti segreti, si scopre che milleduecento persone avrebbero ancora potuto salvarsi, anche dopo l’intervento di Dannecker: gli americani erano entrati in possesso di una trasmittente che decifrava i messaggi nazisti. Per quale motivo allora non alzarono un dito per fermare la strage? E Pio XII perché si limitò solo a protestare? Il Papa, in realtà, era sottoposto ad un tacito ricatto: più di 800mila ebrei si erano rifugiati nelle chiese e nei conventi di tutta Europa, in gran parte occupata dai nazisti.
Cosa ne fu allora degli ebrei del ghetto di Roma? Abbandonati al loro destino, non ebbero più scampo. Dal Collegio Militare su Via della Lungara furono tradotti alla stazione Tiburtina, e da lì ad Auschwitz.
Il rapporto di Kappler sulla deportazione degli ebrei romani
La Grande rafle du Vel d’Hiv
“Vento primaverile”, così era stata denominata la retata degli ebrei in Francia, non sarà che una tappa della “soluzione finale”.
Due SS, il Haupsturmführer Dannecker e Röthke, sono gli ufficiali tedeschi organizzatori responsabili del “Vento primaverile” (così era stata denominata la retata degli ebrei). Dirigevano la Sezione IV B4 della Gestapo a Parigi, definita IV J “della repressione antiebraica”. Avevano avuto l’onore di ricevere le consegne per l’operazione “Vento primaverile” direttamente dal generale delle SS Reinhardt Heydrich, che era venuto a Parigi il 15 maggio (1942), poco tempo prima della sua morte. Tredici giorni dopo, infatti, il 28 maggio, Reinhardt Heydrich fu ucciso a Praga da due paracadutisti cechi venuti da Londra per compiere la loro missione.
Dando questi ordini, Heydrich non faceva che portare a termine le decisioni assunte nel corso della conferenza chiamata di Wannsee, nel corso della quale, nel gennaio 1942, era stato deciso lo sterminio degli ebrei europei. Infatti, è durante questa conferenza svoltasi a Berlino al 56 e 58 di Grossen Wannsee-Strasse, nell’ufficio di Eichmann, che i nazisti elaborarono definitivamente la “soluzione finale”, cioè l’annientamento totale degli ebrei europei. L’elite delle SS erano in quel giorno riuniti a Wannsee-Strasse, sotto la presidenza di Heydrich, Eichmann e l’SS Müller.
“Vento primaverile”, in Francia, non sarà che una tappa della “soluzione finale”.
Il 16 luglio 1942, all’alba, iniziò a Parigi una vasta operazione di polizia, denominata “Vento primaverile”. Voluta dalle autorità tedesche, mobilitò circa 9.000 uomini delle forze del governo di Vichy. Quel giorno e quello seguente, 12.884 ebrei furono arrestati, tra loro 4.051 bambini. Mentre i celibi e le coppie senza figli furono condotte nel campo di internamento di Drancy, le famiglie, circa 7.000 persone, vennero rinchiuse nel Velodrome d’Hiver. Lì vi rimasero più giorni fino al loro internamento a Pithiviers e a Beaune la Rolande (prima di essere deportati nei lager in Germania e in Polonia), in condizioni spaventose, quasi senz’acqua ne viveri.
«L’alzata di spalle di una guardia è rimasta più profondamente impressa nella mia memoria che non le urla delle vittime» Arthur Koestler
Il libro “La Grande rafle du Vel d’Hiv” è frutto di una lunga inchiesta che mette in evidenza la schiacciante responsabilità del governo di Vichy nella deportazione degli ebrei di Francia. Rimane ancora oggi il documento di riferimento sul crimine del “Giovedì nero” del luglio 1942.
Gli autori del libro sono Claude Lévy e Paul Tillard.
Nato nel 1925 a Enghein-les-Bains, Claude Lévy partecipa alla Resistenza prima in Combat poi nel FTP-MOI (35a Brigata). Arrestato nel dicembre 1943, imprigionato, consegnato ai tedeschi, viene deportato il 2 luglio 1944. Riesce a fuggire e raggiunge i partigiani.
Sua madre, suo padre e numerosi altri membri della sua famiglia, arrestati dalla Polizia e dalla polizia di Vichy, perché ebrei, furono deportati e sterminati a Auschwitz.
Paul Tillard, nato nel 1914 a Soyaux (Charente), entrò presto nella Resistenza. Venne arrestato dalla polizia di Vichy nell’agosto 1942. Consegnato alla Gestapo venne inviato come ostaggio nel forte di Romainville e poi deportato nell’aprile del 1943 nel lager di Mauthausen, in Austria. Liberato il 6 maggio 1945, pubblicò, al suo ritorno, la prima testimonianza francese sui campi di concentramento nazisti.
Il 27 luglio 1966, a cinquantuno anni, Paul Tillard morì in seguito alle conseguenze della deportazione.
Bibliografia:
Claude Lévy e Paul Tillard - La grande rafle du Vel d’Hiv – Ed. Laffont 1992
La conferenza di Wannsee
È durante questa conferenza svoltasi a Berlino al 56 e 58 di Grossen Wannsee-Strasse, nell’ufficio di Eichmann, che i nazisti elaborarono definitivamente la “soluzione finale”, cioè l’annientamento totale degli ebrei europei.
La conferenza di Wannsee si doveva tenere il 7 dicembre 1941, ma fu rinviata a causa degli importanti avvenimenti che si verificarono quel giorno: attacco giapponese a Pearl Harbor, e la conseguente entrata in guerra degli Stati Uniti.
Convocata su incarico di Eichmann, per iniziativa di Heydrich, che a sua volta era stato incaricato da Goering, infine si tenne il 20 gennaio 1942, in un grande salone-ufficio del palazzo al numero 56-58 di Wannsee-Strasse. C’era un grande camino dove bruciava della legna. Il verbale della riunione specificava che “la soluzione finale del problema ebreo in Europa dovrà essere applicata a 11 milioni di persone ... Al fine di attuare la soluzione finale del problema, gli ebrei dovranno essere trasferiti sotto buona scorta all’Est ed essere impiegati nel servizio del lavoro. Incolonnati, gli ebrei validi, uomini da una parte e donne dall’altra, saranno condotti in questi territori per costruire strade; è implicito che gran parte di loro si autoeliminerà naturalmente per il loro stato di deperimento fisico; I rimanenti che sopravvivranno e quelli che si considereranno come la parte più resistente, dovrà essere trattata di conseguenza».
Diversi documenti attribuiscono il significato esatto alla parola “trattamento” e indicano, senza alcuna ambiguità, che si intendeva semplicemente la morte.
«Quando gli altri partecipanti se ne andarono, rimasero soli Heydrich, Müller e Eichmann nell’ufficio, scherzando mollemente seduti in comode poltrone dinnanzi al camino. Heydrich era particolarmente contento ... Fumava ... Heydrich mi chiese in che modo si dove essere redigere il protocollo d’intesa; poi siamo rimasti noi tre seduti; mi ha offerto uno o due bicchieri di cognac, o tre ... Poi loro se ne sono andati e io mi sono seduto nel mio ufficio per stendere il protocollo» racconterà poi Eichmann.
Bibliografia:
Claude Lévy e Paul Tillard - La grande rafle du Vel d’Hiv – Ed. Laffont 1992
12 giugno 2020
Oggi avrebbe compiuto 91 anni, Anna Frank. Annelies Marie Frank, era nata il 12 giugno 1929 a Francoforte sul Meno, città della Germania sud-occidentale, nello Stato federato dell’Assia (Länder). La sua famiglia ebraica era composta dalla madre Edith, dal padre Otto e dalla sorella di tre anni più grande, Margot.
Nel 1933 i Frank, dopo l’ascesa dei nazionalsocialisti in Germania e l’acuirsi delle violenze contro gli ebrei e i loro beni, si trasferirono ad Amsterdam. Nella città olandese, Otto Frank dirigeva una fabbrica produttrice di aromi e pectina situata nel centro della città, e consentiva alla propria famiglia di vivere un tempo relativamente sereno fino all’arrivo dell’esercito nazista, che nell’arco di pochi giorni, nel maggio 1940, occupò i Paesi Bassi.
Nell’ambito del più ampio progetto di sterminio degli ebrei europei, i nazisti istituirono anche ad Amsterdam le modalità di oppressione, spoliazione e deportazione già sperimentate in tante altre città del Reich. I Frank, vistasi rifiutare la possibilità di emigrare negli Stati Uniti e impossibilitati a fuggire altrove, trovarono rifugio in una sezione non utilizzata della ditta di Otto Frank, in Prinsengracht 263, dove rimarranno per due anni interi. Con loro, la famiglia Van Pels (Hermann, Auguste e Peter) e poco tempo dopo il signor Fritz Pfeffer. Da fuori, nessuno doveva sospettare che in quell’edificio fossero nascosti ebrei: stracci contro i vetri delle finestre, spiragli ricoperti di cartone, buio. L’alloggio segreto, per Anna, rappresentava una chiusura contro l’esterno, una barriera che per metà si mostrava angosciante e per metà faceva assaporare la possibilità quotidiana di salvarsi, sfuggendo alla deportazione.
Circa tre settimane prima, per il suo tredicesimo compleanno, Anne aveva ricevuto in dono un diario. Le servirà per raccontare la clausura forzata che inizia il 12 giugno 1942 e termina il 1° agosto 1944, tre giorni prima dell’arresto.
Dal suo diario:
«In maggio del 1940 i bei tempi finirono: prima la guerra, poi la capitolazione, l’invasione tedesca e l’inizio delle sofferenze di noi ebrei. Le leggi antisemite si susseguivano all’infinito e la nostra libertà fu molto limitata». (20 giugno 1942)
«Così ci incamminammo sotto il diluvio, papà, mamma e io, ognuno con la sua cartella o borsa della spesa piena degli oggetti più svariati. Gli operai che andavano a lavorare di mattina presto ci guardavano pieni di compassione; dalle facce si capiva che erano dispiaciuti di non poterci offrire nessun mezzo di trasporto; l’appariscente stella gialla parlava da sé». (9 luglio 1942)
«L’alloggio segreto col nostro gruppo di rifugiati mi sembra uno squarcio di cielo azzurro attorniato da nubi nere cariche di pioggia. L’area rotonda e circoscritta su cui stiamo è ancora sicura, ma le nubi si avvicinano sempre di più». (8 novembre 1943)
«Ma guardavo anche fuori dalla finestra aperta, verso un bel pezzo di Amsterdam sopra a tutti i tetti, fino all’orizzonte che si tingeva di viola. Finché questo esiste, pensavo, e io posso viverlo, questo sole, quel cielo, senza una nuvola, finché esiste non posso essere triste». (23 febbraio 1944)
«Quassù mi sento tuttora più al sicuro che non sola in quella casa grande e silenziosa». (26 maggio 1944)
Venerdì 4 agosto la polizia tedesca fa irruzione nell’Alloggio Segreto, arrestando Anna Frank, la sua famiglia e gli altri clandestini. Tutti vengono deportati prima nel campo di concentramento di Westebork e successivamente ad Auschwitz.
Anna morirà di tifo e di stenti a Bergen Belsen nel marzo del 1945, tre settimane prima che le truppe alleate inglesi liberassero il campo di prigionia.
Tratto da: Qui non ci sono bambini. Un'infanzia ad Auschwitz di Thomas Geve - Einaudi 2011 Yad Vashem Publications.
Le leggi razziali del fascismo e la scuola
Il razzismo fascista non fu "all'acqua di rose". Le leggi razziali del fascismo furono una vergogna e una infamia imperdonabile. A causa di quelle leggi migliaia di ebrei italiani furono perseguitati, umiliati, ridotti alla fame, arrestati e poi spediti nei campi di sterminio.
Le leggi razziali furono emanate nel 1938: il 14 luglio venne pubblicato il "Manifesto del razzismo italiano" redatto, sotto l'egida del ministero della Cultura Popolare, da un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, poi trasformato in decreto, il 15 novembre dello stesso anno, con tanto di firma di Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d'Italia e imperatore d'Etiopia "per grazia di Dio e per volontà della nazione".
Con il manifesto e con le leggi successive, agli ebrei venne proibito di prestare servizio militare, esercitare l'ufficio di tutore, essere proprietari di aziende, essere proprietari di terreni e di fabbricati, avere domestici "ariani". Gli ebrei venivano anche licenziati dalle amministrazioni militari e civili, dagli enti provinciali e comunali, dagli enti parastatali, dalle banche, dalle assicurazioni e dall'insegnamento nelle scuole di qualunque ordine e grado. Infine, i ragazzi ebrei non potevano più essere accolti nelle scuole statali. Insomma una vera e propria tragedia per migliaia di persone, magari con alle spalle anni ed anni di onoratissimo lavoro.
Una delle prime istituzioni statali in cui fu introdotto l'antisemitismo fu proprio la scuola già a partire dall'estate 1938.
Il razzismo era completamente estraneo alla coscienza e alla tradizione italiana; l'applicazione delle leggi discriminatorie procedette a fatica e con parecchie resistenze.
Il 19 luglio 1938 - poco dopo la pubblicazione del documento noto come "Manifesto degli scienziati razzisti" - la Direzione generale per la demografia e per la razza, organismo istituito in seno al ministero degli Interni e preposto all'applicazione della normativa persecutoria antiebraica, dispose il censimento di tutti gli ebrei appartenenti all'amministrazione statale. In agosto fu vietato a tutte le scuole di accettare alunni stranieri ebrei (compresi quelli dimoranti in Italia) per il successivo anno scolastico, mentre era previsto il licenziamento dei professori incaricati e dei supplenti ebrei. L'appartenenza alla razza ariana divenne essenziale per entrare nel pubblico impiego. Sempre nello stesso mese il ministro Bottai con una circolare ministeriale sollecitava i provveditori alla massima diffusione nelle scuole primarie e secondarie della rivista " La difesa della razza", diretta da Telesio Interlandi.
Un'altra circolare disponeva il divieto di adozione dei libri di testo di autori di razza ebraica.
In settembre insegnanti ed alunni ebrei, salvo eccezioni, erano esclusi dalle scuole pubbliche italiane. La sospensione dal servizio per maestri e professori sarebbe scattata a partire dal 16 ottobre. A tale misura dovevano adeguarsi anche presidi, direttori, assistenti universitari, liberi docenti, membri delle Accademie, degli Istituti, delle Associazioni di scienze, lettere e arti e tutte le altre persone di "razza ebraica" impiegate, con qualsiasi mansione, nelle scuole (bidelli, segretari), negli uffici del ministero.
Lo Stato si impegnava ad istituire a proprie spese sezioni "separate" di scuola elementare nelle località in cui vi fossero stati almeno dieci bambini ebrei in età scolare; in queste scuole anche gli insegnanti potevano essere di razza ebraica. Il ministero dell'Educazione nazionale autorizzava, comunque, le comunità israelitiche ad aprire scuole elementari per i propri bambini.
I decreti di settembre colpirono 200 professori (98 erano docenti universitari) e 5.600 allievi, di cui 4.400 erano scolari, 1.000 alunni di scuola media, 200 studenti universitari, inoltre più di 133 aiuti e assistenti universitari, 114 autori di libri di testo.
La discriminazione razziale nella scuola fu ufficialmente annunciata dal ministro Bottai in persona in una trasmissione radiofonica diffusa il 16 ottobre 1938, in occasione dell'apertura del nuovo anno scolastico: «... La Scuola italiana agli italiani ... Gli ebrei avranno, nell'ambito dello Stato, la loro scuola, gli italiani la loro ...».
La normativa persecutoria fu accompagnata da una accesa campagna propagandistica nella scuola - con conferenze, lezioni, opuscoli, articoli sui periodici scolastici e non - volta a prevenire o annullare le reazioni negative ai provvedimenti.
Le scuole furono invitate ad abbonarsi a “La difesa della razza”.
Nella scuola non vi fu, quindi, unicamente l'introduzione della legislazione persecutoria nei confronti degli ebrei. Dall'autunno del 1938 gli studenti di "razza ariana" rimasti nelle classi furono educati ad essere consapevoli e fieri della loro superiorità razziale. Razzismo e antisemitismo si diffusero nei libri di testo, nell'insegnamento e nella formazione degli stessi insegnanti, nella vita scolastica quotidiana.
Furono create ventidue scuole elementari e tredici medie che consentirono di far proseguire gli studi ai giovani e ai bambini cacciati dagli istituti pubblici.
Dal diario di una bambina ebrea torinese: «Oggi è il primo giorno della mia nuova vita di scuola. Andandoci pensavo con rammarico alla mia maestra e alle compagne che avevo dovuto lasciare».
Scrive nel suo libro “La farfalla impazzita” Giulia Spizzichino, ebrea romana sfuggita alla retata del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma:
«L’elemento personale che associo alle leggi razziali sono le lacrime di mia madre, il brutto giorno in cui io venni allontanata dalla scuola. Lì per lì mi colpirono molto, non l’avevo mai vista piangere. Una mattina, frequentavo l’avviamento commerciale da un paio di mesi, il preside la convocò a scuola e con aria contrita le disse che non potevo più frequentare le lezioni. Lei scoppiò in lacrime, io ero interdetta. Avevo undici anni e alle elementari ero sempre andata bene. Forse non provai nemmeno un particolare dispiacere, del resto non capivo cosa ci fosse dietro quella espulsione, a differenza dei miei genitori che lo comprendevano perfettamente e prevedevano una svolta ancora più crudele.
Povera mamma, per lei fu un’umiliazione tremenda venire in classe, raccogliere tutti i miei libri e quaderni e portarmi via. Io in quei momenti stavo lì a occhi bassi, non capivo perché l’avessero costretta a ricondurmi a casa. Ero terrorizzata all’idea di aver fatto qualcosa di male e temevo una punizione da parte di mio padre, di cui avevo molta soggezione.
Ricordo bene come si svolsero le cose: io ero in classe, il preside arrivò e mi fece uscire in un corridoio dove, davanti a mia madre, spiegò che era arrivata una lettera del Partito Nazionale Fascista e per questo io dovevo lasciare la scuola. Il concetto era che non potevo più stare a contatto con le altre bambine. Di colpo mi sentii come affetta da un morbo contagioso. Quando mi dissero che dovevo lasciare la scuola, credo di non essere neppure rientrata in classe. Mi vergognavo, se l’ho fatto è stato solo per riprendere i miei oggetti scolastici, non ho avuto il tempo di salutare nessuno».
1938 - Le leggi razziali del fascismo
Il razzismo fascista non "fu all'acqua di rose". le leggi razziali del fascismo furono una vergogna e una infamia imperdonabile. Quelle leggi, infatti, portarono alla morte migliaia di ebrei e provocarono sofferenze indicibili, paura, terrore, angoscia e miseria.
Le leggi razziali furono emanate nel 1938: esattamente il 14 luglio con la pubblicazione del famoso "Manifesto del razzismo italiano" poi trasformato in decreto, il 15 novembre dello stesso anno, con tanto di firma di Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d'Italia e imperatore d'Etiopia "per grazia di Dio e per volontà della nazione" .
Il 25 luglio, il ministro della cultura popolare Dino Alfieri e il segretario del partito fascista Achille Starace si erano premurati di ricevere "un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane che avevano, sotto l'egida del ministero della cultura popolare, redatto il manifesto che gettava le basi del razzismo fascista".
Con il manifesto e con le leggi successive, agli ebrei venne proibito, tra l'altro, di prestare servizio militare, esercitare l'ufficio di tutore, essere proprietari di aziende, essere proprietari di terreni e di fabbricati, avere domestici "ariani". Gli ebrei venivano anche licenziati dalle amministrazioni militari e civili, dagli enti provinciali e comunali, dagli enti parastatali, dalle banche, dalle assicurazioni e dall'insegnamento nelle scuole di qualunque ordine e grado. Infine, i ragazzi ebrei non potevano più essere accolti nelle scuole statali.
Insomma una vera e propria tragedia per migliaia di persone, magari con alle spalle anni ed anni di onoratissimo lavoro o carriera. Le colpe del regime di Mussolini furono gravissime, ma la tendenza generale è, ancora oggi, quella di addossare tutto alla "follia" nazista.
Ed ecco, il 5 agosto del 1938, comparire nelle edicole e nelle librerie, il primo numero del giornale "La difesa della Razza" diretto da Telesio Interlandi. Interlandi era un giornalista e uno scrittore sulla cresta dell'onda che già dirigeva, su richiesta di Mussolini, il quotidiano “Il Tevere”.
Gli scritti di Interlandi, comunque colto e preparato, erano già di un razzismo ripugnante.
Con “La difesa della Razza” la politica del regime nei confronti degli ebrei diventa metodica e, per così dire, "scientifica" e pianificata.
La rivista, fu il prodotto giornalistico più vergognoso e infame del fascismo.
Il primo numero è pieno di vergognose scempiaggini, stupidità, sciocchezze e idiozie teoriche sulle quali si reggeva la politica antiebraica fascista che non faceva altro che scimmiottare quella nazista.
In base a quelle cosiddette teorie (quasi sempre penose, false perfino ridicole) migliaia di ebrei italiani furono perseguitati, umiliati, messi alla fame, arrestati e poi spediti nei campi di sterminio.
il primo numero del giornale "La difesa della Razza"
Il senso della copertina è chiaro: la spada del fascismo che divide il bel profilo dell'italico antico romano dalle altre razze spurie e animalesche.
Manifesto redatto da un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, sotto l'egida del ministero della cultura popolare, che gettava le basi del razzismo fascista".
Ecco i 10 punti:
1. LE RAZZE UMANE ESISTONO. - La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica. materiale. percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse. quasi sempre imponenti. di milioni di uomini. simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori. ma soltanto che esistono razze umane differenti.
2. ESISTONO GRANDI RAZZE E PICCOLE RAZZE. - Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori. che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei. i dinarici, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze,la esistenza delle quali è una verità evidente.
3. IL CONCETTO DI RAZZA E' CONCETTO PURAMENTE BIOLOGICO. Esso è quindi basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc .. non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti che da tempo molto antico costituiscono i di,versi popoli sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine. che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.
4. LA POPOLAZIONE DELL'ITALIA ATTUALE E' DI ORIGINE ARIANA E LA SUA CIVILTA' E' ARIANA. - Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L'origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell'Europa.
5. E' UNA LEGGENDA L'APPORTO DI MASSE INGENTI DI UOMINI IN TEMPI STORICI. - Dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisonomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni,per l'Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa; i quarantaquattro milioni d'Italiani di oggi rimontano quindi nell' assoluta maggioranza a famiglie che abitano l'Italia da un millennio.
6. ESISTE ORMAI UNA PURA "RAZZA ITALIANA". - Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico·linguistico di popolo e di nazione, ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l'Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.
7. E' TEMPO CHE GLI ITAILANI SI PROCLAMINO FRANCAMENTE RAZZISTI. - Tutta l'opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza.
La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose.
La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indrizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie·del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani. un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per, i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra europee, questo vuol dire elevare l'Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità.
8. E' NECESSARIO FARE UNA NETTA DISTINZIONE TRA I MEDITERRANEI D'EUROPA (OCCIDENTALI) DA UNA PARTE GLI ORIENTALI E GLI AFRICANI DALL'ALTRA. - Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili. '
9. GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA. - Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia.
Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
10. I CARATTERI FISICI E PSICOLOGICI PURAMENTE EUROPEI DEGLI ITALIANI NON DEVONO ESSERE ALTERATI IN NESSUN MODO. L'unione è ammissibile solo nell'ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un corpo comune e differiscono solo per alcuni caratteri. mentre sono uguali per moltissimi altri.
Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall'incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.
Viale Elisa Ancona a Lissone
alcuni momenti dell'inaugurazione di Viale Elisa Ancona
Dal sito del Comune di Lissone: il Sindaco Concettina Monguzzi "In memoria di Elisa Ancona"
Il comunicato stampa dell'Amministrazione comunale, dal sito del Comune:
__________________________________________________________________________
La legge istitutiva del "Giorno della Memoria"
Legge 20 luglio 2000, n. 211
"Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti"
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000
Art. 1.
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonchè coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Art. 2.
In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinchè simili eventi non possano mai più accadere.
Giorno della Memoria 27 gennaio 2017 a Lissone
Chi era Elisa Ancona
Era nata il 10 ottobre 1863 a Ferrara. Prima di rifugiarsi a Lissone in seguito all’occupazione tedesca del nostro Paese dopo l’8 settembre 1943, abitava in via Nievo 26 a Milano. Era vedova di Achille Rossi. Risiedeva nel capoluogo lombardo dal 1902 ed era iscritta alla locale Comunità israelitica.
Venne a rifugiarsi a Lissone come sfollata in seguito all'occupazione tedesca dopo l'8 settembre 1943 e per sfuggire ai bombardamenti alleati della città. L’anziana donna fu arrestata il 30 giugno 1944 a Lissone da militi della Guardia Nazionale Repubblicana e reclusa a San Vittore. Venne successivamente trasportata a Verona dove fu inclusa, il 2 agosto, nel trasporto proveniente da Fossoli e arrivato ad Auschwitz il 6 agosto 1944. Elisa Ancona, come avveniva per tutti gli anziani, fu avviata subito alle camere a gas; aveva 80 anni.
Alcuni particolari sulla vicenda di Elisa Ancona, appresi da alcuni suoi discendenti:
Elisa Ancona, nata a Ferrara nel 1863, era rimasta vedova ancora giovane e si era trasferita a Milano con i tre figli, due dei quali durante la guerra fuggirono clandestinamente in Svizzera per salvarsi dalla persecuzione razziale.
Prima però pensarono di sistemare la mamma, che per l'età non poteva affrontare la via dell'esilio, in un istituto religioso o casa di riposo a Lissone, dove abitava una famiglia di amici.
Ma per un caso sfortunato (e forse per una segnalazione di un delatore) la signora incappò in una retata: la Guardia Nazionale Repubblicana (i carabinieri della Repubblica fascista di Salo') stavano cercando un'altra persona ebrea che si trovava sotto falso nome nella stessa casa e che invece era riuscita a fuggire.
Dal 1938 in Italia erano in vigore le leggi razziali, volute da Mussolini.
vedi anche: Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia
Nel dopoguerra un nipote di Elisa Ancona, Guido Piazza, tornò a Lissone e aprì una nota concessionaria d'auto; tant'è che, regalando alla locale Croce Verde una delle sue prime ambulanze, volle intitolarla proprio alla memoria della nonna morta nel campo di concentramento.
In occasione del “Giorno della Memoria 2017” a Palazzo Terragni è stata allestita una mostra di pittura dal titolo “IN MEMORIA DELLA SHOA” curata dall’Associazione “Club Donna Natalia Ginzburg” di Lissone in collaborazione con l’Accademia “Accademia Dipingere Insieme Desio” di Desio.
Di seguito alcune delle opere esposte:
6 marzo, Giornata europea dei Giusti
É una festività proclamata nel 2012 dal Parlamento europeo per commemorare coloro che si sono opposti con responsabilità individuale ai crimini contro l'umanità e ai totalitarismi.
Il Memoriale Yad Vashem, a Gerusalemme, ha, tra i suoi scopi, anche quello di onorare i non ebrei che rischiarono la loro vita e quella dei familiari per salvare degli ebrei. L'esempio dei “Giusti” ci offre una altissima lezione di umanità.
Nella primavera del 1943, ricercato dalle autorità francesi di Vichy come disertore da un campo di internamento nei pressi di Limoges, mi rifugiai a Grenoble, nella zona d'occupazione italiana della Francia sudorientale. Per gli ebrei perseguitati questa zona era divenuta - dall'inizio del novembre 1942 all'8 settembre 1943 - un'oasi di sicurezza e di serenità. Protetti non solo contro le persecuzioni tedesche, ma anche contro le misure dei loro collaboratori francesi tese alla consegna ai nazisti per la deportazione nei campi di sterminio, gli ebrei riuscirono lì, fra l'altro, anche a costituire, in piena luce del giorno, una rete di resistenza e di salvataggio. Grazie a questa organizzazione, animata dal movimento di gioventù sionista (MIS) e dagli scout ebrei (EIF), migliaia di bambini furono tratti in salvo, trasferiti clandestinamente in Svizzera. Tutto questo finì, però, tragicamente l'8 settembre 1943, con l'occupazione tedesca dell'Italia. Tuttavia, come osserva il professor Daniel Carpi dell'Università di Tel Aviv (studioso di origine italiana, ha dedicato diverse pubblicazioni al salvataggio degli ebrei nella zona d'occupazione italiana in Francia, Grecia, Croazia e Tunisia), le condizioni create nella zona italiana permisero a non poche persone braccate di nascondersi ugualmente tra la popolazione locale fino alla Liberazione.
Quando, anni più tardi, giunsi in Italia in missione diplomatica, sentii spesso, nei contatti con gli ebrei locali, i racconti del loro salvataggio da parte di connazionali cristiani. L'incontro, poi, con chi, in seguito, doveva essere mia moglie, mi confermò ulteriormente l'immagine che mi ero fatto sul comportamento degli italiani durante la Shoah. Infatti lei, i genitori e la sorella erano sopravvissuti ad Assisi grazie all'aiuto generoso e coraggioso della rete di salvataggio organizzata dal clero locale.
Ma nello stesso tempo conobbi anche l'altro lato della medaglia, cioè la collaborazione attiva di funzionari, ai diversi livelli, nella cattura e consegna agli aguzzini nazisti di circa metà degli ebrei italiani deportati. E questo senza parlare dei delatori che per odio antisemita o per squallidi calcoli di lucro contribuirono al tragico destino delle loro vittime, tra cui anche numerosi parenti di mia moglie.
Ma questi italiani furono. una minoranza in mezzo a una popolazione che, in genere, si era dimostrata una delle più umane d'Europa.
Quando nel 1994 fui nominato membro della Commissione per la designazione del «Giusti tra le Nazioni» di Yad Vashem incaricato in particolare delle pratiche italiane, mi stupì il numero esiguo di italiani riconosciuti come “Giusti”, cioè un po' più di 120.
E vero che l'entità della comunità ebraica italiana era infinitamente inferiore a quella delle comunità dell'Europa centrale e orientale e molto meno numerosa perfino di quelle della Francia, del Belgio e dell’Olanda. Ma questo dato di fatto non poteva spiegare da solo la palese discrepanza.
Ed è proprio il carattere diffuso della solidarietà dimostrata in Italia, in contrasto con ciò che si era verificato nella maggior parte degli altri paesi europei, e soprattutto in quelli orientali, che fece sì che l'esperienza vissuta apparisse agli ebrei italiani quasi “normale”, anche se certamente non dimenticata o minimizzata. I salvati hanno generalmente mantenuto legami di amicizia con i soccorritori, manifestando loro ricordo e gratitudine, anche tramite la pubblicazione della storia del loro salvataggio.
Risulta poi che per molti anni non si era stati a conoscenza della funzione specifica di Yad Vashem nel dare un riconoscimento ai soccorritori. Inoltre, sul piano italiano locale, erano stati conferiti degli attestati d'onore. Così l'Unione delle Comunità Israelitiche (poi ebraiche) italiane, nell'aprile del 1955, in occasione del decimo anniversario della Liberazione, aveva insignito della medaglia d'oro diversi benemeriti. Singole comunità ebraiche, come quelle di Roma e Firenze, avevano fatto altrettanto.
Per quanto riguarda poi gli ebrei stranieri sopravvissuti in Italia, essi, dopo la Liberazione, si erano sparsi per il mondo, perdendo contatto con i loro benefattori e ignorando, a volte, perfino la loro identità o il loro domicilio. Stabilitisi all'estero, non hanno però dimenticato, generalmente, l'aiuto ricevuto. Così si spiega l'immagine molto positiva di cui gode l'Italia, per quanto riguarda il periodo della Shoah, negli ambienti ebraici nel mondo e in particolare in Israele. Spesso il rapporto fra salvati e soccorritori era di brevissima durata, come nel caso dei passaggi clandestini in Svizzera, che si svolgevano per lo più nell'anonimato per l'alto grado di rischio. Questo è vero, in parte, anche per la compilazione e la consegna di documenti d'identità e di carte annonarie falsi, necessari per una sopravvivenza meno esposta. Molti dei protagonisti di queste azioni rimarranno per sempre ignoti.
Per rendere giustizia in modo più adeguato alla vera dimensione della solidarietà umana manifestatasi in Italia, si imponeva quindi un lavoro di ricerca capillare, non facile a distanza di decenni dagli eventi.
In seguito ad appelli diffusi sulla stampa italiana e in particolare su quella ebraica, in cui si sollecitavano segnalazioni di casi di salvataggio, cominciarono ad arrivare a Yad Vashem nuove testimonianze. Nello stesso senso operò anche il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) di Milano e l'Associazione degli amici di Yad Vashem in Italia, nella persona di Emanuele Pacifici. Anche resoconti da parte dei media di cerimonie di consegna della “Medaglia dei Giusti” in diverse località in Italia servirono spesso a spronare la memoria di persone salvate.
Molti sopravvissuti avevano rimosso, dopo la guerra, un vissuto doloroso per poter riprendere una vita normale, e così anche il ricordo del bene ricevuto era caduto nell'oblio, ma ora, sopraggiunta la vecchiaia, rimpiangono di aver tardato tanto e sollecitano Yad Vashem ad accelerare le procedure per poter pagare il loro debito di riconoscenza finché sono ancora in vita. La loro testimonianza a volte presenta delle lacune e delle incongruenze dovute a una memoria non più intatta.
Succede anche che figli di salvati nel frattempo scomparsi scoprano un diario o altri documenti che riportano una storia di salvataggio di cui non avevano mai sentito parlare. In tutti questi casi l'istruttoria non è facile ed esige spesso delle ricerche lunghe e delicate.
Per l'esame di una pratica occorre in primo luogo la testimonianza diretta dei salvati o, in mancanza, quella dei figli, di familiari o di altre persone al corrente della vicenda in grado di fornire delle prove attendibili. Come documentazione ausiliaria è auspicabile anche una deposizione da parte del salvatore, della sua famiglia o di chi altro era a conoscenza dei fatti all'epoca in questione. I soccorritori stessi ormai non sono più in vita nella maggior parte dei casi e il riconoscimento viene dato ad memoriam. Essi, nella loro modestia, erano generalmente restii a parlare delle loro azioni in favore dei perseguitati. Oggi, invece, sono i figli che spesso si rivolgono a Yad Vashem per un riconoscimento dell'eroismo e dell'abnegazione dei genitori. A volte documentano la loro richiesta con delle lettere di ringraziamento scritte dai salvati subito dopo la Liberazione.
Alla fine del 2005 il numero dei «Giusti» italiani riconosciuti si aggira intorno ai 400, senza contare i dossier ancora all'esame.
Giorgio Perlasca, di Padova, è uno di quegli italiani che hanno dato prova della loro umanità e del loro eroismo anche fuori dalla patria, salvando a Budapest la vita di molte centinaia di ebrei con stratagemmi rocamboleschi di una audacia eccezionale. Intervistato da un giornalista dopo il suo riconoscimento da parte di Yad Vashem, si meravigliò dell'interesse suscitato dalla sua storia. A un certo punto egli domandò al giornalista con ingenua modestia: «E lei, al mio posto, cosa avrebbe fatto?». È una domanda che sorge ogni volta che si esamina un dossier a Yad Vashem. Cosa avresti fatto tu, nelle stesse circostanze, per delle persone spesso sconosciute, nei confronti delle quali non avevi nessun obbligo, nessuna responsabilità personale? E proprio nell'indurci a porre questa domanda, sapendo naturalmente di non poter dare una risposta, l'esempio dei “Giusti” ci offre una altissima lezione di umanità.
Bibliografia:
I Giusti d’Italia I non ebrei che salvarono gli ebrei 1943-1945. - Yad Vashem - Edizione Italiana di Liliana Picciotto – Mondadori Oscar Storia 2006
Dai “quaderni di Auschwitz”
17 luglio 1942: il resoconto completo della visita di ispezione di Himmler ad Auschwitz.
Venerdì 17 luglio 1942, il secondo giorno del grande rastrellamento degli ebrei a Parigi, la “Grande rafle du Vel d’Hiv”, Himmler, il capo della Gestapo, si recò a ispezionare il campo di concentramento di Auschwitz. La sua fabbrica della morte doveva ricevere del materiale e perciò si doveva accertare che tutto fosse pronto. Nessuno in Europa sembrava ostacolare la “soluzione finale”. La Germania si trovava al culmine della sua potenza.
I bollettini di guerra del quartier generale del Führer non sono che un grido di vittoria. L’avanzata tedesca si sviluppava in modo folgorante, non solamente sul fronte russo, ma anche in Africa del Nord dove le divisioni di Rommel controbattevano le forze britanniche dopo aver conquistato Tobruk il 22 giugno.
Il 12 luglio, un comunicato aveva segnalato che le truppe tedesche e alleate, notevolmente appoggiate dalla Luftwaffe, avevano sconfitto il nemico e lo avevano annientato nel corso delle operazioni offensive che si erano sviluppate ad ovest del Don, tra il 28 giugno e il 9 luglio ...
Dopo la presa di Voronej, il 7 luglio, il Don veniva raggiunto a sud di questa città e si erano stabilite diverse teste di ponte su un fronte di 350 chilometri. Il 22 luglio, si apprenderà che, mentre i combattimenti proseguivano vittoriosamente in Africa settentrionale, nei dintorni di El Alamein, dove gli inglesi avevano perso 1200 uomini e un numero considerevole di carri armati, sul fronte russo Rostov in fiamme veniva attaccata da ovest, da nord e da est, una frase del comunicato precisava che un’armata tedesca avanzava rapidamente in direzione di Stalingrado. Era la prima volta che questo nome appariva nei bollettini del quartier generale hitleriano e nessuno allora pensava che i combattimenti che si svolgeranno intorno a questa città, dal mese di ottobre seguente al gennaio 1943, segneranno la sconfitta dell’esercito tedesco.
I “quaderni di Auschwitz” hanno conservato il resoconto completo della visita del ministro del Reich: «Il 17 luglio (1942), Himmler, SS Reichsführer, è venuto per la seconda volta ad Auschwitz per un giro di ispezione. Erano presenti il Gauleiter Bracht, l’SS Obergruppenführer Kammler. Accompagnato dai suoi ospiti, Himmler ispezionò tutto il territorio del campo, le aziende agricole, le costruzioni in corso, i laboratori, le piantagioni sperimentali a Rapsko, così pure gli allevamenti e la scuola forestale».
Ispezionando in seguito il campo di Birkenau, potrà assistere all’annientamento di un convoglio di ebrei che arrivava: lo scarico dal treno, la selezione dei deportati giudicati abili al lavoro, l’uccisione degli inabili col gas nel bunker n°2 e il successivo sgombero. Questo convoglio era composto da 2.000 ebrei olandesi arrivati il 17 luglio, 1303 uomini e 697 donne.
1251 uomini e 300 donne furono giudicati abili al lavoro, 449 inabili furono inviati nelle camere a gas: è al supplizio di 449 persone che Himmler assistette. La sera Himmler fu ricevuto a Katowice a casa del Gauleiter Bracht; si recò in compagnia del comandante del campo Höss e della moglie di questi, oltre al capo delle installazioni agricole di competenza di Auschwitz, Obersturmbannführer, dott. Caesar.
«Il 18 luglio, Himmler ispezionò il campo municipale, le cucine, il campo delle donne, che comprendeva i blocchi da 1 a 10, le fabbriche, le scuderie, i macelli, i panifici e la caserma delle guardie, il “Canada”. I detenuti avevano soprannominato“Canada” le baracche nelle quali i beni tolti ai deportati ebrei venivano riuniti e selezionati. Nel 1943, il “Canada” non contava meno di 35 baracche.
Alcuni commando speciali di deportati selezionavano una quantità enorme di vestiti, di oggetti di valore, fedi nuziali o differenti gioielli, i denti in oro strappati ai cadaveri, gli occhiali e i giocattoli abbandonati dai bambini. L’oro e l’argento erano trasferiti alla banca centrale del Reich (escludendo quei quantitativi rubati dalle guardie SS); gli orologi andavano all’Ufficio amministrativo centrale delle SS a Orianenburg; gli occhiali al servizio sanitario; gli articoli di consumo corrente, come i fazzoletti, le valige, gli zaini, i pettini, i pennelli da barba all’ufficio incaricato della propaganda del germanesimo.
«Nel campo delle donne – sta scritto nei “Quaderni di Auschwitz” – Himmler chiese di assistere alla bastonatura di una detenuta con lo scopo di constatarne gli effetti. Visto lo stato in cui era stata ridotta la donna bastonata, ordinò che, da quel momento, la bastonatura doveva essere praticata sulle donne solamente dopo la sua personale autorizzazione. Al termine della sua ispezione, Himmler si recò, per un ultimo colloquio, nell’ufficio di Höss a cui ordinò di accelerare la costruzione del lager di Birkenau, degli stabilimenti degli armamenti e di perfezionare lo sterminio degli ebrei inabili al lavoro. In segno di riconoscimento per le realizzazioni già terminate, Himmler nominò Höss Obersturmführer, innalzandolo così di grado.
Bibliografia:
Claude Lévy e Paul Tillard - La grande rafle du Vel d’Hiv – Ed. Laffont 1992
La Shoah in Brianza: la famiglia Milla
Lo sterminio di una famiglia perbene
I due fratelli e le tre sorelle Milla di Verderio superiore furono arrestati dai tedeschi nell’ottobre 1943 perché ebrei e trasferiti ad Auschwitz, da dove non fecero più ritorno.
“Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare si che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. "
Primo Levi, Se questo è un uomo
Dall'Inizio del 1942 all' ottobre del 1943 abitò a Verderio Superiore, provenendo da Milano, la famiglia Milla, composta da tre sorelle, Laura, Lina, Amelia, e un fratello, Ferruccio. Nell'ottobre del 1943 tutti vennero arrestati, in quanto ebrei, da militari tedeschi: prima, a Verderio, Ferruccio; qualche giorno dopo, a Milano, le sorelle. Con Ferruccio fu arrestato anche un fratello, U go, che aveva raggiunto i famigliari da non più di due giorni. Fuggirono invece la moglie di quest'ultimo, Lea Milla, e la figlia, Serena, di dieci anni. Il 6 dicembre i cinque arrestati furono "trasportati" ad Auschwitz, da dove non fecero più ritorno.
LE LEGGI RAZZIALI. La famiglia Milla era approdata a Milano nel 1913 dopo vari trasferimenti in località del centro e del sud d'Italia. Di queste peripezie sono testimonianza i diversi luoghi di nascita dei suoi componenti: Ferruccio nasce a Cento, Ferrara, il 27 marzo 1888, Ugo a Vignola, Modena, il 14 novembre 1894, Laura a Pesaro il 3 agosto 1897, Lina a Urbino il 10 luglio 1901 e Amelia ad Amelia, Terni, il 27 aprile 1904.
La famiglia era composta anche da Olga e Max, nati a Messina, Gabriella a Loiano, Bologna, e altri due fratelli, uno morto in giovane età, l'altro, Aldo; morto al termine della prima guerra mondiale, quando ancora era soldato. Il lavoro del padre Ernesto, ufficiale del dazio; era la causa dei continui trasferimenti. Di lui si ricorda che, molto giovane, fu volontario garibaldino e che partecipò alla campagna risorgimentale combattendo, in particolare, nella battaglia di Bezzecca. Era nato a Modena ed era sposato con Giulia Levi, originaria di Ferrara. All'entrata in vigore delle leggi razziali, novembre 1938, Laura è segretaria di una Scuola comunale, Lina è impiegata presso la ditta Brunner e Amelia è casalinga. Dei due fratelli, Ferruccio, ragioniere, lavora allo scatolificio Ambrosiano. Ugo è sposato con Lea Milla di Vittorio e Coen Gialli Nelly; ha una figlia, Serena, nata nell’ottobre 1933.
Fra Ugo e Lea esisteva forse un lontano legame di parentela. Anche i Milla, come tutti, gli ebrei residenti in Italia, dal 1938 dovettero cominciare a fare i conti con la legislazione razziale, introdotta dal regime fascista. Con il Regio decreto 1728 del 17 novembre, infatti, un certo numero di italiani, circa quarantamila persone, scoprirono, per il fatto di essere ebrei, di appartenere ad una particolare razza e perciò di non poter godere degli stessi diritti, e nemmeno di avere gli stessi doveri, degli altri cittadini, quelli che seppero allora di appartenere alla "razza ariana". Il decreto legge definiva i criteri di appartenenza alla "razza ebraica" (art.8) e, alle persone che rientravano in questa categoria, imponeva pesanti limitazioni riguardanti il lavoro e la proprietà privata, interdiceva la possibilità di prestare servizio militare, vietava i matrimoni con cittadini italiani "ariani". Conteneva anche dei criteri di discriminazione fra gli stessi ebrei, stabilendo che parte delle norme che esso stesso dettava non dovevano essere applicate agli "ebrei discriminati", a coloro cioè che fossero stati in grado di documentare meriti di guerra, personali o di membri della famiglia, o la propria adesione al Partito Fascista in determinati periodi. Il 14 luglio 1938 venne pubblicato, con la firma di alcuni noti uomini di scienza, il "Manifesto della Razza", con l'intento di dare all'antisemitismo fascista una parvenza di scientificità.
L’AUTODENUNCIA IN COMUNE. Non ci sono testimonianze riguardo alla reazione dei Milla alla notizia dell'entrata in vigore delle misure antiebraiche. Si può presumere che furono simili a quelle del resto della comunità: un misto di incredulità, di amarezza e di apprensione. I Milla sottostarono all'obbligo dell'autodenuncia presso il Comune di residenza, previsto dal decreto legge del 17 novembre. Attraverso questa norma, che permise di compilare l'elenco degli ebrei in Italia, i tedeschi e i fascisti si ritrovarono fra le mani uno strumento assai utile allorché, dall'autunno del 1943, daranno inizio alla “caccia all' ebreo”. I fratelli Milla percorsero la strada della richiesta di discriminazione: dai documenti conservati all' Archivio di Stato di Milano risulta che cercarono di far valere a questo scopo la partecipazione del padre Ernesto alle campagne garibaldine e i propri meriti durante il servizio militare. Solo a Max fu riconosciuto lo stato di “ebreo discriminato”, per la sua partecipazione alla guerra libica e a quella mondiale. Poté contare anche sull'intervento del ministero dell’Interno che, al Prefetto che già aveva espresso parere contrario, suggerì di rivedere la pratica e di tener conto che il richiedente aveva avuto il padre volontario garibaldino. Da quanto si deduce dalla documentazione relativa alla domanda dì discriminazione sembra che l'atteggiamento dei Milla nei confronti del regime sia stato abbastanza tiepido: di tutti loro il segretario federale del Partito Fascista a cui spettava il compito di esprimere un parere, pur non potendo fare rilievi sfavorevoli, dice che "non risulta abbiano dato dimostrazione alcuna di attaccamento al regime". Solo Ferruccio è iscritto al partito, ma la data di iscrizione, 1928, non è tale da costituire un vantaggio ai fini dell'accoglimento della domanda. A causa delle leggi razziali, Laura dovette lasciare l'impiego di segretaria nella scuola comunale. Sul lavoro degli altri fratelli i provvedimenti razziali non ebbero probabilmente effetti negativi: non erano dipendenti pubblici né ricoprivano ruoli dirigenti nelle fabbriche dove lavoravano.
IL TRASFERIMENTO IN BRIANZA. Tra la fine del 1941 e l'inizio del 1942, lo Scatolificio Ambrosiano, azienda che operava a Sesto San Giovanni, per i continui bombardamenti a cui era sottoposta quella zona, trasferì i più importanti macchinari a Verderio Superiore e, con buona parte delle maestranze, fra cui i Milla, continuò lì l'attività. Vennero affittati alcuni edifici di proprietà della famiglia Gnecchi, situati nei pressi dell'incrocio fra la provinciale per Cornate e la via per Paderno d'Adda; il rustico, attualmente centro sportivo, fu adibito alla produzione, l'ala sinistra della villa Gnecchi e "l'aia" servirono come alloggi. Nella prima abitavano i Passaquindici, proprietari dell'azienda. I Milla abitavano nell'"aia", un edificio eclettico dell'Ottocento, il cui cortile, pavimentato con grosse pietre, veniva utilizzato dai contadini per stendere il raccolto ad asciugare. Conducevano una vita abbastanza riservata, soprattutto le donne che si vedevano in paese solo verso sera. Chi li conobbe li ricorda come persone affabili e cordiali. Ferruccio, dopo le sue lunghe passeggiate a piedi, si intratteneva a parlare con gli abitanti della vicina cascina, cercando di impararne il dialetto. Nell azienda ricopriva il ruolo di ragioniere contabile, mentre Lina era impiegata; Amelia, dalla salute malferma, faceva i lavori di casa; Laura, pur abitando a Verderio continuò a lavorare a Milano, forse presso la scuola ebraica di via Eupili. In Svizzera, con le rispettive famiglie, ripararono le sorelle Gabriella e Olga: quest’ultima vi morì qualche mese dopo l’arrivo. Ugo, con la moglie e la figlia, si trasferì a Ferrara presso alcuni parenti. Lasciò in seguito questa città, in cui non si sentiva sicuro, e, con decisione che si rivelerà tragica, raggiunse i fratelli a Verderio. Il fratello Max, fin dal 1939, si era rifugiato con la famiglia in Inghilterra, sospendendo l’attività commerciale di Milano.
L’INTERROGATORIO ALL’HOTEL REGINA. La sera del 13 ottobre 1943, alcuni soldati tedeschi si presentarono all’abitazione dei Passaquindici e, urlando minacciosi, li accusano di dare lavoro e di nascondere ebrei. Ad avvisare i tedeschi sarebbe stato un operaio desideroso di vendicarsi per il licenziamento subito. Ferruccio Milla, recatosi in quella casa per giocare a carte, si dichiara ebreo e viene arrestato; stessa sorte tocca al fratello Ugo, sopraggiunto poco dopo. Con loro vengono arrestati anche i fratelli Passaquindici, Donato e Vittorio, e un loro cognato, Nicola Rota. I cinque vengono tradotti al carcere di Bergamo e in seguito trasferiti a quello di San Vittore, a Milano. I Milla, prima di raggiungere San Vittore, vengono interrogati al comando SS di Milano, presso l'Hotel Regina. Nicola Rota resta in carcere per circa una settimana, il tempo necessario al comando tedesco per accertarsi che non fosse ebreo; Donato e Vittorio Passaquindici verranno rilasciati dopo tre settimane. La ricostruzione di quanto accadde la sera del 13 ottobre, che risulta dalla testimonianza di Lea Milla raccolta dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) di Milano, e della sorte che toccò nei giorni successivi agli arrestati, secondo i ricordi di Nicola Passaquindici e Francesco Amendola, nipoti di Donato e Vittorio, fa affiorare alcuni interrogativi cui è difficile rispondere. Chi erano i soldati artefici dell'operazione? Perché fecero irruzione, piuttosto che direttamente dai Milla, nella casa dei Passaquindici? Come mai questi ultimi vennero trattenuti in carcere? A queste domande si può cercare di dare risposta solo attraverso supposizioni, non potendo contare su altre testimonianze né sui documenti delle carceri coinvolte, Bergamo e Milano, che risultano irreperibili. Secondo quanto annota nel Liber Cronicus l’allora parroco, Don Carlo Greppi, il 15 ottobre 1943 arrivarono a Verderio circa 200 militari tedeschi e vi rimasero fino all'inizio di dicembre, alloggiando a Villa Gnecchi, gli ufficiali, e all'asilo, alla scuola materna e all’oratorio i soldati. Si può supporre che, prima del 15, una pattuglia abbia fatto un sopralluogo in paese, per organizzare la permanenza del contingente. A loro “qualcuno” potrebbe aver rivelato la presenza di ebrei. Perché dai Passaquindici? Forse la segnalazione fu imprecisa e furono indicati loro come ebrei (per molto tempo, vuoi per il cognome insolito, vuoi perché forestieri, molti sono stati convinti che lo fossero). Perché anche loro furono arrestati e trattenuti in carcere? Il motivo addotto dai tedeschi, secondo il ricordo dei nipoti, fu che avevano dato lavoro, e quindi protezione, ai Milla: a quella data, però, nessuna norma impediva loro di avere dipendenti ebrei. Un'altra ipotesi potrebbe essere che attraverso i Passaquindici i tedeschi pensassero di risalire al nascondiglio delle sorelle Milla, che in un primo tempo erano riuscite a fuggire: se così fosse stato, ci si domanda però come mai la detenzione di Donato e Vittorio si protrasse oltre la data dell'arresto di Lina, Laura e Amelia? L'arresto e la successiva detenzione dei signori Passaquindici, persone facoltose, potrebbe giustificarsi come un tentativo di estorcere loro denaro, sottoponendoli a qualche forma di ricatto legato alla presenza dei Milla a casa loro: è però necessario dire che nessuno dei nipoti interpellati ha mai sentito parlare di una simile ipotesi.
LA CLINICA "CARATE BRIANZA". Fu Lea Milla ad accorgersi, a notte fonda, dell'assenza del marito e a dare l'allarme alle cognate: informate dell'accaduto, decisero di lasciare Verderio. Lea, insieme alla figlia, si rifugiò a Buscate in casa di un'amica, da dove ogni giorno si recava a Milano per avere notizie del marito e del cognato. Dopo qualche tempo raggiunse la madre Nelly Coen Gialli, ricoverata presso la clinica "Carate Brianza" (oggi clinica "Zucchi"), nell'omonimo paese in provincia di Milano. In quegli anni circa venti ebrei si nascosero in questa casa di cura: venivano chiamati da parenti già ricoverati, che avevano sperimentato la solidarietà del primario, il professor Magnoni e della madre superiora, Suor Luigia Gazzola, durante le perlustrazioni dei tedeschi. Verso le ore sette del 14 ottobre, Laura, Lina e Amelia chiamarono la signora Ida Sala, che lavorava da loro come domestica, le affidarono le chiavi di casa e le comunicarono di dover partire immediatamente per Milano. Ad eventuali domande sulla oro partenza, la pregarono di rispondere di non saper niente. Lasciarono Verderio senza alcun bagaglio. Alle nove circa, nella casa irruppero alcuni soldati tedeschi armati di mitra: era presente la signora Ida ancora intenta alle pulizie. Le assicurarono di non aver niente contro di lei, ma di cercare gli abitanti della casa (più volte, nei giorni seguenti, Ida Sala incontrerà questi militari, ormai di stanza a Verderio, che le rivolgeranno amichevolmente la parola), poi svuotarono il guardaroba gettando il contenuto nel cortile della casa: se ne impossessarono gli abitanti del paese, secondo alcune testimonianze, verrà bruciato, secondo altre. Non si sa se a Milano le tre sorelle si rifugiarono a casa loro, in via Farini 40, o si nascosero in casa di conoscenti: si sa invece che, probabilmente attraverso il cappellano del carcere, riuscirono ad avere notizie dei fratelli e a mettersi indirettamente in contatto con loro. È forse a causa di questa comprensibile imprudenza che fu individuato il loro rifugio e, il 21 ottobre, vennero arrestate. Il carcere di San Vittore servì, tra ottobre e novembre 1943 e la fine di gennaio del 1944, da luogo di concentramento per gli ebrei arrestati nella città e nella provincia di Milano, in alcune grandi città del Nord Italia e nelle zone di confine tra l'Italia e la Svizzera. A questo scopo vennero destinati alcuni settori del carcere, requisiti fin dal settembre dai tedeschi e da loro direttamente gestiti.
IL TORTURATORE DI EBREI. Responsabile per gli arresti e la detenzione degli ebrei era Otto Kock, un SS-Hauptscharführer che, per il crudele zelo con cui assolveva al suo compito, venne soprannominato dai suoi collaboratori Judenkock, Cucinatore di ebrei. Durante gli interrogatori, che effettuava personalmente presso il suo ufficio all'hotel Regina o a Villa Luzzato, deposito dei beni sequestrati, utilizzava la violenza e l’intimidazione per ottenere dai prigionieri informazioni sul nascondiglio dei loro parenti. La “ginnastica” e le percosse produssero un principio di infezione ad una gamba al signor Ferruccio Milla che, di conseguenza, al momento della partenza per Auschwitz, venne trasportato al treno su di una barella. Questo fatto, di cui parlerà Enzo Levy, suo compagno di sventura in una lettera indirizzata a Lea Milla, compromise certamente le sue possibilità, forse già scarse, per via dell’età, di superare la “selezione” all'arrivo al campo. All’inizio di dicembre del 1943, il numero di internati a San Vittore, frutto delle retate susseguitesi per tutto il mese precedente, era tale che il comando tedesco decise di formare un convoglio per Auschwitz. Se ne occupò il fiduciario di Eichmann, Theodor Dannecker, comandante del distaccamento volante del distaccamento di polizia di sicurezza nazista, cui spettava il coordinamento delle retate e delle deportazioni. All’alba del 6 dicembre furono preparati, nei sotterranei della Stazione Centrale, i vagoni merce per effettuare il “trasporto”. I prigionieri percorsero il tragitto fra il carcere e la stazione su camion con teloni abbassati, riascosti agli occhi di quei pochi che, in una Milano ancora addormentata, li avrebbero potuti vedere. Al treno partito da Milano si aggiunsero altri vagoni a Verona: insieme formarono il convoglio 21T proveniente da Trieste. Del convoglio 5 sono stati identificati 246 deportati, fra cui 20 bambini nati dopo il 1930. La più piccola, Rosa Osmo di Firenze, aveva solo pochi mesi, essendo nata nel 1943: verrà uccisa all'arrivo ad Auschwitz con due fratellini di due anni. Solo 5 persone faranno ritorno a casa. Il treno si arrestò allo scalo merci di Auschwitz la mattina dell'11 dicembre, dopo cinque giorni e cinque notti di “allucinante viaggio”, come lo definisce un reduce che racconta anche della fame e del freddo, dei pianti e dei lamenti, delle sofferenze dei vecchi e degli ammalati. Giunti alla meta i prigionieri dovettero attendere, chiusi nei vagoni, che un altro treno venisse scaricato. Quando fu il loro turno, scesero sulla banchina dove cominciò la “selezione”. Da una parte furono radunati coloro che sarebbero stati immessi nel campo, dall'altra i destinati alla camera a gas. Dei primi si conosce il numero esatto, 61 uomini e 35 donne (dato riferito ad entrambi i convogli, 5 e 21T), grazie ai documenti conservati al museo di Auschwitz, dove sono registrati i numeri di matricola degli immessi nel campo.
L'INVIO ALLE "DOCCE". Secondo i risultati di un' approfondita ricerca condotta da Liliana Picciotto Fargion, Ferruccio, Ugo, Laura, Lina ed Amelia Milla non superarono la "selezione": dovettero così avviarsi, a piedi o su camion con il simbolo della Croce Rossa, verso gli edifici dove, in locali mascherati da docce, i non ammessi al campo venivano uccisi con il gas.
Un ordine di polizia (N.5, 30 novembre 1943), lo stesso che stabiliva che tutti gli ebrei residenti in Italia dovevano essere inviati in campi di concentramento appositamente allestiti, e un decreto legge (N.2, 4 gennaio 1944) ordinavano la confisca a favore dello Stato di tutti i beni, mobili e immobili, appartenenti a cittadini "italiani di razza ebraica" o a persone "straniere di razza ebraica non residenti in Italia". I decreti di confisca erano di competenza del "capo della provincia", denominazione che, nella Repubblica Sociale, aveva sostituito quella di prefetto. Questi provvedimenti colpirono la famiglia Milla quando ormai i cinque fratelli erano morti. A Ferruccio venne confiscato, presso la Banca Commerciale di Milano, un conto di deposito con la somma di 770,50 lire, a Ugo due conti correnti, per un totale di 117,80 lire, ed i beni sequestrati nell’appartamento in via Natale Battaglia 41 dove avevano abitato in affitto prima di lasciare Milano. Tali beni, di cui lo stato repubblichino poté arricchirsi, consistevano, secondo il verbale del sequestro redatto da un vicebrigadiere di Pubblica Sicurezza, in una bambola di pezza, cinquantacinque libri di lettura e otto giocattoli in legno per bambini. Lea Milla, moglie di Ugo, con la madre e la figlia Serena lasciò la clinica di Carate Brianza poco dopo la Liberazione e andò ad abitare con il fratello Umberto in un appartamento messo loro da un amico, l'ingegner Guffanti, titolare di un'impresa di costruzione: le loro abitazioni, infatti, erano state requisite durante la guerra e non vi poterono tornare. Serena poté frequentare, per la prima volta liberamente, la scuola. Un decreto revocò le confische attuate dalla repubblica fascista ed i beni che ne erano stati oggetto vennero restituiti. Negli anni seguenti Lea acquisirà il diritto ad una pensione e nel 1968, grazie alla legge N.404 del 1963 a favore dei "cittadini italiani colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialista", otterrà un indennizzo. Lea per anni cercò di avere notizie del marito e dei cognati: interpellò associazioni e partiti politici, fece pubblicare inserzioni sui giornali e si rivolse direttamente ai reduci dal campi di sterminio. Fra le risposte ai suoi appelli, la lettera di Enzo Levy, lo stesso a cui si è già accennato in precedenza, rappresenta l'ultima testimonianza certa riguardante i fratelli Milla in vita.
Da Torino, il 16 agosto 1945, indirizzando a
"CASA DI CURA - CARATE BRIANZA", egli scrive:
Gentile signora Lea Milla,
Rispondo solo oggi alla sua lettera del 3 corr., perché ero fuori Torino e sono ritornato solo ieri sera. Tutta la numerosa famiglia Milla era con me a S. Vittore e precisamente i due fratelli Ugo e Ferruccio e le tre sorelle Laura, Luisa [il nome esatto è Lina, N.d.A.] ed Amelia. Stavano tutti discretamente (come si può stare in prigione, senza sapere cosa ci attendeva). Soltanto il signor Ferruccio a causa delle percosse ricevute e alla "ginnastica" fattaci fare dai signori SS aveva un principio di infezione ad una gamba ma il giorno della partenza venne trasportato all’ultimo momento, su di una barella sino alla stazione e caricato sul carro bestiame, assieme a noi tutti. Non so se abbia resistito al viaggio che durò sei giorni ma all'arrivo ad Auschwitz gli uomini giovani e forti vennero subito divisi dagli altri e quindi non ebbi più modo di vedere nessuno dei suoi parenti. Si teme però che quasi nessuno sia delle donne che dei bambini e dei vecchi, per non parlare degli ammalati, sia sopravvissuto. Questo pensiero è così straziante. anche per me, che in quel gruppo avevo mia madre e mia sorella, che io stesso stento a crederlo. Pensi, cara signora, che io sono uno dei pochissimi superstiti finora rientrati in Italia! Moltissimi sono ancora gli assenti e di quesiti solo, di pochi si hanno e si potranno avere notizie!
Non disperi tuttavia e riceva tutti i miei auguri che DIO le conceda di rivedere le persone a lei care.
Le porgo i miei ossequi. Enzo Levy
Bibliografia:
articolo di Marco Bartesaghi su “Brianze” n°34 anno 2005