La politica economica del fascismo
dalla conversazione di FRANCO CATALANO tenuta il 10 gennaio 1975 nell'Aula Magna dell'Università degli Studi di Milano.
Il decollo dell'industria italiana avvenne solo a partire dal 1896, con notevole ritardo rispetto a quello avver negli altri paesi occidentali. In quell'anno, infatti, era giunta al termine la crisi che era sembrata interminabile, poiché era cominciata nel 1873, sconvolgendo tutte le teorie ottocentesche sul ciclo decennale delle recessioni, e che aveva spinto le due più grandi potenze, l'Inghilterra e la Francia a cercare uno sfogo per gli investimenti dei loro capitali nella conquista di colonie (ne era nato il primo imperialismo). L'Italia, dunque, aveva dato inizio allo sviluppo suo sistema industriale quando era finita quella crisi e si era subito dedicata al settore tessile, sfruttando la manodopera che si offriva a buon mercato nella zona sub-montana del Piemonte, della Lombardia e del Veneto; e poteva farlo, perché quella manodopera, accanto al lavoro in fabbrica, manteneva anche una piccola parcella di terra da cui trarre i generi alimentari per il suo consumo. Così l'industria tessile riuscì, nei primi dieci anni del nuovo secolo, a soppiantare sui mercati della penisola balcanica la concorrenza dell'Austria-Ungheria, della Germania.
Furono appunto tali accordi commerciali a rafforzare, nel nostro paese, le correnti nazionalistiche, le quali miravano al dominio dell'Adriatico e consideravano l'opposta sponda dalmata e in genere i Balcani come una zona destina passare sotto l'influenza italiana.
Ma nel 1911, il primo ministro Giolitti, anche per porre rimedio alle conseguenze di una nuova crisi, che era iniziata nelle nazioni più evolute verso il 1907, decise di impegnare il Paese nell'impresa di Libia. La spedizione coloniale valse a renderci nemici gli occidentali e ad avvicinarci ancora più alla Germania e all’Austria-Ungheria (con cui tra l’altro eravamo legati dal patto della Triplice Alleanza).
Quando ci si accorse che la conquista della Libia non dava affatto tutti i benefici sperati, e l'Italia ritornò allo scacchiere balcanico, si dovette prendere atto che la sua breve assenza aveva lasciato la 'possibilità ai due Stati amici-nemici di inserirsi su quei mercati. Alla fine l’Italia decise di partecipare al conflitto con le potenze occidentali contro la Triplice Alleanza, firmando, il 26 aprile del 1915, il patto di Londra che prevedeva, per il nostro intervento un prestito di soli 50 milioni di sterline (ma si pensava che la guerra sarebbe stata breve), e facendosi riconoscere ufficialmente il diritto, oltre al raggiungimento dei confini naturali, anche al predominio sull'Adriatico, secondo l’impostazione della politica estera nazionalistica.
L'ultimo anno di guerra - da Caporetto a Vittorio Veneto -, rappresentò una rovina per gli artigiani, per i professionisti, per i pensionati, per i modesti negozianti e bottegai, per i proprietari di case e di terreni affittati a bloccati (tutte categorie di media e piccola borghesia che rappresentarono il primo nucleo del fascismo in apparente rivolta contro l'ingiustizia delle leggi e della società); mentre per gli industriali, per gli agricoltori e per i fittavoli (che vendevano - scriveva Einaudi - direttamente al pubblico, a prezzi subito gonfiati, derrate agricole o merci di consumo o servizi) fu un periodo di facili e rapidi guadagni e di arricchimenti.
Si erano avvantaggiate soprattutto le province industriali e agricole del nord, a differenza di quelle agricole del Sud, che, lontane dai centri industriali di consumo, si erano venute a trovare in condizioni di inferiorità.
Nel 1919 fino a metà del 1920, una domanda in progressiva espansione (perché coloro che avevano dovuto contrarre i loro bisogni durante la guerra si precipitarono all'acquisto dei beni di consumo che apparivano indispensabili) mantenne un boom produttivo che fu ulteriormente causa di guadagni. Boom che naturalmente, provocò un processo inflazionistico, il quale spinse le classi lavoratrici ad agitazioni e scioperi ininterrotti per recuperare, sul piano salariale, il potere d’acquisto che le loro rimunerazioni andavano perdendo.Fu principalmente per questo motivo che, in tale periodo, il movimento fascista, fondato a Milano il 23 marzo 1919, rimase piccolissimo e non riuscì, pur cercando di far leva sui grandi temi di politica internazionale (la condizione di nazione vinta che si era fatta a Versailles, Fiume, ecc.), a fare breccia nella popolazione italiana.
Alla metà del 1920, una nuova domanda di aumenti salariali da parte degli operai metalmeccanici e metallurgici non fu soddisfatta dagli prenditori: si ebbero così la serrata e l'occupazione delle fabbriche: episodio questo che si può dire culminante nella lotta sociale di questi anni, ma che si risolvette in una pesante sconfitta per classe lavoratrice.
Tale situazione fu sfruttata abilmente da Mussolini e dal fascismo che, alla fine del 1921, era diventato un grosso partito, che era in grado di avanzare pretese sotto forma di ultimatum ai liberali.
Gli imprenditori si diedero volentieri al fascismo il quale prometteva loro la "pace sociale," cioè la fine e la repressione di ogni agitazione operaia. Appoggiarono il fascismo anche l'alta burocrazia, l'esercito, buona parte dei ceti medi nazionalistici, e, alla fine, anche la monarchia e il Vaticano, verso i quali ultimi Mussolini aveva fatto nei due discorsi di Udine e di Napoli, ampie dichiarazioni di lealtà abbandonando le sue antiche posizioni repubblicane anticlericali. Ma ci fu pure una notevole debolezza delle correnti politiche democratiche e antifasciste, che credettero tutte che il nuovo regime sarebbe stato un fenomeno passeggero nella vita del paese, destinato a rinuncia presto al potere per riconsegnarlo nelle mani della classe dirigente liberale.
Ma Mussolini proseguiva imperterrito nella sua opera mirante a smantellare tutto ciò che rimaneva dello Stato liberale, e con il patto di palazzo Chigi, tra le Corporazioni fasciste e la Confindustria, concedeva una deroga alla legge sulle otto ore in tutte quelle occupazioni che richiedevano un lavoro continuo e cercava di far riconoscere alle Corporazioni una posizione di privilegio presso gli industriali rispetto alle confederazioni democratiche (la CGL e la CIL cattolica), sostenendo il principio dei "cordiali rapporti fra i datori di lavoro e i lavoratori" e il proposito di far valere la loro collaborazione.
Nel 1924 si dovette assistere al vile e brutale assassinio di Giacomo Matteotti, dopo il violento e pungente discorso, ma privo di qualsiasi accento retorico, che il deputato socialista aveva tenuto alla Camera e in cui aveva chiesto l'invalidazione dell'elezione, alle consultazioni politiche svoltesi il 6 aprile, di tutti i deputati fascisti, perché avvenuta grazie all'uso indiscriminato della violenza.
Il 7 giugno, diceva Mussolini che si notavano parecchi sintomi di una concreta riorganizzazione delle "scompaginate associazioni di classe", che erano favorite "dalla così dette 'cellule di officina' o 'cellule d'azienda," le quali rappresentavano “la base ed il perno della riorganizzazione politica dei partiti sovversivi”.
Eppure, il duce dovette, di lì a poco, accorgersi quanto fosse difficile vincere la resistenza della classe lavoratrice, di quella più matura e più cosciente, poiché anche un anno dopo nel suo discorso del 3 gennaio 1925, con cui pose termine alla secessione dell'Aventino, gli operai metallurgici e metalmeccanici organizzarono uno sciopero contro le ripetute riduzioni dei loro salari. I sindacati fascisti erano stati costretti ad assecondare lo sciopero, per non lasciarsi scavalcare dalla FIOM, che conservava ancora un notevole ascendente sui lavoratori, ma destando una grande meraviglia negli industriali, i quali erano sicuri che il fascismo non avrebbe mai aderito a tali forme di lotta.
Questo sciopero era stato possibile perché esisteva una pluralità di organismi sindacali, e pertanto Mussolini e Rossoni, capo delle corporazioni, provvidero ad eliminare un simile pericolo, firmando, il 2 ottobre 1925, il patto detto di palazzo Vidoni, con cui la Confederazione dell’Industria riconosceva nella “Confederazione delle corporazioni fasciste e nelle organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici".
L'accordo di palazzo Vidoni aboliva le commissioni interne di fabbrica, e con la successiva legge del 3 aprile 1926 e con il regolamento del 1° luglio il regime vietava lo sciopero e la serrata, istituiva la Magistratura del lavoro ed elevava i sindacati dei datori di lavoro e dei lavoratori ad organi indiretti della pubblica amministrazione.
Sembrava ormai del tutto fallita la via dei bassi salari (il costo della vita, nel 1925, era arrivato a 623 sul 100 del 1913-1914, mentre i salari erano giunti solo a 533 un dislivello di 100 punti); l'equilibrio della bilancia commerciale era fortemente compromesso.
Il duce, sperando di sanare la situazione, accettava le proposte della Confindustria e lanciava la campagna in favore del consumo dei prodotti nazionali,e nello stesso tempo, dava inizio alla “battaglia grano”, ripristinando, il 24 luglio 1925, il dazio sul frumento.
Rivalutò la lira riportando il rapporto lira-sterlina a L. 90.
Gli industriali procedettero a una riduzione dei salari in una misura che andava dal 10 al 20%, sicuri che i lavoratori avrebbero dimostrato, ancora una volta, un considerevole spirito di disciplina.
Il 21 aprile 1927 viene promulgata la Carta del Lavoro.
Nel 1928 un incremento della disoccupazione imponeva allo Stato gravi problemi, anche perché i tradizione mercati di assorbimento della nostra manodopera (in particolare gli U.S.A.) continuavano a rimanere chiusi.
Diventava pertanto, indispensabile impostare un programma di lavori pubblici. Le ferrovie dello Stato iniziavano l'elettrificazione della rete; il 17 maggio 1928 veniva istituita l'Azienda autonoma statale incaricata della costruzione delle autostrade, infine, il 24 dicembre 1928, era resa nota la legge sulla bonifica integrale, di cui il fascismo andava particolarmente orgoglioso.
Nel 1929, il nostro paese si stava risollevando lentamente e faticosamente, quando sopraggiunse la grande crisi che, dal "giovedì nero" alla Borsa di New York, si sparse per tutto il mondo, con ripercussioni anche sull'Italia.
Un indice che rivela il peggioramento della situazione economica è quello che riguarda i fallimenti che erano aumentati. In diversi casi per evitarli si era ricorso all'aiuto del governo.
Questa politica di intervento pubblico portò, il 13 novembre del 1931, alla fondazione dell'Istituto Mobiliare Italiano (IMI), al quale fu affidato il compito di accordare prestiti contro garanzie reali di natura mobiliare a imprese private e di assumere eventualmente partecipazioni nelle medesime.
Il 20 marzo 1930 fu istituito ex novo il Consiglio nazionale delle Corporazioni che diede vita a sette corporazioni (Industria, Agricoltura, Commercio, Banca, Professioni e Arti, Trasporti marittimi e Trasporti terrestri) come organi di collegamento tra le Associazioni sindacali riconosciute.
Nel tempo stesso, proseguiva, assumendo grandi proporzioni, il fenomeno della concentrazione e della fusione delle imprese.
La naturale che doveva rientrare sotto l'influenza italiana, era formata dalle nazioni agrarie dell'Europa centro-orientale, che determinavano il quinto posto nel commercio estero.
Il "Piano danubiano" pubblicato dal governo fascista cercava di conseguire due scopi: 1) assicurare nuove possibilità di sbocco alla nostra industria; 2) migliorare la situazione dei porti dell'Adriatico settentrionale.
Ma questa politica danneggiava fortemente gli interessi della Germania. Tanto che quando, nel luglio del 1934, Hitler, appena giunto al potere e che non aveva tardato a rivelare le sue ambizioni di espansione territoriale, tentò di occupare l'Austria, la cui "indipendenza e integrità" era stata garantita, il 17 febbraio, dalla Francia, dall'Inghilterra e dall'Italia, Mussolini inviò al Brennero due divisioni di alpini quasi ad ammonire che l'Italia non sarebbe rimasta spettatrice inerte di quel dramma, ma anche per impedire che, attraverso l'Austria, il Reich penetrasse sempre più a fondo nei Balcani.
Un altro avvenimento, sul piano economico, determinante in questi anni fu la svalutazione del dollaro, voluta Roosevelt, che aveva vinto le elezioni, nel novembre 1932, contro il repubblicano Hoover, per aumentare i prezzi, stimolare di conseguenza la produzione e favorire l’esportazione.
Lo Stato era diventato, per mezzo dell'IRI, il padrone di circa i tre quarti dell'economia italiana industriale e agricola.
Nel giugno del 1933, Mussolini in un articolo sulla sua rivista, "Gerarchia," poneva il dilemma «Pace o guerra? La storia ci dice che la guerra è il fenomeno che accompagna lo sviluppo dell'umanità». E dalla fine del 1933, aveva cominciato a preparare, con il governatore dell’Eritrea, il quadrumviro De Bono, l'impresa d’Etiopia. Era lo sbocco inevitabile dei regimi autoritari europei: il riarmo per superare la crisi, cioè investire il denaro del risparmiatore nella preparazione bellica.
L'abbandono della politica balcanica e l’inizio di una politica di espansione coloniale - proprio in un momento in cui il vecchio colonialismo di tipo ottocentesco stava morendo - era stata suggerita a Mussolini da ciò che gli aveva detto Dino Grandi, che né la Francia né l’Inghilterra volevano assumersi impegni per l'indipendenza austriaca: "Avremo quindi la disgrazia", aveva esclamato "della Germania al Brennero. La sola alternativa che mane è l'Africa," verso cui, del resto, sollecitavano vivamente gli ambienti industriali. I quali furono quelli che ne trassero i maggiori vantaggi, poiché, a partire dalla seconda metà del 1934, le fabbriche incominciarono a lavorare più intensamente.
Il duce aveva avuto l'abilità, che era stata anche di Giolitti nel preparare la spedizione di Libia, di presentare al popolo italiano la conquista dell'Etiopia come quella che avrebbe risolto tutti i suoi assillanti problemi: assorbimento di manodopera disoccupata, mercato su cui vendere i nostri prodotti e da cui trarre le materie prime necessarie per le industrie. In tal modo, si può dire che l'impresa abbia segnato il maggiore consenso popolare al regime.
L'impresa d'Etiopia aveva fatto stringere rapporti più stretti con la Germania. Un motivo a determinare quest'ultima alleanza erano le sanzioni, decise dalla Società delle Nazioni per impedirci la conquista dell'Etiopia (ma esse erano state, in un certo qual modo, sabotate dall'Inghilterra, che non aveva voluto includere nel divieto materie prime come il piombo, lo zinco, la lana, il cotone e il petrolio e si era rifiutata di chiudere il passaggio alle navi italiane attraverso il canale di Suez), e avevano deviato le correnti tradizionali del nostro commercio estero, sviluppando i rapporti con la Germania.
Gli accresciuti interessi mediterranei spinsero il duce ad intervenire in Spagna in aiuto del generale Franco, impegnato in una nuova rivoluzione nazionalistica. Mussolini considerava ormai il Mediterraneo un lago italiano e temette che il Fronte popular spagnolo e il Fronte popolare francese si alleassero, bloccandolo nel Mediterraneo occidentale. Certo, il fascismo si impegnò più a fondo del nazismo (i prestiti del governo italiano a Franco per forniture, ecc. defalcati gli assegni corrisposti ai legionari e le spese sostenute per l'addestramento in Italia dei "volontari" e depennato il valore dei materiali di artiglieria antiquati, ammontarono a Lire 5.716.195.916), ma ciò avvenne appunto perché Mussolini considerava il Mediterraneo un lago italiano, e Hitler lo confermò molto abilmente in tale convinzione.
Ma, nel frattempo, pur concedendo aiuti così forti alla Spagna di Franco, l'economia italiana cominciava a risentire di qualche difficoltà, creata, in parte, dalle sanzioni (che pure non furono applicate dall'Albania, dall'Austria, dall'Ungheria, dagli Stati Uniti, che non erano membri della Società delle Nazioni e, in parte, dalla Svizzera), il che spinse il fascismo ad accelerare i piani per l'autarchia.
La crisi del '29 aveva veramente chiuso l’età della sterlina, della moneta stabile, che aveva caratterizzato l'Ottocento, e aveva aperto una fase di instabilità politica ed economica, di lotta accanita di ciascuno Stato contro l'altro alla ricerca di uno "spazio vitale" che consentisse di vivere autarchicamente.
Traendo, attorno al '39-40, alcune conclusioni sulle corporazioni e sull'autarchia, si poteva dire che si erano risolte in un gran fallimento, perché nono erano riuscite ad evitare il graduale e continuo peggioramento del tenore di vita delle masse lavoratrici e tanto meno erano state in grado di impedire che poche persone realizzassero notevoli profitti.
L’Etiopia non aveva dato tutti i vantaggi desiderati, e allora la politica mussoliniana era tornata verso i Balcani, dove, però, si era scontrata con la preponderante influenza della Germania, la quale aveva maggiore abbondanza di noi in prodotti industriali da vendere su quei mercati in cambio di derrate alimentari.
Da ciò era scaturita la segreta, ma abbastanza manifesta, diffidenza del duce verso il ben più forte alleato, diffidenza che lo portò all'occupazione dell'Albania (7 aprile 1939) e a vagheggiare ipotetiche espansioni nella Jugoslavia del nord, per sottomettere quel paese all’influenza dell'Asse (Asse Roma-Berlino, costituito nel maggio 1938 dopo che l’Italia si era ritirata, l’11 dicembre 1937, dalla Società delle Nazioni).
Il duce non aveva alcuna intenzione di farsi estromettere dalla penisola balcanica, con i cui paesi si era sviluppato il nostro commercio in misura considerevole.
In seguito all'autarchia, la situazione produttiva del nostro paese era molto cambiata e avevano acquistato maggiore importanza le industrie meccaniche e chimiche.
Tutto questo determinava un forte spostamento della popolazione dalla campagna alla città, voluto anche dai redditi più bassi nell'agricoltura che nell'industria (il fascismo cercava di frenare questa immigrazione emanando, proprio nel 1938, leggi che avrebbero dovuto fissare il contadino alla sua terra).
Dal Diario di Ciano del 6 agosto 1939, quando la guerra stava per cominciare: «A battere la strada tedesca si va guerra e ci andiamo nelle condizioni più sfavorevoli per l'Asse e specialmente per l'Italia. Siamo a terra con le riserve auree; a terra con le scorte di metalli; lontani dall'aver completato il nostro sforzo autarchico e militare. Se la crisi viene, ci batteremo per salvare almeno l’onore. Ma conviene evitarla».
E nuovamente:«Si moltiplica il numero delle divisioni, ma in realtà queste sono così esigue da aver poco più la forza di un reggimento. I magazzini sono sprovvisti. Le artiglierie sono vecchie. Le armi antiaeree ed anticarro mancano del tutto. Si è fatto molto bluff nel settore militare e si è ingannato lo stesso Duce. Ma è un bluff tragico. Non parliamo dell'aviazione. Valle denuncia 3.006 apparecchi efficienti, mentre i servizi informazione della Marina dicono che questi sono soltanto 982. Un grosso scarto». Ebbene in tali condizioni, cosa faceva il duce?: «Si concentra piuttosto sulle questioni di forma: succede l’ira di Dio se il presentat’arm è fatto male o se un ufficiale non sa alzare la gamba nel passo romano, ma delle deficienze che conosce a fondo, non sembra preoccuparsi oltre un certo limite».
Probabilmente, con il trasformismo di cui aveva dato ampie prove durante tutta la sua vita, contava molto più che sull’aiuto dei “circoli plutocratici” su quello delle masse lavoratrici, alle quali concedeva, in occasione del ventennale della fondazione dei fasci di combattimento, un aumento dei salari dal 6 al 10% e la riforma delle assicurazioni obbligatorie per la invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi, per la nuzialità e la natalità.
Osserva Ciano: «Il Duce è molto soddisfatto del provvedimento e mi dice: “Con ciò abbreviamo veramente le distanze sociali. Il socialismo diceva: tutti eguali e tutti ricchi. L'esperienza ha provato che tutto ciò è impossibile. Noi diciamo: tutti eguali e tutti abbastanza poveri».
Bibliografia:
1945/1975 ITALIA. Fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento.
Conversazioni promosse dal Consiglio regionale lombardo nel trentennale della Liberazione.
Feltrinelli Editore aprile 1975