I bambini, i ragazzi e i loro "maestri"
6 milioni di ebrei trovarono la morte nei campi di concentramento e di annientamento, tra i quali un milione di bambini.
La condizione dei bambini
A Terezin non solo venivano separati gli uomini dalle donne, ma anche i bambini e le bambine vivevano in case separate. All'interno degli edifici che li ospitavano vivevano in stanze definite Zimmergemeinschaft ("comunità di camera"). Si trattava di gruppi da 15 fino a 40 bambini, affidati ad adulti che spontaneamente si offrivano per questo compito. Nella maggior parte dei casi si trattava di persone fornite di una preparazione pedagogica, di insegnanti rimossi dal loro ruolo a causa delle leggi razziali. In ogni casa, accanto agli educatori, c'era un medico, un'assistente e del personale ausiliario. Vista così, sembrerebbe una situazione felice! Ma insegnare ai bambini era proibito e chi fosse stato scoperto a farlo sarebbe finito nei trasporti verso Auschwitz. Anche la presenza del medico e dell'infermiera era vanificata dalla mancanza di medicine e di strumenti.
L'opera degli insegnanti
Nonostante la situazione, Irma Lauscherova e i suoi colleghi facevano scuola, riscrivendo a memoria anche i libri di testo, perché non esistevano manuali scolastici. Insegnavano le nozioni di base della matematica, della grammatica, studiavano le poesie insieme ai bambini, li avvicinavano alla letteratura, infondevano passione per la musica, per il teatro, per il disegno.... Si sostituivano ai genitori, ai fratelli maggiori, che spesso erano già stati deportati a est. Si preoccupavano che per i bambini ci fosse cibo a sufficienza, che avessero abiti adatti a proteggersi dal freddo. Vivevano ben consapevoli del loro destino e nella paura continua di essere scoperti e mandati ad Auschwitz con il primo trasporto in partenza.
Friedl Dicker- Brandeis
Intanto i bambini scrivevano, disegnavano, dipingevano ciò che vedevano, ciò che accadeva intorno a loro, ma anche ciò che immaginavano, ciò che desideravano, il piatto della magra zuppa quotidiana, l'SS con il frustino, l'ultimo compleanno, l'ultima festicciola, una passeggiata a Praga o la visita al circo, una grossa torta, un pollo arrosto, una sagra paesana... L'ispiratrice della maggior parte dei disegni fu un'artista e pedagogista nota, Friedl Dicker-Brandeis, deportata a Terezin perché non aveva voluto lasciare i bambini rifugiati che già seguiva a Praga. Nel ghetto pagava con la sua razione di pane la carta e i colori per i bambini e li sosteneva liberandoli dalla paura con l'arteterapia.
Valtr Eisinger
Valtr Eisinger era un insegnante di scuola media superiore deportato a Terezin e responsabile di un gruppo di 42 ragazzi di età compresa fra i 10 e i 15 anni. Li appassionò alla letteratura, alla poesia e li sollecitò ad organizzarsi in una sorta di comunità autonoma, nella quale ognuno era responsabile di un compito (le pulizie, i pasti, l'attenzione ai più piccoli, la cura degli anziani...) Dietro il suo impulso i ragazzi composero poesie e crearono un settimanale interamente autogestito, "Vedem", che usciva in unica copia e veniva letto in soffitta ogni venerdì sera. Il suo direttore era Petr Ginz, un quattordicenne appassionato di fantascienza. Nei quasi due anni di vita del giornalino, nel gruppo di redazione passarono circa un centinaio di ragazzi, ma ne sopravvissero solo 15. Eisinger fu mandato ad Auschwitz e poi a Buchenwald e morì nella marcia della morte. Petr Ginz morì nelle camere a gas di Auschwitz.
Musica e teatro
A Terezin erano stati deportati moltissimi artisti e musicisti. Il maestro Rudi Freudenfeld diresse un coro di bambini e lo preparò a cantare la musica di Hanus Kràsa nell'operetta "Brundibàr", che fu allestita con la scenografia di un grande: Frantisek Zelenka. Fu l'unica opera lirica che poté essere rappresentata in forma teatrale, con scene e costumi. Venne replicata 55 volte e il livello dello spettacolo era tanto elevato, che fu inserita nel documentario di propaganda "Hitler dona una città agli Ebrei". In quell'occasione, "Brundibàr" venne rappresentata in un teatro vero e proprio. Finite le riprese, Hans Krasa, quasi tutti i membri dell'orchestra, i collaboratori, i bambini che avevano partecipato vennero deportati ad Auschwitz.
Janusz Korczak, medico e scrittore, rimase fino all'ultimo accanto ai bambini orfani che gli erano stati affidati.
Quando deportarono i bambini dalla Casa degli Orfani che lui dirigeva, andò con loro e con loro salì sul vagone. Pare che Korczak avesse la possibilità di passare dalla parte ariana di Varsavia e salvarsi. Era stato tenente colonnello dell'esercito polacco e aveva amici tra gli ariani. Forse avrebbe potuto sopravvivere ma scelse di andare coi bambini.
Il 5 agosto 1942 i nazisti circondarono l’orfanotrofio con Korczak e i suoi duecento bambini. Lo storico del Ghetto di Varsavia Emmanuel Ringelblum che fu testimone oculare di quei momenti scrisse a proposito dei bambini che insieme a Korcazk marciarono verso il treno che li avrebbe portati a Treblinka: «... era una marcia organizzata, una muta protesta contro gli assassini... i bambini marciavano in fila per quattro con a capo Korkzak».
L’anziano pedagogista e i suoi bambini trovarono la morte a Treblinka.
Del resto non fu il solo: quando deportarono i bambini del sanatorio di Miedzeszyn quasi tutto il personale (medici, infermieri, insegnanti) seguì i bambini fino alla fine e andò con loro alla morte.
Claude Lanzmann
Nota su Claude Lanzmann e su Shoah
a cura di Frediano Sessi
Nato a Parigi il 27 novembre del 1925, Claude Lanzmann è stato uno degli organizzatori della resistenza al liceo «Blaise Pascal» di Clermont Ferrand, nel 1943. Ha partecipato alla lotta clandestina in città e poi agli scontri del maquis dell'Auvergne. È medaglia alla resistenza con onorificenza, commendatore della Legion d'onore, commendatore dell'Ordine nazionale del Merito e dottore in filosofia honoris causa all'Università ebraica di Gerusalemme, all'Università di Amsterdam, all' Adelphi University e alla European Graduate School.
Lettore all'università di Berlino negli anni del blocco, nel 1952 incontra il filosofo francese Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, di cui diventa amico. Fino al 1970 svolge l'attività di saggista e giornalista. Negli anni seguenti, si impegna esclusivamente nel cinema: dapprima realizza Pourquoi Israël, con il quale ottiene un successo di pubblico considerevole in tutto il mondo, fin dalla sua prima a New York. In seguito, a partire dall'estate del 1973, comincia a lavorare alla realizzazione di Shoah. «Se fossi stato deportato con tutta la mia famiglia, - scrive, - non sarei mai stato capace di girare questo film, questo è certo. Per assumere infatti la posizione di testimone dei testimoni occorreva essere allo stesso modo dentro e fuori, o meglio, fuori e dentro». La lavorazione del film occupa Lanzmann a tempo pieno per undici anni, cinque e mezzo dei quali dedicati al montaggio delle oltre trecentocinquanta ore di ripresa. «Ho cominciato con il leggere. Andavo a tastoni, come un cieco [...]. Non mi sono recato subito sui luoghi. Dapprima ho cercato le persone». Proprio questa ricerca lo obbliga a lunghi viaggi e ad avvicinamenti progressivi, a volte, come fu nel caso dei nazisti, anche pericolosi, per lui e la sua squadra di lavoro. Il suo primo soggiorno in Polonia, sui luoghi del genocidio, risale all'inverno 1977-78. «A quel tempo, - dichiara, - ero una bomba carica di sapere, ma senza detonatore. La Polonia è stata il mio detonatore». La sua emozione più forte, è rappresentata dalla scoperta di un villaggio che aveva nome Treblinka e di una stazione ferroviaria, di binari, vagoni, ecc. Tutto è cominciato da lì, e la prima ripresa ha luogo cinque mesi dopo, nell'estate del 1978. A poco a poco, le foreste, le strade, la terra nuda, i villaggi, il paesaggio e quel che resta dei luoghi dello sterminio oggi disvelano ombre e lacerti del passato. Il film così gravita attorno all'assenza di tracce, all'inaccessibile, al centro dell'occhio del ciclone, come afferma Lanzmann, e riproduce e comunica quello che era sembrato a tutti l'inimmaginabile.
Nel 1985, quando Shoah, della durata di nove ore e mezza, viene presentato al pubblico, subito si parla di un capolavoro assoluto di arte cinematografica e di storia. A New York, nella pausa tra la prima e la seconda parte della sua proiezione, un rabbino chiede di rimanere in sala per recitare il kaddish, la preghiera per i morti. Lanzmann aveva fatto rivivere concretamente il ricordo di tutti quei morti senza tomba. Oggi, Shoah è considerato il più grande film della storia della cinematografia sull'Olocausto e non solo.
«La Shoah non fu solo un massacro di innocenti, ma soprattutto uno sterminio di gente indifesa, ingannata a ogni tappa del processo di distruzione, e fino alle porte delle camere a gas. Bisognava fare giustizia di una doppia leggenda, quella che vuole che gli ebrei si siano lasciati condurre al gas senza presentimenti e sospetti, e che la loro morte sia stata "dolce", e quella secondo la quale non opposero alcuna resistenza ai loro carnefici».
Bibliografia:
Claude Lanzmann – Shoa – Einaudi Stile libero Dvd 2007
"Un vivo che passa" di Claude Lanzmann
Ho realizzato Un vivo che passa, a partire da un colloquio che Maurice Rossel (a capo di una delegazione del Comitato internazionale della Croce rossa (CiCr), ispezionò il ghetto di Terezin
nel giugno del 1944, con l'autorizzazione delle autorità tedesche) mi ha concesso nel 1979, proprio mentre stavo girando Shoah. Per ragioni di tempo e montaggio, avevo deciso di rinunciare a una trattazione diretta nel mio film dello straordinario soggetto rappresentato da Theresienstadt, a un tempo centrale e laterale nella genesi e nello sviluppo della distruzione degli ebrei d'Europa. Si sa che Theresienstadt, città fortezza a circa sessanta chilometri da Praga, era stata scelta dai nazista per essere il luogo che lo stesso Adolf Eichmann chiamava «il ghetto modello», un ghetto da mostrare all'opinione pubblica ostile. Evacuati i suoi abitanti cechi, la città fortezza accolse, dal novembre del 1941 all'aprile del 1945, gli ebrei del grande Reich (Austria, Protettorato di Boemia e Moravia, Germania), quelli che venivano chiamati i «Prominenten» [i privilegiati], da tempo integrati nella società tedesca e che non erano riusciti a emigrare o che, troppo vecchi per ricominciare una nuova vita, vi avevano rinunciato, credendosi protetti dal loro ruolo (ex combattenti decorati al valore della Prima guerra mondiale, grandi medici, avvocati, alti funzionari e uomini politici della Germania pre-hitleriana, rappresentanti di organizzazioni ebraiche, artisti, intellettuali ecc.) e che non era per niente facile sottoporre al «trattamento speciale», con cui venivano assassinati gli ebrei polacchi, dei Paesi baltici e dell'Unione Sovietica. A Theresienstadt, nel 1943 e nel 1944, arrivò anche un piccolo gruppo di ebrei della Danimarca, che non erano riusciti a scappare verso la Svezia, dall'Olanda, dal Lussemburgo, dalla Slovacchia, dall'Ungheria, dalla Polonia e anche dalla Francia.
In verità, quel «ghetto modello» era un luogo di transito, prima o ultima tappa, come si vedrà, di un viaggio verso la morte, che ha condotto la maggior parte di coloro che vi soggiornarono nelle camere a gas di Auschwitz, di Sobibor, di Beliec o di Treblinka, a volte, dopo varie peregrinazioni nei ghetti della Polonia, della Bielorussia o del Baltico che non erano affatto come Theresienstadt «ghetti modello». Oggi disponiamo di dati precisi sul numero dei trasporti e sull'identità delle vittime. Le condizioni reali di vita a Theresienstadt erano spaventose: la maggioranza degli ebrei, uomini e donne che vi erano concentrati, erano molto vecchi e in stato di miseria assoluta, promiscuità e malnutrizione in situazione di sovraffollamento nei caseggiati della città fortezza. A Theresienstadt come altrove, i nazisti mentivano e derubavano coloro che, in realtà, si preparavano a uccidere: fu cosi che la Gestapo di Francoforte propose ad alcune donne anziane e credulone del luogo, prima di deportarle nel ghetto di Theresienstadt, di scegliere tra un appartamento esposto al sole o a nord, costringendole a pagare in anticipo l'affitto della casa fantasma.
Gli ebrei non furono i soli a essere ingannati: «ghetto modello» o meglio ghetto «Potëmkin» (la leggenda vuole che il principe Grigorij Aleksandrovic Potëmkin abbia fatto erigere dei villaggi fittizi lungo la strada che doveva percorrere Caterina II imperatrice di Russia, nell'occasione di una visita in Ucraina e in Crimea, territori di recente annessione). Theresienstadt doveva essere messo in mostra e lo fu.
A capo di una delegazione del Comitato internazionale della Croce rossa (CiCr), Maurice Rossel ispezionò il ghetto nel giugno del 1944, con l'autorizzazione delle autorità tedesche.
Ringrazio Maurice Rossel di avermi consentito di utilizzare il testo del nostro colloquio che ha avuto luogo nel 1979. «Adesso che sono ottuagenario», mi ha scritto, «non mi ricordo molto bene dell'uomo che ero allora. Mi ritengo più saggio o più folle, e forse è la stessa cosa. Sia compassionevole, non mi renda troppo ridicolo».
Ho cercato di rispettare la sua richiesta.
Claude Lanzmann
CLAUDE LANZMANN Dr. Maurice Rossel, ciò che mi interessa essenzialmente è il fatto che lei per me è un personaggio storico: lei ha occupato una posizione assolutamente strategica, in quanto delegato del Comitato internazionale della Croce rossa in Germania, per ...
DR. ROSSEL È esatto. Sì.
C. LANZMANN ... per tutti questi anni. Quando affermo che lei è un personaggio storico, voglio anche dire che non ci sono più persone come lei, che hanno fatto ciò che lei ha fatto, che hanno la sua esperienza e in grado di testimoniare intorno al clima dell'epoca. Per cominciare, vorrei interrogarla proprio su questo. Che cosa voleva dire essere delegato del Comitato internazionale della Croce rossa, in Germania, in piena guerra? In quale anno lei è arrivato a Berlino?
DR. ROSSEL Nel 1942.
C. LANZMANN 1942 ...
DR. ROSSEL 1942, sì, e prima di tutto, è bene che lo sappia, io non mi sono impegnato nella Croce rossa internazionale per spirito apostolico o per predicare la buona novella; l'ho fatto semplicemente per evitare la chiamata alle armi. Ero ufficiale dell'esercito svizzero e in quegli anni tenevamo sotto controllo le frontiere. Si trattava di un'occupazione orribilmente noiosa e io avrei fatto qualunque cosa, qualunque cosa pur di non rimanere a svolgere quel lavoro idiota e questa è la ragione principale per cui mi sono impegnato nel Comitato internazionale della Croce rossa e per la quale sono stato mandato in Germania, dove molte persone non volevano proprio andare in quei momenti; si accettavano, si assumevano volentieri dei giovani e così io sono partito, senza formazione, senza niente del tutto. A venticinque anni non si è ancora un uomo veramente maturo, io ero ...
C. LANZMANN Lei aveva venticinque anni.
DR. ROSSEL Avevo venticinque anni, si. Ero ancora un sempliciotto, un gran sempliciotto, un gran babbeo che arrivava dal suo villaggio e che aveva compiuto gli studi a Ginevra, che non sapeva niente di niente, a parte un breve apprendistato pratico. Ecco tutto.
C. LANZMANN In quanti svizzeri eravate a Berlino?
DR. ROSSEL A Berlino eravamo il più delle volte in sei o otto.
Sei o otto compreso un capo delegazione, M. Marty, che era un grand'uomo, un uomo assolutamente affascinante, un amico, un amico più vecchio che aveva frequentato il mio stesso collegio. Per questo avevo pensato a lui per tirarmi fuori da quel vespaio militare e lui mi aveva aiutato subito. Avevo telefonato il giovedì, e il lunedì sera ero già a Berlino.
C. LANZMANN Si. Molto veloce.
DR. ROSSEL È così, con il passaporto diplomatico e tutto il resto. Si sapeva che in quei momenti si doveva agire in fretta e tra il giovedì e il lunedì successivo tutto era compiuto.
C. LANZMANN Bene, che cosa è successo poi? Mi racconti del suo arrivo a Berlino, le sue prime impressioni ...
DR. ROSSEL Oh, le prime impressioni ...
C. LANZMANN ... e poi l'incarico.
DR. ROSSEL L'incarico: visitare i campi dei prigionieri di guerra, da tenere distinti da quelli dei deportati civili. Oggi non si tiene più conto della differenza e si crede che i prigionieri di guerra e gli internati civili siano la stessa cosa. È assolutamente falso - non si insiste mai abbastanza - i prigionieri di guerra in mano ai tedeschi erano, in linea generale, trattati correttamente. I prigionieri di guerra - ce n'erano circa sei milioni - sono rimasti internati per quattro anni e mezzo e ne sono tornati il novanta per cento.
C. LANZMANN Sì.
DR. ROSSEL Gli internati civili hanno trascorso in media sei mesi nei campi e sono morti al novanta per cento!.
C LANZMANN Sì.
DR. ROSSEL Se non si ha l'onestà di dare giuste spiegazioni, credo, fin dall'inizio, circa questa enorme differenza, non si capisce più niente, niente. E così si vedono dei reportage sui prigionieri ... Credo tuttavia che a lei interessino soltanto i deportati civili, non è vero ?
C. LANZMANN Sì, ma comunque mi interessa sapere con precisione qual era ...
DR. ROSSEL ... qual era il mio lavoro. Il nostro compito, secondo la convenzione di Ginevra, era quello di visitare i campi per prigionieri di guerra e in questo c'era una contropartita; vale a dire altri delegati visitavano i campi dei prigionieri di guerra alleati, capisce, i campi di internamento per tedeschi. E tutta la nostra forza, una forza non tanto morale e nemmeno basata su accordi firmati prima della guerra, si fondava sul fatto che si arrivava in un campo dove ci sentivamo dire: «Ma il tal prigioniero è evaso, è passato in zone dichiarate segretissime e per questo è condannato a morte». Molto bene, bene, d'accordo: adesso, posso vederlo, posso salutarlo e: «Non preoccuparti, - gli dicevo, - aspetterai la fine della guerra condannato a morte, poiché ho nella mia tasca dodici condannati a morte tedeschi che aspettano la stessa cosa. Se sarai giustiziato adesso, anche gli altri verranno giustiziati». Era l'unico modo di parlare, ed è orribile quando si tratta di vite umane, ma non c'era altro mezzo ... Era un mercato e tuttavia funzionava.
C. LANZMANN La cosa funzionava, aveva successo.
DR. ROSSEL Funzionava, funzionava molto bene.
C. LANZMANN Per lei fu un trauma arrivare a Berlino in piena guerra?
DR. ROSSEL Non è stato un trauma, per niente, poiché ero inserito in ambiente elvetico, e con le persone e i medici che erano sul posto, con i quali eravamo in rapporto di amicizia, ci intendevamo e avevamo anche ... come dire, la stessa mentalità.
C. LANZMANN E lei rimaneva con i suoi, tra svizzeri? ..
DR. ROSSEL ... tra svizzeri.
C. LANZMANN O meglio. Avevate anche delle relazioni con i tedeschi, con la popolazione civile?
DR. ROSSEL Molto poco, e penso che sarebbe stato pericoloso per i tedeschi che fossero venuti a casa nostra. Ricevevamo pochi tedeschi, certo avevamo visite, alcune, ma si trattava in particolare di svizzeri, di qualche svizzero che viveva lì. Ce n'era uno ...
C. LANZMANN Dove vivevate? In un hotel?
DR. ROSSEL No, avevamo a disposizione una casa che ci era stata assegnata dal ministero degli Affari esteri.
C. LANZMANN Bene. E vivevate tutti insieme?
DR. ROSSEL All'inizio nella Balansteter Strasse, poi in seguito siamo stati ausgebomt, bombardati e la casa ci è volata via dalla testa, cosi ci hanno sistemato al Berliner Wansee, in una proprietà da sogno, che era di Brigitte Helm ...
c. LANZMANN Ah, sì.
DR. ROSSEL ... attrice del cinema di quei tempi. Era una proprietà superba e noi allora eravamo ... Era un po' un rifugio, un porto sicuro ...
C. LANZMANN Berliner Wansee, in riva a un lago?
DR. ROSSEL Proprio così. Era un porto sicuro quando si rientrava tra una missione e l'altra, e per lo meno ci si poteva rilassare e si trascorreva un momento assai gradevole tra amici. Poiché si riceveva, come dicevamo, c'era anche Scapini che veniva, si ricorda dell'ambasciatore Scapini?
C. LANZMANN Ah, sì, con il ...
DR. ROSSEL Era un mutilato di guerra, ed era cieco.
C. LANZMANN Proprio così.
DR. ROSSEL Era cieco Scapini, ed era lui che aveva la carica di ambasciatore della Francia di Vichy.
C. LANZMANN Era un uomo di Pétain.
DR. ROSSEL L'uomo di Petain.
C LANZMANN Proprio così.
DR. ROSSEL Ebbene, io l'ho visto più di una volta nella nostra sede, aveva sempre al seguito il suo servitore che lo spingeva in una sedia a rotelle. Era un uomo gradevole e noi avevamo relazioni molto corrette con loro, ma niente di più, lei mi capisce, ciascuno ...
C. LANZMANN Si respirava un clima opprimente a Berlino?
DR. ROSSEL Sì. Berlino era come lei sa ... È una grande città, e in una grande città c'è il popolino e il ceto medio che mantengono uno spirito beffardo e anche uno spirito di indipendenza che nessuno può far tacere. Se per esempio, erano stati vittime di un bombardamento scatenato da più di mille aerei, se c'erano stati più di mille aerei sopra il cielo di Berlino, si aveva diritto a una razione supplementare di caffè. Allora, dopo i bombardamenti, la gente diceva: «Ebbene, questa volta avremo diritto al nostro Zitter Kaffee», il caffè tremarella ... avevano diritto a una razione di caffè e ...
C. LANZMANN D'accordo. Lei parla del senso dello humour berlinese.
DR. ROSSEL ... berlinese sì, che esiste e che si ritrova in tutte le grandi città, come le ripeto.
C. LANZMANN Allora, come è accaduto che lei sia giunto a occuparsi dei «campi per internati civili», perché questa è la dizione, non è così?
DR. ROSSEL Sì. I deportati, gli internati civili costituivano un grande problema, perché nel loro caso non c'era alcuna possibilità legale o di contropartita. Saremmo passati sopra anche all'aspetto legale, ma se ci fossero stati campi simili dall'altra parte! Allora, i tedeschi rispondevano: «Voi non avete diritto a niente, non avete diritti, non c'è una sola convenzione firmata da noi che vi autorizza a entrare nei campi dei civili che sono semplicemente dei nemici della Germania, ma che non sono soldati e che abbiamo internato per tutt' altre ragioni. Non li abbiamo catturati sui campi di battaglia». Era giusto. In questo caso, bisognava essere consapevoli che operavamo nell'illegalità totale.
Il Comitato internazionale della Croce rossa, sollecitato dall'organizzazione ebraica americana di aiuto e mutuo soccorso Joint (American Joint Distribution Committee), o da molti altri organismi, mi ha detto: «È necessario ottenere il più possibile delle informazioni, tentare di andare sul posto a vedere di persona, cercare di arrivare almeno fino alla Kommandantur, per cercare di classificare questi differenti campi, vederli e scoprire dove si trovano. Ma in nessun caso lei sarà coperto dalla protezione del Comitato internazionale della Croce rossa. Non abbiamo alcun diritto di mandarla ufficialmente in quei luoghi; ci vada e se si farà arrestare, se avrà delle noie, saranno fatti suoi».
C. LANZMANN Non era una richiesta molto incoraggiante.
DR. ROSSEL Non si trattava di un incarico pressante. «Faremo l'impossibile, le garantiamo di fare tutto il possibile per tirarla fuori dalla grinfie della Gestapo, ma in ogni caso, lei avrà agito per iniziativa personale».
C. LANZMANN Era molto coraggioso per fare una cosa simile!
DR. ROSSEL Non coraggioso, no. Ero, come dire, un po' incosciente. A quel tempo, avevo al mio seguito un ufficiale tedesco che mi accompagnava ...
C. LANZMANN Che cosa le è stato detto? Cercava informazioni, ma le hanno parlato, per esempio, di sterminio?
DR. ROSSEL No, mai, la parola sterminio non l'ho mai sentita.
C. LANZMANN Non è mai stata pronunciata.
DR. ROSSEL No, non è mai stata pronunciata. «Cerchi di entrare, vada in uno di questi campi per civili, cerchi di vedere tutto ciò che le è possibile, faccia ciò che crede meglio, ma stia attento a non comportarsi troppo in modo illegale». Che cosa potevo fare, allora? Avevamo ancora alcune stecche di «Camel», o meglio ancora, delle calze di nylon, o un piccolo transistor se si trattava di un personaggio importante che si doveva ... perché serviva un documento per avere un lasciapassare o essere accompagnato da uno di questi personaggi, e non era certo grazie al nostro aspetto o a delle chiacchiere che potevamo pretendere di passare uno sbarramento che nessuno mai riusciva a superare. Così, con delle calze di nylon per le loro amanti, si riusciva a fargli chiudere gli occhi, e si arrivava fino a un comandante di un campo... E così che sono riuscito a entrare ad Auschwitz.
C. LANZMANN La cosa è in sé straordinaria. Lei è riuscito a entrare nel campo di Auschwitz.
DR. ROSSEL Sì. Come ricorda, avevo un ufficiale dell'esercito che mi accompagnava, un uomo della Wehrmacht, ma a circa quaranta chilometri dal campo, vale a dire dal campo base, siamo stati fermati da posti di blocco di SS e di SD. L'ufficiale fu pregato di scendere, non aveva nessuna autorità, anche se era un graduato dell'esercito tedesco, un Ritterkreuz, per poter entrare in un territorio assolutamente vietato all'esercito tedesco. Allora, ci siamo detti arrivederci e io gli ho rivolto la parola: «Ebbene, vecchio mio, se entro un certo lasso di tempo non mi rivedrà, sarà così cortese, poiché è suo obbligo, di fare rapporto. Arrivederci, dunque! » Da quel momento ho proseguito il viaggio da solo, ma non mi hanno assegnato delle guardie.
C. LANZMANN Lei aveva un autorizzazione per entrare nel campo di Auschwitz?
DR. ROSSEL No, non avevo alcuna autorizzazione. Nessuna.
N essuna. Si trattava ...
C. LANZMANN Ma al campo, per lo meno, lei era atteso!
DR. ROSSEL Per niente, proprio per niente! Assolutamente no! Non ero in possesso di alcuna autorizzazione, non si rilasciavano lasciapassare scritti, o cose del genere e io ho fatto la parte del sempliciotto, dell'ingenuo e così sono arrivato al posto di blocco del campo di Auschwitz, ho...
C. LANZMANN È così dunque? Ma loro hanno almeno fatto una telefonata?
DR. ROSSEL Niente! Proprio no, non hanno ... per niente.
C. LANZMANN Ma è straordinario!
DR. ROSSEL No, no, non ci sono state telefonate, niente di tutto ciò, perché allora io sarei stato fermato. Sarei stato bloccato in partenza.
C. LANZMANN In tal caso, lei pensa che ...
DR. ROSSEL ... avrei ottenuto un rifiuto.
C. LANZMANN E perché lei è andato fino ad Auschwitz?
DR. ROSSEL Sono andato ad Auschwitz, prima di tutto per vedere almeno una volta quel campo, e poi per incontrare il suo comandante. Da Ginevra e da parte del rappresentante e del capo della delegazione di Berlino, il mio amico Marty, avevo una sorta di asso nella manica che non mi sarebbe servito a niente: avrei proposto alle autorità del campo di inviargli dei medicinali per la loro infermeria. Sapevamo assai bene che si trattava di un incredibile imbroglio e che non avrebbero mai accettato.
C. LANZMANN E lei è andato ad Auschwitz!
DR. ROSSEL Ad Auschwitz. Quando sono arrivato all'ultimo posto di blocco e ho fatto vedere i miei documenti ho detto: «Desidero parlare con il comandante del campo».
C. LANZMANN Aspetti. Lei è arrivato ad Auschwitz in treno?
DR. ROSSEL No, non c'erano treni per me. Ero in automobile.
C. LANZMANN In automobile.
DR. ROSSEL Sì, sì, avevo una piccola vettura. Finalmente sono arrivato e ho superato tutti i controlli.
LANZMANN E che cosa ha detto a tutti i posti di controllo che la fermavano?
DR. ROSSEL «Voglio andare alla Kommandantur. Sono diretto alla Kommandantur, ad Auschwitz».
LANZMANN Facendo vedere i suoi documenti della Croce rossa?
DR. ROSSEL Le mie carte di delegato internazionale della Croce rossa, tutto qui. Lo immagina vero, ero un essere del tutto inoffensivo, e non gli facevo proprio paura! Garantito.
Quanto a me, se la paura si faceva sentire ... si cerca di farsi coraggio, ma poi non è così tanto facile sentirsi a proprio agio. Soprattutto quando uno è assolutamente solo. Cosi sono arrivato alla Kommandantur, dove sono stato ricevuto molto correttamente dal comandante del campo.
C. LANZMANN Ne ricorda il nome?
DR. ROSSEL No, non me ne ricordo più, ma è nelle carte del Comitato internazionale della Croce rossa, e io ero ...
C. LANZMANN Era forse Hoss il comandante del campo?
DR. ROSSEL Era un giovane uomo, molto elegante, con gli occhi azzurri, molto distinto e cordiale: «Vuole accomodarsi. Posso offrirle un caffè?» Ed è proprio quello che abbiamo fatto. «Che cosa l'ha condotta qui?» quasi un sogno. Allora ho detto: «Dunque, io sono venuto per proporvi questo e questo ... » Mi risponde: «Ah, ma lei è di origine svizzera? Guarda che coincidenza! La Svizzera mi piace molto. Ho fatto delle gran discese con il bob in Svizzera, ad Arosa», o in un altro posto che non ricordo ..
C. LANZMANN Saint-Moritz?
DR. ROSSEL Davos, era forse Davos, o Saint-Moritz.
C. LANZMANN Bobsleigh?
DR. ROSSEL Non so. Si era dedicato al «bob». In ogni caso, voleva farmi capire che lui apparteneva a quella fascia di società che può permettersi di divertirsi sulle piste da bob. Io che ero figlio di un operaio, avevo visto le piste da bob, ma non avevo mai posseduto i mezzi per offrirmi una vacanza sui Grigioni per fare del bob. Allora abbiamo parlato di tante cose, del più e del meno e io gli ho detto: «Bene. Ecco la situazione. Il Comitato internazionale della Croce rossa desidererebbe avere delle informazioni. Possiamo inviarvi qualcosa di utile?»
E lui, in risposta: «Non vedo perché no. Non direi ... » Come può immaginare, tutto questo non ha condotto a niente.
C. LANZMANN E lei gli ha fatto delle domande precise?
DR. ROSSEL lo gli ho fatto delle domande. La cosa è accaduta in modo molto evasivo, ovviamente, ma ...
C. LANZMANN Che cosa gli ha chiesto?
DR. ROSSEL Gli ho domandato se noi potevamo occuparci dell'infermeria, se potevamo visitarla ... Ha risposto: «No, ci sono internati civili e non ha nessun diritto di vedere e controllare niente. Ma se vuole inviare degli aiuti per l'infermeria, o dei medicinali, può farlo». Allora, gli ho detto: «Posso forse inviarle, farle spedire dei pacchi di generi alimentari?» «Perché no. Può farli inviare».
Quei pacchi, alcuni pacchi, sono stati spediti e sono stati ricevuti. È inverosimile, ma sono stati ricevuti, e abbiamo persino le quietanze di quei pochi pacchi. Comunque, i risultati sono stati in ogni senso irrilevanti, bisogna pur riconoscerlo.
C. LANZMANN Si fermi un attimo, perché ciò che sta dicendo mi interessa molto. Il vostro colloquio, quanto tempo è durato?
DR. ROSSEL Mezz'ora, tre quarti d'ora.
C. LANZMANN E che cosa ha visto del campo?
DR. ROSSEL Niente. Ho visto delle baracche. Dal posto in cui ero ho visto ...
C. LANZMANN Baracche di ...
DR. ROSSEL Baracche militari ...
C. LANZMANN Di legno?
DR. ROSSEL ... delle baracche di legno. Potevano essere le baracche del corpo di guardia? In ogni caso, non ho visto forni crematori in attività, dal luogo in cui mi trovavo seduto.
C. LANZMANN Ad Auschwitz, campo base, le baracche non sono di legno ... sono blocchi in mattoni rossi.
DR. ROSSEL Sì, in mattoni, ma erano baracche uguali a tutti gli alloggiamenti militari. Ho visto colonne di detenuti che ho incrociato. Ne ho incrociati diversi, diverse colonne di detenuti.
C. LANZMANN Che vestivano la divisa a righe?
DR. ROSSEL Si, la divisa a righe e un piccolo berretto in testa. Quella gente, magra, come non devo certo spiegarle, vero? E che vedevano passare un'auto con una bandierina «Comitato internazionale della Croce rossa», e occhi che ... come? È vero.. .. stupiti.
C. LANZMANN Ha visto la famosa scritta sul cancello del campo «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi?
DR. ROSSEL No, non l'ho vista. Non l'ho proprio vista.
C. LANZMANN Allora non è entrato dal cancello principale?
DR. ROSSEL No, non sono entrato da lì. Non sono entrato dalla stazione, e non sono entrato ... Non ho visto la scritta, la parte che ho visto ...
C. LANZMANN Ed è certo di essere stato ricevuto dal comandante del campo?
DR. ROSSEL Questo sì, sì. .. sì, sono certo! Perché quel tipo mi ha dato ... ma sì, sì. Come può immaginare, c'era poca gente. E c'erano assai poche visite!
C LANZMANN Certo, certo, voglio dire che lo capisco assai bene. Ma quando lei dice: «Un giovane uomo», la cosa mi stupisce, perché ...
DR. ROSSEL Il fatto è ...
C. LANZMANN Ci sono più comandanti del campo, e all'epoca ...
DR. ROSSEL Si, certo, era ...
C. LANZMANN D'altronde, in quel periodo non era ...
DR. ROSSEL Doveva avere all'incirca cinquantacinque anni, non di più!
C. LANZMANN Ah, bene, sì, allora d'accordo.
DR. ROSSEL Una volta ho visto un uomo che aveva la stessa andatura, lo stesso stile, in Congo, era il comandante dei mercenari, Schramm ...
C. LANZMANN Sì.
DR. ROSSEL ... che si faceva passare per colonnello. Quando ero con Schramm, avevo l'impressione di essere proprio con il comandante del campo.
C. LANZMANN All'epoca della sua visita, non penso ... non c'era più Höss, e d'altronde Höss era partito proprio in quei giorni. Quanto tempo è rimasto ad Auschwitz? Intendo non al campo, ma nella cittadina di Auschwitz, perché come lei sa c'è una città che si chiamava Auschwitz.
DR. ROSSEL Non ho visto la città.
C. LANZMANN Dunque non ha visto la città vicina? DR. ROSSEL No, non l'ho vista. lo non ho ...
C. LANZMANN Lei non ha cercato alloggio da quelle parti?
DR. ROSSEL Oh no, no. Non avevo possibilità di dormire in quel luogo, poiché si trattava di una zona interdetta per me, totalmente interdetta. Allora, ho fatto ...
C. LANZMANN E lei non ha sospettato niente di Birkenau? Per esempio, allora ...
DR. ROSSEL No, di Birkenau non ho ...
C. LANZMANN ... il campo di sterminio che si trova a circa tre chilometri dal campo base.
DR. ROSSEL No. Esatto. Niente. Ma sapevamo già in quel periodo, e tuttavia io ne sapevo qualcosa da Ginevra, ma niente sul posto.
C. LANZMANN Ma che cosa sapeva esattamente in quel periodo?
DR. ROSSEL Sapevo che c'era un campo di concentramento dove venivano deportati in massa gli israeliti e anche che questi israeliti vi trovavano la morte.
C. LANZMANN Lo sapeva quando si trovava ad Auschwitz?
DR. ROSSEL Sì, lo sapevo.
C. LANZMANN Quando è arrivato lo sapeva?
DR. ROSSEL Certo. Sapevo che quella gente era deportata in massa.
C. LANZMANN E che morivano.
DR. ROSSEL E che vi arrivavano con i treni. E che erano condannati.
C. LANZMANN Sì.
DR. ROSSEL Questo è certo.
C. LANZMANN Non ha visto per caso dei treni?
DR. ROSSEL Non ho visto dei treni, dottor Lanzmann, no.
LANZMANN Ed era fuori questione parlare di questo con il comandante?
DR. ROSSEL Era del tutto fuori questione, assolutamente ... Lei sa bene com' era quella gente... È inverosimile, ma parlavamo proprio come lo stiamo facendo noi ora. Quella gente era fiera del proprio lavoro.
C. LANZMANN Come, questa fierezza si ...
DR. ROSSEL Capisco ...
C. LANZMANN ... si manifestava in pratica?
DR. ROSSEL Oh, niente. Avevano l'impressione di compiere qualcosa di utile. Era questa l'impressione che davano, poiché se si parlava loro dei campi, dei prigionieri, dei detenuti e di simili cose, dicevano: «Sì, ma in realtà, qui, la Germania adesso svolge un lavoro ... »
C. LANZMANN E lei. ..
DR. ROSSEL « ... un lavoro inverosimile, straordinario, per il quale tutta l'Europa ci sarà riconoscente».
C. LANZMANN Sì. Sì tratta comunque di una cosa stupefacente, parlare in una sorta di colloquio intimo con quella gente e certo erano dei maestri nell'arte di mentire, quanto meno, dei ...
DR. ROSSEL Sicuramente ...
C. LANZMANN Lei gli dava ascolto e credito, o ...
DR. ROSSEL Oh, caro dottor Lanzmann, dare ascolto o credito ... Che cosa vuole mai. .. No! Era una commedia che si metteva in scena. Ecco tutto. Tutto qua.
C. LANZMANN E quando è rientrato da questa sua visita ad Auschwitz?
DR. ROSSEL Ho fatto il mio rapporto per la visita alla Kommandantur di Auschwitz. Ma se sapesse ... In breve, è terribilmente povero, non è così? Si giunge in quel posto che si ha letteralmente il gelo nelle ossa e ci si dice: «Ebbene, devo assolutamente arrivare fino ad Auschwitz», e si ritorna e non si riporta niente. Per questo, bisogna essere perfettamente lucidi.
C. LANZMANN Sì, non si riporta niente e poi ci si trova sul posto e non si vede proprio niente.
DR. ROSSEL Sì, non si vede niente ed è proprio questo che voglio dire, e non si riporta niente. Nessuna informazione di una certa validità ...
C. LANZMANN Lei non ha sentito ... io sono stato ad Auschwitz, ma molto tempo dopo, voglio dire, anche quando ci si va oggi, non so bene come sia, ma si è colti da una sorta di sentimento d'orrore, e poi si...
DR. ROSSEL Sì, il sentimento di orrore ...
C. LANZMANN ... e poi si ha paura.
DR. ROSSEL Lei ne avrebbe provata ancor più se entrando nel campo avesse incontrato le colonne dei prigionieri, a gruppi di trenta o quaranta, magri, scheletrici.
C. LANZMANN Sì.
DR. ROSSEL Sì. Allora quando incrociava quegli esseri, non so esattamente, se quattrocento, cinquecento, sul suo cammino ...
C. LANZMANN Vedendo questa gente, ne ha ricevuto l'impressione che si trattava di persone che soffrivano molto e che, per farla breve, erano dei moribondi, o dei condannati a morte a ...
DR. ROSSEL Era ... Era il... era questo. Erano insomma degli scheletri ambulanti, perché non venivano nutriti ...
C. LANZMANN Sì.
DR. ROSSEL Non è cosi? Avevano soltanto gli occhi che vivevano.
C. LANZMANN Avevano soltanto gli occhi che erano vivi, sì.
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN Allora si trattava di quelli che vengono chiamati «musulmani», e che invero, hanno uno sguardo molto, molto intenso.
DR. ROSSEL Si, molto intenso, molto intenso. Quella gente mi osservava con una incredibile intensità, al punto di voler dire quasi: «Ebbene, ecco un tipo che arriva qua e come? Un vivo che passa» proprio così, e che non era un SS.
C. LANZMANN Si, è così. Lei era in abiti civili?
DR. ROSSEL Sempre, con abiti civili.
C. LANZMANN Non aveva proprio per niente una uniforme?
DR. ROSSEL Ah, no. No. No, sarebbe stata la catastrofe, non crede?
LANZMANN Certo. Lei ha parlato di queste squadre di internati ...
DR. ROSSEL Certo.
C. LANZMANN .,. nel suo rapporto.
DR. ROSSEL Sì, ma la cosa non ci diceva niente di nuovo.
C. LANZMANN Sì.
DR. ROSSEL Niente di nuovo. Queste cose erano risapute davvero. Pensi, non si dirà mai abbastanza come ciò fosse troppo poco, troppo poco e triste.
C. LANZMANN Ma lei dice che queste cose erano risapute, eppure ha detto anche che non se ne sapeva proprio niente.
DR. ROSSEL Noi, no. Voglio dire, io ... erano conosciute da Ginevra. Io le ho sapute dopo. Le ho sapute dopo. Sono venuto a sapere, per esempio, che la Joint conosceva bene tutte queste cose. Me ne stupisco a posteriori, che questa gente, per esempio, non sia mai entrata in contatto con la Delegazione di Berlino, dicendo: «Noi abbiamo queste informazioni, delle notizie precise, noi sappiamo questo e quest'altro. Che cosa ne sapete voi? Avete delle informazioni in proposito?» Ecco.
C. LANZMANN Ma questo significa che, quando lei era nell'ufficio del comandante, o di colui che si è presentato come il comandante del campo di Auschwitz ...
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN ... lei in quel momento, voglio dire, la mia è una richiesta precisa, perché è molto importante: lei sapeva che si trovava proprio nel cuore di un campo di sterminio?
DR. ROSSEL Non ne avevo realizzato l'importanza. Proprio per niente. Sapevo che si trattava di un campo terribile, e che coloro che partivano per Auschwitz non ne facevano ritorno. Ma noi non avevamo la minima idea della massa di gente che ne era coinvolta. Sapevamo che si trattava di un campo terribile, ecco tutto.
C. LANZMANN E si vedevano dei bagliori, delle fiamme? Perché tutti coloro che sono stati ad Auschwitz ...
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN I polacchi che abitavano in città e nella zona, ancora oggi raccontano ...
DR. ROSSEL ... che vedevano dei bagliori e delle fiamme.
C. LANZMANN Proprio così, che si vedevano fiamme e bagliori.
DR. ROSSEL lo non ho visto né fiamme né fumo.
C. LANZMANN Niente?
DR. ROSSEL Niente.
C. LANZMANN E nemmeno odore?
DR. ROSSEL Nemmeno odore. Puzzano sempre tremendamente le baracche militari e simili luoghi. Ma quando mi si parla di puzzo di carne bruciata o di simili cose, perché altri l'hanno sentito o hanno visto, io non ho visto e sentito niente.
C. LANZMANN Poteva forse dipendere dal vento.
DR. ROSSEL È possibile.
Bibliografia:
Claude Lanzmann – Shoa – Einaudi Stile libero Dvd 2007
Terezin, in tedesco Theresienstadt
Il testo di questa conversazione riproduce i dialoghi del film di Claude Lanzmann Un vivant qui passe. La sua importanza è legata al contenuto: la strabiliante scoperta che un delegato della Croce rossa internazionale visitò il campo di Auschwitz e il ghetto di Terezin (Terezin, in tedesco Theresienstadt), mentre era in corso lo sterminio degli ebrei, e non si accorse, o non volle accorgersi di niente.
... dei dettagli delle cose che i nazisti hanno attuato in occasione della visita ... di tutte le misure che sono state prese. ... Per esempio, avevano fatto ripulire tutte le strade e le avevano fatte asfaltare. Questo è stato un primo provvedimento. Sulla grande piazza di Theresienstadt, proprio di fronte al Kaffehaus, avevano fatto erigere, qualche giorno prima del vostro arrivo, un padiglione per la musica, con un orchestra che suonava ... Inoltre, hanno sistemato delle panchine nella piazza e nel cosiddetto giardino pubblico, ecc. ... uno spazio per i bambini, per i neonati e per i più piccoli, di una sorta di Kinder Pavillon, decorato con immagini di animali, e con una cucina, delle docce e dei lettini. Questo è stato fatto ... tutto ciò non esisteva prima ...E non esisterà dopo ...
C. LANZMANN Adesso, Dr. Rossel, parliamo di Theresienstadt.
DR. ROSSEL Theresienstadt. È un grande problema. Un problema molto grande! La visita a Theresienstadt fu organizzata dai tedeschi sotto la pressione e la richiesta reiterata, in particolare del Comitato internazionale della Croce rossa, ma anche di altri Paesi neutrali. lo ho fatto parte di questa visita organizzata ...
C. LANZMANN Era lei dunque che rappresentava il Comitato internazionale della Croce rossa?
DR. ROSSEL Sì, ma solo durante la visita a Theresienstadt.
C. LANZMANN Soltanto per questa visita.
DR. ROSSEL La prima.
C. LANZMANN La prima.
DR. ROSSEL Perché ci sono state tre visite se non ricordo male.
C. LANZMANN Due.
DR. ROSSEL O due. Ce n'è stata una dopo. In questa, ero stato incaricato di andare a vedere ciò che mi mostravano. Ho fatto un rapporto allora che non rinnego e che confermo nella sua sostanziale validità. Se ero l'incaricato, dunque, ero gli occhi che potevano vedere e dovevo, ripeto, dovevo fare il possibile per vedere anche oltre, se ci fossero state delle cose da vedere oltre. È stato detto che Theresienstadt era una sorta di campo Potëmkin, vale a dire quel villaggio finto preparato apposta per la visita della zarina. Forse era ancor più grave di così, perché la nostra visita era stata con tutta evidenza preparata a ragion veduta.
C. LANZMANN Era il 23 giugno del 1944.
DR. ROSSEL 1944. Grazie per avermelo ricordato. Sarei stato incapace di essere così preciso con la data. Si trattava di una visita ben preparata come una commedia ... Lei mi chiede: «Qual era la sua impressione, qual era il clima a Berlino, qual era l'atmosfera nel momento in cui era ad Auschwitz?» Ebbene, per essere espliciti, a Theresienstadt l'impressione era di un clima del tutto falsificato. Innanzitutto perché la visita fu richiesta dai nazisti e poi perché era attesa; come sempre, in piena guerra, quando si aspetta un'ispezione, tutto viene messo in ordine. Quanto a me, ciò che mi diede subito fastidio fu anche l'atteggiamento degli attori israeliti. Si trattava di un villaggio Potëmkin, un villaggio truccato, e se adesso io posso essere franco ...
C. LANZMANN Deve esserlo.
DR. ROSSEL A questa età se non si dice quel che si pensa veramente!
C. LANZMANN Assolutamente.
DR. ROSSEL Era un campo riservato ai privilegiati. È orribile a dirsi, perché mio Dio, e poi non voglio accusare nessuno, non voglio ferire della gente che ha sofferto terribilmente. Ma sfortunatamente, c'erano dei Prominenten, dei privilegiati appunto e il campo dava l'impressione che avessero rinchiuso là dentro degli israeliti molto ricchi, o importanti nella loro città, che non si poteva certo fare scomparire troppo d'improvviso. Là dentro c'era una quantità di notabili che era in ogni senso anormale, se paragonata con la situazione degli altri campi, persino per prigionieri, non è così? Non so bene quanti medici ci fossero, e quanti notabili d'ogni dove e l'atteggiamento di tutta questa gente era assai curioso. Poiché un uomo che di mestiere visita continuamente e per mesi i campi per prigionieri, ha l'abitudine di notare un tipo che gli fa l'occhiolino e che attira la sua attenzione su qualcosa di particolare. Era un atteggiamento corrente. Ebbene, a Theresienstadt, niente, niente. Una docilità e una passività che per me erano ... che davano luogo al peggior malessere.
Era una visita prevista dalle SS sulla quale si poteva riferire: «Ho visto questo e quello, ho fotografato la tal cosa, ecc.» Io ho fotografato tutto quello che ho voluto, del resto ho scattato molte e molte e ancora molte fotografie. Si dice che una fotografia, a volte, parla assai più che non mille parole, non è forse vero? Ebbene ho fotografato molto, ma il clima era falsato da questa impressione di quegli israeliti che si consideravano, essi stessi, mi capisca bene, dei Prominenten, è questo il termine che si preferiva a quel tempo, vale a dire come dei privilegiati, e che non avevano per niente voglia di rischiare di venire deportati, perché altrimenti si sarebbero concessi un'allusione, o un segno, o se si vuole il passaggio di un foglio o di un rapporto; cosa che gli sarebbe stata assai facile, dottor Lanzmann, facile, facile, poiché non eravamo spiati e filmati e non c'erano i mezzi che ci sono oggi per sottoporre qualcuno a controllo. A Theresienstadt, quando passavamo da quei piccoli corridoi, o attraverso la città stessa, o da una stanza, se qualcuno, lei mi capisce, avesse voluto metterci in tasca, a me o agli altri due delegati, qualcosa, la cosa sarebbe stata estremamente facile.
C. LANZMANN Capisco bene quel che vuole dirmi. Ed è un punto molto importante. Quanto tempo è durata la sua visita nel ghetto di Theresienstadt?
DR. ROSSEL La mia visita, penso, direi che è durata due o tre ore.
C. LANZMANN Non di più?
DR. ROSSEL Non di più.
C. LANZMANN A me sembra che sia durata di più. Nel rapporto lei afferma che è stata più lunga.
DR. ROSSEL Lo vedo, dottor Lanzmann, sa ... sono passati ... Lei dice che era il 194··· 3 ?
C. LANZMANN 44.
DR. ROSSEL 44. Ne è passata acqua sotto i ponti. Non voglio dire di avere ragione ... non voglio proprio ... ma in questo momento ho l'impressione precisa che la mia visita sia durata due o tre ore al massimo.
C. LANZMANN Lei è arrivato verso le dieci del mattino.
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN Poi ha pranzato ed è ripartito verso le sei del tardo pomeriggio.
DR. ROSSEL Ma certo, allora c'è stata una parte della visita fuori della città fortezza. Sicuro. Ci hanno spiegato infatti che c'era anche una Kleine Festung, è vero.
C. LANZMANN La piccola fortezza.
DR. ROSSEL Non avevamo ... non avevamo alcun diritto di entrarvi. Ci è stato detto: «In ogni modo, voi potete passarci davanti, ma là sono rinchiusi dei prigionieri di "diritto comune". I "diritto comune" sono dei detenuti, dei nostri detenuti e la cosa non vi riguarda. Avete il diritto di visitare la città». Come lei sa, la città stile Vauban è ben protetta e cintata da ... Come Langres un po', se si vuole, non è forse così?
C. LANZMANN Sì, sì.
DR. ROSSEL Costruita del resto in uno stile architettonico simile.
C. LANZMANN Sì, una fortezza.
DR. ROSSEL Una fortezza chiusa, di quelle fortezze che non sono mai state attaccate e che per questo sono rimaste intatte.
C. LANZMANN Ha fatto la visita in compagnia di. ..
DR. ROSSEL Ho compiuto la visita in compagnia di alcuni impiegati del Consolato che dovevano essere dei danesi o degli olandesi, non mi ricordo con esattezza.
C. LANZMANN Dei danesi.
DR. ROSSEL Danesi. E poi con i tedeschi, le SS e i responsabili nazisti che hanno organizzato la visita. Non ricordo i loro nomi, e non posso proprio fare niente al proposito per dirglieli.
C. LANZMANN Non glieli ha chiesti i nomi?
DR. ROSSEL Oh no, li ho visti appena.
C. LANZMANN E ha visto tanti ebrei?
DR. ROSSEL Molti. Erano tutti israeliti. Per quel che mi riguarda non ho visto altre persone là dentro. Inoltre avevano tutti la stella gialla. Dunque ho visto soltanto israeliti.
C. LANZMANN Uno di loro le ha rivolto la parola?
DR. ROSSEL Ah sì. Il dottor so and so, che si è annunciato ...
C. LANZMANN Epstein.
DR. ROSSEL Epstein in qualità di capo del ghetto. Ed era lui che ci guidava nella visita. Ma proprio lui, in nessun istante ... E allucinante, non è vero che nessuno ti dica: «Ma insomma, questa è tutta una farsa». E veramente, lo era fino a quel punto!
C. LANZMANN Perché lei oggi dice che era tutto una farsa? A quell' epoca, lo sapeva che si trattava solo di una farsa?
DR. ROSSEL No. Ma si sapeva bene che se si veniva invitati a visitare un campo, si trattava di un campo eccezionale.
C. LANZMANN Lei ha assolutamente ragione quando dice che si è trattato di una farsa, ma di una farsa preparata in modo straordinariamente eccellente. I nazisti preparavano la vostra visita da mesi, e si trattava di quella che loro chiamavano la Verschonerungsaktion, che significa: azione di abbellimento. Voi, avete realmente fatto visita a un ghetto Potëmkin. A quell'epoca ne aveva avuto sentore?
DR. ROSSEL No, no. Ho creduto e poi lo credo ancora che mi abbiano fatto visitare un campo per notabili ebrei privilegiati. Era l'impressione che avevo e che ne ho tratto. Non l'ho mai scritto nero su bianco. Del resto, il comportamento della gente era tale, che la cosa era molto antipatica in sé. L'atteggiamento degli israeliti in quella città ... Io stesso avevo l'impressione che ci fossero degli israeliti, e lo penso tutt' ora, che a colpi di dollari e a forza di versare dollari al Portogallo riuscivano a sistemare la loro situazione e si permettevano così di durare. E lei lo sa meglio di me che taluni israeliti molto ricchi hanno persino ottenuto dei permessi di espatrio, firmati da Himmler. Non se ne parlava, tuttavia, con quella gente in quel campo, mio Dio, ma ... ma, intendo dire, se ne parlava tra di noi, e sapevamo bene che se si era abbastanza ricchi da possedere, per esempio, un quarto di Budapest e compagnia, e poi se si era il signor Tale e Tal altro che oggi ... parlo delle dinastie ...
C. LANZMANN È successo in Ungheria con la famiglia Weiss.
DR. ROSSEL La famiglia Weiss. Allora, quella gente, a dire il vero, possedeva abbastanza denaro per rendersi liberi e ottenere permessi di espatrio. Ebbene, in quel caso, avevo l'impressione di essere di fronte a gente che non aveva la levatura internazionale dei Weiss o di un Rothschild, per potere uscire dalle grinfie naziste, ma che erano abbastanza potenti e che dovevano avere versato una buona quantità di denaro per essere in quel posto. È l'impressione che ho al fondo del mio cuore e che ho portato con me dopo la mia visita a Theresienstadt. E io me lo chiedo ancora oggi - ci credo ancora - malgrado tutto quello che mi hanno detto.
C. LANZMANN Che cosa le hanno detto?
DR. ROSSEL Ebbene, che dopo la mia visita questa gente è stata sterminata, immediatamente. Credo ancora che fossero notabili israeliti abbastanza ricchi per pagare la loro sopravvivenza, essendo là.
LANZMANN Vennero sterminati dopo la sua visita e furono sterminati prima.
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN Allo stesso modo.
DR. ROSSEL So bene che molti di loro sono stati sterminati dopo.
C. LANZMANN Dopo la visita.
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN Bene, d'altronde era l'idea di Himmler fin dall'inizio. Creando Theresienstadt, aveva voluto dar vita a un ghetto. All'inizio per gli ebrei del Reich, del grande Reich, vale a dire Germania, Austria e Cecoslovacchia, per quegli ebrei che era assai più difficile sottoporre a trattamento, perché ...
DR. ROSSEL È proprio così.
C. LANZMANN ... perché erano ex combattenti della Prima guerra mondiale ed erano delle persone anziane.
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN Donne anziane e uomini in età avanzata. Ed è vero che tra loro c'erano anche quelli che lei chiama i Prominenten, vale a dire della gente che aveva lavorato negli organismi della comunità ebraica e, anche ... che sono stati deportati a Theresienstadt con altri. Ma proprio Himmler aveva l'intenzione precisa di camuffare l'impresa generale di sterminio, e Theresienstadt era qualcosa che si poteva e che si voleva mostrare.
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN Bene. Ma la verità è che prima della visita della Croce rossa, circa centomila ebrei che erano passati da Theresienstadt sono stati deportati ad Auschwitz e a Treblinka, dove sono morti, e dopo la visita è accaduta la stessa cosa. E il ghetto di Theresienstadt viveva nel terrore più assoluto. Allora, in effetti, quello che lei ha visto, capisco assai bene le sue sensazioni, ma lei ha visto il terrore di quegli ebrei. E colui che vi ha ricevuti, il famoso sindaco di Theresienstadt, o il presidente ... del ghetto, il dottor Epstein, e di cui lei ha detto che parlava proprio come un automa, non è così?
DR. ROSSEL Si, è proprio così.
C. LANZMANN Ebbene, è stato assassinato tre mesi dopo la vostra visita.
DR. ROSSEL È pur sempre, pur sempre ...
C. LANZMANN Nella Kleine Festung, la piccola fortezza.
DR. ROSSEL Alla piccola fortezza. Lei sa bene qual è la caratteristica dei tedeschi e, io penso, di ogni regime che organizza campi di sterminio; è quella di utilizzare una parte delle vittime in compiti amministrativi e organizzativi. Al termine di un certo periodo di tempo, poiché essi sono perfettamente al corrente di quanto è accaduto proprio a coloro che loro stessi hanno fatto partire per il massacro, sanno bene che non sopravviveranno. Si tratta di un sadismo straordinario, perché i tedeschi non avrebbero mai avuto bisogno, loro che sono macchine e perfetti organizzatori, dell' aiuto delle loro vittime, ma hanno trovato in quei politici o in quegli israeliti sempre un gruppo di persone che credevano di poter sopravvivere o di durare alcuni mesi di più, collaborando!
C. LANZMANN Quello che lei dice adesso rappresenta un grosso problema, in verità.
DR. ROSSEL Ma sta proprio qui l'orrore. Dottor Lanzmann è qui che si trova l'orrore, perché è là dove l'uomo discende sempre più in basso ... non è forse così?
C. LANZMANN Ripeto che la questione costituisce un grosso problema ... un vero problema ... e una cosa simile è accaduta in tutti i ghetti dell'Est ...
DR. ROSSEL Sì, si pone questo problema in tutti i ghetti.
C. LANZMANN È la questione degli Judenräte, dei consigli ebraici dei ghetti. Ma nel suo rapporto lei dipinge un quadro abbastanza soddisfacente di. ..
DR. ROSSEL Abbastanza soddisfacente ...
C. LANZMANN ... di Theresienstadt.
DR. ROSSEL ... delle condizioni di igiene e di tutto ciò che ho visto. Se lei è ... dottor Lanzmann, se la mandano in un posto per osservare e vedere.
C. LANZMANN Ma lei ha anche detto per osservare e per vedere al di là ...
DR. ROSSEL Al di là, certo, al di là.
C. LANZMANN ... al di là di ciò che a un primo sguardo si vede.
DR. ROSSEL Ebbene, ciò che io ho visto proprio al di là, è questo asservimento, questa passività, qualcosa insomma che non avevo digerito.
C. LANZMANN Sono in possesso dei dettagli delle cose che i nazisti hanno attuato in occasione della visita ... di tutte le misure che sono state prese.
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN Ed è straordinario perché si trova con esattezza la stessa cosa nel suo rapporto. Lei afferma che ha potuto scattare tutte le fotografie che voleva. Ed è proprio questo che loro volevano, che lei scattasse delle fotografie.
DR. ROSSEL Certo.
C. LANZMANN Lo desideravano ... Per esempio, avevano fatto ripulire tutte le strade e le avevano fatte asfaltare. Questo è stato un primo provvedimento. Sulla grande piazza di Theresienstadt, proprio di fronte al Kaffehaus, avevano fatto erigere, qualche giorno prima del vostro arrivo, un padiglione per la musica, con un orchestra che suonava, ed è proprio quell'orchestra che lei e la delegazione avete visto e di cui parla nel suo rapporto.
DR. ROSSEL Pensi che non me ne ricordo più.
C. LANZMANN Eppure è così
DR. ROSSEL Ah, le credo, le credo.
C. LANZMANN Ma tutto ciò non esisteva prima.
DR. ROSSEL Ne sono convinto.
C. LANZMANN E non esisterà dopo. Le dico questo, per mostrarle l'immensità dell'inganno e come era stato preparato. Inoltre, hanno sistemato delle panchine nella piazza e nel cosiddetto giardino pubblico, ecc. Lei parla nel suo rapporto con grande meraviglia di uno spazio per i bambini, per i neonati e per i più piccoli, di una sorta di Kinder Pavillon, decorato con immagini di animali, e con una cucina, delle docce e dei lettini. Questo è stato fatto ...
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN ... qualche giorno prima del suo arrivo, e poi è scomparso subito dopo, e per un motivo molto semplice: le nascite erano praticamente vietate ...
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN ... a Theresienstadt. Con l'aborto obbligatorio.
DR. ROSSEL Ecco!
C. LANZMANN Era contraddittorio rispetto alla politica di sterminio permettere ...
DR. ROSSEL Certo.
C. LANZMANN ... delle nascite. Allo stesso modo avevano messo dei pannelli colorati con dei cartelli indicatori: zur Bank, zur Post, zur Kaffehaus (in direzione della posta, della banca, del caffè), come facevano del resto nei campi di sterminio. A Treblinka era la stessa cosa: c'era una stazione, con un orologio, ben decorato, ma che segnava sempre la stessa ora. Bene. E le case che le hanno fatto vedere erano state ristrutturate completamente. Lei scrive anche di avere assistito a un pasto, dove c'era una cameriera che aveva una cuffietta inamidata. Tutto questo era stato predisposto esclusivamente per lei e per i delegati ...
Lei scrive: «Lo stato dell'abbigliamento, in linea generale è soddisfacente. Le persone che incontriamo per strada sono vestite bene, con le differenze che si incontrano normalmente in una piccola città, tra gente più o meno ricca. Le signore eleganti hanno tutte calze di seta, cappelli e foulard, borsette moderne. Anche i giovani sono vestiti bene. Si incontrano anche dei ragazzi con capelli lunghi e barba». Li avevano preparati apposta per lei. Nel suo rapporto, parla anche, ed è una delle rare eccezioni di cose negative che racconta, di sovrappopolazione. Ma la sovrappopolazione era tale che, per preparare la visita, i nazisti hanno deportato circa cinquemila persone ad Auschwitz, dove questa gente è stata gassata subito, perché così il luogo era meno popolato e lei avesse una migliore impressione. Lei parla della banca. Bene. Tutto ciò era stato preparato solo per la visita. Hanno anche ribattezzato le vie. Lei parla di libertà di culto e ha fatto visita a una sinagoga. Non c'era una sinagoga a Theresienstadt. Era una sorta di palestra che hanno trasformato, otto giorni prima, in sinagoga. Hanno cambiato tutto. Hanno persino cambiato i nomi. Hanno sostituito il termine ghetto con l'espressione Judisches Siedlungsgebiet, vale a dire area di popolamento ebraico. Il Judenälteste, l'anziano, il presidente del Consiglio ebraico, che era Epstein, aveva assunto un nuovo titolo e i nazisti lo chiamavano il sindaco di Theresienstadt. Avevano vietato anche il Grusspflicht, l'obbligo del saluto, vale a dire, quello prescritto agli ebrei che erano tenuti a salutare i nazisti. E lei non lo ha visto, perché il saluto obbligatorio, rivolto a un nazista davanti a lei, era vietato sotto pena di morte. Hanno persino fatto delle prove generali prima della visita, perché il nervosismo era ai massimi livelli, e avevano così paura che lei potesse dubitare di qualcosa, che hanno ripetuto la parte come ossessi. La sua visita è stata teleguidata, metro per metro e al secondo. E allora, quando lei parla delle condizioni degli alloggi, per esempio, dicendo che le sono sembrati in complesso decenti e convenienti, dimostra di non aver visto niente di Theresienstadt! Perché si doveva andare nelle baracche o nelle caserme, dove la gente viveva come ad Auschwitz.
DR. ROSSEL Certo.
C. LANZMANN Vivevano nei letti in quattro o in cinque ...
DR. ROSSEL ... di questo, adesso, ne sono consapevole.
C. LANZMANN ... quattro o cinque per letto, e in pratica vivevano in condizioni spaventose. Lei parla di alimentazione. E nel suo rapporto riporta anche il numero delle calorie e dice, duemilaquattrocento calorie ... questo dice.
DR. ROSSEL Ho riportato quello che mi è stato riferito.
C. LANZMANN Le calorie erano duecento. La gente crepava di fame. Lei dice dodici o quindici decessi al giorno, nel suo rapporto, il che fa circa quattrocento morti al mese. E non le hanno certo mostrato che a Theresienstadt c'è un crematorio che vale per grandezza quanto quello di Auschwitz, con quattro forni giganteschi. E bruciavano le persone, intendo, a Theresienstadt era ... ed è per questo che la storia è terribile, le condizioni di vita erano atroci e la gente veniva poi deportata ad Auschwitz o a Treblinka, senza mai tregua, senza tregua e tutto questo non si è mai fermato. E questo Epstein di cui lei parla, in realtà era un uomo coraggioso, e proprio a causa del suo coraggio e di un discorso che ha pronunciato tre mesi dopo la sua partenza, è stato assassinato alla piccola fortezza.
DR. ROSSEL Alla piccola fortezza.
C. LANZMANN Ma quello che volevo chiederle ... Che sia stato ingannato non c'è niente di strano, poiché i nazisti volevano proprio imbrogliarla. E tuttavia lei afferma che l'atteggiamento degli ebrei l'ha infastidita, come la loro passività; è questo che ha detto, vero?
DR. ROSSEL È così.
C. LANZMANN Ma allora, vorrei sapere perché lei dice queste cose oggi e non ne parla nel suo rapporto? Perché nel suo rapporto lei dice: «Ho visitato una città di provincia normale».
DR. ROSSEL Esatto.
C. LANZMANN ... «quasi normale».
DR. ROSSEL «Quasi normale» è proprio quello che mi hanno fatto vedere. E io non avevo niente da dire, non potevo certo inventarmi cose che non avevo visto.
C. LANZMANN No, certo, lei non poteva inventarsi cose che non aveva visto, ma avrebbe, forse, potuto ...
DR. ROSSEL Avrei potuto ...
LANZMANN Poiché afferma che il nodo della questione era di riuscire a vedere oltre.
DR. ROSSEL Oltre.
C. LANZMANN Per esempio non poteva accorgersi ... di quella parodia?
DR. ROSSEL In quel caso, uno si aspetta, come le ho già detto, almeno una strizzatina d'occhio, un aiuto. Niente. Dottor Lanzmann, niente è proprio niente. Niente è niente. Oggi ancora non riesco a capire quella gente che sapeva, oggi ne siamo consapevoli appieno, sapeva di essere perduta, condannata che ... come ...
C. LANZMANN Non ci si sente mai completamente perduti, si ha sempre un po' di speranza.
DR. ROSSEL Si, vivevano nella speranza di quella commedia, dato che, anche lei l'ha detto e oggi se ne ha la prova, giocavano tutte le loro carte, le loro ultime possibilità di sopravvivere.
C. LANZMANN Recitavano una commedia sotto la minaccia di un terrore. Questo è molto chiaro. Del resto, lei non ha parlato con qualche ebreo.
DR. ROSSEL Con nessuno.
C. LANZMANN Solo quell'Epstein ha parlato con lei, un uomo che era ...
DR. ROSSEL Qualche parola.
C. LANZMANN Sì.
DR. ROSSEL Solo qualche parola.
C. LANZMANN Credo che lui abbia fatto un discorso introduttivo e poi un saluto al momento della partenza, e lei ne trae l'essenziale ...
DR. ROSSEL È probabile.
C. LANZMANN ... delle informazioni, che poi sono contenute nel rapporto.
DR. ROSSEL Non mi ricordo più tanto bene del suo discorso introduttivo.
C. LANZMANN No, ma lei dice, per esempio, ed è questo che mi sembra interessante ... Nel suo rapporto, scrive: «Possiamo dire che l'aver trovato in quel ghetto una città che viveva una vita quasi normale ci ha causato uno stupore immenso ... »
DR. ROSSEL Sì, questa è l'impressione che ne ho ...
C. LANZMANN «Ci aspettavamo il peggio», ecc., «Abbiamo detto agli ufficiali della polizia SS, incaricati di accompagnarci, che la cosa che ci ha stupiti di più è stata la difficoltà di ottenere le autorizzazioni formali per visitare Theresienstadt».
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN Ed è proprio quello che volevano farle credere ...
DR. ROSSEL Farmi credere.
C. LANZMANN ... in un certo senso. Ma poi, perché scrive a un certo punto: «È una città normale» e poi scrive: «Questa città ebraica è veramente sorprendente». Se è normale, che cosa c'è di sorprendente in quel luogo ? Che cosa l'ha sorpresa?
DR. ROSSEL Mi è difficile oggi ritornare nei panni di quell'uomo giovane che ero in quegli anni. Ma effettivamente, non mi aspettavo quello che ho visto. Mi aspettavo una visita come quella che facevo ai prigionieri di guerra, o ai prigionieri sottufficiali renitenti, nel corso delle quali si vedevano delle persone ... mi capisce, magre, smunte, gente come quella che incontravamo tutti i giorni nei campi di deportati e pur anche nelle stazioni! Vedevamo appunto queste cose. E Theresienstadt mi aveva dato l'impressione di essere una città per ebrei privilegiati.
C. LANZMANN Ma non erano magri?
DR. ROSSEL No, non erano magri.
C. LANZMANN Crepavano di fame.
DR. ROSSEL Non erano affatto magri ... quelli che ho visto io non erano proprio per niente magri.
C. LANZMANN Crepavano di fame. Le hanno nascosto i magri.
DR. ROSSEL Sì, mi hanno nascosto i magri. Ma anche i bambini non erano proprio magri.
C. LANZMANN Lei dice ... ah sì, volevo chiederle anche questo, a proposito della vita in famiglia. Lei scrive questo, mi perdoni un attimo, ecco: «A causa della sovrappopolazione, la vita familiare è sfortunatamente difficile a Theresienstadt. Molte persone che vivono nelle baracche collettive sono separate. Queste persone, naturalmente, hanno tutta la libertà di ritrovarsi fin dal mattino, e poiché si tratta in generale di gente anziana, non ci sono reclami». Ecco, non ho ben capito quello che voleva dire.
DR. ROSSEL Ah! Forse volevo dire che le coppie erano separate e che tuttavia si trattava di uomini anziani e di donne vecchie ...
C. LANZMANN Sì, insomma non ne soffrivano ...
DR. ROSSEL Proprio così, non soffrivano di essere ...
C. LANZMANN Sì, è così. .. non c'erano problemi ...
DR. ROSSEL Forse è proprio questo che voglio dire nel rapporto.
C. LANZMANN ... problemi di sesso.
DR. ROSSEL Lo penso, ma non lo so con esattezza.
C. LANZMANN Non è a me che l'ha detto, ma alla mia collaboratrice: ha detto che aveva l'impressione che quella gente fuggisse lontano da lei come si fugge dalla peste.
DR. ROSSEL Ah, sì. Certo. La gente mi evitava. Era una cosa piuttosto evidente.
C. LANZMANN Faceva forse parte della commedia il fatto di evitarla? Proprio così, si sentivano incapaci di recitare quella scena.
DR. ROSSEL Può essere, può essere. Ma nessuno ha tentato di dirmi qualcosa, nessuno si è fatto carico di pensare: «Ebbene, lancerò un grido e proverò almeno a dire qualcosa».
C. LANZMANN Sarebbe stata la morte immediata.
DR. ROSSEL La morte immediata. La questione non si pone nemmeno. Non so come si possa reagire, non ho mai vissuto l'esperienza di avere un fucile puntato nella schiena, ma comunque quella passività è qualcosa di molto difficile da digerire.
C. LANZMANN Imputa loro una certa colpevolezza.
DR. ROSSEL No, non spetta a me giudicare, ma sono stupito questo sì. Che si possa mettere in scena una commedia che coinvolge centinaia di persone e che la cosa funzioni: questo mi stupisce.
C. LANZMANN Gli ebrei erano gli attori, ma i loro registi erano i tedeschi.
DR. ROSSEL Ah, certo, la questione non si pone nemmeno.
C. LANZMANN Lei conclude il rapporto: «La nostra relazione non cambierà il giudizio di nessuno. Ciascuno è libero di condannare l'atteggiamento assunto dal Reich per risolvere la questione ebraica. Se tuttavia, questo nostro rapporto dissipa una parte del mistero intorno alla città di Theresienstadt, questo basta». Che cosa voleva dire esattamente con questa frase? Quali erano le persone alle quali sperava di fare cambiare il giudizio?
DR. ROSSEL In ogni caso, eravamo assolutamente contrari alla segregazione razziale e contro la deportazione degli israeliti nei ghetti. È qualcosa di così contrario alla nostra mentalità di piccoli svizzeri, che io non avevo mai visto nulla di simile, tanto che questo era già di per sé un orrore, anche se non avevamo consapevolezza dello sterminio di massa.
C. LANZMANN Si duole oggi per questo rapporto?
DR. ROSSEL Non vedo proprio come avrei potuto redigerne un altro diverso. Lo firmerei ancora.
C. LANZMANN Anche sapendo ciò che le ho detto?
DR. ROSSEL Sì, certo.
C. LANZMANN Vale a dire che l'hanno completamente ingannata ...
DR. ROSSEL Sì, ma ...
C. LANZMANN E che la realtà era ...
DR. ROSSEL ... era ...
C. LANZMANN ... un inferno. Certo, lei non scrive che si tratta di un paradiso, ma il suo rapporto è roseo.
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN Si ricorda di Epstein? Fisicamente, a chi assomigliava?
DR. ROSSEL Non riesco a vederlo bene. Vedo un vecchio signore, e vedo ... ma no, sarei ... no, proprio non lo vedo. Non posso affermare che riesco a vederlo e non posso descriverglielo.
C. LANZMANN L'hanno ucciso esattamente tre mesi dopo la sua visita. Le deportazioni per Auschwitz ricominciavano, e questo creava un grosso terrore a Theresienstadt e c'era il panico...
DR. ROSSEL Sì.
LANZMANN ... nel ghetto. Ha fatto questo discorso di cui adesso le leggo un piccolo estratto, che traduco con approssimazione: «Theresienstadt si assicurerà la possibilità di sopravvivere soltanto mobilitandosi radicalmente per il lavoro». Pensavano che il lavoro li avrebbe salvati. «Non bisogna parlare, ma lavorare. Basta con le speculazioni. Siamo come su una nave che aspetta di entrare in porto, ma che non può raggiungere la rada perché una barriera di mine glielo impedisce». Era nel settembre del 1944.
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN Almeno, avevano notizie di ciò che stava accadendo fuori.·«Soltanto il comandante della nave conosce lo stretto passaggio che conduce al porto. Non deve prestare attenzione alle luci ingannevoli e ai segnali che gli provengono dalla costa. La nave deve restare dove si trova e attendere ordini. Dovete avere fiducia nel vostro comandante che fa tutto ciò che è umanamente possibile per garantirvi la sicurezza dell'esistenza. In tal modo, avviciniamoci al nuovo anno». Si trattava del nuovo anno ebraico, in settembre.
DR. ROSSEL Sì.
C. LANZMANN «Avviciniamoci al nuovo anno con serietà e fiducia e con la ferma volontà di rimanere ancorati e di fare il nostro dovere». E i nazisti l'hanno ucciso alcuni giorni dopo, per essere precisi, alla piccola fortezza, Kleine Festung, con una pallottola nella nuca. Le sue parole sono strazianti.
Bibliografia:
Claude Lanzmann – Shoa – Einaudi Stile libero Dvd 2007
La storia Simon Srebnik
A ottanta chilometri a nord-ovest di Lódz, nel cuore di una regione un tempo a forte popolazione ebraica, Chelmno fu in Polonia la località del primo sterminio di ebrei con il gas. Ebbe inizio il 7 dicembre 1941. 400.000 ebrei furono assassinati a Chelmno in due periodi distinti: dicembre 1941-primavera 1943; giugno 1944-gennaio 1945. Il modo di somministrare la morte rimase fino alla fine identico: i camion a gas.
Dei 400.000 uomini, donne e bambini che giunsero in quel luogo, si contano due superstiti: Michael Podchlebnik e Simon Srebnik.
Simon Srebnik, sopravvissuto dell'ultimo periodo, era allora un ragazzino di tredici anni e mezzo. Suo padre era stato abbattuto sotto i suoi occhi, nel ghetto di Lodi, sua madre asfissiata nei camion di Chelmno. Le SS lo arruolarono in uno dei reparti di «ebrei del lavoro», che assicuravano la manutenzione dei campi di sterminio ed erano anch'essi destinati alla morte.
Catene alle caviglie, come tutti i suoi compagni, il ragazzo attraversava ogni giorno il villaggio di Chelmno. Dovette il fatto di essere risparmiato più a lungo degli altri alla sua estrema agilità, che gli faceva vincere le gare organizzate dai nazisti fra quegli incatenati, gare di salto o di corsa. E anche alla sua voce melodiosa: diverse volte alla settimana, quando si doveva dar da mangiare ai conigli dell'allevamento SS, Simon Srebnik, sorvegliato da un guardiano, risaliva il Ner su una imbarcazione a fondo piatto, fino ai limiti del villaggio, verso i campi di erba medica. Cantava arie del folklore polacco e il guardiano in cambio gli insegnava ritornelli militari prussiani. A Chelmno tutti lo conoscevano. I contadini polacchi, ma anche i civili tedeschi, poiché quella provincia della Polonia era stata annessa al Reich alla caduta di Varsavia, germanizzata e ribattezzata Wartheland. Così avevano cambiato Chelmno in Kulmhof, Lódz in Litzmannstadt, Kolo in Warthbrücken, ecc. Dei coloni tedeschi si erano stabiliti ovunque nel Wartheland, e a Chelmno esisteva anche una scuola elementare tedesca.
Nella notte del 18 gennaio 1945, due giorni prima dell'arrivo delle truppe sovietiche, i tedeschi uccisero con una pallottola nella nuca gli ultimi «ebrei del lavoro». Simon Srebnik fu anche lui abbattuto. La pallottola non lese i centri vitali. Tornato in sé, si trascinò fino a un porcile. Un contadino polacco lo raccolse. Un ufficiale medico dell' Armata Rossa lo curò, lo salvò. Qualche mese più tardi Simon partì per Tel Aviv con altri scampati.
E là in Israele l'ho scoperto.
Ho persuaso il ragazzino cantore a ritornare con me a Chelmno. Aveva 47 anni.
Una piccola casa bianca
mi resta nella memoria.
Di questa piccola casa bianca
sogno ogni notte.
Contadini di Chelmno
Aveva tredici anni e mezzo. Aveva una bella voce, cantava in modo molto bello, e lo ascoltavamo.
Una piccola casa bianca
mi resta nella memoria.
Di questa piccola casa bianca
sogno ogni notte.
Quando l'ho riudito cantare oggi, il mio cuore ha battuto molto più forte, perché quello che è successo qui è stato un delitto. Ho davvero rivissuto quello che è successo.
Simon Srebnik
Difficile da riconoscete, ma era qui. Qui bruciavano la gente.
Molta gente è stata bruciata qui. Si, è questo il luogo.
I camion a gas arrivavano là.
C'erano due immensi forni e dopo, gettavano i corpi in quei forni, e le fiamme salivano fino al cielo.
Fino al cielo?
Sì.
Era terribile.
Questo non si può raccontare. Nessuno può immaginare quello che è successo qui. Impossibile. E nessuno può capirlo.
E anch'io, oggi...
Non posso credere di essere qui. No, questo non posso crederlo.
Qui era sempre così tranquillo. Sempre.
Quando bruciavano ogni giorno 2000 persone, ebrei, era altrettanto tranquillo.
Nessuno gridava. Ognuno faceva il proprio lavoro.
Era silenzioso. Calmo. Come ora.
Tu, ragazza, non piangere,
non essere così triste,
ché la cara estate si avvicina ...
e allora tornerò.
Un fiaschetto di rosso, una fetta di arrosto,
è ciò che le ragazze ...
offrono ai loro soldati.
Quando i soldati sfilano
le ragazze aprono ...
le loro porte e finestre.
Contadini di Chelmno
Pensavano che i tedeschi facessero apposta a farlo cantare sul fiume.
Era per loro un oggetto di divertimento. Lo obbligavano a farlo.
Cantava, ma il suo cuore piangeva.
Quando la famiglia si riunisce ne parlano ancora, intorno alla tavola.
Perché la cosa era pubblica, vicino alla strada tutti lo sapevano.
Era davvero un'ironia da parte dei tedeschi, loro uccidevano la gente, ma lui era obbligato a cantare. È questo che pensavo.
Claude Lanzmann
Bibliografia:
Claude Lanzmann – Shoa – Einaudi Stile libero Dvd 2007
1922-1923 la violenza fascista
Il 25 aprile 1945, giorno della liberazione, segnò la fine della guerra in Italia e l'inizio di una nuova storia nazionale. Le forze della Resistenza, dopo due anni di lotta contro l'esercito nazista e i fascisti della repubblica di Salò, avevano vinto. La loro azione aveva liberato intere regioni, facilitato l'avanzata delle truppe alleate e del ricostituito esercito italiano lungo la valle padana, salvato porti e impianti industriali. Grandi e piccoli centri erano insorti gli uni dopo gli altri ma il momento decisivo fu l'insurrezione delle grandi città del Nord, Genova, Milano, Venezia, dove gli uomini armati delle montagne si congiunsero ai gruppi che già operavano per le vie e per le piazze; la vittoria era l'atto finale della Resistenza iniziata all'indomani dell'8 settembre 1943 ed era costata un largo tributo di sangue: 46.000 morti e 21.000 feriti. «L'Italia - scrisse Churchill- deve la propria libertà ai suoi caduti partigiani, perché solo combattendo si conquista la libertà».
Il 25 aprile il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia assunse i poteri di governo, mentre Mussolini in uniforme tedesca cercava di fuggire oltre confine. Il fascismo finiva a Milano dove era nato. Ma l'azione armata, la lotta partigiana non erano stati uno scatto di rivolta, un capovolgimento improvviso, una sommossa imprevedibile. Quel 25 aprile maturava da più di vent'anni, dapprima nell'animo di pochi che poi coraggiosamente avevano condotto molti all'opposizione e alla lotta. Quella giornata segnava il culmine degli anni oscuri e difficili dell'opposizione politica e morale al fascismo, la fine vittoriosa di una lotta per la libertà cominciata molto tempo prima.
1922-1923 la violenza fascista
La lotta era cominciata il 28 ottobre 1922 all'epoca della cosiddetta «marcia su Roma».
Allora solo pochi capirono il pericolo e si opposero all'avvento del fascismo al potere. In realtà non fu un vero colpo di Stato; il re, il Parlamento, l'esercito avrebbero potuto facilmente impedirlo. Infatti le colonne fasciste che si avvicinavano alla capitale erano state agevolmente fermate da un pugno di soldati e di carabinieri, da alcuni blocchi ferroviari, da qualche acquazzone autunnale. Il loro capo, Benito Mussolini, era a Milano, chiuso nella sede del suo giornale, in attesa degli eventi. Arrivò a Roma solo più tardi, in vagone letto, quando il re lo convocò al Quirinale. E solo allora, dopo che i più alti organi dello Stato gli avevano aperto le porte, i fascisti poterono sfilare per le vie della città. Ma quella parata disordinata dinanzi ad una popolazione muta ed incerta segnò la fine di un'epoca e l'inizio della conquista del potere da parte di una minoranza aggressiva. Gli uomini che allora si impadronirono del Paese, sia pure con una vernice di legalità, erano infatti una minoranza, sconfitti in tutte le elezioni fin da quando si erano organizzati in partito nel 1919.
Le cause di quella facile vittoria erano molte. La fine del primo conflitto mondiale aveva aperto in Italia, a differenza degli altri Paesi vincitori, una crisi economica, morale e sociale. Le deboli strutture del Paese non avevano resistito ad una guerra che gli interventisti, contrariamente alla opinione di Giolitti, dei socialisti e dei cattolici, avevano ritenuto breve e vittoriosa. Poi, nonostante la vittoria, una profonda delusione aveva afferrato gli animi; le classi smobilitate, i reduci dal fronte portavano aspirazioni nuove, insoddisfatte; si diffondevano l'inquietudine e lo spirito di protesta. Le organizzazioni degli ex combattenti accusavano lo Stato di debolezza; serpeggiavano rivendicazioni di carattere nazionalistico e l'avventura dannunziana di Fiume aveva fornito un pessimo esempio di rivolta contro lo Stato.
La crisi economica era gravissima, il costo della vita s'era moltiplicato di cinque volte. La presenza delle grandi fortune accumulate in pochi anni e il modello della rivoluzione russa inducevano gli operai a manifestazioni di insofferenza e di protesta, e i contadini a reclamare le terre che erano state loro promesse negli anni difficili. Gli scioperi, l'occupazione delle fabbriche e delle terre erano frequenti, e avevano fatto insorgere nelle classi abbienti uno spirito di reazione e nei ceti medi un desiderio d'ordine imposto anche con la forza. La classe politica dirigente si dimostrava incapace di valutare i pericoli che si profilavano, di trovare un assetto stabile basato sulla collaborazione, e usava invece le agitazioni sociali come uno strumento per dividere gli avversari, credendo di poterli poi facilmente controllare.
I partiti si frazionavano in una lotta che disperdeva le loro energie, mentre i grandi proprietari terrieri favorivano l'azione di chi sembrava proteggerli dalla sovversione e dalle richieste popolari. La democrazia liberale che per più di quarant'anni aveva governato l'Italia unita, oscillava fra una politica di concessioni e di riforme e la tentazione di repressioni autoritarie. Altri gruppi politici non intendevano sostenerla né collaborare tra loro; fu il caso dei socialisti e dei cattolici che non riuscirono a raggiungere una intesa e, cosa più grave, si rifiutarono di partecipare ad un governo presieduto da Giovanni Giolitti.
In questo quadro il fascismo, nato con un vago programma sociale, ma con precise intenzioni di potere, aveva trovato presto la propria strada, inserendosi nella crisi dello Stato. A molti sembrava promettere fermezza, decisione e i frutti della vittoria, ad altri appariva capace di reprimere i tumulti nelle piazze o nelle campagne. Sconfitto alle urne, il fascismo aveva subito scelto la strada della violenza. In tre anni le imprese degli squadristi erano state innumerevoli, avevano colpito le leghe contadine, le cooperative, le amministrazioni comunali, le sedi dei giornali di opposizione, le case degli avversari politici, uccidendo, devastando, protette dall'impunità.
Alla fine, davanti all'ultimo atto di debolezza della monarchia, e del governo, Mussolini e il suo partito, in quell'ottobre del 1922 esautorarono definitivamente lo Stato e conquistarono il potere. Il futuro duce sfruttava nella sua propaganda l'aspirazione all'ordine e i più genuini sentimenti patriottici. Basta ricordare la famosa frase pronunciata al momento di ricevere l'incarico dal re: «Maestà, vi porto l'Italia di Vittorio Veneto».
Non si può ancora, a questo punto, parlare di antifascismo. C'era chi vedeva chiaramente la minaccia, chi già combatteva o era rimasto vittima, e c'era ancora un'opposizione parlamentare. Sembrava ancora possibile frenare la corsa alla dittatura, «normalizzare», come si diceva, il movimento, opporgli armi legalitarie. Era un'illusione che cadde presto. Conquistato il governo, il terrorismo fascista non scomparve. Continuarono le «spedizioni punitive», le devastazioni dei giornali; si moltiplicarono le vendette e le persecuzioni. Gli squadristi non tolleravano che la loro «rivoluzione» fosse ancora sottoposta alle critiche o al voto parlamentare. Le squadracce sfuggivano allo stesso controllo dei dirigenti del partito.
I «ras» di provincia, tra cui si distinguevano Italo Balbo e Roberto Farinacci, imperversavano contro le organizzazioni contadine, le cooperative, i circoli di cultura, le Case del popolo, specialmente nella Valle Padana, in Emilia e in Romagna, dove la classe contadina e quella operaia erano più avanzate. È qui appunto che con l'aiuto della classe agraria sono nate le prime e più violente squadracce fasciste che aumentavano di giorno in giorno di numero e di forza soprattutto per l'aiuto delle questure di allora.
In tutta Italia la violenza fascista non aveva tregua e le repressioni costituivano un metodo di governo, mentre Mussolini in Parlamento minacciava di fare di quell'aula «sorda e grigia un bivacco di manipoli».
Furono particolarmente presi di mira alcuni centri dell'antifascismo, fra cui Molinella, un piccolo paese presso Bologna, che venne perseguitato per anni. Qui, come altrove, il fascismo s'accanì contro ogni forma d'organizzazione democratica. Una delle vittime più note di Molinella fu il sindaco socialista Giuseppe Massarenti, organizzatore di cooperative e animatore della collaborazione contadina. Per questo egli doveva poi finire al confino ad Ustica.
La strada della violenza era ormai irreversibile. E l'esempio più clamoroso si ebbe a Torino dove nel dicembre del 1922 con il pretesto di una vendetta privata, i fascisti rastrellarono la città, incendiarono i circoli e le Camere del Lavoro, devastarono la sede della rivista Ordine Nuovo, malmenarono Antonio Gramsci e i suoi compagni. Il bilancio della triste impresa fu l'assassinio di undici persone, operai e dirigenti sindacali, compiuto dagli uomini del console della milizia Piero Brandimarte. Nessuna reazione delle autorità, e solo qualche blando provvedimento del governo: la pratica fu archiviata e gli assassini rimasero impuniti.
Il 23 agosto del 1923 fu ucciso a colpi di bastone il giovane parroco di Argenta Don Minzoni, allievo di Toniolo, laureato in scienze sociali, decorato di medaglia d'argento per aver combattuto con gli arditi sul Piave. Don Minzoni era colpevole, agli occhi dei fascisti emiliani, responsabili della sua morte, di aver chiesto la distribuzione ai contadini delle terre e nuovi patti di lavoro. Anche questo delitto rimase impunito e il capo della Pubblica Sicurezza d'allora, Emilio De Bono, scrisse al fiduciario di Ferrara: «Per eventuali bastonature non si devono imbastire altri processi». La stampa di opposizione aveva ancora sufficiente autonomia da denunciare il fatto e La Voce Repubblicana, diretta dal Ferdinando Schiavetti, accusò Italo Balbo quale mandante dell'aggressione.
Il primo anno di governo fascista, fu così caratterizzato dall'imperversare dei «ras» di provincia contro ogni forma di opposizione e di vita democratica. Questo triste periodo, che vide l'agonia della libertà, si chiuse con due episodi di violenza a Roma: l'invasione della villa dell'ex Presidente del Consiglio, Saverio Nitti, e la bastonatura di Giovanni Amendola, uno dei maggiori oppositori del fascismo, approvata poi dal giornale di Mussolini. Si continuava a sperare nella normalizzazione ma l'anno successivo, il 1924, fu, in un certo senso, ancora peggiore.
Di seguito gli articoli:
Le elezioni del 1924 e il delitto Matteotti
1925: La distruzione delle strutture dello Stato di diritto
L’opposizione al fascismo, in esilio
L’attivismo di Giustizia e Libertà
Bibliografia:
Andrea Barbato e Manlio Del Bosco in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966
27 giugno 1924: l'Aventino
Dopo un primo periodo di incertezze e di sgomento seguìto all’uccisione di Matteotti, Mussolini cominciò a reagire passando alla controffensiva e, come primo atto, chiuse la Camera dei Deputati. Le opposizioni però, dai democratici ai popolari, dai socialisti ai comunisti, sembrarono finalmente in grado di coalizzarsi. Il 27 giugno, in una sala di Montecitorio, ricordando Matteotti, Filippo Turati pronunciò un solenne discorso. La mozione finale dell'assemblea, approvata all'unanimità, stabilì che l'opposizione non sarebbe rientrata alla Camera finché non fosse stata soppressa la milizia fascista e punita la violenza e la illegalità. Nacque così la secessione parlamentare che prese il nome di Aventino.
Col discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini si assunse da solo la responsabilità storica, morale, politica dell’accaduto. «Dichiaro qui - egli disse - al cospetto di questa assemblea, al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica, di tutto quanto è avvenuto ... se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere».
Come reagì l'Aventino? Quali che furono le incertezze e le debolezze della secessione, con essa si affermò in maniera netta l'opposizione morale, prima ancora che politica, fra i partiti democratici da una parte e il fascismo dall'altra. Ma la controffensiva democratica, chiesta fra gli altri da Gobetti, non ci fu. In realtà i deputati aventiniani, con Amendola in testa, credevano di avere posto le condizioni costituzionali per un intervento del re. Ma Vittorio Emanuele rimase sordo ai loro appelli confermando così la sua fiducia in Mussolini. Da quel momento l'antifascismo scelse la sua strada che fu d'opposizione intransigente. A Firenze un gruppo di ex combattenti (Cristofani, De Liguori, Piani, Traquandi) fondarono un'associazione antifascista clandestina, «Italia libera», che in qualche occasione scese anche in piazza apertamente, e di cui fecero parte Carlo Rosselli e Ernesto Rossi, la medaglia d'oro Raffaele Rossetti e tanti altri. Nacque quindi, patrocinata da Amendola, la «Unione Nazionale delle Forze Liberali e Democratiche », in cui rientrarono, fra i tanti, Bonomi e Calamandrei, Cianca e De Ruggiero, Papafava e Ruini, Salvatorelli e Vinciguerra, Carlo Sforza. Erano gli ultimi sussulti di libertà.
Il regime si sentiva forte, sicuro di vincere. L'ultima trincea dell'opposizione fu la stampa. Perseguitata in tutti i modi, soffocata, sabotata, la stampa antifascista continuò ad essere una delle poche voci libere in un Paese che si avviava alla tirannia. C'erano i grandi quotidiani ancora per poco indipendenti, e accanto ad essi Il Lavoro di Genova, Il Mondo di Roma, diretto da Alberto Cianca e sul quale scriveva Amendola. E c'erano i giornali di partito: Il Popolo, La Giustizia, L’Avanti, La Voce Repubblicana, L’Unità, e qualche altro. Accanto ad essi, si allineavano i grandi periodici di battaglia: insieme a L'Ordine Nuovo, che Antonio Gramsci aveva fondato nel 1919, c'era a Torino un centro ideologico e morale che fu La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti. A Firenze si distingueva un periodico battagliero diffuso clandestinamente, il Non mollare, nato in casa di Carlo e Nello Rosselli e a cui collaboravano anche Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini e Nello Traquandi. A Milano, Ferruccio Parri e Riccardo Bauer, con altri, dettero vita alla rivista Il Caffé.
In realtà dopo il 3 gennaio, il giornalismo indipendente cominciò ad avere la vita sempre più difficile: sequestri, arresti di direttori (tra i quali Pietro Nenni), allontanamento e sostituzione dei giornalisti irriducibilmente avversi. Il senatore Alfredo Frassati fu costretto a cedere La Stampa e Luigi Albertini ad abbandonare il Corriere della Sera. I giornali divennero così portavoce ufficiali della politica del governo, con ordini severi o comunicati precisi da pubblicare. La stampa libera, colpita da decreti di soppressione, fu costretta a diventare clandestina.
Poche ormai erano le voci che osavano levarsi contro il regime. Tra queste, il manifesto redatto da Benedetto Croce, con il quale il filosofo napoletano rispondeva al manifesto di Giovanni Gentile e degli intellettuali fascisti. Il documento di Croce, firmato da molti degli uomini di cultura che si opponevano alla tirannia, diceva, fra l'altro, di voler essere «la protesta sollevata da alcuni liberi intellettuali contro la versione e l'interpretazione delle cose d'Italia che gli intellettuali fascisti hanno creduto di dover diffondere». Anche nelle Università, tra gli studenti, si svilupparono fermenti di opposizione al fascismo. Nella vecchia Sapienza di Roma, come negli altri atenei italiani, si formò l'«Unione Goliardica per la Libertà» fra cui si ritrovarono, allora ventenni, alcuni uomini che nel 1943 si adoperarono per la ricostruzione dei partiti: Ugo La Malfa, Lelio Basso, Rodolfo Morandi, Giorgio Amendola, Leone Cattani e tanti altri.
Nel 1925 si tennero gli ultimi congressi d'opposizione: quelli dell'Unione Nazionale e del Partito Popolare. Il congresso del Partito Socialista fu proibito e quello comunista si tenne all'estero, a Lione. Nel suo discorso congressuale Amendola disse fra l'altro: «Dobbiamo maturare nel nostro spirito quell'atteggiamento di paziente intransigenza che soltanto può richiamare intorno a noi le forze migliori del nostro Paese ... ». E De Gasperi al congresso del Partito Popolare: «Imparino tutti i democratici, liberali e socialisti, che il nostro partito, anche quando ha lottato contro di loro, ha lottato in difesa della libertà». Ma, ormai, dai fascisti, neppure le parole venivano più tollerate. Nel luglio del 1925 Amendola fu aggredito e bastonato fra Montecatini e Pistoia. In ottobre a Firenze, in una fosca notte di violenza, molte persone furono uccise o ferite. La spedizione punitiva ebbe origine in via dell' Ariento dove i fascisti stavano dando la caccia a un tipografo del Non mollare. Nei tafferugli due uomini, fra cui un fascista, rimasero uccisi e la vendetta degli squadristi fu immediata e crudele. Per una intera notte entrarono di forza in alcune case della città in cerca di antifascisti. Così furono uccisi il deputato socialista Gaetano Pilati e l'avvocato Gustavo Console, ambedue distributori del Non mollare. L'antifascismo venne braccato, in tutti i modi, costretto a nascondersi o a prendere la via dell'esilio. Eppure Piero Gobetti poteva ancora scrivere fino alla fine del 1925: «Esiste in Italia un gruppo di uomini, nei partiti e fuori dei partiti che non ha ceduto e non cederà ... Anche se pochi, rimarranno come un esempio per la classe politica di domani... Sono minoranza, numericamente poverissima, ma incutono rispetto anche al più agguerrito nemico ...». Intanto, l'esperienza aventiniana s'era consumata senza esito positivo
Bibliografia:
Andrea Barbato e Manlio Del Bosco in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966
1925: La distruzione delle strutture dello Stato di diritto
Nel corso del 1925 il regime provvide a consolidarsi e a mettersi al riparo con alcune leggi che cominciarono a distruggere, come avvenne decisamente poco dopo, le strutture dello Stato di diritto. Mussolini, diventato Capo del Governo, assunse i poteri esecutivi esautorando il Parlamento; i sindaci elettivi vennero sostituiti dai podestà nominati dal governo, associazioni e istituti non graditi furono sciolti, la libertà di stampa soppressa definitivamente. Allora si levarono, contro la tirannia e contro il tiranno, gesti isolati e senza speranza. Un ex deputato socialista, Tito Zaniboni, decise di uccidere Mussolini sparandogli con un fucile a cannocchiale dalla finestra dell'albergo Dragoni, nel centro di Roma, di fronte a Palazzo Chigi; qui il duce doveva affacciarsi ad un balcone, il 4 novembre del 1925. Ma fra i cospiratori c'era anche un confidente della polizia e così l'attentato fu scoperto in tempo e Zaniboni venne arrestato due ore prima della apparizione di Mussolini. Un colpo di pistola dell'anziana signora inglese Violet Gibson, lo ferì leggermente al naso. Nei giornali e nei cinegiornali dell'epoca il Capo del Governo si fece fotografare con un vistoso cerotto ma praticamente illeso. Poi fu la volta del giovane anarchico di Carrara, Gino Lucetti, che fu condannato a trent'anni di carcere.
Ma l'atto definitivo, quello che fece scattare le leggi speciali liberticide, fu l'attentato a Bologna del 31 ottobre 1926. L'episodio avvenne all'angolo tra via Rizzoli e via Indipendenza, mentre Mussolini si recava in automobile alla stazione per ritornare a Roma. Dalla folla partì un colpo di rivoltella che andò a vuoto, ma un gruppo di personaggi del seguito del duce con alla testa Arconovaldo Bonaccorsi, il famigerato «conte Rossi» della guerra di Spagna, si lanciarono su un ragazzo di 14 anni, Anteo Zamboni, ritenuto l'autore dell'attentato. Il ragazzo fu linciato sul posto, nonostante che non si avesse alcuna certezza che fosse stato lui a sparare. Anteo fu sepolto nella parte del cimitero chiamata dei traditori e la sua famiglia venne perseguitata per anni. L'episodio di Bologna fornì però il pretesto al fascismo per fare nuove decisive leggi contro la libertà.
Alla fine del 1925, che Mussolini definì il proprio «anno napoleonico», la prima battaglia dell'antifascismo era ormai perduta. I deputati aventiniani furono dichiarati decaduti e si istituirono le cosiddette «leggi per la difesa dello Stato». Nacquero così i Tribunali speciali, il confino politico, si ristabilì la pena di morte. Si compì così un'inversione di civiltà, sopprimendo alcuni fondamentali diritti dei cittadini di una società libera: un'inversione di civiltà che contrastava anche radicalmente con le tradizioni del Paese. La dittatura mussoliniana era ormai assoluta, l'antifascismo entrava nella fase della clandestinità, dell'esilio, del carcere. Piero Gobetti era morto a Parigi, a 25 anni, il 16 febbraio del 1926; Giovanni Amendola moriva a Cannes, due mesi dopo; ambedue per le conseguenze delle percosse fasciste. E pochi giorni dopo l'attentato Zamboni, alla vigilia di un dibattito in Parlamento contro la pena di morte, venne arrestato Antonio Gramsci.
Il regime si era ormai imposto. Tutte le garanzie contemplate dalla Costituzione e dalle vecchie leggi liberali non esistevano più. Incontrastato dominava il fascismo e con poteri assoluti il «dittatore ». Cominciava, nella lotta per la libertà, l'ora più rischiosa e difficile.
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Andrea Barbato e Manlio Del Bosco in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966
L’opposizione al fascismo, in esilio
Tra il 1922 e il 1926 tanti italiani lasciarono l'Italia.
Aboliti i partiti, soppressa la libertà di stampa, considerati decaduti i deputati che avevano partecipato all'Aventino, sciolte le associazioni sindacali, non rimaneva agli oppositori del fascismo che il carcere, il confino o l'espatrio clandestino. Fino al 1925 l'emigrazione aveva avuto carattere di massa: operai e contadini iscritti ai partiti antifascisti, organizzatori di cooperative e sindacalisti delle leghe bianche e rosse, perseguitati, prendevano la via grigia e triste dell'esilio.
Si è parlato di 300.000 emigrati politici durante il fascismo. Sono cifre difficili a controllare ma si calcola che dei lavoratori italiani in Francia, almeno centomila avevano lasciato l'Italia per ragioni politiche. La Francia, l'Austria, la Svizzera erano infatti le mete preferite dei profughi e in quei Paesi si crearono i primi nuclei dei centri d'opposizione in esilio. Si rinnovava così la tradizione risorgimentale del fuoriuscitismo e dell'esilio e si formarono addirittura alcuni uffici per facilitare l'espatrio clandestino. Uno dei più noti fu quello organizzato a Milano da Ferruccio Parri, Carlo Rosselli, Riccardo Bauer e Giovanni Mira.
Tra il 1926 e il 1927, dopo le leggi eccezionali cominciò l'esodo degli antifascisti più illustri, intellettuali e dirigenti politici. Per 17 anni, idealmente collegati agli uomini rimasti a lottare clandestinamente in Italia, essi formarono quei gruppi di fuorusciti il cui compito era duplice: proseguire la battaglia politica ed ideologica contro il fascismo, assicurando la continuità dei partiti d'opposizione e preparando il terreno alla resistenza armata; e, insieme, testimoniare nel mondo l'esistenza d'un'altra Italia, diversa da quella dei gerarchi e delle camicie nere, anzi ad essa decisamente contraria. I frutti di quella lunga e difficile lotta si raccolsero poi fra il 1943 e il 1945, quando tutta l'Italia migliore si riconobbe negli esuli, nei condannati, nei cospiratori, nelle vittime.
Primo a partire e a raggiungere Parigi fu Francesco Saverio Nitti, ex Presidente del Consiglio. Dopo di lui, Don Luigi Sturzo, che si stabilì a Londra, da dove con articoli e conferenze proseguì la battaglia antifascista. Poi fu la volta di Giuseppe Donati, direttore del Popolo, perseguitato dai fascisti per aver accusato il comandante della Milizia Emilio De Bono al tempo del delitto Matteotti. Quindi varcò la frontiera il grande storico Gaetano Salvemini, maestro dell'antifascismo fiorentino, che con libri e conferenze, in Europa ed in America, rimase fra i più lucidi e irreducibili avversari del regime di Mussolini.
La colonia degli esuli politici si ingrossava di giorno in giorno: Treves, Buozzi, Nenni, Modigliani e il giovane Saragat fra i socialisti; Chiesa, Egidio Reale, Schiavetti, Pacciardi, Trentin fra i repubblicani; Alberto Cianca, direttore del Mondo e collaboratore di Amendola, Carlo Sforza già Ministro degli Esteri, e che lo sarà anche nell'Italia liberata; Palmiro Togliatti che prima di trasferirsi in Russia diresse da Parigi un centro comunista collegato con le reti cospirative italiane.
Spesso passare la frontiera era un'impresa audace e rischiosa. Fu il caso dell'evasione di Filippo Turati, la cui casa, sotto i portici della Galleria di Milano, era vigilata dalla polizia fascista, mentre la sua vita era continuamente minacciata. Turati era l'uomo politico più popolare d'Italia, bisognava sottrarlo all'odio di Mussolini. Carlo Rosselli, Parri, Pertini ed altri, organizzarono l'evasione. Il 21 novembre del 1926 Turati fu fatto uscire di nascosto e condotto in una casa amica a Varese. La polizia fascista, ingannata e accortasi in ritardo della beffa, frugò inutilmente in tutta l'Italia del Nord. Si trattava quindi di far passare Turati oltre la frontiera, e si scelse la strada del mare, perché il vecchio socialista era troppo malato per attraversare i valichi alpini. La notte del 12 dicembre, alla periferia di Savona, sei uomini presero il largo insieme a Turati su una barca a motore, fornita da Francesco Spirito, quasi sotto gli occhi degli agenti. «Con un mare indiavolato - descrisse il viaggio lo stesso Turati - con le onde che riempivano il brevissimo motoscafo, col cielo senza stelle, con una bussola folle, navigammo a lungo senza esser certi della rotta ... ». La traversata durò dodici orribili ore, poi finalmente la Corsica fu in vista e la comitiva raggiunse la rada di Calvi. Turati e Pertini partirono per la Francia, Parri e Rosselli tornarono in Italia con la stessa barca guidata da Italo Oxilia.
Il processo che si aprì contro di loro a Savona rimase famoso per lo spirito d'indipendenza dei giudici di quel Tribunale ordinario, per la partecipazione del pubblico a favore degli imputati, per il coraggio da loro dimostrato. Quel processo fu una grave sconfitta per il fascismo. Agli imputati, davanti ai giudici ancora indipendenti, fu concesso di rivendicare i motivi ideali che avevano animato il loro gesto, e Rosselli poté collegare pubblicamente l'antifascismo al Risorgimento.
« Socialista - egli disse - venuto al socialismo dopo la disfatta, con la convinzione che il riscatto dei lavoratori debba poggiare su basi morali, per riprendere, integrandola, la tradizione di un Risorgimento rimasto patrimonio di pochi, sento oggi con sicura coscienza che la mia modesta azione si collega, per lo spirito che la informa, a quella dei grandi che combatterono per l'indipendenza italiana».
La condanna, mitissima, equivalse ad un'assoluzione e la folla entusiasta applaudì gli imputati gettando fiori.
A Parigi, l'attività politica degli esuli si andò organizzando. Essi formavano una colonia attiva e rispettata. Nacque una concentrazione antifascista che raccolse tutti i partiti ex aventiniani, meno i comunisti. La sua sede era in Rue Faubourg Saint Denis 103, il suo programma quello di aiutare gli espatri, la stampa clandestina, le manifestazioni contro il regime, la polemica ideologica contro lo stato mussoliniano. Si organizzarono congressi e conferenze in cui si ammoniva l'Europa contro il pericolo della diffusione del contagio fascista. Bruno Buozzi, un operaio, l'ultimo segretario della Confederazione Generale del Lavoro, sciolta dal fascismo, ricostituì l'associazione a Parigi. Quando Mussolini tentò di farlo rientrare in Italia, egli rifiutò con queste parole:
«Per me, al fascismo, non ho nulla da chiedere. La nostalgia della Patria tortura l'animo mio e quello di molti altri, ma il problema supera le persone. Nelle condizioni attuali, credo di servirla meglio qui piuttosto che a Roma e a Torino per graziosa concessione del fascismo ... Non è colpa mia se oggi in Italia non è possibile fare della politica, intesa nel senso più nobile della parola. In ciò non vi è ombra di rimprovero per i rimasti in Italia. Un popolo non può emigrare. E talvolta io considero veramente eroico chi, restando in Italia, non aderisce al fascismo ... ».
A Parigi, la «Concentrazione» ebbe il suo giornale, La Libertà, diretto da Claudio Treves. Comparve all'estero anche l'Avanti!, sorse una «Lega italiana dei diritti dell'uomo», si moltiplicarono i giornali, le conferenze, i congressi. Gaetano Salvemini si adoperò instancabilmente in due continenti, a mettere in luce ciò che stava accadendo in Italia «sotto la scure del fascismo».
Nel 1929, l'antifascismo italiano in Francia si arricchì di un nuovo arrivo, quello di Carlo Rosselli. Confinato nell'isola di Lipari, Rosselli riuscì a fuggire. L'evasione fu organizzata da un gruppo di antifascisti che, pur facendo la spola con la Francia, non erano ancora emigrati: era il gruppo di Parri, di Bauer, di Rossi, diretto da Parigi da Alberto Tarchiani, ex giornalista e futuro ambasciatore. Dopo un primo tentativo fallito, finalmente nell'estate del 1929, avvenne la coraggiosa fuga. Con Rosselli si trovavano Emilio Lussu e Fausto Nitti, il figlio dell'ex Presidente del Consiglio. Il motoscafo era guidato ancora una volta da Italo Oxilia, il pilota dell'evasione di Turati. Con gli altri c'era Gioacchino Dolci, un giovane operaio romano, che appena uscito dal confino volle tornare per liberare i compagni di prigionia.
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Andrea Barbato e Manlio Del Bosco in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966
L’attivismo di Giustizia e Libertà
Il gesto clamoroso di protesta di Ferdinando De Rosa, i voli di Giovanni Bassanesi e Lauro De Bosis.
A Parigi, dove circolavano numerosi informatori ed emissari della polizia politica del regime, Rosselli con Cianca, Facchinetti, Lussu, Nitti, Rossetti, Tarchiani e Salvemini fondò una nuova alleanza antifascista, «Giustizia e Libertà », che si proponeva non soltanto di rovesciare il fascismo, ma anche la monarchia. «Giustizia e Libertà », che aveva anche un programma di riforme sociali, diventò presto un movimento autonomo dai partiti, deciso a compiere concrete azioni contro la tirannia fascista.
Non sempre i suoi metodi di lotta furono condivisi nel mondo dell'emigrazione antifascista. Che i metodi di «Giustizia e Libertà» fossero ispirati da un attivismo più deciso, lo dimostrò l'attentato di Ferdinando De Rosa, un giovane socialista collaboratore di Rosselli. De Rosa volle compiere un gesto clamoroso di protesta, e quando il Principe Umberto andò a Bruxelles a fidanzarsi con Maria José, nell' ottobre del '29, il giovane gli sparò un colpo di pistola, mancandolo. Salvato dal linciaggio e processato, egli dichiarò ai giudici: «In me l'istinto rifuggiva con orrore dal fatto di sangue, ma la ragione me lo imponeva come una suprema opera di giustizia». Condannato ad una pena lieve, De Rosa tornò poi in carcere in Spagna, e morì al comando del battaglione «Ottobre» durante la guerra civile.
Proseguendo nell'attivismo che aveva già suscitato polemiche e discordie interne fra i fuorusciti, il movimento di «Giustizia e Libertà» promosse il volo di Giovanni Bassanesi, un maestro ventunenne. Aiutato da Cianca, da Rosselli e da Tarchiani, e accompagnato dall'intrepido Gioacchino Dolci, Bassanesi superò le Alpi su un piccolo monoplano la mattina dell'11 luglio 1930 e, sorvolando il Duomo di Milano, lanciò per un quarto d'ora manifestini antifascisti. L'impresa venne portata a termine brillantemente ma nel viaggio di ritorno l'aereo cadde sul Gottardo. Bassanesi riuscì a salvarsi ma fu arrestato e processato. Un esito tragico ebbe invece un'altra avventura dello stesso tipo compiuta da un giovanissimo poeta e scrittore, Lauro De Bosis. Il suo fu un sacrificio isolato e romantico, un gesto di puro idealismo. De Bosis non era un aviatore, ma, per mettere in pratica il suo progetto, comprò un aereo ed imparò a pilotarlo. Così, nell'ottobre del 1931 spiccò il volo verso Roma, portando migliaia di manifesti che invitavano il re a liberarsi del fascismo e gli italiani a ribellarsi. Per mezz'ora, alle otto di sera, De Bosis riuscì a lanciare i suoi appelli sulle strade del centro di Roma; poi, inseguito dalla caccia fascista, ripartì verso il mare. Non fu raggiunto, ma a mezza strada fra la costa e l'isola d'Elba, l'aeroplano, rimasto senza benzina, precipitò.
Prima di partire per il volo che sapeva senza ritorno, De Bosis aveva scritto un diario: La storia della mia morte. Vale la pena ricordarlo:
«Pegaso, è il nome del mio aeroplano, ha la groppa rossa e le ali bianche. Ma non andremo a caccia di chimere. Andremo a portare un messaggio di libertà a un popolo schiavo al di là del mare ... La mia morte non potrà che giovare al successo del volo ... lo sono convinto che il fascismo non cadrà se prima non si troveranno una ventina di giovani che sacrifichino la loro vita per spronare l'animo degli italiani... varrò più morto che vivo ».
De Bosis aveva dato vita con Mario Vinciguerra ad una alleanza nazionale d'ispirazione liberale che si proponeva di rappresentare, all'infuori dei partiti, l'unità del Paese in caso di emergenza. Con la sua impresa disperata, De Bosis aveva invitato il re a voler rispettare il patto fra la monarchia e il popolo, cioè lo Statuto. Ma il re rimase sordo al suo invito, come lo era stato nel 1925 all'appello dei deputati aventiniani. Lo Statuto ormai era stato sepolto da una nuova legge elettorale e dall'elezione plebiscitaria a lista unica voluta da Mussolini nel 1929. Quelle elezioni furono una farsa. Le schede del « sì» o del «no» erano di colore diverso e facilmente riconoscibili. Entrare in cabina significava già voler nascondere qualcosa ai vigili funzionari del regime, alle camicie nere di guardia, alla milizia armata. E così l'esito era scontato in partenza. Eppure 136.198 italiani ebbero il coraggio di rispondere «no» al fascismo, sfidando le rappresaglie. Dalla Francia, venne il solenne «no» di Turati.
«No - egli scrisse - perché una gente di recente assurta a dignità di popolo, l'avete retrocessa e degradata a plebe imbavagliata e supina ... No! Perché avete scisso le famiglie, lanciato i figli contro i padri, i fratelli contro i fratelli, costretti gli spiriti liberi all'atroce alternativa di un duplice esilio: oltre confine; esilio anche più amaro, nella propria terra, sottoposti all'ostracismo del lavoro, inchiodati all'iniquo dilemma: o piegarsi o perire ... ».
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Andrea Barbato e Manlio Del Bosco in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966