storie di lissonesi
Umberto Viganò: internato in Germania per aver scioperato
Umberto Viganò era nato a Biassono il 10 aprile 1908 e risiedeva a Lissone. Umberto, operaio specializzato alla Pirelli, aveva sposato la sorella di Pierino Erba, fucilato in Piazza Libertà a Lissone il 16 giugno 1944.
Il 23 novembre 1944 in seguito ad uno sciopero viene arrestato con altri 160 compagni di lavoro. Subito dopo l’arresto viene tradotto al carcere di San Vittore, a Milano, dove rimane fino al 29 novembre.
Racconta la moglie di Umberto, Giovanna Erba, allora madre di due bambine – una di 2 anni e l'altra di due mesi: «non mi ero ancora ripresa dalla perdita di mio fratello Pierino, quando la sera del 23 novembre, preoccupata per il ritardo di mio marito dal lavoro, mi son vista arrivare in casa un suo collega. Mi portava la notizia che, nello stesso giorno, c'era stato un rastrellamento alla Pirelli e 160 operai, tra i quali mio marito, erano stati prelevati dal lavoro per essere deportati in Germania». «I cinque giorni nei quali mio marito, coi suoi compagni di lavoro, è stato rinchiuso nel carcere di San Vittore, col pericolo d'essere vittima di una rappresaglia sono stati tremendi. Così come sono stati tremendi i momenti della partenza dallo scalo Farini per la Germania: centinaia di familiari ammassati in attesa dei pullman provenienti dalle carceri, un clima di tensione esasperata che avrebbe potuto degenerare, i soldati tedeschi che ci respingevano lontano. Questi giorni sono stati per me un incubo e li ho ancora chiari nella mente e nel cuore».
Umberto Viganò viene internato nel campo di concentramento di Beesem, a circa 100 km da Desdra.
Ogni giorno, a piedi, insieme a centinaia di altri prigionieri italiani, malnutriti, deve raggiungere Schkopau, una città a 5 chilometri dal lager, per essere impiegato come lavoratore coatto in una delle più importanti fabbriche chimiche del Reich, la Buna-Werke, in cui si lavora a pieno ritmo per l’industria bellica del Reich.
Liberato dagli Americani nell’aprile del 1945, ritorna in Italia 19 giugno del 1945, provato e in cattive condizioni fisiche che richiedono mesi e mesi di cure.
Ambrogio Avvoi
Oggi lo ricordiamo.
12.4.1894 Lissone (Mi) – 12.3.1945 Flossenbürg
Nato a Lissone il 12/4/1894, da Ambrogio e Galimberti Giuseppina.
Sposato con Dassi Alessandrina Bice il 5 maggio 1921.
Professione: falegname ebanista.
Comunista, cinquantenne, viene arrestato a Monza nei primi giorni di marzo 1944 e portato nel carcere di Monza. Il 20 marzo 1944 è trasferito a Milano nel carcere di San Vittore. Da qui viene inviato al campo di Fossoli (MO) il 9 giugno 1944 per poi essere mandato, nei primi giorni di agosto 1944, nel lager di Bolzano. Durante il trasporto in treno da Bolzano al lager nazista di Flossembürg, il 18 dicembre 1944, a Vipiteno riesce a fuggire insieme a dieci compagni di sventura (7 sono operai delle industrie di Sesto San Giovanni). Sfortunatamente sono ripresi a Bressanone e rinchiusi nel carcere locale, dove rimangono per qualche giorno, per poi essere nuovamente trasferiti al campo di Bolzano.
Con un nuovo trasporto sono portati a Flossembürg, lager “di frontiera”, situato nel nord-est della Baviera vicino al confine con la regione dei Sudeti, luogo di “sterminio attraverso il lavoro”. Come negli altri lager era in funzione il forno crematorio.
Ambrogio Avvoi, triangolo rosso di deportato politico, è registrato con numero di matricola 43841. Per il suo tentativo di fuga gli viene riservato un “trattamento particolare”.
Muore l’8 marzo 1945.
Il lager fu liberato il 23 aprile 1945.
Nel cimitero di Lissone una lapide lo ricorda.
Nel 1963, l’Amministrazione Comunale, sindaco Fausto Meroni, ha dedicato ad Ambrogio Avvoi una via di Lissone.
Dati forniti dall’ANED
Leonardo Vismara, un oppositore al regime fascista fin dalla prima ora
Lissonese, figlio di Antonio Giovanni Vismara e di Claudia Minotti, Leonardo Vismara é stato un protagonista della Resistenza a Lissone. Conosciuto come Nando da Biél, é stato una figura di primo piano del Comitato di Liberazione Nazionale lissonese.
Sulla sua attività di oppositore al regime fascista fin dalla prima ora vi è una ricca testimonianza nelle schede conservate nel Casellario Politico Centrale, ufficio della direzione generale della Pubblica sicurezza del Regno d'Italia che aveva il compito di curare il sistematico aggiornamento dell'anagrafe dei cosiddetti "sovversivi".
In questo articolo sono riportate alcune di queste schede: ringrazio Claudio Castoldi, nipote di Leonardo Vismara, che sta conducendo una ricerca sulla vita di suo nonno, per avermele fornite.
Conosciuto come Nando da Biél, dal soprannome dato a suo nonno, fin dalla giovane età, mentre frequenta con buon profitto la Regia Scuola Tecnica di Monza, matura una profonda coscienza civile permeata dei valori di solidarietà, di giustizia e libertà propugnati dal movimento socialista.
Leonardo è un “ragazzo del ‘99” (nell'uso comune il termine si riferisce a tutti i nati nel 1899 che, a militare, potevano essere impiegati sul campo di battaglia durante la prima guerra mondiale). Precettati quando non avevano ancora compiuto diciotto anni, i primi ragazzi del ‘99 furono inviati al fronte solo nel novembre del 1917, nei giorni successivi alla disfatta di Caporetto.
Nando si ritrova al fronte fianco a fianco con contadini e operai, comandati da vertici militari che sommavano spesso un'inadeguata preparazione tecnica nella conduzione di una guerra moderna a una cinica condotta delle operazioni, immolando centinaia di migliaia di vite in ripetuti quanto vani assalti frontali.
Dalla acquisita consapevolezza di essere solo “materiale umano” mandato al macello, che si aggiungeva alla prevalente estraneità popolare alla guerra, scaturirono diverse forme di rifiuto del «dovere sacro» di sacrificarsi per il bene della patria: casi di renitenza e diserzione non furono rari.
Anche Nando viene dichiarato disertore dal Tribunale Militare di Cremona e condannato a sei anni di reclusione perchè non si era più presentato alla sua Compagnia, in occasione di un servizio fuori sede a cui era stato comandato. Dopo la vittoria italiana di Vittorio Veneto, amnistiato, viene però mandato a Valona, in Albania, che è un protettorato italiano, per svolgere il servizio di leva.
Tornato alla vita civile, aderisce alla Gioventù Comunista, diventando poi il segretario della sezione lissonese. All’avvento del fascismo e con lo scioglimento dei partiti politici, diventa un sorvegliato speciale dei Carabinieri.
Le camicie nere non lo lasciano in pace: purghe con olio di ricino, bastonate fino allo svenimento, incarcerato più volte nel carcere monzese; un giorno lo appendono a testa in giù ad un balcone davanti a tutti.
Ma il suo antifascismo è incrollabile, come risulta dai documenti del Casellario Politico Centrale. Il Casellario Politico Centrale era un ufficio della direzione generale della Pubblica sicurezza del Regno d'Italia che aveva il compito di curare il sistematico aggiornamento dell'anagrafe dei cosiddetti "sovversivi".
E quando scoppia la guerra di Spagna matura il desiderio di arruolarsi come volontario nelle “Brigate internazionali” in difesa della Repubblica spagnola contro i nazionalisti del caudillo golpista Francisco Franco.
Un gran numero di quadri e di organizzatori di queste brigate, costituitesi nell’ottobre del 1936, giocheranno in seguito, nei rispettivi paesi, in ruolo importante nella Resistenza al fascismo: tra gli Italiani che vengono inquadrati nella “Brigata Garibaldi”, i fratelli Rosselli, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Leo Valiani, Giovanni Pesce, Randolfo Pacciardi. “Oggi in Spagna, domani in Italia” era il loro motto. Numerosi anche gli scrittori di varie nazionalità: André Malraux, Ernest Hemingway, George Orwell, Antoine de Saint-Exupery, John Dos Passos.
Alla caduta della Repubblica spagnola, Nando, giunto in territorio francese insieme ai reduci della “Brigata Garibaldi”, viene internato nel campo di concentramento di Gurs (era uno dei più vasti campi di concentramento costruiti in territorio francese. Era situato a poca distanza dal confine con la Spagna, ai piedi della catena dei Pirenei).
Le condizioni di vita nel campo di concentramento di Gurs.
A Gurs venne rinchiusi anche degli ebrei. In una retata dei nazisti, nell'ottobre 1940 la Gestapo rastrellò 7500 ebrei, donne e bambini compresi, che vivevano da generazioni nei dintorni di Karlsruhe, una città della Germania sudoccidentale, lungo le rive del Reno, evacuandoli oltre il confine.
Il trasporto non prese la direzione orientale, normale luogo di deportazione negli anni successivi, ma quella occidentale, dove gli espulsi caddero sotto la responsabilità del governo fantoccio di Vichy, il regime instaurato nella Francia meridionale non occupata dai tedeschi, che all'inizio dell'anno ne avevano invaso la parte settentrionale. I nazisti lo avevano fatto senza avvisare i francesi di Vichy, i quali reagirono deviando i treni verso vari campi di internamento, fra cui quello situato nella periferia paludosa di un piccolo comune chiamato Gurs, ai piedi dei Pirenei.
I treni in cui erano stipati gli ebrei si fermarono nella stazione ferroviaria più vicina, a Oloron-Sainte-Marie, dove le persone vennero ammucchiate in camion aperti. Cadeva una torrenziale pioggia gelata mentre essi percorrevano l'ultimo tratto di quel lungo, amaro viaggio. Infreddoliti, zuppi, traumatizzati e lontani 1300 chilometri dalle loro case, venivavano condotti verso squallide baracche fatiscenti disposte in fila. I loro miseri bagagli giacevano nel fango.
Gli assistenti sociali che visitarono il campo gestito dai francesi poco dopo l'inizio dell'inverno rilevarono «un'atmosfera irrespirabile di disperazione umana» e «un intenso desiderio di morte» fra i prigionieri più anziani. Dietro fili spinati e torrette con sentinelle armate, le baracche di legno alloggiavano le persone stipate. All'interno non c'era riscaldamento né acqua corrente, tantomeno arredi, ma proliferavano i pidocchi i topi, gli scarafaggi e le malattie. «Pioveva continuamente», scrisse un prigioniero. «Il terreno era un pantano; si poteva scivolare e affondare nel fango». I prigionieri spartivano alti stivaloni per percorrere l'accesso melmoso a un bagno primitivo: dei secchi all'interno di un cubicolo aperto e senza porta. Sopra tutto ciò si spandeva, avrebbe scritto storico, «il tanfo dell'argilla mescolato alla puzza di urina». Il pasto era composto da pane, brodo allungato e surrogato di caffè. Non c’era abbastanza acqua potabile, e la fame era implacabile.
Leonardo Vismara viene poi impiegato nella costruzione di fortificazioni, inquadrato in squadre di lavoro, sul confine orientale della Francia. Riesce a fuggire e a raggiungere Parigi. A Nanterre, un sobborgo della capitale francese, conduce una vita da rifugiato.
Dopo l’arresto di Mussolini, il 25 luglio 1943, decide di rientrare in Italia.
Al confine di Bardonecchia viene arrestato e tradotto nel carcere di Susa.
Poi al carcere di Bergamo.
Finalmente il 23 dicembre 1943 “viene rimesso in libertà” ma “sottoposto a vigilanza”.
A Lissone riprende i contatti con gli antifascisti della zona. Contribuisce alla formazione del CLN lissonese e, con il nome di battaglia di Raimondo, è incaricato della formazione delle squadre d’azione in vista dell’insurrezione finale con funzioni di collegamento col comando militare del Corpo Volontari della Libertà.
Il 27 aprile 1945, ottiene la resa di una colonna armata tedesca che si sta aprendo la strada verso Como e la Svizzera passando per Muggiò.
Di seguito, pagine dei verbali delle riunioni del CLN - Comitato di Liberazione Nazionale di Lissone – in cui vengono riportati alcuni interventi di Leonardo Vismara, nome di battaglia Raimondo. Gli originali dei verbali sono conservati negli Archivi Comunali di Lissone.
Nel verbale si fa riferimento agli aiuti alle famiglie dei quattro giovani “massacrati”, già consegnati da Ottavio; inoltre, si decide, su proposta di Leonardo Vismara (Raimondo), di preparare “quattro targhe in marmo con la scritta Piazza Quattro Martiri che, al momento opportuno, sarebbero state collocate agli angoli della piazza ove era avvenuto il massacro, previa distruzione di quelle già esistenti, recanti la scritta Piazza Ettore Muti, collocate dai fascisti”.
Dopo un breve incarico nella prima Amministrazione straordinaria del Comune di Lissone, esce di scena dalla vita politica lissonese.
Bibliografia:
Renato Pellizzoni - LA FORZA IMMENSA DI UN IDEALE - Una pubblicazione dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia Sezione “Emilio Diligenti” di Lissone - 2015
Un uomo muore solo quando più nessuno si ricorda di lui
"pietre d'inciampo" che l'Amministrazione comunale ha posato nel 2015 in sostituzione del monumento distrutto da un camion in manovra giovedì 25 maggio 2014
Lissone, 6 giugno 2017: ore 17 una breve cerimonia per ricordare.
l'ANPI di Lissone ricorda i quattro giovani partigiani lissonesi fucilati il 16 e 17 giugno 1944
Un uomo muore solo quando più nessuno si ricorda di lui
Pierino Erba Carlo Parravicini
Remo Chiusi Mario Somaschini
Giovedì 15 giugno 1944
Sono ormai quattro anni che l’Italia è in guerra, fino all’ 8 settembre 1943 al fianco dei tedeschi, ora con gli Alleati, che il 4 giugno hanno liberato Roma. Mentre l’avanzata degli Alleati procede lentamente lungo la penisola, il nord Italia è sotto occupazione nazista: i tedeschi, alla fine di settembre 1943, hanno contribuito alla formazione della Repubblica Sociale Italiana con a capo Mussolini, che ha la capitale a Salò, sul lago di Garda.
Da dieci giorni le truppe alleate, formate da americani, inglesi e canadesi, sono sul territorio francese. L’operazione Overlord, che ha portato più di 1.200.000 soldati sulle coste della Normandia, è in corso anche se la resistenza tedesca si sta rivelando più dura del previsto.
A Lissone da un mese si è formato il locale Comitato di Liberazione Nazionale.
Lo sciopero generale del marzo 1944 (a cui avevano partecipato anche gli operai dell’Incisa, che contava circa 1200 dipendenti e dell’Alecta, 500 dipendenti) aveva ottenuto un grande e lusinghiero successo così da scuotere in Lissone l'assenteismo della popolazione, interessandola alla lotta per la liberazione e a coloro che combattevano per ottenerla.
Lissone, Venerdì 16 giugno 1944
Da alcune ore i quattro partigiani lissonesi Remo Chiusi, Mario Somaschini, Pierino Erba e Carlo Parravicini, accusati dell’attentato in Corso Milano contro due militi fascisti (avvenuto in tarda serata di ieri), sono nelle mani dei nazifascisti: Erba e Parravicini sono presso la Casa del Fascio di Lissone (l’attuale Palazzo Terragni), Chiusi e Somaschini in Villa Reale a Monza.
Nell'ora di uscita degli operai dal lavoro, gli altoparlanti chiamano a raccolta la popolazione in piazza Ettore Muti (l'attuale piazza della Libertà) per assistere ad uno spettacolo. La gente, ignara di quanto stava per accadere, si ferma e s'infittisce in una sospettosa attesa. Ad un certo punto, dalla scalinata della Casa del Fascio scendono due giovani quasi incapaci di reggersi in piedi per le torture subite: sono Pierino Erba (di 28 anni) e Carlo Parravicini di anni 23. I due partigiani vengono messi davanti alla fontana e fucilati tra lo sgomento della popolazione.
L'incredulità e lo sbigottimento della folla attonita lasciano il posto all'orrore ed al terrore ed in un attimo la piazza si svuota mentre altre raffiche di mitra solcano l'aria.
Ed inizia una sera impregnata di spavento, la gente si chiude nelle proprie case ed in paese sembra che il coprifuoco sia calato in anticipo tanto le vie sono deserte: si sentono solo le scarpe chiodate delle ronde che perlustrano le strade facendo scoppiare qualche bomba a mano o sventagliando contro l'acciottolato delle raffiche di mitra per il sadico gusto di intimidire maggiormente la gente.
L’indomani alla Villa Reale di Monza, Remo Chiusi e Mario Somaschini, entrambi ventitreenni, subiscono la stessa sorte dei loro amici.
Nei giorni seguenti anche Radio Londra nella trasmissione "La Voce della Libertà" ricordava il tragico episodio esaltando il martirio dei quattro patrioti.
Finita la guerra, i solenni funerali dei quattro partigiani lissonesi furono celebrati il 13 Maggio 1945 nella chiesa di San Carlo.
A guerra terminata, sulla tomba a loro dedicata presso il cimitero urbano
i Lissonesi scrissero:
“libertà e umanità fu per questi martiri anelito di vita, insofferenza di tirannia, assassinati da piombo fascista e da sevizia nazista, lor giovinezza immolata è monito di pace e di giustizia, cittadini meditate ed imparate”.
L’anno successivo fu posta sul luogo della fucilazione una targa commemorativa in marmo, recante la scritta “Parravicini Carlo, Erba Pierino, Chiusi Remo, Somaschini Mario nel nome della libertà caddero trucidati dai nazifascisti il 16 -17 giugno 1944”.
La cerimonia di inaugurazione avvenne alla presenza del Sindaco ing. Mario Camnasio (1946 - 1951).
La lapide commemorativa originaria, nel 2005, iniziati i lavori di riqualificazione di Piazza Libertà, è stata ricollocata al cimitero urbano.
Inoltre i dipendenti delle O.E.B. Officine Egidio Brugola, a ricordo dei loro colleghi, posero una lapide all’interno dello stabilimento in Via Dante.
Nel 1985, in occasione del 40° anniversario della Liberazione, l’Amministrazione Comunale, Sindaco Angelo Cerizzi, e la Direzione aziendale realizzarono un nuovo monumento in acciaio che reca la scritta ” “Gli operai di questo stabilimento pongono a ricordo dei loro compagni di lavoro SOMASHINI MARIO, ERBA PIERINO, CHIUSI REMO caduti per la libertà”. Ancora oggi nelle ore notturne viene illuminato, a perenne ricordo.
Dopo il 25 Aprile 1945, la piazza principale della nostra città (Piazza Fontana per i lissonesi), per un breve periodo fu chiamata Piazza IV Martiri prima di assumere la denominazione attuale di Piazza Libertà. Nel corso del XX secolo la piazza, ha cambiato nome diverse volte: dapprima Piazza della Chiesa (per la presenza della vecchia chiesa), poi, dopo la I guerra mondiale, Piazza Trento e Trieste, in seguito, dal 1934 Piazza Vittorio Emanuele III, quindi Piazza Ettore Muti.
nella foto: I Maggio 1945 in Piazza IV Martiri.
Dal balcone di Palazzo Terragni, il socialista monzese Ettore Reina parla ai lissonesi, attorniato dai membri della locale Sezione del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale)
L’A.N.P.I. lissonese, mentre ricorda il sacrificio di questi quattro giovani concittadini, desidera dedicare anche un pensiero a tutti i lissonesi che in vari modi si opposero al fascismo. Vogliamo ricordare anche chi attuò la cosiddetta Resistenza silenziosa ed i cui nomi non sono riportati nei libri di storia o nei documenti ufficiali, chi lottò nelle file della Resistenza armata, chi fu internato nei campi di concentramento in Germania, tutti coloro che persero la vita perché anche Lissone divenisse una città libera e democratica.
(i documenti sono l'esatta trascrizione degli originali conservati presso gli Archivi di Stato di Milano)
documento originale sulla fucilazione di Pierino Erba e Carlo Parravicini
documento originale sulla fucilazione di Remo Chiusi e Mario Somaschini
Carlotta Molgora, staffetta partigiana
Carlotta Molgora, socia onoraria dell’ANPI ci ha lasciati.
Nel 2015, in occasione del 70° della Liberazione aveva ottenuto un riconoscimento dall’ANPI nazionale e lo scorso anno la medaglia della Liberazione dal ministero della Difesa.
Carlotta durante la Resistenza era stata una staffetta partigiana. Di seguito, la sua storia.
I funerali avranno luogo domani 7 marzo 2017 alle ore 14 presso la Casa di Riposo Agostoni di Lissone.
Sabato 11 giugno, a Carlotta Molgora, con una breve cerimonia presso la Casa di riposo dove ora si trova, è stata consegnata da Pierangelo Stucchi, segretario della nostra Sezione, e dal Sindaco di Lissone, Concettina Monguzzi, la medaglia della LIBERAZIONE.
consegna della medaglia della Liberazione a Carlotta Molgora
Nella foto: Carlotta Molgora (a sinistra) un 25 aprile
La storia di Carlotta Molgora
Carlotta, classe 1920, ex operaia in una grossa azienda monzese. Abitante a Lissone, suo paese natio, è figlia di un oppositore del regime fascista fin dagli inizi. Il padre, ferroviere, di idee comuniste, considerato un sovversivo dai fascisti locali, viene sottoposto più volte a maltrattamenti e a veri e propri pestaggi. Decide allora di chiedere un trasferimento. Gli viene assegnata una nuova sede di lavoro, una località nei pressi di Vipiteno, in Alto Adige, dove si trasferisce con la moglie e le due figlie di otto e sei anni. Qui la famiglia riesce a vivere in modo più tranquillo anche se in mezzo ad una comunità prevalentemente di lingua tedesca. Bambina vivace, frequenta le scuole elementari con un buon profitto. Rimane in quel paesino, godendosi le bellezze naturali che lo circondano, per quattro anni. Il padre, colpito da una malattia incurabile, deve riportare la famiglia a Lissone perché costretto a sottoporsi a cure specialistiche presso un ospedale di Milano.
A tredici anni Carlotta rimane orfana di padre. Inizia subito a lavorare per aiutare la madre nel sostentamento della famiglia. In questo periodo uno zio, antifascista di Merate, viene ucciso dai fascisti ed il piccolo cugino, rimasto ferito nell’agguato, perde un occhio.
Crescendo conosce alcuni oppositori al regime fascista della nostra città; alcuni sono gli amici di suo padre, altri sono suoi coetanei. Nell’ambiente di lavoro viene a contatto con membri della Resistenza monzese, tra i quali Enrico Farè, zio di Eugenia Farè (che sarà preside della scuola media di Lissone, a lei poi intitolata), Gianni Citterio, nome di battaglia Redi, avvocato, uomo colto e affabile, ucciso all’età di 35 anni il 18 febbraio 1944 dai tedeschi nella battaglia di Megolo in Val d’Ossola.
Carlotta diventa così una staffetta partigiana. Il suo compito principale è quella di postina: porta ai membri della Resistenza monzese le comunicazioni per gli incontri clandestini, diversi dei quali si svolgono in un locale del vecchio ospedale di Monza. In altri momenti diventa vivandiera di partigiani nascosti in casolari nella campagna nei dintorni di Lissone. È amica dei 4 partigiani lissonesi uccisi il 16 e il 17 Giugno 1944, in particolare di Carlo Parravicini e Remo Chiusi.
Nell’aprile 1945, forse in seguito a una delazione, viene fermata da alcuni repubblichini presso la chiesa dei Frati di Monza, al ritorno di una missione di postina. Con i mitra spianati e puntati contro di lei, le sequestrano la bicicletta e la portano alla caserma San Paolo nel centro di Monza, dove viene picchiata da alcuni giovani appartenenti alla Guardia Nazionale Repubblicana. Si ritrova agli arresti con altri ventidue tra uomini e donne.
Le guardie più anziane stanno abbandonando la caserma; rimangono i più fanatici che imbracciano mitra. Il momento è critico. Rimane in balìa dei fascisti per due giorni.
È il 25 Aprile del 1945. La situazione sta ormai precipitando: Mussolini, dopo essersi recato in arcivescovado a Milano, per trattare la sua resa con i partigiani, decide di tentare, ma inutilmente, la fuga verso la Svizzera.
I partigiani monzesi danno l’assalto alla caserma dai tetti delle case circostanti, così Carlotta viene liberata.
Nel 1946, nel referendum per la scelta tra la monarchia e la repubblica (la prima volta che le donne votano in Italia), fa la scrutatrice in un seggio elettorale presso le scuole di via Aliprandi, guardata con una certa curiosità dalle donne lissonesi.
Da allora è sempre stata presente alle celebrazioni del 25 aprile.
Angelo Casnici, prigioniero degli Inglesi
Durante la seconda guerra mondiale fu prigioniero degli Inglesi per tre anni (dal 4 agosto 1943 al 18 maggio 1946).
Nasce a Solferino, in provincia di Mantova, il 27 novembre 1919, da Luigi e Caiola Giovanna.
Di professione agricoltore, viene chiamato al servizio di leva il 7 aprile 1938. Viene congedato 7 aprile 1939.
In guerra
Viene richiamato alle armi il 13 marzo 1940: destinazione Palermo, inquadrato nel 12° Reggimento Artiglieria di Corpo d’Armata.
Dopo l’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania nazista, il 10 giugno 1940, dal 1 agosto 1941 passa alla Direzione Artiglieria della Sicilia e successivamente, dal 26 maggio 1942, al 24° Reggimento Artiglieria facente parte della Compagnia Direzionale della 6a Armata.
La 6ª Armata italiana in Sicilia era comandata dal generale Alfredo Guzzoni consisteva di nove divisioni per un totale di circa 230.000 uomini.
Le operazioni preliminari dell'attacco all'Italia da parte degli Alleati si erano concluse, più rapidamente del previsto, con l’occupazione delle isole di Pantelleria e di Lampedusa che sbarravano il canale di Sicilia.
Come in Tunisia, gli italiani si arrendevano non soltanto perché soverchiati dalla potenza militare avversaria, ma perché sapevano che ogni resistenza alla potenza distruttiva dei bombardamenti aerei e navali sarebbe stata priva di senso.
La Sicilia doveva essere il primo obiettivo dell'invasione, ma intanto occorreva colpire direttamente tutta l'Italia per indurla ad uscire dalla guerra. Bombardieri degli Alleati colpivano le città italiane con attacchi sufficienti a disorganizzare la vita di un Paese già provato, e ad abbatterne il morale.
Più gravi, agli effetti della continuazione della guerra, erano le distruzioni degli impianti: industrie, porti, stazioni ferroviarie, vie di comunicazione. Distruzioni che paralizzavano la macchina militare. Il terrore spingeva decine di migliaia di persone a sgomberare le città maggiormente esposte agli attacchi. La situazione alimentare era gravissima, accentuata dalla crisi dei rifornimenti e dall'aumento dei prezzi. D'altra parte le razioni assicurate dal tesseramento si rivelavano sempre più insufficienti.
Oltre a Palermo, la rovina si abbatté su Messina. Tutte le navi traghetto, meno una, vennero affondate; i rifornimenti si ridussero ancora e crebbe nell'isola la sensazione d'essere completamente abbandonati dal resto d'Italia.
Erano complessivamente quasi 1.500 navi da trasporto e oltre 1.800 mezzi da sbarco. 280 navi da guerra facevano da scorta ai due convogli che portavano 160.000 uomini, 14.000 veicoli, 600 carri armati, 1.800 cannoni; 4.000 aerei erano allineati nelle basi nordafricane.
La più grande flotta che avesse mai solcato le acque del Mediterraneo si era data appuntamento nello stretto di Sicilia. A destra il convoglio che portava l'VIII Armata inglese del generale Montgomery puntava sulle coste sud-orientali dell'isola. A sinistra, diretto verso le coste meridionali, il convoglio che trasportava la VII Armata americana, comandata dal generale Patton.
La situazione economica, sociale e morale della Sicilia era ancor più triste di quella militare. Tutti i mali di cui soffriva allora l'Italia, - miseria, carestia, disorganizzazione della vita civile -, qui erano inaspriti dallo stato di grave isolamento e dal martellamento massiccio dell'aviazione alleata. Il malcontento dei siciliani era aggravato dalla presenza dei tedeschi, che si abbandonavano frequentemente a violenze e ruberie. Era vivo il desiderio di uscire comunque dalla guerra.
Ciò che stupiva gli invasori era la quiete che regnava su quelle coste. Le due o tre batterie che in certi punti avevano risposto al fuoco, erano subito state ridotte al silenzio dai tiri combinati delle navi.
Perciò gli sbarchi avvenivano quasi ovunque senza combattere. Nelle prime ore del mattino, mentre sulle spiagge era un riversarsi continuo di automezzi, carri armati, cannoni, i reparti più avanzati marciavano già sulle strade dell'isola, diretti verso i paesi dell'interno.
Sotto i colpi delle artiglierie navali, le postazioni italiane resistettero tenacemente fino all'esaurimento delle munizioni.
La situazione dei difensori diventava sempre più insostenibile. Il 25 luglio aveva aggravato la crisi dei reparti superstiti della VI Armata italiana, mentre i tedeschi avevano avuto l'ordine di passare al più presto sul continente.
Crollato il fascismo, i siciliani ormai consideravano gli invasori come degli amici. Si manifestavano sempre più forme di opposizione popolare alla guerra, dalle diserzioni in massa delle truppe italiane, aiutate dalla popolazione, sino a scontri armati con i tedeschi nella piana di Catania.
Molti soldati italiani si erano arresi o dispersi per lo scoramento che ormai animava ufficiali e soldati. Tra coloro che cercarono rifugio presso masserie di contadini siciliani vi era anche Angelo Casnici con un gruppo di suoi commilitoni.
Dopo alcuni giorni, il loro nascondiglio viene scoperto da un gruppo di tedeschi in ritirata. Durante il loro trasferimento verso il comando tedesco, riescono ad avere il sopravvento sulla scorta composta da due militari tedeschi e a fuggire.
Vagano sui monti mentre l’avanzata degli Alleati verso Messina continua. Dopo una settimana di continui spostamenti tra mille difficoltà, in una situazione caotica, il 4 agosto 1943, Angelo viene catturato a Mistretta dagli Americani e poi trasferito alle autorità inglesi.
Per circa un anno Angelo Casnici rimane internato in Sicilia come lavoratore al seguito delle truppe. Il 13 giugno 1944, insieme ad altri prigionieri catturati in Sicilia viene trasportato in Algeria al campo 211 di Cap Matifou, nei pressi di Algeri.
Le truppe americane e britanniche erano sbarcate in Marocco e in Algeria l'8 novembre 1942, durante l'operazione Torch. Le forze locali della Francia di Vichy opposero poca resistenza prima di unirsi alle forze alleate. Le truppe tedesche e italiane vennero prese nella morsa di una doppia avanzata dall'Algeria e dalla Libia.
Prigioniero degli Inglesi
É il 4 agosto 1943.
Il giorno dopo, superate le ultime resistenze, le avanguardie del XIII Corpo britannico entrarono a Catania da ovest e da sud.
Ormai il comando italo-germanico si preoccupava solo di riportare sul continente il maggior numero di truppe.
Nel pomeriggio dell'11 agosto ebbe inizio la fase finale dello sgombero dell'isola.
Su motozattere, traghetti e imbarcazioni di fortuna, sotto le bombe dell'aviazione alleata e il tiro dell' artiglieria, i resti delle Divisioni italiane e tedesche riuscirono a riparare in Calabria.
Il 17 agosto, con l’entrata degli Alleati a Messina la campagna di Sicilia era praticamente chiusa.
Un’«infornata» di prigionieri italiani catturati in Sicilia venne trasportata in Algeria. Altri furono trattenuti in Sicilia, i rimanenti furono trasferiti in Inghilterra.
Il limite principale ai trasferimenti risiedeva nel rischio, effettivamente concreto, che le navi trasportanti i prigionieri fossero affondate lungo le rotte verso la Gran Bretagna.
Angelo Casnici ai primi di luglio 1944 viene trasportato in nave nel Regno Unito.
Dopo un viaggio di alcuni giorni, attraverso il mar Mediterraneo occidentale, lo stretto di Gibilterra e l’oceano Atlantico, la nave che trasporta prigionieri italiani, approda in Inghilterra.
Negli stessi giorni di agosto 1944, e precisamente la mattina del 14 agosto, gli Alleati entrano in Firenze liberata dai partigiani. Il 15 agosto le forze alleate sbarcano in Provenza.
Il trattamento dei prigionieri
Al loro arrivo i prigionieri, dopo aver specificato, nome, grado e numero di matricola, dovevano sottoscrivere la seguente dichiarazione:
«Io prometto che in conseguenza dell' armistizio concluso tra le nazioni alleate e il Regno d'Italia e dello stato di guerra che ora esiste tra l'Italia e la Germania, di lavorare secondo gli ordini e per conto delle Nazioni Unite e di assisterle con tutti i miei mezzi nella prosecuzione della guerra contro il nemico comune: la Germania. Io mi impegno a non abusare della fiducia in me riposta e a non violare alcuna delle condizioni sotto le quali i privilegi speciali che la seguente dichiarazione comporta sono stati a me concessi. Io mi impegno a eseguire tutti gli ordini e a uniformarmi a tutti i regolamenti promulgati dalle Autorità Militari Alleate, ben sapendo che, mancando a tali doveri, perderò diritto ai miei privilegi».
A differenza dei tedeschi con i prigionieri italiani, gli Alleati intendevano rispettare la Convenzione di Ginevra. (La Convenzione di Ginevra, che era stata votata il 27 luglio 1929 di comune accordo dalle grandi potenze, codificava il trattamento che dovevano ricevere i prigionieri nelle guerre future: i loro diritti, i loro doveri e tutte le altre esigenze dal punto di vista materiale).
In particolare gli articoli 7 e 9, prevedevano, rispettivamente che i prigionieri non fossero «esposti a rischi, mentre aspetta[va]no l’evacuazione da una zona di guerra» e che non potessero essere inviati «in un’area dove avrebbero potuto essere esposti al fuoco di combattimento, o essere usati per rendere alcuni siti o aree immuni da bombardamenti grazie alla loro presenza».
La situazione dei prigionieri italiani non cambiò neppure dopo la proclamazione dell armistizio dell’8 settembre 1943, né dopo lo stesso riconoscimento della «cobelligeranza», concesso all'Italia dagli Alleati in seguito alla dichiarazione di guerra alla Germania fatta dal Governo Badoglio il 13 ottobre di quell'anno, perché gli inglesi continuavano ad essere estremamente interessati allo sfruttamento della manodopera fornita dai POWs (la forma abbreviata, usata regolarmente nella documentazione britannica, di Prisoners of War).
La scelta dei britannici - come, del resto, degli americani - era dettata soprattutto dalla volontà di non privarsi di manodopera ritenuta così preziosa che non solo non furono rilasciati i militari italiani già presenti nel Regno Unito, ma si dispose il trasferimento in Gran Bretagna di altri prigionieri italiani detenuti nel Medio Oriente, in India, in Sud Africa, in Kenya e in altri paesi del Commonwealth, così che già nel 1943 risultavano detenuti nel Regno Unito circa 80.000 militari italiani, diventati 140.000 nel novembre 1944 per giungere a 155 - 158.000 nei primi mesi del 1945.
Da prigionieri a «cooperatori»
Le autorità inglesi si mostravano, inoltre, particolarmente interessate a trasformare i POWs in «cooperatori», così da poterli impiegare come manodopera anche nei cantieri, negli stabilimenti e persino nelle installazioni militari, superando le limitazioni imposte dall'articolo 31 della Convenzione di Ginevra all'impiego dei prigionieri. Nello stesso tempo, però, non intendevano minimamente rinunciare al potere di controllo e di comando che potevano esercitare su di loro in quanto prigionieri, e così anche i militari italiani detenuti in Gran Bretagna che accettarono di «cooperare» rimasero a tutti gli effetti «prigionieri di guerra», sia pure dotati di qualche privilegio rispetto al passato.
Il trattamento riservato dagli inglesi ai militari non era dunque neppure lontanamente paragonabile a quello durissimo, realmente disumano, che sarebbe stato imposto dopo l'8 settembre 1943 dai tedeschi ai militari italiani internati nei lager nazisti, minati nel fisico, spesso fino a morirne, per la fame, per il freddo, per le epidemie e per i lavori pesantissimi cui erano obbligati. L'alimentazione dei prigionieri italiani detenuti nel Regno Unito, in particolare, risultò sempre decisamente migliore non solo di quella, largamente inferiore al minimo indispensabile per sopravvivere, fornita ai prigionieri di guerra italiani internati nei campi di concentramento della Germania nazista e della Russia staliniana, ma anche di quella modestissima assicurata agli stessi civili italiani in patria.
Il numero dei «cooperatori», comunque, aumentò progressivamente fino a comprendere la stragrande maggioranza dei prigionieri italiani, anche perché chi aderiva riceveva una paga più alta ed era alloggiato in campi o in hostels migliori dai quali poteva anche liberamente allontanarsi, entro una certa distanza.
I rapporti con i datori di lavoro
Nonostante l’ostilità manifestata dalla popolazione britannica verso gli italiani e alla larga diffusione nel Regno Unito di pregiudizi nei loro confronti, però, si registravano buoni rapporti tra i POWs e i loro datori di lavoro, in particolare con i piccoli proprietari terrieri e le loro famiglie, con cui, anzi, si stabilirono molto spesso forti legami affettivi, perché avevano accolto con rispetto e benevolenza i militari impegnati nei lavori agricoli così da farli sentire, in qualche modo, come a casa propria.
I prigionieri italiani erano tenuti a lavorare sodo e per una paga molto modesta, per gli standard inglesi, ma il lavoro non fu mai eccessivamente pesante e fu comunque sempre sostenuto in buone condizioni fisiche, perché, di norma, erano loro assicurati un'alimentazione soddisfacente (con tre pasti al giorno e razioni abbondanti), degli alloggi puliti, efficienti, riscaldati, dotati di corrente elettrica e di acqua, anche calda, un adeguato vestiario e un'assistenza medica di buon livello. I prigionieri, infine, poterono sempre contare sull'azione di sostegno materiale e di conforto morale prestata con grande generosità dai volontari dell'YMCA (Young Men's Christian Association).
I militari italiani seppero comunque adattarsi alla loro difficile situazione, tanto da spingere le autorità inglesi ad impiegarli anche per lavori particolarmente delicati per la sicurezza militare; e nel settembre 1944 si decise di impiegare gli italiani cooperatori addirittura presso le stazioni della Royal Air Force e Angelo Casnici fu tra questi.
L’impiego
Angelo Casnici il 9 luglio viene internato nel campo 17 Lodge Moor di Sheffield nello Yorkshire. Poi il 17 luglio al campo 701 di Hereford nello Herefordshire dove risulta presente al 6 novembre 1944.
Lavora presso un aeroporto della RAF (Royal Air Force).
La corrispondenza con i familiari in Italia
Come confermato anche dal figlio di Angelo Casnici, Giuseppe, scarsa fu la corrispondenza con i familiari in Italia: i prigionieri italiani incolpavano il servizio postale britannico, la censura, la Croce Rossa anche se cominciava a diffondersi l’idea che, per quanto riguardava la posta diretta all'Italia settentrionale, fossero i tedeschi a impedirne il recapito. Tutto il Nord Italia, dove vi era la Repubblica sociale di Mussolini, era sotto occupazione tedesca.
Dalle poche lettere si constata che la preoccupazione principale degli italiani riguardava la situazione in cui versavano le loro famiglie in Italia. Consapevoli del fatto che le loro condizioni fossero di gran lunga migliori di quelle della maggior parte dei connazionali in patria, avrebbero voluto - contrariamente a ciò che di solito i prigionieri desiderano, cioè ricevere generi di conforto - spedire a casa cibo e altri beni primari, dei quali in Italia vi era un’estrema necessità per garantire la mera sopravvivenza.
Il ritardato ritorno in Italia
Neppure l'impiego di tutti i POWs presenti in Gran Bretagna bastava a coprire i vuoti lasciati dai lavoratori inglesi ancora sotto le armi. Il rimpatrio dei prigionieri italiani poté perciò essere avviato solo alla fine del 1945 e non poté essere effettuato che per piccoli scaglioni mensili tanto da essere portato a termine solo nell'agosto-settembre 1946.
Il rimpatrio dei POWs italiani fu dunque continuamente rinviato, posticipandolo, prima, alla fine del conflitto in Europa; poi, alla fine delle ostilità contro il Giappone, e, dopo ancora, alla conclusione del raccolto delle patate e delle barbabietole del dicembre 1945, perché per la sua riuscita era indispensabile l'apporto dei prigionieri italiani.
Naturalmente la priorità fu data al rientro dei prigionieri alleati internati nei lager nazisti e poi a quello delle truppe anglo-americane impegnate nel continente europeo.
La documentazione utilizzata da Insolvibile nel suo libro “Wops- I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-1946) [Wops è anche l'anagramma di P.o.Ws., la forma abbreviata, usata regolarmente nella documentazione britannica, di Prisoners of War] mette bene in luce come la responsabilità dei ritardi nel rimpatrio dei POWs ricada in buona parte sulle stesse autorità italiane, che non si mostrarono mai particolarmente interessate al rientro dei prigionieri o, addirittura, tentarono in ogni modo di incoraggiarli a restare in Gran Bretagna, così come negli Stati Uniti, come immigrati permanenti per ridurre al minimo la pressione dei reduci sul già disastrato mercato del lavoro in Italia e per poter utilizzare la valuta pregiata fornita dalle loro rimesse per finanziare la ricostruzione nazionale.
Angelo Casnici rientrò in Italia il 18 maggio 1946.
Da prigionieri a reduci
L'enorme stress emotivo che i militari italiani detenuti nel Regno Unito dovettero sopportare per lunghi anni per l'estenuante attesa del rimpatrio e per le deprimenti notizie provenienti dall'Italia sulla critica situazione economica del paese, che li metteva in ansia per la sorte delle loro famiglie e li rendeva rabbiosi e depressi per la propria impotenza, contribuì non poco a rendere amaro il ritorno alla libertà. Anzi, anche il tanto atteso rientro in Italia finì col tradursi nell'ennesima stagione della delusione per questi sfortunati compatrioti, perché il trauma per la situazione trovata in Italia e le difficoltà incontrate per il reinserimento nella vita civile di un paese, uscito semidistrutto dalla guerra e ancora ridotto alla fame, non consentirono loro di sentirsi finalmente davvero «liberi» ma li portarono semplicemente a passare dall'umiliante status di «prigionieri» a quello amaro e insoddisfatto di «reduci».
Estranei ai grandi cambiamenti materiali, politici e psicologici del paese durante la guerra, la Resistenza, la nascita della Repubblica, esclusi per troppo tempo dall'intimità delle proprie case e dei propri affetti, disoccupati, per la maggior parte, in un paese in preda alla fame e alla miseria, dovettero reinventarsi, affrontare nuove sfide, scoprirsi cittadini democratici, dimenticando nel contempo, volutamente o meno, di essere stati sudditi, e fascisti, più a lungo degli altri, anche se non per scelta.
Per chi poté rientrare solamente dopo il 2 giugno 1946
Il 2 giugno 1946, 260.000 italiani, di cui 38.000 ancora in Gran Bretagna, non poterono partecipare al primo appuntamento democratico nazionale dell'Italia postfascista, la scelta tra monarchia e repubblica e l’elezione dei “padri costituenti”, coloro che avrebbero preparato la nuova costituzione dell’Italia repubblicana.
Il giorno prima delle elezioni il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi rivolse un messaggio ai prigionieri:
«Alla vigilia del plebiscito e del voto per l'Assemblea Costituente devo dirvi che pensiamo con particolare dolore a voi, prigionieri di guerra o internati civili, fratelli tutti, di cui da tempo attendiamo invano il ritorno. Anche in occasione della conferenza di Parigi i nostri delegati hanno insistito presso gli Alleati, affinché possiate rientrare in Patria. Si ripetono, si ribadiscono le promesse, e lo stesso progetto del nuovo armistizio contiene un ulteriore solenne impegno degli Alleati, per il rimpatrio dei prigionieri. Non prestate fede a chi insinua che la Patria vi dimentica o trascura di ricorrere ad ogni mezzo per farvi ritornare. Il ritmo dei rimpatri a cura degli Alleati e per quanto comportano i limitati mezzi delle nostre marine da guerra e mercantile a cura dell'Italia sta gradatamente accelerandosi e lascia prevedere non lontano ormai il vostro totale rimpatrio. [...]. Non credere un momento solo alla calunnia che noi non vi vogliamo. Quando abbiamo fissata la data delle elezioni avevamo ragione di sperare che nel frattempo i trasporti si sarebbero accelerati [...]. Di questo ritardi ci lagniamo amaramente; ma d'altro canto consideriamo che l'elezione di un'Assemblea Popolare, la costituzione di un nuovo governo democratico su basi elettive, darà maggiore forza alla nostra protesta e alle nostre insistenze per il vostro ritorno». Il messaggio di De Gasperi, inciso su disco, fu trasmesso nei campi la sera dello giugno 1946.
Il governo britannico, approffittando della bella stagione, decise di velocizzare i rimpatri effettuando trasferimenti via terra attraverso la Germania e il Brennero. I trasporti Gran Bretagna-Calais-Verona divennero ben presto l'unico sistema utilizzato per il rimpatrio degli italiani dal Regno Unito. Tale sistema permetteva di far rientrare in Italia circa 9.000 uomini al mese. Le fonti italiane riferiscono che a fine luglio 1946 i rimpatri potevano considerarsi (quasi) conclusi.
Angelo Casnici rimase a Solferino sino al 1952, poi emigrò in Svizzera, a Zurigo. Nel frattempo si sposò e rientrò in Italia venendo ad abitare a Lissone nel 1959.
Muore nel 1984 a Vedano al Lambro, dove si era trasferito nel 1966.
Ringrazio Giuseppe Casnici per avermi mostrato i documenti che illustrano le vicissitudini di suo padre Angelo durante la seconda guerra mondiale e per aver raccolto i suoi ricordi che costituiscono una preziosa testimonianza.
Salvatore Lambrughi, internato militare in Germania
Lissone, 21 novembre 2016
Salvatore Lambrughi ci ha lasciati. Durante la seconda guerra mondiale, giovanissimo, è stato un IMI, Internato Militare Italiano in Germania, cioé uno dei prigionieri che i tedeschi hanno utilizzato come manodopera coatta. Secondo la storiografia moderna gli IMI vengono definiti "gli schiavi di Hitler".
L'ANPI di Lissone lo ricorda.
Proprio in questi giorni, alla presenza dei ministri degli esteri di Italia e Germania si é tenuta la cerimonia di apertura della mostra "Tra più fuochi. La storia degli Internati Militari Italiani 1943-1945" presso il Centro di documentazione “NS-Zwangsarbeit”, Britzer Straße 5, 12439 Berlino.
La mostra che ha carattere permanente è allestita nel quartiere di Schöneweide, nelle casupole ancora esistenti di un lager dove vennero rinchiusi militari e civili italiani costretti al lavoro coatto.
La mostra sugli IMI è stata realizzata dalla Fondazione “Topografia del terrore” che gestisce alcuni fra i principali luoghi della memoria sulla seconda guerra mondiale nella capitale tedesca (un milione di visitatori nel 2015).
In questo articolo sono narrate le sue vicissitudini
In un quaderno di una trentina di pagine, Salvatore Lambrughi racconta i principali avvenimenti di quel triste periodo della sua vita, durante la seconda guerra mondiale, trascorso in prigionia.
Dalla prima pagina del quaderno:
«Memorie di un prigioniero di guerra in Germania. Il grido di un prigioniero di guerra soffocato dal dolore. Così iniziò il calvario che durò venticinque mesi».
Il 23 agosto 1943, il diciottenne lissonese Salvatore Lambrughi, classe 1924, risponde alla chiamata alle armi e dal distretto militare di Monza viene destinato a Vicenza. In città nota la presenza di soldati tedeschi. Passano quindici giorni: l’8 settembre alla radio viene dato l’annuncio dell’avvenuto accordo segreto di armistizio tra l’Italia e le potenze alleate, fino ad allora nemiche. Nel giro di pochi giorni tutte le principali città del nord e del centro Italia vengono occupate dai tedeschi. Salvatore viene disarmato dai tedeschi e fatto prigioniero.
Caricato su un vagone ferroviario, 40 uomini in un carro merci piombato, del tipo usato per il trasporto di cavalli, parte per la Germania.
Il suo destino è simile a quello di altri 600.000 soldati italiani prigionieri: diventa un Internato Militare Italiano (IMI) in Germania. Secondo questo status, deciso da Hitler il 20 Settembre 1943, agli IMI doveva essere riservato un trattamento peggiore di quello di qualsiasi altro prigioniero. E ciò in conseguenza di quel “NO” che dissero quando, con lusinghe e minacce, fu chiesto loro di riprendere le armi per il Grande Reich e poi per la Repubblica Sociale Italiana di Mussolini.
Dal quaderno di Salvatore: «Dopo due giorni e due notti di viaggio, la tradotta si ferma in aperta campagna: a piedi, attraversiamo una grande pineta al cui interno vi era il campo di concentramento. Sul cancello d’ingresso la scritta: KUSTRIN Stalak 3 C.
Küstrin, località a circa 100 chilometri ad est di Berlino, sul fiume Oder, era il nome tedesco di Kostrzyn, cittadina della Polonia.
«Ad accoglierci vi sono due ufficiali, un tedesco ed un italiano. Le parole dell’ufficiale italiano suonano come un terribile avvertimento: “L’acqua di questo campo non è potabile: per berla occorre farla bollire. Vi avverto perché qui sono già morti ottantamila russi”».
I prigionieri italiani vengono poi sottoposti al taglio dei capelli e fotografati; a ciascuno viene assegnato un numero di matricola inciso su una piastrina: a Salvatore Lambrughi tocca il numero 39280.
«Poi veniamo passati in rassegna da un ufficiale tedesco accompagnato da un interprete italiano. Con altri 4 internati vengo destinato a svolgere dei lavori agricoli. Con un trattore mi portano in una fattoria della zona. Il nostro alloggio è una baracca già occupata da ottanta alpini italiani prigionieri.
L’indomani si incomincia a lavorare nei campi: c’è chi raccoglie patate, chi barbabietole. C’erano anche russi, uomini e donne, alcune delle quali con bambini piccoli che dovevano accudire. Durante il primo giorno alla fattoria, attraversando il cortile, incontro un soldato russo con due patate bollite in mano che, sorridendo, me ne offre una: un bel gesto inaspettato di solidarietà tra prigionieri. Passarono quattro mesi. Un giorno arrivò da Berlino una richiesta di quindici prigionieri da utilizzare per lo sgombero delle macerie di edifici bombardati dagli Alleati. Salvatore è tra i prescelti. L’indomani partenza su un carro merci.
«A tarda sera il treno si ferma in una stazione: si ode il segnale di allarme, segno di un imminente bombardamento aereo. Le bombe cadevano a poca distanza dal treno: lo spostamento d’aria provocava forti scossoni al carro merci. Ci sentivamo come topi in trappola; c’era chi piangeva, chi pregava».
Salvatore, sperando nella buona fortuna, si sdraia sul fondo del vagone coprendosi la testa col bavero del pastrano. Cessato l’allarme, il treno può ripartire e, a notte inoltrata, arriva a Spandau West. Sobborgo di Berlino, era una zona industriale e per questo era soggetta a continui bombardamenti sia di giorno che di notte.
«A piedi raggiungiamo un grande campo di concentramento. Il mattino seguente, dopo l’appello in cortile, vengo destinato a lavorare, anzichè alla rimozione delle macerie, in una grande fabbrica: la Siemens. Era un edificio di dieci piani: il mio reparto si trovava al quinto. Io ero addetto alla tempera di bulloni e rondelle».
Scrive Salvatore: «Un giorno, verso l’alba, suona l’allarme: si corre verso un rifugio, interrato per metà, chiamato “paraschegge”. Passano sopra di noi un gran numero di aerei che sganciano bombe in continuazione. Qualcuno viene abbattuto dalla contraerea. Una bomba cade nei pressi del nostro rifugio, nella buca dove si portava la spazzatura: fortunatamente non esplode, ma lo spostamento d’aria è tale che un prigioniero che stava raggiungendo il rifugio viene scaraventato contro un palo della luce, perdendo la vita. A me saltano tutti i bottoni del pastrano che indosso».
Già dal primo giorno, durante la pausa di lavoro, in tedesco Frühstück, delle ore 9,30, durante la quale i dipendenti bevevano del caffè e mangiavano fettine di pane con margarina e marmellata portate da casa, una donna tedesca, che lavorava nello stesso reparto, si avvicina all’affamato Salvatore, rintanato in un angolo nelle vicinanze dei forni per la tempera: gli offre delle fettine di pane, senza farsi scorgere dagli altri dipendenti, e si allontana rapidamente. La stessa scena si ripete per più giorni. Salvatore, diciannovenne, viene poi a conoscenza del probabile motivo di quei momenti di generosità: un prigioniero italiano, già da alcuni mesi in quella fabbrica, lo informa che il figlio della donna, giovane marinaio, era dato per disperso. «Si prendeva cura di me come se fossi suo figlio tanto che, quando doveva andare in ferie, lasciò la tessera del pane ad una sua amica per non farmi mancare niente. Ma un giorno, purtroppo, venni improvvisamente trasferito.
Dalla fabbrica a piedi fino alla stazione, poi su un carro merci verso una destinazione sconosciuta. Il treno percorse diversi chilometri e si arrestò in aperta campagna. In un capannone ci fecero fare una doccia e i vestiti furono sottoposti a disinfezione. Ripartimmo sullo stesso carro e giungemmo verso sera in una stazione di un piccolo paese, Barwalde. Trascorremmo la notte dormendo sulla paglia in un grande cascinale. Rimanemmo in questa località alcuni mesi: si lavorava in una grande pineta i cui alberi venivano utilizzati per la produzione della carta. Poi altro trasferimento in un grande campo di concentramento. Era inverno. La prima notte al campo la passammo dormendo all’aperto: il mattino seguente ci svegliammo coperti di neve. Poi ci mostrarono quelli che dovevano servirci come riparo per la notte: erano delle piccole tende di forma circolare. Ci venne distribuito del caffè e dopo l’appello, scortati da soldati armati, fummo condotti al lavoro.
Eravamo impiegati nella costruzione di fortificazioni: si scavavano fossati anticarro, larghi quindici metri e profondi cinque, e trincee; si allestivano inoltre postazioni per i cannoni. Alcune SS tenevano sotto controllo i prigionieri al lavoro».
Una delle prime sere, di ritorno al campo, non vede più il suo zainetto che aveva lasciato sotto la tenda e viene colto dalla disperazione; era tutto ciò che gli era rimasto. Per fortuna un suo compagno lo ritrova nei dintorni.
«Un giorno - racconta Salvatore – un prigioniero che lavorava al mio fianco, esausto per la malnutrizione o perchè ammalato, si era fermato appoggiandosi al badile. Venne notato da due guardie: in un attimo gli furono addosso, e a colpi di badile lo tramortirono. Il poveretto rimase a terra fino a sera, poi due suoi amici lo trasportarono in spalla al campo. Mentre passavano nelle vie di quel piccolo paese, alcuni ragazzini iniziarono a deriderli e a gli sputargli addosso».
A giudizio di Salvatore, questo fu il periodo peggiore della sua prigionia. Il lavoro era massacrante, reso ancor più pesante per la scarsa alimentazione. Alcune volte, al mattino o alla sera durante l’appello, il comandante del campo operava una selezione di quei prigionieri che non riteneva più abili al lavoro: la strategia nazista dell’annientamento attraverso il lavoro era una triste realtà in quel campo!
La nostalgia di casa ogni tanto lo prende. Ricorda Salvatore un momento struggente di questo terribile periodo della sua prigionia: una sera, osservando la luna piena il cielo, immagina che anche sua madre, i suoi cari, la stiano guardando e ciò gli infonde la forza di volontà per resistere.
Per le pessime condizioni igieniche del campo, anche le malattie infettive si diffondono. Un giorno, da Berlino arrivano due ufficiali medici, che sottopongono i prigionieri a dei controlli. «Avevo male alla gola; dagli esami medici sono risultato positivo alla difterite. Fui perciò messo in quarantena in una tenda un po’ più protetta dal freddo. Per quaranta giorni venni esentato dal lavoro: la malattia mi aveva colpito in forma lieve, altrimenti non sarei qui a raccontare, come capitò a qualche altro ammalato».
Tornato al lavoro, un giorno sente dei colpi di cannone: sono le armate russe che avanzano verso l’Oder mentre soldati tedeschi sono in ritirata. «Scortati da guardie tedesche, dobbiamo abbandonare il campo: ci viene consegnato un filone di pane a testa che, a detta dei tedeschi dovrebbe durare per sei giorni, ma la maggior parte dei prigionieri lo divora in poco tempo».
Si deve attraversare il fiume Oder che in quel punto è gelato: ciò rende un po’ meno difficoltoso l’attraversamento. «Per chi rimane indietro o si fa male è la fine: i soldati tedeschi gli sparano un colpo di fucile. La ritirata dura sei giorni: arriviamo in una località chiamata Steglitz (un distretto di Berlino), dove c’era un campo di fortuna. Tanta è la fame che anche delle erbe del campo presto diventano cibo per i prigionieri!».
La mattina dopo una quindicina di prigionieri, tra cui Salvatore, vengono prelevati e portati in una casa di fortuna. Poi, un uomo anziano, che si presenta come il nuovo chef (in tedesco capo), li conduce in una zona colpita dai bombardamenti degli Alleati per la rimozione delle macerie: questo era il nuovo lavoro.
«Ogni giorno, in fila dietro lo chef, si raggiungeva una zona bombardata. Una mattina, la nostra squadra passa davanti ad una panetteria danneggiata, il cui proprietario era intento a sgombrarla dalle macerie. Trovandomi in ultima posizione, lascio il gruppo, senza farmi scorgere, e mi presento al panettiere: “ich arbeiten” (posso lavorare, dice Salvatore che ha ormai imparato le parole tedesche essenziali per la sopravvivenza, che gli saranno utili anche in altre circostanze). Alla sua risposta affermativa “ja”, inizio a spalare ottenendo come ricompensa un filone di pane che mangio subito. Rimango tutta la giornata: alle cinque del pomeriggio, mi presento nel cortile del Comune, che era il punto di ritrovo della nostra squadra. Lo chef, in primo momento mi minacciò di mandarmi in prigione, poi si calmò al mio racconto, anzi accosentì che rimanessi per qualche giorno al servizio del prestinaio. Altri giorni lo “chef” arrivava alle sette e, con l’U-Bahn (metropolitana), ci conduceva sul posto di lavoro. Io partivo mezz’ora prima e approfittavo per passare in alcuni negozi, chiedendo “ein bisschen brot (un po’ di pane)”. In qualche caso me lo davano, ma spesso ero costretto dalla fame a rubarlo; lo nascondevo sotto il pastrano per consumarlo poi senza essere scoperto. Una mattina la proprietaria del negozio mi vede e si mette ad urlare: scappo via e mi nascondo in una casa bombardata nelle vicinanze, perchè in quel momento stava passando una compagnia di soldati tedeschi armati che intonavano la canzone Lilì Marleen (famosissima canzone tedesca che racconta la storia del soldato che pensa al suo amore lontano). Passato lo spavento, raggiungo rapidamente il posto di lavoro».
Eravamo ormai nella primavera 1945: i bombardamenti continuavano senza tregua. «Un mattino, un areo sganciò due bombe sopra di noi. Dal primo piano della casa dove mi trovavo con due alpini, mi precipitai giù dalle scale. Per nostra fortuna le bombe caddero poco più lontano, ma lo spostamento d’aria fu fatale per un prigioniero che si trovava nel cortile. Allora mi rifugiai nello scantinato di un palazzo vicino, dove rimasi per tre giorni: con me c’erano anche dei civili russi anch’essi prigionieri. La mattina del quarto giorno udii il rumore di una camionetta; piano piano uscii dal nascondiglio cercando di non farmi notare. I due ufficiali russi che erano a bordo mi videro: scesero subito a terra e con il mitra spianato mi vennero incontro. Con le braccia alzate, salii gli ultimi gradini, dicendo “italiano”. Allora abbassarono i mitra dicendo in russo “italiano buono” e segnalai la presenza di loro compatrioti nello scantinato. Poco dopo arrivarono dei soldati russi: piazzarono sul marciapiede una Katyusha (lanciarazzi di fabbricazione sovietica) e, cantando, iniziarono, a sparare all’impazzata».
Salvatore con due amici partono alla ricerca di cibo: tutt’intorno vedono distruzione e morte.
«Abbiamo trovato un po’ di farina e delle patate che abbiamo caricato su un piccolo carrello e, in bicicletta, siamo partiti senza una precisa direzione; avevamo in mente una sola cosa: tornare a casa. Dappertutto uno spettacolo di desolazione: rovine e cadaveri sia di uomini che di animali.
Dopo qualche giorno, attraversando anche delle foreste, siamo giunti in una località – non ricordo il nome - situata su di un fiume che era impossibile attraversare: il ponte era stato bombardato. Allora abbandonammo le biciclette e ci dirigemmo verso la stazione. C’era un caos tremendo. Sulla prima tradotta che passò, salimmo senza sapere dove era diretta. Dopo aver percorso diversi chilometri, il treno si fermò. Ci trovavamo a Oleśnica, cittadina della Polonia. Il treno non ripartiva; allora scendemmo. Alcuni prigionieri dicevano che i russi ci avrebbero rimpatriati con una nuova tradotta. Ci sistemammo in un campo di raccolta di prigionieri di guerra. Ma il tempo passava e nessun treno arrivava. Dopo qualche settimana intorno al nostro campo erano comparsi dei soldati tedeschi armati e in stazione vi erano delle guardie russe. Anche per paura di essere portati in Russia, io e un mio amico di Verona decidemmo di fuggire. L’indomani, alle cinque di mattina, con dei pezzi di coperta legati sotto gli scarponi per non far rumore, in tre andammo in stazione e, quando sopraggiunse un treno merci, aprimmo il portellone di un vagone e salimmo. Con nostra sorpresa all’interno del vagone c’erano già altri soldati che dormivano: si svegliarono, erano dei serbi che ci chiesero chi fossimo. Provammo un po’ di paura e allora decidemmo di scendere alla prima fermata. Era una piccola stazione: dopo qualche ora salimmo su un treno passeggeri diretto a Varsavia. Qui c’era la Croce Rossa Italiana: ci diedero del pane e del caffè e poi, sempre in treno, ci portarono a Praga e, dopo quindici giorni, a Innsbruck, dove venimmo alloggiati in una caserma della cavalleria. Eravamo in attesa di essere rimpatriati: finalmente, un mattino, arrivò l’ordine di partenza per l’Italia. Salimmo su una tradotta merci e in poco tempo arrivammo a Bolzano. Era mattina presto, il sole stava sorgendo: delle crocerossine ci portarono del caffelatte. Qualcuno cominciò a intonare la canzone di Beniamino Gigli “Mamma”. Molti soldati e anche delle crocerossine si misero a piangere, ma la gioia di essere riusciti a tornare in Italia era grande.
Da Bolzano ci portarono poi a Pescantina, nel veronese , dove era stato istituito un centro di accoglienza e di smistamento dei prigionieri rimpatriati. Mi consegnarono un foglio di viaggio e cinquemila lire. Poi ognuno partiva per la propria destinazione. Dopo tanta sofferenza anch’io stavo per tornare a Lissone e finalmente, dopo così tanto tempo, avrei rivisto i miei cari».
In questo documento ho riportato parti del quaderno che Salvatore custodisce gelosamente. Lo ringrazio per avermene consentito la lettura. Ritengo che il suo modo di raccontare le tristi vicende di cui è stato protagonista ne renda partecipe il lettore. Per questo, con la sua autorizzazione, l’ho reso pubblico.
Salvatore Lambrughi è amante della pittura, diversi sono i quadri da lui dipinti appesi alla pareti della sua casa di Lissone, e della poesia: nelle pagine del suo quaderno ne ha trascritte alcune.
In occasione del “Giorno della Memoria”, il 27 gennaio 2010, a Salvatore Lambrughi è stata consegnata una medaglia d’onore come riconoscimento dello Stato italiano per il suo internamento nei lager nazisti.
E in occasione del 70° annoversario della Liberazione, Roberta Pinotti, ministro della Difesa, gli conferi' la "medaglia della Liberazione"
Aldo Mapelli, patriota
Dalla testimonianza di Maurizio Mapelli, figlio di Aldo, e dai documenti del padre da lui gelosamente conservati.
Aldo Mapelli, nasce il 29 giugno 1923 a Besana in Brianza, frazione Calò, proprio davanti alla chiesa dove una volta c’era una cascina ora scomparsa. Figlio di Fermo e di Amabile Corti, Lavora presso la ditta Viganò e Brivio di Via Carotto di Lissone, quando, il 12 gennaio 1943 viene richiamato alle armi.
Dal 15 gennaio 1943 viene inquadrato nella Compagnia mortai del 41° Reggimento di fanteria "Modena" con sede a Imperia.
Dopo un addestramento di cinque mesi, il 4 giugno 1943 viene “spedito” in Grecia.
Il Reggimento di fanteria "Modena" rimase nel 1942/43 dislocato in Albania e Grecia con compiti di presidio. Verrà sciolto in Epiro dopo l’8 settembre 1943 a seguito degli eventi che determinarono l'armistizio.
Aldo si trova al fronte in condizioni che, come scrive nel suo diario, lo obbligavano “a dormire sulla paglia senza cambiarsi e a saltare frequentemente pranzo (e cena...)”.
Fatto prigioniero dai tedeschi, il 9 settembre 1943, con altri suoi commilitoni viene internato nel campo di concentramento di Riesa (città tedesca della Sassonia), controllato dalle SS, dove resta per breve tempo, per essere poi trasferito in una caserma in Boemia (in Cecoslovacchia, non lontano da Praga).
Come scrive nel suo diario Aldo Mapelli, questa nuova destinazione si presenta come un “Paradiso”: cuccette per dormire e pranzi regolari; le precedenti astinenze lo portano a descrivere minutamente i “menù” giornalieri (pane, salame, verdure, patate per lo più …). Ogni sera ricorda i genitori e il fratello Carlo, allora prigioniero negli USA.
pagine del diario
Nella ricorrenza della festa di Lissone (il 17 ottobre), lo prende la nostalgia ripensando ai momenti di divertimento trascorsi con gli amici l’anno prima.
La vita nel campo é tranquilla e quasi monotona: pulizie, attendenza al maresciallo tedesco, lezioni sull’uso del fucile, istruzione, indottrinamento, qualche sigaretta, giochi a carte con i commilitoni (cita in particolare il Casati “semper insema”, ma anche Pellegrini, Gazzoni, Gelso di Milano …), e qualche volta un po’ di musica con la fisarmonica.
Vige il divieto di uscire dal campo, neanche per la festa nazionale tedesca (Marcia su Monaco).
Alla vigilia di Natale viene loro concesso il permesso di andare in città per assistere alla proiezione di un film; la serata finisce con una festa che si protrae fino alle ore piccole, a cui partecipano anche soldati tedeschi tra cui il maresciallo Kunze, “ubriaco da far paura”.
Alla baldoria dovrebbe seguire il rientro in Italia “partire per la nostra amata Patria”: queste almeno erano le promesse. E invece:
qui termina il diario e ... racconta il figlio Maurizio:
«Quando si accorsero che il treno non stava andando verso l’Italia ma nella direzione opposta, con alcuni commilitoni riesce a scappare e a rientrare, ...“non si sa come anche se sicuramente c’entra un treno .., in Italia nel 1944».
Dalle dichiarazioni di Aldo Mapelli riportate nel foglio matricolare: «Sono rimasto in Boemia fino a marzo del 1944, poi fuggo e con mezzi di fortuna rientro in Italia».
dal foglio matricolare
A Lissone rimane pochi giorni e si deve nascondere. Si “aggrega” a coloro che stanno organizzando la resistenza. Dalla tessera in possesso di Aldo Mapelli, rilasciata dal Comando Militare di Piazza in collegamento con il Comitato di Liberazione di Lissone, risulta facente parte di una delle squadre della 119ma Brigata Garibaldina (documento firmato da Riccardo Crippa, nome di battaglia Ettore).
Dagli archivi lissonesi di storia locale:
Tra i compiti del CLN lissonese vi erano quelli di “organizzare squadre armate di difesa e di intervento”, di agire per “incrementare la lotta partigiana”. I componenti di queste squadre dovevano essere “elementi scelti, che diano prova di saper agire, che siano di provata fede antifascista”. Inoltre, per il loro delicatissimo impiego, dovevano “godere la stima della popolazione per le loro doti di moralità e di onestà”.
Nel verbale del 21 settembre del 1944, vengono date al comandante delle squadre delle direttive ben precise per il momento dell’insurrezione, che si crede ormai prossima: in realtà dovrà intercorrere ancora un lungo inverno. In particolare:
1°) Occupazione della caserma della G.N.R. (n.d.r. Guardia Nazionale Repubblicana, che durante la Repubblica Sociale Italiana aveva sostituito l’arma dei Carabinieri) – Insediamento e punto di ritrovo dei componenti delle squadre;
2°) Organizzazione dei turni di servizio del vettovagliamento;
3°) Occupazione delle aziende pubbliche – gas, luce, acqua; centrale telefonica, magazzino viveri, stazione ferroviaria;
4°) Ordine pubblico
a) evitare disordini, saccheggi, distruzioni di negozi in genere con il fermo di persone sospettate di capeggiare gruppi che abbiano a fomentare disordini per attuare i loro piani criminali;
b) arresto e fermo di persone segnalate nelle liste – loro relegazione e custodia in appositi locali.
trascrizione di documenti originali
tibro, bandiera e zona operativa della 119ma brigata
Nei giorni della Liberazione lo ritroviamo festante con i compagni davanti all’attuale palazzo Terragni, in quei giorni “Casa del Popolo”, Aldo é il secondo da sinistra
primo maggio 1945 a Lissone
Aldo Mapelli non lascia più Lissone, dove opera come falegname/mobiliere.
Dalla casa di ringhiera di Via Madonna, dove festeggia la nascita del primogenito Maurizio, e con la falegnameria rivolta su piazza Garibaldi, dove ora c’é un ristorante, con la famiglia si trasferisce a Monza, però sempre al confine con Lissone, alla Cascina Crippa, casa natale della moglie Claudina, dove apre un laboratorio di falegnameria e restauro ancora esistente.
Il suo banco da lavoro fa bella mostra in un prestigioso ristorante ad Alzano Lombardo
Una via di Lissone dedicata ad Elisa Ancona
uccisa nelle camere a gas ad Auschwitz.
La Giunta di Concettina Monguzzi sindaco, con la delibera N.158 del 04/05/2016 ha deciso di dedicare una via di Lissone ad Elisa Ancona, con la seguente motivazione:
"Atteso, inoltre, che l’Amministrazione Comunale desidera mantenere vivo il ricordo di una vittima della Shoah partita dalla stazione cittadina per essere deportata presso il campo di sterminio di Auschwitz, nella condivisione dei valori storici, umanitari e culturali che sottendono alla scelta e che rappresentano un concreto e oggettivo tributo alla memoria di eventi che hanno interessato la nostra Comunità"
Elisa Ancona era nata il 10 ottobre 1863 a Ferrara. Prima di rifugiarsi a Lissone in seguito all’occupazione tedesca del nostro Paese dopo l’8 settembre 1943, abitava in via Nievo 26 a Milano. Era vedova di Achille Rossi. Risiedeva nel capoluogo lombardo dal 1902 ed era iscritta alla locale Comunità israelitica. L’anziana donna fu arrestata il 30 giugno 1944 a Lissone da militi della Guardia Nazionale Repubblicana e reclusa a San Vittore. Venne successivamente trasportata a Verona dove fu inclusa, il 2 agosto, nel trasporto proveniente da Fossoli e arrivato ad Auschwitz il 6 agosto 1944. Elisa Ancona, come avveniva per tutti gli anziani, fu avviata subito alle camere a gas; aveva 80 anni.
É morto un partigiano: Gabriele Cavenago ci ha lasciati
Lissone, 16 aprile 2016
Gabriele Cavenago, presidente onorario della nostra Sezione ANPI di Lissone, è mancato questa mattina.
Con lui scompare un altro protagonista della guerra di liberazione dal nazifascismo.
Gabriele mi aveva raccontato la sua storia che qui si può leggere.
Nato a Caponago il 4 marzo 1920, da 65 anni risiedeva a Lissone.
Dal racconto di Gabriele Cavenago
«Presto servizio militare ad Acqui Terme dal 10 marzo 1940, artigliere con mansione di tiratore. Dopo un breve periodo di istruzione, inizio a sparare con i cannoni in un poligono di tiro.
Il fronte francese
A metà maggio 1940, raggiungo l’Argentera, al confine francese, prima in treno fino a Cuneo, poi in colonna a piedi. Ai piedi della montagna vengono preparate le piazzole per posizionare i cannoni, obici da 149-13, in grado di bombardare il territorio francese, superando la cima della montagna.
Ai primi di Giugno 1940, in seguito ad un nuovo ordine, si cambia località: Colle della Maddalena, a 2000 metri, dove si montano le tende e si posizionano i cannoni. 10 giugno: l’Italia è in guerra; con i cannoni si spara verso il territorio francese per due giorni, quasi ininterrottamente, sotto una tormenta di neve.
fronte e retro della medaglia del “Gruppo Obici” e della “Battaglia delle Alpi”
Firmato l’armistizio tra Francia e Italia, parto per una breve licenza: ritorno poi ad Acqui Terme dove rimango fino agli inizi del 1942, allorquando arriva l’ordine di iniziare i preparativi in vista di nuova destinazione: il fronte russo.
Il fronte russo
spilla dei partecipanti all’ARMIR
A giugno 1942 partenza: trenta giorni di viaggio in treno che trasporta anche camion, trattori e cannoni, destinazione Minsk, da dove in colonna proseguo verso il Don. Lungo il percorso di trasferimento, nei pressi di Stalino, incontro mio fratello che si trovava in Russia già da alcuni mesi.
Il Don e la linea del fronte
Arrivo sul fronte del Don il 14 agosto 1942. In un’ansa del fiume si iniziano i lavori per la costruzione di camminamenti, rifugi, postazioni di tiro per i cannoni. La posizione è quella riservata alla Divisione Corseria.
Fine di ottobre-inizio novembre 1942: il freddo della steppa comincia a farsi sentire. Nei rifugi sotterranei si può trovare un po’ di conforto, ma i combattimenti avvengono principalmente nelle ore notturne. Si spara sui movimenti dei russi sotto la neve che cade abbondantemente.
Le munizioni stanno finendo. Primi di dicembre 1942: non arriva più alcun rifornimento.
Come potevano credere alla vittoria fascista i soldati sul Don che, nell’inverno 1942, ricevevano “le mele del duce” come dimostrazione dell’interesse della patria, quando mancavano di calzature, olio anticongelante e rancio adeguati al clima russo, per non parlare degli armamenti?
Si spera in un intervento dei carriarmati tedeschi, ma invano. I trattori non partono per il gelo e i russi si avvicinano. 11 dicembre 1942: accerchiati. Appena si vede uno spiraglio inizia la ritirata: per un po’ veniamo inseguiti dai carrarmati russi. Si raggiunge Karkov. Mentre troviamo un po’ di riparo in un capannone, durante una breve sosta per riposare, sopraggiungono i carrarmati russi. Riesco a salire su un camion della prima batteria del mio gruppo, ma dopo qualche ora rimaniamo senza benzina; si continua la ritirata a piedi.
Di notte cerchiamo rifugio nelle isbe: al caldo, tra vecchi, donne e bambini piccoli, possiamo riposare sul pavimento di legno dopo aver bevuto un po’ di brodaglia che ci veniva offerta. Procediamo verso Ponte del Donez dove convergevano i vari reparti: mancano all’appello 15 soldati della mia batteria: sono stati fatti prigionieri. Sempre a piedi, giungiamo il 24 dicembre a Varocscilov Grad, dove, in un cinema, trascorriamo il Natale mangiando un po’ di pasta. All’indomani si riprende la marcia: percorriamo dai 20 ai 25 chilometri al giorno. Riusciamo a salire su un treno scoperto che ci trasporta per una settimana in mezzo a bufere di neve. Per il freddo mi si stava congelando il naso: il mio tenente me lo strofina massaggiandolo con neve mista ad antigelo.
Alla metà di aprile 1943 arriviamo a Minsk; dopo una doccia e la bollitura degli indumenti per eliminare i pidocchi, si riparte a piedi in direzione Kiev dove giungiamo alla fine di aprile. Ci sistemiamo in alcune case e riusciamo ad alimentarci e a riprendere un po’ di forze.
Ai primi di maggio arrivano gli ordini di rientrare in Italia: essendo artigliere corro il rischio di finire in Germania per un corso di addestramento alla contraerea. Ai primi di giugno, dalla stazione di Kiev, si parte invece tutti per l’Italia. Appena il treno incomincia a muoversi, un aeroplano russo ci sorvola lanciando una bomba che cade fortunatamente ad una cinquantina di metri dal treno: bel saluto di addio! Si raggiunge Vienna e, attraverso il Brennero, arriviamo a Vipiteno dove siamo sottoposti a disinfezione e al cambio di indumenti. Si riparte poi per Pisa dove si rimane per 20 giorni in contumacia. Ritorno poi in caserma ad Acqui Terme: siamo ai primi di luglio 1943. Faccio lavori come muratore presso un acquedotto in attesa della licenza di 20 giorni come reduce dalla Russia. Prima di tornare al paese passo da Peschiera per incontrare mio fratello che non rivedevo dopo il breve incontro in terra di Russia.
Alla metà di agosto, al rientro dalla licenza, con cannoni e trattori nuovi, parto da Acqui Terme verso Firenze e raggiungiamo Asciano; era l’8 settembre 1943
8 settembre 1943
Ascoltiamo l’annuncio dell’armistizio. Il giorno 10 settembre nascondiamo i trattori e i cannoni in un avvallamento ed eseguiamo l’ordine del capitano “tutti liberi si ritorna a casa”. A piedi camminando lungo la ferrovia raggiungiamo la stazione di Firenze, da dove con il primo treno riesco a partire per Milano. Il capotreno ci avverte di scendere prima di arrivare in stazione Centrale per evitare di essere catturati dai tedeschi.
In prossimità di Lambrate salto dal treno e poi salgo su un tram, nascondendomi sotto i sedili dietro le gonne di alcune donne.
L’11 settembre arrivo a casa, a Caponago, che allora contava circa 3.000 abitanti. Ero uno “sbandato”. Dopo qualche giorno vengo avvicinato da un anziano antifascista del paese: decido di passare tra le fila dei partigiani, scelta condivisa da mio fratello e da un amico.
In Brianza dopo l’8 settembre non regnò la rassegnazione assoluta verso ciò che stava accadendo. Ci furono persone che cercarono di riconoscersi nella volontà di opporsi alla nuova realtà e tentarono di organizzarsi per agire.
membro delle SAP (Squadre di Azione Patriottica)
Le SAP erano concepite come piccoli gruppi di uomini che vivevano generalmente nelle loro cittadine, svolgendo, in alcuni casi, il proprio lavoro e che venivano chiamate clandestinamente a svolgere azioni di propaganda, come volantinaggi notturni e distribuzione di stampa antifascista, atti di sabotaggio, fino ad azioni di recupero di armi sottratte a militi colti in solitudine e ad azioni più complesse, terminate le quali il sappista tornava ad inserirsi nel tessuto di sempre.
“Le brigate Sap avevano reso possibile la crescita e l'impiego, quand'anche in forme diverse, di miglaia di nuovi combattenti, i migliori dei quali avevano anche affiancato e rinsanguato con forze fresche e collaudate quella gappiste continuamente falcidiate dalla repressione; avevano trasformato la guerriglia urbana, sostenuta inizialmente soltanto dai Gap, in lotta armata di massa e, come le Sap delle campagne, le cosidette Sap foranee, avevano spezzato l'isolamento che circondava la lotta armata sui monti, così le Sap cittadine hanno spezzato l'isolamento che minacciava le lotte operaie nelle fabbriche e la lotta dei Gap nelle strade.
La minore incisività della maggior parte degli interventi sappisti, rappresentati per lo più da azioni di propaganda, volantinaggi o disarmi era stata compensata dal numero complessivo delle azioni che grazie ad un impiego di massa delle forze erano progressivamente aumentate nel tempo e si erano sempre più estese sul territorio.
Diversamente dal gappista senza volto, il cui agire era sempre fulmineo, cruento e tanto più eclatante quanto invisibile, il sappista era stato il più delle volte necessariamente e deliberatamente ben visibile dimostrando con la sua presenza fisica, in carne e ossa, l'inoppugnabile esistenza e l'estensione del movimento partigiano. Negli interventi contro la trebbiatura del grano destinato all'ammasso, nella protezione delle manifestazioni di protesta delle donne o degli scioperi dellle mondine, nelle decine di comizi volanti nelle fabbriche o nei cinema, il sappista era comparso tra le masse per attirare l'attenzione e la sua presenza e la sua parola avevano infuso speranza e suscitato entusiasmi indispensabili ad alimentare il clima insurrezionale.
Le Sap, scriverà Luigi Longo, sono state «il tentativo - in gran parte riuscito - di giungere a mobilitare, via via, in modo organico, la maggior parte della popolazione» e, crediamo si possa aggiungere, sono state, per la concezione e la portata del fenomeno, uno strumento di lotta originale e forse unico nella Resistenza europea nonché il fattore decisivo e insostituibile nella preparazione e nell'affermazione dell'insurrezione nel capoluogo lombardo”.
Ricevevo gli ordini da Emilio Diligenti. Ero inquadrato nella Divisione “Fiume ADDA”, 105.ma Brigata SAP.
Tra i primi incarichi che mi sono affidati è l’affissione di manifesti e didtribuzione di volantini che incitano la popolazione a ribellarsi all’occupazione nazista e a disubbidire agli ordini della Repubblica Sociale Italiana. “Questo metodo di comunicare coi volantini, risultava un modo di opposizione al nemico che incoraggiava moralmente la gente, portandola lentamente a simpatizzare ed avere fiducia negli uomini della Resistenza. Si creava una coscienza nella gente ed uno stimolo a partecipare al cambiamento”. Si passa poi ad azioni di sabotaggio di linee telefoniche utilizzate dai tedeschi.
Per rifornire i gruppi di partigiani sui monti servono anche armi e munizioni. Ne recuperiamo alcune abbandonate nelle caserme, poi con azioni di gruppo, tentiamo degli attacchi contro camion tedeschi in transito sull’autostrada. La stalla di mio padre si trovava a circa 200 metri dall’autostrada Milano Bergamo. Ci rifugiavamo poi nei boschi della pianura.
Per i partigiani di pianura le attività iniziali sono in gran parte ancora in funzione della montagna. Si recuperano armi, viveri, indumenti da inviare alle formazioni, si fa opera di convinzione e si procurano aiuti a chi vuole raggiungerle, si organizza il sostegno politico e morale. Le armi venivano nascoste, in un primo tempo nel fienile, poi venivano distribuite alle altre squadre partigiane. Un’azione di blocco di un’auto che trasportava un ufficiale tedesco fallisce; ci riusciranno altri partigiani nei pressi di Trezzo d’Adda.
Il 24 aprile 1945 organizziamo un nuovo posto di blocco; cerchiamo di fermare una colonna di nazisti in fuga da Monza. Armato di una pistola, affronto un tedesco che sparando mi ferisce al braccio; nell’azione, anche il comandante della nostra squadra rimane ferito. Raccolgo la pistola che mi era caduta e con l’aiuto di mio fratello trovo riparo in un cascinale, mentre la ferita continua a sanguinare. I miei compagni chiedono l’intervento di un medico di Pessano, che era amico dei partigiani, che presta le prime cure a me e al mio comandate. Entrambi siamo stati fortunati; niente di grave: dalla successiva radiografia l’osso del mio avambraccio risulterà intatto.
La colonna dei tedeschi in fuga verrà poi fermata dai partigiani nei pressi di Verderio.
Bruno Trentin nel suo “Diario di guerra” ha scritto:
“La guerra in pianura, in campagna, era la scelta più pericolosa; non c’era il «fronte» ma una guerra selvaggia condotta da giovani, senza retroterra dove rifugiarsi. Era una guerra dalla quale, una volta cominciata, non si poteva tirarsi indietro. Si è scritto poco su questo versante della guerra partigiana che è la guerra in pianura, il più esposto, il più indifeso e, nello stesso tempo, impensabile senza il sostegno delle popolazioni contadine.
In pianura è stato necessario prendere le armi al nemico o organizzare dei lanci di paracadute (da parte degli Alleati) all’aperto, in piena campagna; a pochi chilometri dalle postazioni tedesche o fasciste. …
La Resistenza armata, senza un sostegno diffuso della popolazione, anche in un lontano borgo agricolo, non avrebbe potuto sopravvivere. Hanno concorso a questo processo le pessime condizioni di vita di una popolazione stremata dall’economia di guerra. E certamente ha pesato la sconfitta di una guerra, lo smantellamento dell’esercito come è accaduto all’8 settembre, e l’alternativa che si pose a molti giovani che rifiutavano l’ingresso nelle bande della Repubblica di Salò, di nascondersi o di combattere. …
Vent’anni di oppressione fascista sboccarono non in episodiche rivolte ma nel più grande movimento armato di massa dell’Europa occidentale. …
La scelta di libertà e di democrazia da parte di una generazione che non l’aveva mai conosciuta”.
A causa della ferita, non avevo potuto partecipare alla festa della Liberazione e mi era dispiaciuto, tuttavia l’aria che si respirava era quella di un Paese che voleva al più presto riguadagnare il tempo perduto dopo le tragedie del fascismo. In quei momenti di gioia per la fine della guerra e della Liberazione, si sperava in un mondo diverso, in un mondo di pace, di giustizia sociale e di lavoro».
nel 40mo anniversario della Liberazione, il Sindaco di Caponago premia Gabriele Cavenago
In occasione del 64° anniversario della Liberazione, nel pomeriggio di Sabato 18 aprile 2009, presso la Biblioteca civica, si è svolto un importante appuntamento alla presenza due partigiani, il lissonese Gabriele Cavenago ed Egeo Mantovani, attuale presidente onorario dell’ANPI di Monza e Brianza.
Prima della proiezione del documentario sulla storia della Resistenza italiana, Nicoletta Lissoni ha letto, con un sottofondo di musiche di Johan Sebastian Bach, due lettere di condannati a morte durante la guerra di Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista.
A Gabriele Cavenago, che è anche presidente onorario dell’ANPI di Lissone, è stata consegnata una pergamena a ricordo del suo impegno di giovane partigiano, membro delle Squadre di Azione Patriottica.
Per questa occasione, Gabriele Cavenago ha donato all’ANPI di Lissone una bandiera storica del 1945, quando a Lissone si era costituita la sezione dell’ANPI.