Prove di emancipazione
3 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #La Resistenza delle donne
Nella primavera del 1915, mentre i soldati italiani si avviano ai campi di battaglia, un secondo esercito comincia a combattere una sua guerra particolare. È un esercito composto da milioni di donne, anziane e giovanissime, contadine e intellettuali, ricche borghesi e proletarie che da un giorno all'altro si trovano a prendere sulle spalle la conduzione di un paese che ha mandato tutti i suoi uomini validi al fronte. La maggioranza di loro occupa il posto degli operai che hanno lasciato le fabbriche quasi deserte, migliaia entrano negli uffici per sostituire gli impiegati assenti, molte guidano i tram, spazzano le strade, portano la posta o fanno mestieri che ancora non hanno una dizione al femminile: campanaro, fabbro, cantoniere, barbiere, cancelliere e persino pompiere.
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Nei campi si caricano di fatiche maschili e affrontano compiti amministrativi, come vendere e acquistare bestiame, riuscendo a mantenere quasi costante la produzione agricola. Le più benestanti e le aristocratiche fanno le infermiere, assistendo feriti anche a ridosso delle linee di fuoco. Quelle che non vogliono o non possono lavorare a tempo pieno si prodigano in altre forme di partecipazione: madrine di guerra, assistenti di famiglie rimaste prive di sostegno, scrivane per gli analfabeti, organizzatrici di questue, di lotterie o anche dispensatrici di "baci patriottici" a cento lire l'uno. Qualcuna fa la spia, qualcuna la corrispondente di guerra, qualcun'altra tenta addirittura di arruolarsi travestendosi da uomo. Molte, di contro, spinte dalla miseria, si prostituiscono in bordelli itineranti organizzati nelle retrovie dai comandi militari.
Nel giro di pochi mesi l'Italia è interamente in mano alle donne, come del resto accade già da un anno in paesi come la Germania, l'Inghilterra o la Francia. In tutta Europa si crea così una frattura nell'ordine familiare e sociale che non esaurirà con la guerra ma avrà conseguenze più o meno incisive nei decenni a seguire. Anche la gerarchia tra i generi subisce un rivolgimento, seppur temporaneo. L’uomo è al fronte a sparare e uccidere, come vuole il suo ruolo atavico, ma impara a usare ago e filo per rammendarsi gli indumenti e a non nascondere le sue fragilità nelle lettere a madri e mogli. La donna accudisce casa e figli, ma affronta per la prima volta lo spazio aperto del mondo, conquistando (insieme alla doppia fatica) una improvvisa e straordinaria libertà di movimento.
Il punto di partenza (e anche quello di arrivo) delle donne italiane è però qualche passo indietro rispetto al resto d'Europa. Anche se molte già lavoravano da tempo in fabbrica e negli uffici, i loro diritti sono fermi al Codice di Famiglia del 1865. Cioè a zero. Non esercitano alcuna tutela sui figli, devono far gestire al marito i soldi del proprio salario, non possono stipulare contratti o far parte di una qualsiasi associazione senza la cosiddetta "autorizzazione maritale".
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Una situazione che negli anni precedenti aveva fatto nascere anche in Italia un movimento per la parità dei diritti, sia pure condotto in tono minore rispetto ad altri paesi, specie all'Inghilterra dove le suffragette, attive già negli ultimi decenni dell'Ottocento, facevano manifestazioni clamorose rischiando spesso l'arresto. Il movimento italiano, nutrito in gran parte da associazioni femminili di assistenza e impegno sociale, era riuscito comunque a organizzare nel 1908 un grande Congresso Nazionale delle Donne e dar vita a riviste specializzate. Ma nel 1912 quando fu varato il suffragio universale maschile, il Parlamento respinse a grande maggioranza la richiesta di estendere il voto alle donne, giudicato da Giolitti «un salto nel buio».
Gli annunci di guerra avevano poi spaccato la compattezza del movimento, fino ad allora decisamente pacifista. Molte intellettuali, avevano optato per l'interventismo, come la socialista Anna Kuliscioff e come Margherita Sarfatti che smette di scrivere per "La difesa delle lavoratrici" e passa al "Popolo d'Italia". La storica Augusta Molinari, autrice di Una patria per le donne. La mobilitazione femminile nella Grande Guerra, osserva a questo proposito: «Pur non venendo meno la richiesta del diritto al voto, l'etica del dovere verso la patria fa apparire rinviabile ogni rivendicazione di diritti. La priorità dell'azione politica diventa, anche per il femminismo, quello di servire la patria».
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Ma il coinvolgimento delle donne è nei fatti. Massiccio, diffuso, praticamente totale in molti settori della produzione e della scena sociale, occupa presto anche l'immaginario con riferimenti visivi sempre più forti: cartelloni, manifesti e le popolarissime cartoline.
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Se tutto ciò sia stato un volano di emancipazione che ha cambiato in profondità la storia femminile del nostro Paese o soltanto una parentesi di necessità che il fascismo fece presto dimenticare riducendo di nuovo la donna a moglie e madre prolifica, è a tutt'oggi materia di dibattito tra gli storici. Ma se è vero che bisognerà aspettare il secondo dopoguerra perché il suffragio diventi davvero universale (le donne ottennero il voto 31 gennaio 1945), e altri trent'anni perché il nuovo diritto di famiglia del 1975 scardini i residui patriarcali, nessuno mette in dubbio che in quegli anni si verificò una mobilitazione femminile senza precedenti che produsse mutamenti di costume e di consapevolezza non più reversibili.
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