resistenza europea
Parigi, 11 novembre 1940
In Francia, l’11 novembre è il giorno in cui si celebra la vittoria del 1918, i sacrifici e l’eroismo dei combattenti della prima guerra mondiale, il giorno in cui si rende loro omaggio all’Arco di Trionfo, ravvivando la fiamma ed esponendo il tricolore sulla tomba del milite ignoto.
Nella Francia occupata dai nazisti, l’11 novembre 1940 s’inscrive nella coscienza della nazione, malgrado la censura, la propaganda tedesca e quella della repubblica collaborazionista di Vichy. Giovani studenti parigini si radunano all’Arco di Trionfo, sfidando il divieto degli occupanti: è una delle prime forme di resistenza all’invasore nazista.
La manifestazione, che avviene solamente quattro mesi dopo la sconfitta della Francia, orienta il popolo alla resistenza e nello stesso tempo rende la stretta di mano tra Hitler e Pétain, avvenuta il 24 ottobre, il simbolo infamante del tradimento.
11 novembre 1940: come non scegliere questa giornata commemorativa per affermare l’amore della patria, la speranza di una vittoria?
Già, venerdì 8 novembre, gli studenti comunisti hanno manifestato davanti al Collège de France, scandendo il nome di Paul Langevin e gridando «Liberté» e «Vive la France». (Paul Langevin, arrestato il 30 ottobre 1940 dalla Gestapo, fisico, professore al Collège de France, scienziato di fama internazionale, era uno degli intellettuali che avevano sostenuto il Front Populaire e che erano impegnati nella lotta antifascista).
Si apprende che Radio Londra ha rivolto un appello a tutti i francesi, e in particolare agli ex combattenti, perchè depongano fiori sulla tomba del milite ignoto.
Le autorità tedesche d’occupazione, in un manifesto, hanno proibito qualsiasi forma di ricordo che costituirebbe, secondo loro, un insulto al Reich e un attentato all’onore della Wermacht. Ciò ha indignato diversi parigini. Se ne parla nelle brasserie, nelle classi dei licei, nei corridoi della Sorbona, nel Quartiere Latino.
La Commissione, incaricata della censura nei media, ha stabilito che, per la rievocazione dell’11 novembre, i giornali non potranno dedicare più di due pagine.
I giornali pubblicano un comunicato della prefettura di polizia di Parigi, che riecheggia quello del Kommandantur: « A Parigi e nel dipartimento della Senna, le pubbliche amministrazioni e le imprese private lavoreranno normalmente il giorno 11 novembre. Le cerimonie commemorative non avranno luogo. Nessuna pubblica dimostrazione sarà tollerata».
Nel Quartiere Latino, nei grandi licei di Parigi, la collera e l’indignazione si diffondono. Gli studenti che hanno partecipato alla manifestazione dell’8 novembre davanti al Collège de France – quasi tutti comunisti – e i liceali – spesso dell’Action Française – dei licei Janson-de-Sailly, Buffon, Condorcet, Carnot, decidono di redigere e stampare dei volantini ed esporli nei licei e nelle facoltà universitarie, invitando tutti gli studenti a manifestare. «Studenti di Francia, l’11 novembre è per te un giorno di festa nazionale. Malgrado l’ordine delle autorità di occupazione sarà un giorno di raccoglimento. Tu andrai a rendere onore al milite ignoto, alle ore 17,30. Non assisterai a nessuna lezione. L’11 novembre 1918 fu il giorno di una grande vittoria. L’11 novembre 1940 sarà l’inizio di una più grande. Tutti gli studenti sono solidali. Vive la France! Ricopiate queste parole e diffondetele».
Tutto inizia il mattino dell’11 novembre. Vengono depositati dei fiori ai piedi della statua rappresentante la città di Strasburgo, in Place de la Concorde. Poi, con il passar delle ore, la folla risale gli Champs-Elisées, depone migliaia di bouquet, corone di fiori davanti alla statua di Georges Clemenceau.
Un commissario di polizia ripete, con una voce dolce: «Andate via, niente raggruppamenti, vi prego, sono proibiti». Subito dei soldati tedeschi, scesi da una vettura, circondano la statua. «Il comandante tedesco non vuole manifestazioni» ripete il commissario.
Improvvisamente, a partire dalle ore 17, migliaia di studenti riempiono il piazzale dell’Arco di Trionfo. Altri arrivano in corteo, drappo tricolore in testa, dall’Avenue Victor Hugo.
Si sentono esplodere colpi di arma da fuoco. Dei veicoli carichi di soldati tedeschi zigzagano sul piazzale e sui marciapiedi, disperdendo i manifestanti. Ci sono dei feriti. Alcuni manifestanti sono travolti dai mezzi militari. Improvvisamente delle SS, armi in pugno, escono dal cinema Le Biarritz. Nuovamente si sentono dei colpi di arma da fuoco e delle raffiche di mitragliatrice.
Si ode la Marseillaise, poi il Chant du départ. Si sentono grida «Vive la France», «abbasso Pétain», «abbasso Hitler».
I tedeschi piazzano una batteria di mitragliatrici, colpiscono con i calci delle armi da fuoco. Si combatte. Una dozzina sono i morti, un centinaio gli arrestati, che vengono caricati su camion, condotti in Avenue de l’Opera, dove si trova un Kommandantur, poi alla prigione di Cherche-Midi, pestati con pugni e calci, con manganelli e il calcio dei fucili. Vengono fatti passare tra due ali di soldati ubriachi. Alcuni vengono sbattuti contro un muro, puntati da un plotone di esecuzione nel cortile della prigione di Cherche-Midi.
Un generale fa irruzione nel cortile. Si è messo a picchiare i soldati, insultandoli «ubriachi, banda di ubriachi». E vedendo gli studenti, si è indignato, esclamando «ma sono dei bambini!». Questi giovani saranno trattenuti in carcere per tre settimane, prima di essere rilasciati.
Solamente sabato 16 novembre la radio e la stampa hanno dato la notizia che «queste manifestazioni hanno richiesto l’intervento del servizio d’ordine delle autorità di occupazione». Ma la notizia della manifestazione si è propagata per tutta la Francia, suscitando un’ondata di emozioni. Non viene prestata alcuna attenzione al comunicato del Kommandantur. Genera indignazione il testo del documento del vice presidente del Consiglio - Pierre Laval – dal titolo «La verità sugli incidenti dell’11 novembre», in cui si dice «quattro persone sono state leggermente ferite, nessuno è stato ucciso».
Non si conosce l’esatto numero delle vittime, ma vista l’importanza dell’avvenimento, vengono presi provvedimenti da parte del governo di Vichy e dalle autorità di occupazione. Viene decretata la chiusura dell’Università di Parigi e degli istituti universitari della capitale. Gli studenti iscritti ai corsi dovranno, ogni giorno, recarsi a firmare presso il commissariato del loro quartiere.
Il rettore Roussy è revocato e sostituito dallo storico Jérome Carcopino, che riscuote la fiducia del potere di Vichy. La ripresa dei corsi viene fissata per il 20 dicembre, quando le vacanze di fine anno incominciano ... il 21.
Le trasmissioni di France Libre, dai microfoni delle BBC da Londra, ripetono: «Dietro questa folla coraggiosa, gli uomini di Vichy sentono che c’è tutto un paese che si rivolta ... ».
Bibliografia:
Max Gallo, 1940 de l’abîme à l’espérance, XO Éditions, 2010
7 luglio 1944: sogno d’Europa
rêve d’Europe traum von Europa droom van Europa dream of Europe όνειρο της Ευρώπης sonho da Europa sueño de Europa
Nell’agosto 1943, gli antifascisti italiani, Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli, fondarono, dopo la caduta di Mussolini, il Movimento federalista europeo. Il Movimento si servì della Svizzera per divenire, nel 1944, un efficace promotore della causa federalista all’interno della comunità degli esuli. Così nacque la “Dichiarazione dei movimenti della Resistenza europea”, pubblicata a Ginevra il 7 luglio 1944, primo manifesto veramente europeo durante la guerra.
L’idea fu ripresa allorquando la guerra finì con una profonda crisi in tutti i paesi d’Europa, che rese obsoleti i vecchi partiti politici, sia essi compromessi, sia incapaci di affrontare la nuova realtà europea.
In effetti fu in Svizzera, in piena guerra, che si organizzarono le prime riunioni europee degli uomini della Resistenza, intorno ad uno zoccolo duro di esuli federalisti.
A Ginevra si svolsero clandestinamente più di cinque incontri, che riunirono Italiani, Francesi, Danesi, Olandesi, Cechi, Norvegesi, Yugoslavi e qualche tedesco antinazista.
Gli autori della Dichiarazione ritenevano che la fonte dei mali risiedeva essenzialmente nella frammentazione dell’Europa in 30 entità politiche. Questo problema non poteva essere risolto che con il superamento del “dogma della sovranità assoluta” degli Stati. Il mezzo di questo superamento doveva essere una “Unione federale” dotata di un governo responsabile verso i popoli e da loro eletto, di un esercito comune e di un tribunale supremo con il compito di deliberare sulle questioni relative all’interpretazione della Costituzione federale. Questa Unione avrebbe consentito la realizzazione di una politica capace di impedire i nazionalismi e il rischio di guerre.
“Solo un’Unione federale consentirà la partecipazione del popolo tedesco alla vita europea senza che sia un pericolo per gli altri popoli.
Solo un’Unione federale consentirà di risolvere problemi di confine nelle zone con popolazioni miste, che cesseranno così di essere l’oggetto di folli bramosie nazionaliste e diventeranno delle semplici questioni di delimitazioni territoriali di pura competenza amministrativa.
Solo un’Unione federale consentirà la salvaguardia delle istituzioni democratiche in modo tale da impedire che i paesi, che non abbiano una sufficiente maturità politica, possano mettere in pericolo l’ordine generale.
Solo un’Unione federale consentirà la soluzione logica e naturale dei problemi di accesso al mare dei paesi situati all’interno del continente, dell’utilizzazione razionale dei fiumi, che attraversano più Stati, del controllo degli stretti e, in generale, della maggior parte dei problemi che hanno turbato le relazioni internazionali nel corso di questi ultimi anni".
Tratto dalla “Dichiarazione dei movimenti della Resistenza europea”, redatta a Ginevra.
"Soldati delle paludi", il canto del ricordo dei crimini contro l'umanità
Soldati delle paludi.
Lontano all'infinito si estendono
grandi prati paludosi.
Non un uccello canta
sugli alberi secchi e cavi.
O terra di afflizione
dove dobbiamo senza sosta zappare,
zappare!
In questo campo cupo e selvaggio,
circondato da mura di ferro,
ci sembra di vivere in gabbia
in mezzo a un grande deserto.
O terra di afflizione ...
Rumore di passi e rumore di armi,
sentinelle giorno e notte
e sangue, grida, lacrime,
la morte per chi fugge.
O terra di afflizione ...
Ma un giorno della nostra vita
la primavera rifiorirà.
Libero allora, o Patria!
Dirò: sei mia.
O terra infine libera
dove potremo rivivere, amare!
O terra infine libera
dove potremo rivivere, amare,
amare.
Il canto Soldati delle paludi fu composto nel 1934 in uno dei primi campi creati nelle paludi, alla frontiera tedesco-olandese, da un detenuto minatore, Johan Esser; fu messo in versi dal poeta Wolfgang Langhoff e musicato da Rudi Goguel, anch'essi prigionieri.
Soldati delle paludi fu cantato già nel 1936 in Spagna dalla Brigata internazionale.
Questo canto è diventato per i deportati di tutti gli altri Paesi l'inno della speranza e, in seguito, del ricordo dei crimini contro l'umanità.
Tratto da:
Qui non ci sono bambini. Un'infanzia ad Auschwitz di Thomas Geve - Einaudi 2011 Yad Vashem Publications.
Thomas Geve nasce a Stettino, sulle rive del Baltico, nel 1929. A cinque anni si trasferisce con la madre a Berlino presso i nonni, mentre il padre è costretto a emigrare in Inghilterra. Nel 1943, a poco più di tredici anni, viene deportato ad Auschwitz e in seguito a Gross-Rosen e Buchenwald, dove finalmente, nell'aprile del 1945, irrompe l'esercito alleato che libera gli internati. Geve chiede delle matite e dei fogli con cui fissa in 79 disegni il ricordo della prigionia. Riunitosi al padre, dopo la guerra si trasferisce prima a Londra e poi in Israele, dedicandosi alla carriera di ingegnere civile. Nel 1985 dona i suoi disegni al museo Yad Vashem, il memoriale ufficiale di Israele delle vittime ebree dell'Olocausto, dove vengono raccolti, restaurati e conservati.
Da quei giorni del 1945 Thomas Geve non ha mai più disegnato.
Thomas Geve, nel 1945, nel centro di convalescenza svizzero; ha quindici anni e sta scrivendo a suo padre.
Due dei disegni di Thomas Geve:
Un altro mondo – la porta di Birkenau.
È da questa porta del campo di Birkenau che passavano le vittime.
La cultura ad Auschwitz.
Impiccagione di dodici polacchi, sospettati di aver tentato la fuga.
18 giugno 1940: l'appello di De Gaulle ai Francesi
Parigi, venerdì 14 giugno 1940: i tedeschi occupano la città.
Londra, martedì 18 giugno 1940: il generale De Gaulle, accompagnato dal suo aiutante di campo, entra, poco prima delle ore 18, nel palazzo della BBC, la radio inglese, situato in Oxford Circus.
Nell’edificio vi sono guardie armate dappertutto: gli inglesi temono un attacco dei paracadutisti tedeschi.
De Gaulle si dirige verso lo studio 4B, al quarto piano. Deve parlare ai Francesi. Ha molte cose da dire. Deve rispondere alle proposte del maresciallo Pétain che, il giorno prima, durante una trasmissione radiofonica, ha dichiarato: «Faccio dono alla Francia della mia persona per alleviare la sua infelicità».
Pétain ha teso la mano al nemico: «Con il cuore in mano vi dico che bisogna cessare di combattere. Questa notte, mi sono rivolto ai nostri avversari per domandare loro se sono pronti a cercare con noi, tra soldati e con onore, i mezzi per mettere fine alle ostilità».
De Gaulle è indignato. Churchill condivide la condanna di Pétain e ha accordato a De Gaulle il privilegio di rivolgersi ai Francesi dai microfoni della BBC.
Entrando nello studio radiofonico De Gaulle, che indossa dei guanti bianchi, ha in mano dei fogli dattiloscritti con il testo dell’appello che leggerà.
De Gaulle incomincia a parlare senza guardare i suoi fogli. Le sue parole cambieranno la sua vita e lui lo sa. “Qualunque cosa succeda la fiamma della resistenza francese non deve spegnersi e non si spegnerà”.
I "TRE FONTANOT: Spartaco, Nerone, Giacomo
«La patria, per un operaio, è là dove lui lavora»
Spartaco Fontanot rivolto ai suoi giudici, che gli domandano perché, siccome non è francese, si batta per la Francia.
Oggi in una prospettiva di unificazione europea, è importante sottolineare il carattere internazionalista della Resistenza: decine di migliaia di italiani combatterono con i movimenti di resistenza in vari paesi europei, nei Balcani, in Grecia, in Albania, in Jugoslavia e in Francia, terra di emigrazione e di ospitalità di molti fuoriusciti antifascisti. Battersi contro le orde hitleriane: questa lotta comune fu un bell’esempio di fraternità ed eroismo.
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Les Italiens du maquis
Non c’è un dipartimento della Francia che non conti dei partigiani italiani tra i suoi morti. Sono numerosi gli italiani caduti nelle insurrezioni di Marsiglia, Lione e Parigi. Ancor più il numero dei caduti e deportati nell'Est (Meurthe-et-Moselle, Moselle, Haut-Rhin, ecc.) dove in alcuni centri furono compiuti massacri di resistenti italiani.
«Dei circa 600 morti di cui ci sono pervenuti i nomi» - scrive Pia Leonetti Carena nel suo libro “Les Italiens du maquis” - «non rappresentano che una parte, dal 30 al 40% degli Italiani caduti in Francia. Tra di loro ci sono uomini di ogni età, la maggior parte sono giovani, anche di molto giovani, dai 15 ai 25 anni. Circa le loro condizioni, esse rispecchiano la grande colonia italiana in Francia composta principalmente da lavoratori, operai e contadini. Nella lunga notte dei combattimenti, di audaci sabotaggi, centinaia sono morti senza lasciare una traccia. I partigiani, i combattenti senza uniforme non portano neanche la povera piccola piastrina di riconoscimento che consente di identificare un soldato caduto in combattimento. Se, per assurdo, si trovasse qualche documento su di loro, molto spesso è un falso. Si trova, nelle gesta di questi combattenti, quel senso dell’azione di tutti i semplici volontari che, in un’ora decisiva, mettono le loro braccia, il loro cuore, il loro pensiero, la loro vita al servizio della libertà».
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In occasione del 75° anniversario della fine dell’occupazione nazista di gran parte dell’Europa,
tra le molte storie di italiani caduti per la liberazione dall’occupazione nazista della Francia, desidero raccontare quelle di tre giovani, conosciuti in Francia come “LES TROIS FONTANOT”.
Nel libro “Contro il fascismo oltre ogni frontiera”, Nerina Fontanot racconta: «L’avventura umana e politica della famiglia Fontanot si svolge attraverso mezza Europa dai primi anni del Novecento sino alla fine della seconda guerra mondiale. I Fontanot sono operai ai cantieri navali di Monfalcone, socialisti ed anarchici, poi comunisti. Un ramo della famiglia combatte nella Resistenza sul confine orientale d’Italia, a contatto con la Resistenza slovena. Un altro ramo si sposta in Francia, e dopo l’invasione tedesca combatte nella Resistenza francese. Tutti pagano prezzi altissimi».
SPARTACO
Spartaco ha due anni quando, all’inizio del 1924, arriva in Francia, da Monfalcone, con il padre Giacomo Fontanot e la madre Lucia Fumis. I Fontanot sono una delle tante famiglie che emigrano in quel periodo in Francia per motivi politici, perché antifascisti. In Italia, nel clima di totale sospensione delle libertà sindacali e civili e di prevaricazione del fascismo, i Fontanot, fin dalla prima ora, avevano assunto un atteggiamento di rifiuto e di opposizione al regime.
A ventidue anni abbandona gli studi di meccanico per impegnarsi, come il padre, corpo e anima, nella lotta contro l’invasore tedesco. Molto apprezzato per le sue qualità di organizzatore e per la sua energia, Spartaco Fontanot è nominato, nel novembre 1942, sottotenente dei Francs-Tireurs et Partisans de la Main d'Oeuvre Immigrée (FTP-MOI) della regione parigina. Fa parte del “gruppo Manouchian”, dal nome del suo comandante, il poeta armeno Missak Manouchian e dal tecnico Joseph Boczov. Il gruppo era composto da uomini e donne di diverse nazionalità. Con un centinaio di membri rispecchiava il microcosmo delle varie comunità immigrate in Francia negli anni Venti e Trenta del Novecento. Si trattava di uomini e donne che rinnegavano il nazismo.
Spartaco Fontanot appare come un capo incontestato. Partecipa all’attacco con bombe a mano di un deposito tedesco a Nanterre, all’assalto di un camion carico di soldati della Wehrmacht, a Parigi; all’attacco della caserma di Rueil e all’esecuzione di un traditore. È anche alla testa di quelli che attaccano von Schaunburg, comandante della “Grande Parigi”, e Ritter, il negriero, capo dello STO (Service Travail Obligatoire, che reclutava manodopera da inviare in Germania a lavorare, in base ad una legge promulgata dal regime di Vichy).
Dopo lunghi pedinamenti, la Gestapo, tramite un provocatore riesce ad arrestarlo, nel novembre 1943, con diversi resistenti. È per la Gestapo l’occasione sperata, del resto abilmente preparata, di organizzare davanti all’opinione pubblica un processo ben orchestrato di «terroristi» e di «comunisti». Così comincia, il 17 febbraio 1944, all’Hotel Continental di Parigi, il «processo dei 23».
Il «gruppo dei 23» è composto, oltre che da Missak Manouchian e Joseph Boczov, da 20 stranieri: una donna rumena, poi deportata in Germania ed uccisa, uno spagnolo, cinque italiani (Spartaco Fontanot, Dino della Negra, Antonio Salvadori, Cesare Luccarini, Amedeo Usseglio), otto polacchi, due armeni, tre ungheresi e tre francesi. Questi partigiani (torturati e condotti nell’aula del processo ammanettati con le mani dietro alla schiena) hanno mostrato davanti ai giudici il coraggio di uomini che hanno fatto la loro scelta, che sapevano perché si battevano e che andavano degnamente alla morte.
Ai giudici che gli domandavano perché, lui che non è francese, si batta per Francia, Spartaco Fontanot risponde che la patria, per un operaio, è là dove lui lavora. Tre giorni dopo la sentenza, il 21 febbraio 1944, viene fucilato insieme ai suoi compagni al Mont Valérien, un’altura sopra Parigi.
L'ingresso del Fort Valerién - La chiesetta sconsacrata dove attendevano la fucilazione e sulle cui pareti alcuni partigiani, in attesa della fucilazione, lasciavano delle scritte - Il fossato dove avvenivano le esecuzioni - La campana che reca incisi i nomi degli oppositori al nazismo fucilati a Mont Valerién
Spartaco al momento della fucilazione aveva 22 anni. Pochi giorni prima della morte aveva scritto un’ultima lettera ai suoi familiari. La lettera è stata inserita nel libro “Lettere di condannati a morte della Resistenza Europea” pubblicato nelle edizioni Einaudi nel 1954.
La lettera scritta da Spartaco Fontanot ai genitori e alla sorella prima della fucilazione (il cugino Nerone era già stato fucilato)
«In questa sua ultima lettera ai genitori, prima della sua esecuzione, Spartaco ha saputo esprimere con tutta semplicità la portata universale del suo sacrificio»
Un’enorme e scandalosa pubblicità viene data al «processo dei 23». Nelle città, nei paesi, i manifesti l’ “Affiche Rouge” si moltiplicano, con la fotografia dei condannati, in cui si faceva credere che i processati non fossero i liberatori della Francia ma facessero parte di un “Armèe du crime” composto da terroristi assassini. Tutto per mostrare i volti dei «terroristi» con a fianco delle riproduzioni di deragliamenti e di uccisioni.
Affiche Rouge - (dall'alto, il secondo a destra è SPARTACO FONTANOT, per evidenziarlo ho aggiunto il suo nome in bianco)
Clamori della stampa asservita, alla quale replica subito la stampa clandestina. In segreto, la popolazione copre di fiori le fotografie, sulle quali incolla dei foglietti con la scritta «Morti per la Francia».
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NERONE
Era figlio di Bepi Fontanot e Gisella Teja, cugino di Spartaco. Nel giugno 1942, Nerone ha 21 anni. Operaio metalmeccanico qualificato, si rifiuta di lavorare per i tedeschi e si rifugia a Châtellerault, nel dipartimento della Vienne, nei pressi di Poitiers, dove diventa nel 1943 uno dei diffusori più attivi della stampa clandestina. Nello stesso anno uccide un noto collaboratore dei tedeschi. Sotto lo pseudonimo di René, diventa poi capo dei F.T.P. (Francs-Tireurs et Partisans) della Vienne. Alla testa dei suoi uomini, partecipa a numerose azioni di sabotaggio: deragliamenti di treni, incendio di convogli carichi di munizioni, incendio di depositi di viveri e di cereali destinati ai tedeschi.
Arrestato nell’agosto 1943, malgrado le torture cui è sottoposto, non parla. Nel settembre comparve davanti al tribunale militare tedesco. Durante il processo, si assume la responsabilità degli atti attribuiti al suo gruppo, riuscendo così a salvare uno dei suoi compatrioti che verrà deportato. Nerone Fontanot viene condannato a morte per “attività in favore del nemico e terrorismo”. Dignitoso e calmo, ascolta la sentenza che lo condanna a morte. In prigione, tenta inutilmente di segare le sbarre della sua cella. Scoperto, è controllato a vista, piedi e mani legate fino all’antivigilia dell’esecuzione. È fucilato, il 27 settembre 1943 a Poitiers, con altri sette compagni francesi. Aveva 23 anni.
La madre Gisella, che era internata nel campo di Poitiers, venne a conoscenza della morte del figlio in modo del tutto casuale: leggendo un giornale, vide in testa a uno degli avvisi che annunciavano l’arresto e la fucilazione di resistenti, il nome di Nerone. La notizia della morte di suo figlio gettò Gisella nella disperazione; solo il conforto delle compagne e la sua forza d’animo la aiutarono a sopportare la sofferenza e a sentire che la sorte di suo figlio era comune a quella di migliaia di altri giovani vittime di una guerra crudele. Per il grande dolore e per le privazioni patite durante la detenzione Gisella si ammalò e, nell’aprile del 1944, venne ricoverata in ospedale a Poitiers. Lì finalmente poté ricevere la visita di Jacques; fu un momento di grande gioia, ma anche di grande dolore perché Jacques seppe della morte di Nerone e portò a sua madre la notizia della morte di Spartaco con la copia della sua ultima lettera.
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GIACOMO detto JACQUES
Figlio di Bepi Fontanot e Gisella Teja, fratello di Nerone.
Nel settembre del 1942, Jacques era studente alla scuola tecnica di Puteaux. Qui iniziò a preparare e a diffondere tra i giovani compagni volantini antitedeschi. Un suo compagno, sorpreso mentre affiggeva un volantino, fu fermato e interrogato. Vennero così arrestati altri studenti, tra cui Jacques. Aveva 16 anni. Subì un processo e, benché assolto, data la giovane età, venne internato nel campo di Tourelles. Nel maggio del 1944, le autorità disposero il trasferimento dei prigionieri da Tourelles al campo di Rouille.
Durante il trasferimento, Jacques riuscì a vedere sua madre che si trovava malata all’ospedale di Poitiers: da lei seppe che Nerone era stato fucilato.
Il 10 giugno del 1944, un’azione dei partigiani riuscì a liberare una cinquantina di internati del campo di Rouille, tra cui Jacques che riuscì a far pervenire un messaggio a sua madre: “Mamma, siamo liberi, i maquisards ci hanno liberati e verremo presto a liberare anche voi”.
Senza né armi né documenti, in territorio controllato dalle truppe tedesche, il gruppo si nascose nella foresta di Saint Sauvant. Informati da spie della polizia francese, i tedeschi, il 27 giugno 1944, circondarono la zona. Iniziò una caccia all’uomo. Una ventina riuscirono a fuggire, gli altri vennero catturati, tra cui Jacques allora diciottenne, e trucidati.
A Vaugeton, il paese più vicino alla foresta, c’è un monumento costruito dopo la guerra in memoria dei giovani caduti. Sul memoriale si legge il nome di Jaques e dei trenta compagni “gloriosi soldati senza uniforme caduti per la Francia e per la liberta“ uccisi nel “massacro di Saint Sauvent”.
immagine da Antonio BECHELLONI - Bulletin N°28 – Les trois Fontanot - Société d’Histoire de Nanterre 27 juin 2002
«La lotta dei Tre Fontanot e, dietro di loro e con loro, della loro famiglia, è emblematica di uno dei momenti più alti della Resistenza straniera, e principalmente italiana, in Francia».
I francesi hanno saputo onorare la memoria dei Tre Fontanot, morti per la liberazione della loro terra, dedicando loro libri, monumenti, manifesti, e intitolando loro vie e piazze a Nanterre e a Parigi.
Breve presentazione del libro: les Trois Fontanot: Nerone, Spartaco et Jacques, nanterriens, fils d’immigrés italiens, morts pour la France
Chant des Partisans
La chanson commence par des bruits et
des voix de soldats allemands qui marchent
sur Paris.
Ami, entends-tu le vol noir des corbeaux sur nos plaines?
Ami, entends-tu les cris sourds du pays qu'on enchaîne?
Ohé, partisans, ouvriers et paysans, c'est l'alarme.
Ce soir l'ennemi connaîtra le prix du sang et les larmes.
Montez de la mine, descendez des collines, camarades!
Sortez de la paille les fusils, la mitraille, les grenades.
Ohé, les tueurs, à la balle et au couteau, tuez vite!
Ohé, saboteur, attention à ton fardeau: dynamite...
C'est nous qui brisons les barreaux des prisons pour nos frères.
La haine à nos trousses et la faim qui nous pousse la misère.
Il y a des pays où les gens au creux de lits font des rêves.
Ici, nous, vois-tu, nous on marche et nous on tue, nous on crève.
Ici chacun sait ce qu'il veut, ce qui'il fait quand il passe.
Ami, si tu tombes un ami sort de l'ombre à ta place.
Demain du sang noir sèchera au grand soleil sur les routes.
Chantez, compagnons, dans la nuit la Liberté nous écoute.
Ami, entends-tu ces cris sourds du pays qu'on enchaîne?
Ami, entends-tu le vol noir des corbeaux sur nos plaines?
Oh oh oh oh oh oh oh oh oh oh oh oh oh oh oh oh...
Bibliografia
AA. VV - L' Italia In Esilio. L' Emigrazione Italiana in Francia tra le due guerre - Archivio Centrale dello Stato Gennaio 1984
Nerina Fontanot - Anna Digianantonio - Marco Puppin - Contro il Fascismo oltre ogni frontiera - ed. KV 2015
Pia Leonetti Carena - Les Italiens du maquis – Ed. del Duca Paris 1948
Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea
Giulia Dovi – La forza e la resistenza delle mie radici – Tesi di Maturità 2017-2018
AA.VV. Le Mont-Valérien : Résistance, Répression et Mémoire - Ed. Gourcuff Gradenigo -2010
Antonio BECHELLONI - Bulletin N°28 – Les trois Fontanot - Société d’Histoire de Nanterre 27 juin 2002
Un ciclo di conferenze per il 75° anniversario della Liberazione
In occasione del 75° anniversario della Liberazione dell'Italia dal nazifascismo,
l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia Sezione Germania
ha proposto un
CICLO DI CONFERENZE ONLINE SUL TEMA
LA RESISTENZA TRA ITALIA E GERMANIA
Studenti, insegnanti, cittadini comuni hanno potuto seguire online dall'Italia, le conferenze tenute dagli storici Alberto Cavaglion, Francesco Corniani, Aldo Agosti, Eric Gobetti e Thomas Schlemmer. Sono stati trattati anche aspetti poco noti della Resistenza italiana al nazifascismo. Data la grande partecipazione e visto l'interesse suscitato, le conferenze sono state messe in rete.
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LA RESISTENZA NELLA STORIA ITALIANA
L’8 settembre 1943, data dell’armistizio con i paesi alleati, agli italiani si presentarono scelte difficili. Una minoranza cospicua si decise per la resistenza attiva, inclusa la lotta armata, all’occupazione tedesca fiancheggiata dai fascisti della Repubblica di Salò. Il significato di quella scelta nel quadro della storia d’Italia.
Alberto Cavaglion, professore dell’Università di Firenze
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DISERTORI DELL’ESERCITO TEDESCO NELLA RESISTENZA ITALIANA
Si esplora un fenomeno poco noto della guerra di liberazione in Italia nel 1943-1945, quello dei disertori dell’esercito d’occupazione tedesco che si unirono alla Resistenza italiana. Mettere a fuoco questo tema consente di riflettere su aspetti di scontro ideologico e di dimensione internazionalista che hanno anche caratterizzato la guerra di liberazione italiana.
Francesco Corniani, ricercatore dell’Università di Colonia
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LA LIBERAZIONE DI TORINO
Episodio cruciale della lotta di Liberazione, allo stesso tempo esito finale della Resistenza armata e viatico per la ricostruzione democratica dello Stato. Con il ricordo del ruolo di Giorgio Agosti, uno dei protagonisti dell’evento, organizzatore delle formazioni partigiane Giustizia e Libertà in Piemonte e primo questore della città liberata.
Aldo Agosti, professore emerito dell’Università di Torino
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LA RESISTENZA ITALIANA NEI BALCANI
Nei Balcani, durante la Seconda guerra mondiale, gli italiani insieme ai tedeschi sono stati per lo più aggressori e occupanti dei paesi della regione. Nell’ultima fase della guerra, però, decine di migliaia di italiani partecipano alla Resistenza di questi paesi, portando un contributo significativo alla liberazione dall’occupazione nazista.
Eric Gobetti, storico e pubblicista
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LA GERMANIA E LA RESISTENZA ITALIANA
A lungo quasi dimenticata o rimossa – e influenzata dalle esperienze dei contemporanei: solo un cambio generazionale negli anni Novanta ha reso possibile in Germania un nuovo sguardo sulla Resistenza come pure sulla conduzione da parte tedesca della guerra in Italia.
Thomas Schlemmer, ricercatore dell’Istituto per la Storia Contemporanea di Monaco-Berlino, Docente della Ludwig-Maximilians-Universität, Monaco
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Ringraziamo gli amici dell'ANPI di Francoforte e di Colonia per l'organizzazione di questa iniziativa, per la scelta degli argomenti da trattare e per la competenza degli storici che vi hanno partecipato, oltre naturalmente alla possibilità di usufruirne anche in rete.
Renato Pellizzoni
La storia di Vittoria, figlia minore di Pietro Nenni
Era soprannominata Vivà .
Nata ad Ancona il 3 ottobre 1915, sposò giovanissima il cittadino francese Henry Daubeuf. Col marito, dopo l'invasione tedesca della Francia, Vittoria entrò nella Resistenza. Arrestati dalla Gestapo, con l'accusa di aver stampato e diffuso manifestini antinazisti e di avere svolto, soprattutto negli ambienti universitari, "propaganda gollista antifrancese", Henry venne fucilato, l'11 agosto 1942, al Mont Valerien, nelle vicinanze di Parigi e Vittoria fu deportata nel campo di sterminio di Auschwitz dove morì.
Per commemorare la memoria di quest'ultima, il PSI le dedicò l'immagine (di Renato Guttuso) nella tessera del partito nel 1988.
Della figlia Vittoria, Pietro Nenni ne parla in diverse pagine dei suoi diari:
«Il ben augurale nome non ha portato fortuna».
9 aprile 1944
«Pasqua! La passo coi miei. L'anno scorso ero a Regina Coeli, nel 1942 ero solo soletto al confino di Pierrefort. Ma sono oggi, più che allora, oppresso di tristezza. Mi rattrista il pensiero della mia Vivà, che passa nel campo di concentramento di Auschwitz la sua seconda Pasqua di internata ...»
16 aprile 1944
«Ho buone notizie di Vivà».
7 maggio 1945
«Stasera è giunta da Parigi una lettera disperata di Vany che corre alla ricerca di notizie di sua sorella e si urta al muro di silenzio. Risulterebbe che Vivà non era più dal marzo a Ravensbruk ma al campo di sterminio di Mauthausen. Una notizia captata a « Radio Parigi» smentisce la voce che mia figlia sia morta e afferma che non si hanno di lei notizie. Attendiamo. Ma ho il cuore gonfio di malinconia».
29 maggio 1945
«Una giornata angosciosa. Tornato in ufficio .... informato che c'è una lettera di Saragat a De Gasperi che conferma la notizia della morte di Vittoria.
Ho cercato di dominare il mio schianto e di mettermi in contatto con De Gasperi che però era al Consiglio dei ministri. La conferma mi è venuta nel pomeriggio, da De Gasperi in persona, che mi ha consegnato la lettera di Saragat. La lettera non lascia dubbi. La mia Vivà sarebbe morta un anno fa nel giugno. Mi ero proposto di non dire niente a casa, ma è bastato che Carmen (ndr moglie di Nenni) guardasse in volto per capire ...
Poveri noi! Tutto mi pare ora senza senso e senza scopo.
I giornali sono unanimi nel rendere omaggio alla mia figliola. Da ogni parte affluiscono lettere e telegrammi. La parola che mi va più diretta al cuore è quella di Benedetto Croce: “Mi consenta di unirmi anch'io a Lei in questo momento altamente doloroso che Ella sorpasserà ma come solamente si sorpassano le tragedie della nostra vita: col chiuderle nel cuore e accettarle perpetue compagne, parti inseparabili della nostra anima”.
Povera la mia Vittoria! Possa tu, che fosti tanto buona e tanto infelice, essere la mia guida nel bene che vorrei poter fare in nome tuo e in tuo onore».
Parigi, 11 agosto 1945
«A Parigi sono ospite di Saragat all'ambasciata.
Nel pomeriggio ho ricevuto all'ambasciata Charlotte Delbo Dudach, la compagna di Vivà. L'altra compagna di Vivà che pure è rientrata, Christiane Charma, non è a Parigi. Il racconto di Charlotte è straziante. Vivà è arrivata ad Auschwitz il 27 gennaio 1943. Il suo gruppo era composto di duecentotrenta francesi; due mesi dopo era ridotto a quarantanove. Il viaggio era stato duro ma esse erano lungi dall'immaginare che cosa le attendeva ad Auschwitz. Quando sono entrate nel campo cintato da reticolati a corrente elettrica esse hanno avuto l'impressione fisica di entrare in una tomba. “Non usciremo più”, ha detto Vivà. Ma poi è stata fra quelle che hanno ripreso coraggio. Sono state spogliate di tutto, vestiti, biancheria, oggetti preziosi, indumenti intimi e rivestite di sudici stracci a righe carichi di pidocchi. La loro esistenza si è subito rivelata bestiale.
Sveglia alle tre e mezzo, appello alle cinque, lavoro dall'alba al tramonto in mezzo al fango delle paludi. Un vitto immondo e nauseabondo. Non acqua. Neppure un sudicio pagliericcio, ma banchi di cemento e una lurida coperta. Vivà ha reagito con ogni forza all'avvilimento fisico e, morale. Era fra le più intrepide e coraggiose. Sul braccio destro le deportate portavano il loro numero. Vivà aveva il n. 31635. Il gruppo delle francesi costituiva una forte unità morale. ... Prima di lasciare Romainville, Vivà aveva saputo della fucilazione di Henry (ndr Henry Daubeuf, marito di Vittoria). Anche il marito di Charlotte era stato fucilato ... Charlotte è stata ammalata di tifo prima di Vivà e dice di dovere la vita alle cure assidue di mia figlia. A sua volta ha assistito Vivà come una sorella. Il tifo si è dichiarato l'11 aprile. Qualche giorno dopo il gruppo di Vivà è stato assegnato a un lavoro all’interno. Era forse la salvezza. Purtroppo la mia povera figliola non si è più completamente riavuta. Essa ha lottato con energia contro il male. Ma è sopravvenuta una complicazione forse nefritica. Una piaga si è aperta al ginocchio e ha dovuto allora rassegnarsi ad andare all’infermeria, il “revir” che era quasi sempre l’anticamera della stanza dei gas. La forte costituzione di Vivà è sembrato trionfasse del male; Ma migliorate le piaghe alle gambe, un ascesso si è dichiarato sopra l’occhio destro. In breve il corpo, che non era scarno come quello della maggioranza delle deportate, fu tutto una piaga.
Charlotte vedeva Vivà di nascosto e le portava un po’ d’acqua, una pezzuola bagnata da mettere sulla fronte. L’ultima volta che vide Vivà fu l’8 luglio. Delirava a tratti. Parlava di pranzi, di “crévettes alla crema” che gli passava la cucina, di sua sorella Vany che stava per arrivare ... Seppe dello sbarco in Sicilia e se ne rallegrò per suo padre ... è morta il 15 luglio pregando una compagna di giaciglio di far sapere a suo padre che era stata coraggiosa fino alla fine e che non rimpiangeva nulla... .
Vivà parlava sempre di me. Prima di partire per Romainville il comandante del Forte le disse che rivendicando la sua nazionalità italiana avrebbe evitato la deportazione. Rispose “que son père aurait eu honte d'elle”. In verità ella si era legata al gruppo delle sue compagne e romanticamente stimava di doverne seguire la sorte.
Charlotte mi dice che il 9 febbraio 1943 lo passarono davanti al Blok 25 che era quello delle punizioni, una specie di ammazzatoio. Tutto il giorno nel freddo, nella pioggia, nel fango stettero in piedi. Videro una donna, una deportata come loro, presa alla gola dai cani. Vivà parlò di me e del mio compleanno. Io ero quel giorno a Vichy nella sede delle SS in stato di arresto e disperatamente pensavo a Vivà. La sera fui portato alla prigione di Moulins, una reggia nei confronti di Auschwitz ... Sono come ossessionato dalle cose apprese ieri. Non riesco a pensare ad altro ... Alcuni dettagli del racconto di Charlotte saranno l'incubo della mia vita ...
Povera la mia figliola!».
2 novembre 1945
«Mi è sembrato che chi può fiorire una tomba conserva un'apparenza almeno di legame coi suoi morti. Non così per me che penso disperatamente alla mia Vittoria e non ho neppure una tomba dove volgere i miei passi. Il 31 era l'anniversario della mia figliola. Avrebbe avuto trent'anni e tutta una esistenza ancora davanti a sé ... quanto sarebbe stato meglio davvero che io, in vece sua, non fossi giunto al traguardo».
Ad Auschwitz, Vittoria Nenni che non aveva una formazione ideologica, si unì al gruppo dei comunisti francesi. Le comuniste erano sorprese della sua forza di carattere, del suo coraggio, dell’ottimismo che non l’abbandonò mai, fino in punto di morte.
La Resistenza in Europa: la Polonia
La Resistenza polacca è stata la prima, in ordine di tempo, in Europa. Nessuna popolazione è stata così compatta nella resistenza all’oppressione come quella polacca.
Nessuna parte dell’Europa ha dovuto sopportare così duramente l’occupazione tedesca come la Polonia. La Polonia è stata il solo paese, totalmente posto sotto il giogo nazista, a non avere avuto il suo Quisling.
Nel mese di settembre 1939, nel giro di qualche giorno l’esercito polacco è stato schiacciato nella morsa tra la Wehrmacht e le truppe russe.
Il paese è stato inesorabilmente diviso tra i vincitori. I polacchi diventano l’oggetto di molteplici vessazioni. Non hanno più diritto di possedere niente, né di ricevere un’istruzione che vada oltre la scuola primaria. Per circolare in bicicletta, necessitano di un «Ausweiss», un lasciapassare.
Le élite polacche poco a poco si trovano escluse, depredate; i preti arrestati, e tutti quelli che contano nel paese, vengono considerati come un magma di nemici irriducibili.
Questa politica di distruzione sistematica operata dai nazisti si tinge anche di antisemitismo. Fedele al principio del Mein Kampf, Hitler inizia, nel 1939, l’«arianizzazione» del paese. Gli ebrei non possono più esercitare professioni liberali, essere dipendenti pubblici; vengono sottoposti a censimento, schedati, costretti a portare, per i maggiori di dodici anni, un bracciale di stoffa con la stella di Davide.
Tutto il paese passa alla clandestinità. Lo Stato, con tutti i suoi ingranaggi, passa ad una vita sotterranea e l’occupante trova il vuoto. Subito, il Parlamento, i tribunali, la sanità pubblica, l’istruzione, la stampa, il teatro, la vita letteraria, la vita sociale, spariscono ma per continuare la loro attività “underground”. Niente governo di circostanza, non un ministero di collaborazione, ma semplicemente un governo legale in esilio on a capo il generale Sikorski.
Sikorski si stabilisce dapprima in Francia. Nel 1939 e 1940, ottantamila polacchi combattono al fianco degli Alleati. Due divisioni si trovano sulla linea Maginot, una terza riesce a passare in Svizzera. Altre due, dopo il disastro, riescono a raggiungere l’Inghilterra, dove si uniranno alla brigata Narvik (la battaglia terrestre di Narvik venne combattuta tra il 9 aprile e l'8 giugno 1940 nei dintorni della città norvegese di Narvik). Diversi polacchi che risiedono in Francia costituiscono un’importante rete di servizi segreti.
Il governo Sikorski, per tutta la durata della guerra, si mantiene in contatto con i movimenti clandestini - movimenti clandestini che si trovano nelle due zone di occupazione, la tedesca e la russa – e queste manifestano nei suoi confronti una grande disciplina.
A più riprese alcuni ministri abbandonano il loro rifugio di Londra per tornare in Polonia, dove esiste una delegazione permanente del governo. A Londra si forma un esercito polacco libero che si mette in mostra su diversi teatri di guerra. E, dal 1940, viene organizzata una struttura per consentire ai giovani polacchi di raggiungere la Francia, poi l’Inghilterra. L’esercito polacco clandestino avrà tanti titoli di gloria come quelli di chi combatte in uniforme.
I primi movimenti clandestini si formano nell’inverno del 1939. Portano dei nomi simbolici: «I Vendicatori», «Il Giudizio di Dio», «La mano insanguinata». Queste organizzazioni si fondono, alla fine del 1940, per diventare l’«Associazione per la lotta armata», che diventerà l’«Armata dell’Interno» o l’«Armata del paese», meglio conosciuta con le iniziali A.K.
L’ A.K. non è una formazione perfettamente strutturata, mancando di un inquadramento completo a tutti i livelli.
I polacchi, è anche vero, non hanno bisogno di imparare a vivere in clandestinità. Sono abituati. Certi anziani si ricordano ancora di quegli anni di inizio secolo in cui hanno dovuto far fronte all’Okhrana zarista, così pericolosa ed altrettanto crudele quanto la Gestapo. Come i veterani del P.P.S. (Partito Socialista Polacco) del 1905, come tutti coloro che hanno combattuto, nel 1918, al fianco del generale von Beseler i partigiani, durante gli anni della clandestinità, adottano dei nomi fittizi del tipo «Stanislao» o «Lo Scoiattolo».
Anche se il sostegno all’organizzazione clandestina da parte del governo polacco a Londra è incondizionato, i rapporti sono difficili. Benché vengano effettuate alcune trasmissioni radio dalla Francia e poi da Londra, la ricezione della BBC a Cracovia, Lvov, Varsavia e in quasi tutta la Polonia, è molto difficoltosa. I tedeschi, inoltre, hanno requisito la maggior parte delle radio riceventi. Nella zona di Varsavia una stazione trasmittente clandestina riesce a trasmettere. Dato lo scarso numero di ricevitori radio esistenti in Polonia, la radio non ha avuto quel ruolo che, ad esempio, che ha assunto in Francia. Nonostante tutto, queste trasmissioni hanno una loro utilità: i testi trasmessi vengono trascritti su dei bollettini che vengono poi distribuiti alla popolazione.
Nel 1941, presso lo Stato maggiore polacco a Londra, viene creato un ufficio che, con la sezione polacca del S.O.E. (Secret Operations Executive), è incaricato di guidare la Resistenza e di rifornirla di armi. Ma, sfortunatamente, la distanza che separa il Governo in Inghilterra e il corto raggio d’azione degli aerei dell’epoca rendono difficile e pericolose tutte le missioni. Nei due primi anni di occupazione, centoquattro operazioni sono richieste dalla resistenza, ma dodici solamente sono tentate e solo nove riescono. Una cinquantina di agenti e due tonnellate di materiale sono così paracadutati. La situazione migliora con l’uso di nuovi aerei, Lancaster e Liberator, e soprattutto quando gli aerei possono partire dalle basi poste in Italia.
Al loro arrivo, i tedeschi trasformano le scuole in caserme e ne proibiscono l’apertura di nuove. Uno degli scopi dei nazisti è limitare il livello di istruzione dei polacchi a bassi livelli.
Centinaia di insegnanti e di scienziati vengono arrestati ed inviati nei campi di concentramento. Gli occupanti distruggono le biblioteche, saccheggiano le librerie, chiudono le università. Viene allora creato tutto un sistema di istruzione superiore clandestino, un insegnamento perfettamente organizzato che distribuisce diplomi regolari. Le lezioni continuano in piccoli gruppi, nei luoghi più diversi e raramente due volte nello stesso posto. Gli studenti polacchi, che si stima fossero circa duemilacinquecento, utilizzano granai, depositi di attrezzi, giardini come aule. A Varsavia funziona una università clandestina. Altre sono a Cracovia, a Poznan, dove si studia di tutto tranne il tedesco. Queste università hanno pubblicato clandestinamente più di duecentocinquanta opere o tesi, che hanno contribuito a preservare il capitale culturale e artistico del paese.
La coccinella polacca
Una preghiera dei bambini polacchi apporsa sulla stampa clandestina.
Migliaia di bimbi nella Polonia occupata leggono un giornalino stampato alla macchia, in una cantina, appositamente per loro, Esso viene pubblicato in odio ai tedeschi, i quali, nella loro ossessione di estirpare lo cultura polacca dalle radici, hanno bruciato tutti i libri per l'infanzia in cui era nominata la Polonia.
Questo giomale clandestino si chiama Btedronka, ossia Coccinella. (...) Ne abbiamo sott'occhio un esemplare (...), il primo scritto è una preghiera, che dice: «Figlio di una terra martoriata, ti prego, Signore, di farmi sempre coraggioso. Dammi il coraggio di un uomo vero, e fa' che il mio cuore batta così forte per la Polonia da vincere ogni cosa. Fa' che il mio cuore sia pieno d'un amore di figlio, e d'una fedeltà di soldato. Proteggi la mia casa. Riparala dalla disfatta e dal lutto. E proteggi tutti coloro che lottano per la Polonia in mare, in terra e nell'aria». (...) (dal Daily Mail)
Un altro mezzo che ha contribuito al paese di resistere è la stampa clandestina. Le tipografie non mancano e più di milletrecento periodici clandestini - senza contare quelli che vengono distribuiti durante l’insurrezione di Varsavia - compaiono quasi regolarmente durante i quattro anni di occupazione. Queste pubblicazioni, curate interamente dall’A.K. e dal dalle delegazione del Governo di Varsavia, riflettono tutte le opinioni e trattano gli argomenti più disparati tra cui la teologia, l’agricoltura: su alcuni giornali vengono pubblicate anche delle poesie.
La Resistenza, o meglio l’amministrazione clandestina, organizza un certo numero di attività e si preoccupa di dare alla popolazione un’assistenza economica e sociale e di procurarle una relativa sicurezza. È alla Resistenza che incombe, in parte, assicurare il rifornimento delle grandi città, il controllo dei prezzi, procurare i medicinali ai medici. È la Resistenza che si dà anche una funzione moralizzatrice. Fa chiudere, in alcuni casi anche con la forza, i caffè malfamati, le bische clandestine, i cinema pornografici, attività più o meno incoraggiate dagli occupanti. Tutto è buono per distogliere i polacchi dal loro obiettivo essenziale: la liberazione del paese.
In Polonia, contrariamente a quanto accaduto ad esempio in Italia e in Francia, la politica di collaborazione con i tedeschi occupanti è stata un fiasco completo. Se alcuni polacchi sensibili alla propaganda pangermanica possono essere tentati, per un momento, a lanciarsi in un’esperienza analoga a quella di Vichy, devono ben presto rinunciare davanti alle esigenze di Hitler. In effetti, i tedeschi non hanno mai cercato di accordarsi con qualcuno: hanno piuttosto reclutato dei poliziotti ausiliari e incoraggiato degli individui di dubbia moralità che, per le loro attività, potevano contribuire a depravare il popolo polacco.
Due sono le attività in cui, in un primo tempo, si impegna la Resistenza polacca: la battaglia dei treni (interruzioni di linee ferroviarie, di ponti, distruzione di locomotive, incendi) e la raccolta di informazioni segrete.
La rete dei servizi segreti viene rinforzata da agenti alleati paracadutati. Il colpo più sensazionale realizzato degli uomini dell’A.K. fu la scoperta dei segreti delle basi delle V1 e delle V2, che erano destinate a colpire l’Inghilterra.
Fu così che la base di Peenemünde fu bombardata e annientata.
L’Armata dell’Interno si impegnò anche in veri e propri combattimenti contro i nazisti, oltre ad effettuare attentati contro le forze di occupazione.
I partigiani dell’A.K. nell’insurrezione di Varsavia
Il 1° agosto 1944 inizia l’insurrezione di Varsavia. I partigiani dell’A.K., che portano al braccio dei fazzoletti bianchi e rossi, i colori della Polonia, si battono come diavoli. Incurante del pericolo la popolazione scende per le strade. Si vedono dei ragazzi attaccare dei carri armati con in pugno delle pistole. La risposta è violenta e brutale. Le mitragliatrici crepitano e tirano sulla folla. Solamente un uomo su tre dell’A.K. è armato. Allora vengono preparate bottiglie molotov e si recuperano le grante dei caduti. Verso la fine di agosto la situazione, a poco a poco, diventa drammatica sia per i partigiani dell’A.K. che per gli abitanti di Varsavia. La città manca di tutto e anche l’acqua e l’elettricità cominciano a scarseggiare.
I russi che sono alle porte della città non intervengono in aiuto degli insorti. Solamente l’11 settembre alcuni apparecchi russi sorvolano la città e lanciano dei rifornimenti. Lo stesso giorno, Stalin che fino ad allora si era opposto, accorda la sua autorizzazione ai grossi aerei da trasporto degli Alleati di atterrare in Unione Sovietica, dopo aver paracadutato i loro conteiner di armi e viveri sulla città.
Dopo sei settimane di combattimenti che Varsavia ha condotto da sola, la Russia decide di accordarle il suo aiuto. Le armate sovietiche occuperanno, il 14 settemre, la periferia di Praga (quartiere di Varsavia) situata sulla riva destra della Vistola. L’artiglieria e l’aviazione sovietica cominceranno ad aiutare gli insorti. Gli aerei russi lanciano armi e viveri. L’aiuto sovietico si rivela tardivo ed insufficente e non ha alcuna influenza decisiva sull’ulteriore corso degli avvenimenti. L’insurrezione soccombe. La situazione a Varsavia precipita. Nella città regna la fame, i morti sono abbandonati per le strade, dappertutto vi sono rovine fumanti.
La popolazione è allo stremo dopo due mesi di combattimenti.
Varsavia cade dopo 63 giorni di lotta eroica contro un nemico che ha una superiorità schiacciante.
Distrutta per l’11% nel 1939, al 25% durante l’insurrezione del ghetto, al 25% nell’insurrezione di agosto, Varsavia, di cui non restano che delle rovine, sarà rasa al suolo dai tedeschi.
«Varsavia non è che la definizione geografica di un punto preciso sulla carta geografica. La città non esiste più ...» affermava in quei giorni Adolf Hitler.
Duecentomila polacchi sono morti. Migliaia si trovano deportati, una capitale ridotta a niente. Il solo risultato positivo dell’insurrezione di Varsavia, in quella terribile estate del 1944, è stato quello di immobilizzare un grosso contingente di forze tedesche, che hanno avuto 17.000 morti e 9.000 feriti. I tedeschi hanno perso importanti depositi di materiale, che sono stati occupati dagli insorti o incendiati. Hanno, inoltre perso tutte le officine di riparazione e i loro posti di approvvigionamento, che non sono stati rimpiazzati. Al fronte i soldati tedeschi si sentivano minacciati da questa insurrezione che era scoppiata dietro le loro linee. Questi risultati, benché non trascurabili, non reggono il confronto con quello che è stato il martirio di Varsavia.
Gli insorti erano all’oscuro degli accordi interalleati di Teheran, dove “i tre grandi” avevano diviso il mondo in zone di influenza.
Apparentemente, Stalin ha deliberatamente sacrificato la popolazione polacca, così come Roosevelt. Più vicino al dramma polacco, Churchill l’ha meglio compreso, ma non ha potuto né voluto andare fino in fondo.
Per tre mesi Varsavia rimane terra bruciata, senza più vita. La grande offensiva russa ha inizio il 13 gennaio 1945. Senza incontrare una vera resistenza, l’Armata rossa occupa Kiece il 15 gennaio, Varsavia e Czestochowa il 17 gennaio. Pian piano tutte le altre città vengono via via occupate. Entro la fine di gennaio, quasi tutta la Polonia, come nel 1939, è occupata dai sovietici. La Russia impone la sua autorità politica. Il Comitato di Lublino si trasforma in governo che viene presto riconosciuto da Mosca. Da Lublino, il 18 gennaio 1945, si trasferisce a Varsavia.
Il generale Anders (organizzatore del II Corpo d'Armata polacco che operò ai suoi ordini in Medio Oriente e in Italia, segnalandosi nella battaglia di Montecassino e nella battaglia di Ancona; morto a Londra il 12 maggio 1970, è seppellito, secondo la sua volontà, nel cimitero militare polacco di Montecassino, a fianco dei suoi compagni caduti in battaglia) scrisse:
«La nazione polacca, passando direttamente dall’occupazione tedesca a quella sovietica, non si è potuta opporre. Forse i nostri alleati occidentali, Inghilterra e Stati Uniti non potevano permettersi di ostacolare la Russia? Ma la Polonia sperava, almeno, che le potenze occidentali non riconoscessero questo dato di fatto creato dalla Russia sulle terre polacche.»
Bibliografia:
Eric de Goutel – Histoire secrète des maquis étrangers – Editions de Crémille, Genève
Indignatevi!
Dal libro Indignez vous! di Stéphane Hessel
Il motivo base della Resistenza era l’indignazione. Noi, veterani dei movimenti di resistenza e delle forze combattenti della France libre, noi ci appelliamo alle giovani generazioni perché facciano vivere, trasmettano l’eredità della Resistenza e dei suoi ideali. Noi diciamo loro: dateci il cambio, indignatevi. I responsabili della politica, dell’economia, gli intellettuali e l’insieme della società non devono scoraggiarsi, non devono lasciarsi impressionare dall’attuale dittatura internazionale dei mercati finanziari che minacciano la pace e la democrazia.
...
Le basi delle conquiste sociali della Resistenza sono oggi messe nuovamente in discussione.
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Ma come può oggi mancare il denaro per mantenere e prolungare queste conquiste quando la produzione della ricchezze è considerevolmente aumentata dopo la Liberazione, periodo nel quale l’Europa è stata distrutta? Se non perché il potere del denaro così combattuto dalla Resistenza, non è mai stato tanto grande, insolente, egoista, con i suoi servitori fino alle più alte sfere dello Stato. Le banche ormai privatizzate si mostrano dapprima preoccupate dei loro dividendi e degli alti stipendi dei loro dirigenti, niente per l’interesse generale. Le differenza tra i più poveri e i più ricchi non è mai stata così grande e la corsa al denaro, alla competizione altrettanto incoraggiate.
...
L’indifferenza è il peggior atteggiamento.
È vero, le ragioni per indignarsi possono apparire meno nette oggi in un mondo troppo complesso. Chi comanda, chi decide. Non è facile distinguere tutte le correnti che ci governano ... Viviamo in una interconnettività che non è mai esistita. Ma nel mondo ci sono delle cose insopportabili. Per vederle, occorre ben osservare, cercare. Il peggiore degli atteggiamenti è l’indifferenza, dire «non posso farci niente» ... Comportandovi così, perdete una delle componenti essenziali dell’essere umano. Una delle componenti indispensabili: la facoltà di indignarsi e l’impegno che ne è la conseguenza.
Si possono già identificare due grandi nuove sfide:
1) La grandissima differenza che esiste tra i molto poveri e i molto ricchi e che non cessa di ridursi. È una delle novità del XX e del XXI secolo. Coloro che sono molto poveri, oggi guadagnano appena due dollari al giorno. Non si può lasciar crescere ancora questa differenza. Solo questa constatazione deve suscitare un impegno.
2) I diritti dell’uomo e lo stato del pianeta ...
Auguro a tutti, a ciascuno di voi, di avere il vostro motivo di indignazione. È prezioso. Quando qualcosa vi indigna, come io ero indignato per il nazismo, allora si diventa militanti, forti ed impegnati. Ci si unisce a questa corrente della storia e la grande corrente della storia deve proseguire con il contributo di ciascuno. E questa corrente va verso più giustizia, più libertà ...
Questi diritti, sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 1948 a Parigi.
Cito l’articolo 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: «ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza»; l’articolo 22: « Ogni individuo in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale nonchè alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l'organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità. ...
Ai giovani dico: guardatevi intorno, troverete gli argomenti che giustificano la vostra indignazione - il trattamento riservato agli immigrati, ai clandestini, ai Rom.
Troverete delle situazioni concrete che vi porteranno ad iniziare un‘azione forte ... Cercate e le troverete! ...
Stéphane Hessel
Ha 93 anni. È nato a Berlino nel 1917, da padre ebreo scrittore, traduttore, Franz Hessel, e da madre pittrice, appassionata di lirica, Helen Grund, anche lei scrittrice. I suoi genitori si stabiliscono a Parigi, nel 1924, con i due figli, Ulrich, il maggiore, e Stéphane.
Stéphane frequenta la Scuola Normale, ma la guerra interrompe i suoi studi. Naturalizzato francese nel 1937, e mobilitato allo scoppio della seconda guerra mondiale. Nel maggio 1941, raggiunge la France libre del Generale De Gaulle, a Londra. Lavora nell’Ufficio del controspionaggio. A fine marzo 1944, sbarca clandestinamente in Francia incaricato di una missione in vista dello sbarco alleato. Il 10 luglio 1944 viene arrestato a Parigi dalla Gestapo ed inviato a Buchenwald, l’8 agosto 1944, pochi giorni prima della liberazione di Parigi.
Il giorno prima di essere impiccato, riesce a cambiare la sua identità con quella di un francese moro di tifo nel campo di concentramento. Con il nuovo nome viene trasferito nel campo di Rottleberode, vicino ad una fabbrica dove atterrano i bombardieri tedeschi, gli Junker 52, ma fortunatamente viene impiegato come contabile. Evade. Ripreso viene internato a Dora dove si fabbricano le V-1 e le V-2, questi missili con i quali i nazisti sperano ancora di vincere la guerra. Affidato alla compagnia disciplinare, fugge nuovamente quando ormai le truppe alleate si avvicinano al lager di Dora. Infine ritrova a Parigi la moglie Vitia, madre dei suoi tre figli, due maschi e una femmina.
Il libro di Stéphane Hessel è stato tradotto anche in italiano
3 ottobre 1944: la caduta di Varsavia
Un’insurrezione per lungo tempo cancellata dalla memoria collettiva occidentale.
Il 1° agosto 1944, Varsavia si solleva, quando l’armata sovietica è a qualche kilometro. Ma Stalin decide di non intervenire. Dopo 63 giorni di resistenza e 200.000 morti, gli insorti si arrendono ai tedeschi, che vogliono radere al suolo l’intera città.
Varsavia: il muro del ghetto
Luglio 1944. Gli Alleati occidentali stanno avanzando in Francia. Sul fronte orientale, i Sovietici avanzano a tutta velocità. Il gruppo di armate comandate dal generale Rokossovsky, è entrato in territorio polacco. Per l’esito della guerra non ci sono più dubbi. Ma la sorte della Polonia? Il paese sta subendo da cinque anni un’occupazione féroce, una politica di annientamento delle elites. In segreto, ubbidendo agli ordini del governo in esilio a Londra, la principale organizzazione di resistenza in Europa, l’Armata dell’Interno (AK),tenta di contrastare il saccheggio dell’occupante e di preparare la liberazione : di evitare che questa si trasformi in una nuova occupazione.
Nessuno ha dimenticato gli anni del patto russo-tedesco, la celebrazione comune, dei nazisti e dei sovietici nel 1939, della divisione della Polonia: la deportazione, verso la Siberia o l’Asia centrale di 1.800.000 polacchi (di cui la metà sono morti).
Le intenzioni di Stalin sono cambiate? È ormai l’alleato degli Occidentali e dunque, in teoria, dei Polacchi, presenti su tutti i fronti. Ha fatto uccidere, nel 1940, 25.000 ufficiali polacchi con un colpo alla nuca; gli Occidentali sembrarono credergli quando attribuì questi crimini ai nazisti. Ma poi ha autorizzato un’armata di 100.000 uomini, reclutati tra gli scampati dei campi di concentramento, alcuni più morti che vivi, a lasciare l’URSS per combattere sul fronte occidentale.
Il governo polacco in esilio a Londra e i capi della resistenza non sapevano che Roosevelt e Churchill hanno concesso segretamente al dittatore, nella conferenza di Teheran (28 novembre - 1 dicembre 1943), la parte orientale del paese. Ma sanno che, nei territori rioccupati dall’Armata Rossa, i responsabili dell’AK sono arrestati dall’NKVD (la polizia politica sovietica), uccisi o deportati.
Che fare? Viene presa la decisione di passare all’attacco all’avvicinarsi del fronte, di offrire una collaborazione alle unità sovietiche, e di affermare la presenza della Polonia «legittima» al momento della liberazione. Quello che fecero i Francesi a Parigi, con una differenza essenziale: gli Americani non hanno gli obiettivi e i metodi dei Sovietici.
La sfida essenziale, evidentemente, è Varsavia. Le armate di Rokossovsky si avvicinano ai quartieri orientali. Radio Mosca lancia degli appelli all’insurrezione: «Per Varsavia l’ora dell’azione è arrivata». Ancora più esplicite le autorità provvisorie sostenute dai Sovietici, che si trovano a Lublino (150 Km a sud est della capitale) lanciano una «chiamata alle armi». Il pericolo, pertanto, è evidente; il generale capo delle armate polacche, in visita sul fronte italiano, giudica al contrario «imperativo di preservare l’etnia polacca, di fronte a una doppia minaccia di sterminio». Ma il suo avvertimento è ignorato. Una compagnia di carri armati T34 sovietici è stata vista nei sobborghi di Praga, proprio di fronte a Varsavia. L’ora attesa da molti anni, sperata da decine di migliaia di giovani arruolati nella resistenza, è arrivata.
Obiettivo: resistere per una settimana.
partigiani polacchi in azione
Il comandante locale dell’AK ordina di lanciare l’insurrezione il primo agosto alle ore 17. Più di 40.000 tra uomini e donne, spesso giovani che hanno da poco superato l’età adolescenziale, rispondono all’appello e attaccano con un armamento di fortuna le unità e le guarnigioni tedesche.
euforia nei quartieri liberati
Prendono il controllo di più quartieri, la città vecchia e il centro, ma falliscono il tentativo di allontanare i tedeschi dai loro principali bastioni. L’obiettivo del comandante l’insurrezione è di resistere al massimo una settimana, il tempo che i sovietici passino la Vistola.
I combattimenti invece dureranno 63 giorni e i sovietici non verranno. Peggio, rifiuteranno per sette settimane l’autorizzazione agli aerei inglesi, venuti dal sud Italia al prezzo di enormi perdite, di paracadutare armi e viveri per gli insorti e di atterrare nei loro territori.
Né le richieste del primo ministro polacco, andato a Mosca da Stalin, né gli ammonimenti energici di Churchill gli faranno cambiare idea.
Nella capitale polacca, dopo qualche giorno di euforia nelle zone «libere», gli abitanti vivono un vero e proprio inferno.
i primi caduti
Il 5 agosto una divisione di SS che ha ripreso il controllo del quartiere occidentale, Wola, massacra, in un solo giorno, 35.000 uomini, donne e bambini. La resistenza è diventata impossibile: i combattenti abbandonano i quartieri attraverso le fognature, per riprendere la lotta altrove.
Presenti su tutti i fronti di guerra, in Europa, in Africa, i polacchi attendono invano l’aiuto dove si gioca per davvero la loro sorte, Varsavia.
In agosto Parigi è liberata in qualche giorno, una divisione blindata polacca blocca, a costo di pesanti perdite, la falesia in Normandia.
Una brigata di paracadutisti polacchi, con base in Inghilterra, spera di lanciarsi su Varsavia: sarà inviata dal comando alleato a Arnhem, per una operazione dalla quale solo 2.000 uomini su 10.000 ritorneranno.
trattative per la resa
Nella seconda metà di settembre, i capi dell’insurrezione, consapevoli che le sofferenze della popolazione diventano insopportabili, incominciano a trattare una capitolazione. Ma Rokossovsky è ritornato sulla riva orientale della Vistola. I sovietici autorizzano, per una e unica volta, una flotta di aerei americani ad atterrare sul territorio da loro controllato dopo aver paracadutato degli aiuti agli insorti. Una formazione di aerei passa ad una grande altitudine sopra Varsavia, lanciando armi e viveri (che cadono la più parte nelle mani dei tedeschi).
L’ultima vittoria dei tedeschi
Poco dopo, membri di un’armata polacca integrata sul fronte russo tentano (senza l’assistenza dell’artiglieria né la copertura aerea) l’attraversamento della Vistola, che si trasforma in un massacro. Non ci sono più speranze.
I capi della resistenza, dopo aver ottenuto dai tedeschi lo statuto di combattenti per gli insorti, capitolano;
I tedeschi, con 20.000 morti tra le loro fila, hanno ottenuto la loro ultima vittoria nella seconda guerra mondiale. Sono morti 200.000 abitanti di Varsavia, decine di migliaia, nonostante gli impegni presi, saranno inviati a Ravensbrük, Mauthausen e Auschwitz, tanto che chi resta nella capitale sarà sistematicamente ucciso con la dinamite o passato al lanciafiamme.
Il 17 gennaio 1945, l’armata sovietica entra in Varsavia, in un mare di rovine tra le quali si aggira qualche sopravvissuto. Il resto del territorio polacco è rapidamente riconquistato ai tedeschi, e dietro le unità combattenti il NKVD si mette al lavoro. I capi dell’Armata dell’Interno sono arrestati e spediti a Mosca per un processo farsa. Alcuni dei sopravvissuti dell’insurrezione, tra le migliaia di resistenti, moriranno in prigione, uccisi con un colpo alla nuca o impiccati: saranno riabilitati qualche anno dopo; Occorrerà aspettare la caduta del regime socialista, nel 1989, perché possa essere eretto il primo monumento ad una insurrezione per lungo tempo cancellata dalla memoria collettiva occidentale.