Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

25 aprile 2011

18 Avril 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

 

«La memoria è la nostra forza. Quando la notte tenta di ritornare, bisogna riaccendere le grandi date come si accendono delle fiaccole».

Victor Hugo

   

  

 

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In occasione del 66° anniversario della Liberazione, viene qui pubblicata la testimonianza di Raimondo Ricci, già presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, su di una pagina eroica della Resistenza italiana: il salvataggio del porto di Genova.

 L’importanza della difesa degli impianti industriali e delle infrastrutture era diventato ben presto uno tra gli obiettivi prioritari delle forze della Resistenza. Il ruolo dei lavoratori, dei tecnici nel difendere impianti e infrastrutture è stato di grande coraggio e al tempo stesso molto prezioso per tutto il paese, soprattutto per le sue prospettive di ripresa postbellica.

 

 

«Io non so, cari amici e compagni della Resistenza, anziani come me o molto più giovani di me, in quale misura la mia potrà essere un'effettiva testimonianza dei fatti che oggi rivisitiamo. E ciò non perché non fossi ancora nato quando i lavoratori italiani con le loro iniziative hanno salvato libertà, hanno combattuto per conservare gli strumenti del lavoro, le fabbriche, le infrastrutture, hanno fatto cioè anche qui a Genova le cose splendide e valorose che oggi sono state ricordate. La ragione è infatti un'altra, ed è dovuta al fatto che nel momento in cui questa lotta era in pieno svolgimento e nel punto massimo della sua attuazione, io non mi trovavo neppure in Italia, bensì in un campo di internamento nazista, così che queste cose io non ho potuto che ricostruirle storicamente dopo il mio fortunoso rientro in Italia, essendo infatti uno dei pochissimi sopravvissuti a uno di quei campi.

Ma, forse posso testimoniare qualcosa di come si siano venuti stabilendo i presupposti, gli antecedenti di questa lotta straordinaria dei lavoratori italiani, a cui pure l'Istituto che presiedo, insieme alle tre confederazioni sindacali, ha voluto dedicare l'anno scorso un importante convegno, di cui è stata già fatta menzione, che riguarda proprio la partecipazione alla Resistenza dei lavoratori italiani, e particolarmente di quelli di tutto il triangolo industriale. E allora veniamo a che cosa io posso testimoniare davvero e poi veniamo rapidamente a che cosa io posso dire grazie alla ricostruzione storica che in tutti questi anni ho potuto compiere acquisendo notizie e sviluppando approfondimenti.

Nel farlo io voglio affermare qui un punto: sì è vero, è importante la memoria, ma è importante che questa memoria venga poi rielaborata e confrontata con quelle che sono le acquisizioni delle indagini storiche. Ciascuno di noi ha certamente infatti vissuto un pezzo di quella tragedia epocale che fu la seconda guerra mondiale, un pezzo della Resistenza nel vari aspetti che la Resistenza ha assunto; ma per avere un quadro complessivo occorre tracciare una storia intera della Resistenza con tutte le sue componenti, i suoi antecedenti, il suo svolgimento, le sue conseguenze, la sua eredità. E io credo che siamo oggi in una fase, in questo sessantesimo anniversario della liberazione, in cui è soprattutto sull'eredità della Resistenza che noi dobbiamo soffermarci.

Allora io ero, e andiamo al 1943, un giovane ufficiale di marina in servizio presso la Capitaneria di porto di Imperia, nell'estremo ponente ligure, e ricordo il modo in cui appresi dell'armistizio che, alle 18,30 dell'8 settembre 1943, il governo regio dell'Italia aveva raggiunto con gli alleati e la cui notizia fu oggetto di un comunicato congiunto del maresciallo Badoglio, nuovo capo di governo nominato dal re dopo l'implosione del fascismo il 25 luglio precedente, e del generale Alexander, comandante delle truppe alleate, che appunto comunicava l'armistizio dell'Italia a tutto il mondo. Arrivavo quel giorno in treno, da Genova a Imperia; la linea ferroviaria era ancora del tutto funzionante, e proprio poco prima che il treno arrivasse alla mia destinazione, sentii prima in una stazione in cui ci soffermammo qualche minuto e poi nella stazione di arrivo a Imperia, la notizia del comunicato che annunciava l'armistizio. Io dovevo prendere servizio immediatamente e pertanto mi recai in Capitaneria e mi dedicai al mio lavoro che, per tutta la notte, era quello del mio abituale servizio dei cifrari segreti della marina, essendo il nostro compito appunto quello di decriptare messaggi segreti e trasmetterli alla flotta, alle navi da guerra e alle batterie costiere.

Durante quella mia notte nella Capitaneria di Imperia, che non dimenticherò mai, io per telefono militare seguii minuto per minuto, con momenti di altissima drammaticità, l'occupazione che i tedeschi stavano facendo del Comando marina e della Capitaneria di porto di Genova. A Imperia non erano ancora arrivati, ma qui a Genova era già in corso l'occupazione, il che rese immediatamente evidente che cosa avrebbe significato l'armistizio per l'Italia, malgrado l'esultanza di grandi parti del nostro popolo e anche di molti soldati che si trovavano all' estero e in Italia, per il fatto che si approdava finalmente alla fine della guerra.

La fine della guerra venne così generalmente intesa come quel «tutti a casa» che è stato anche descritto cinematograficamente in modo realistico ed efficace, e a cui gli italiani aspiravano perché doveva segnare appunto la fine della guerra fascista, delle sofferenze, delle privazioni, del sangue di una guerra, fino ad allora, unica nella storia del mondo perché aveva portato in prima linea ancora più che i combattenti vestiti con la divisa, le popolazioni civili che per i bombardamenti, le stragi, le repressioni, le rappresaglie e le torture avevano sofferto, molto spesso, ancora più dei combattenti.

Per me, però, questo momento di esultanza non ci fu, perché la condizione in cui mi trovavo mi consentì di capire immediatamente che cosa avrebbe invece significato l'occupazione tedesca conseguente all'armistizio, e fu allora per me che ero già nel movimento antifascista, anche se prestavo lealmente il mio servizio da ufficiale, il momento della scelta. Io fui uno di quelli che, insieme ad altri amici e compagni che condividevano le stesse idee, scelsero subito la via del tentativo di opporsi all'occupazione tedesca che si profilava. Di qui venne il mio periodo partigiano, seguì il mio arresto, la mia lunga permanenza di sette mesi di carcere, all'inizio dei quali i fascisti che mi avevano arrestato mi misero nelle mani delle SS, e poi la mia deportazione nel campo di internamento in Germania.

Io quindi partecipai all'azione soltanto nel momento iniziale più difficile, più doloroso, più incerto della creazione delle bande partigiane nell'estremo ponente ligure. Poi quella scelta decollò e la Resistenza nacque, ma io, con un rimpianto che mi ha accompagnato per tutta la vita, non potei partecipare direttamente alla sua fase attiva e vincente, anche se non sempre, ma poi alla fine sì, in questo 25 aprile che è giorno prezioso di festa. A quella fase non potei partecipare direttamente con un'arma in pugno, come avrei desiderato, ma fui fra coloro che la Resistenza la vissero soltanto attraverso la sofferenza e l'umiliazione: l'umiliazione di scoprirsi impotente e le sofferenze del lager, sulle quali io non intendo in questo momento soffermarmi.

Questa è dunque la mia testimonianza, quella che posso rendere e che consiste nella consapevolezza che subito ebbi di ciò che l'occupazione tedesca avrebbe comportato negli anni successivi all'armistizio. Vediamo dunque che cosa allora, da questo momento in poi, effettivamente è avvenuto nel nostro paese, in questa regione e soprattutto in questa città di Genova, il cui principale gioiello, in quegli anni ancora più di oggi, era rappresentato dal suo porto, il più importante del Mediterraneo.

Noi oggi sappiamo che i tedeschi misero in atto il piano Alarich sin dai giorni immediatamente successivi non all'8 settembre, ma alla caduta del fascismo nella notte fra il 25 e 26 luglio del 1943; fin dal 28 luglio i tedeschi dettero il via, appunto, all'attuazione del piano Alarich che contemplava la discesa in Italia di imponenti forze tedesche. Al momento della caduta del fascismo, quando già ormai da quasi un mese erano sbarcati in Sicilia; gli alleati scesero in campo con otto divisioni, e presto il contingente tedesco che si stabilì in Italia fu di 2 armate che occuparono tutto il nostro paese sottoponendolo a un vero e proprio regime di occupazione militare. Accompagnava questa decisione quella di minare tutte le infrastrutture fondamentali, e per quanto riguarda Genova il piano Zeta tedesco contemplava il minamento del porto che rappresentava la principale infrastruttura della nostra città.

Ebbene, fu da quel momento durante tutto il periodo dei «45 giorni Badogliani», ma soprattutto dopo l'8 settembre, che si mise in attività tutta l'organizzazione dei .lavoratori portuali i quali, a settembre, costituirono il Comitato di liberazione del porto, strutturandolo su un gruppo di portuali fiancheggiati dalle Sap (Squadre di azione patriottica) che collaboravano direttamente col Cln del porto, a sua volta dotato di una sua specifica militare che, sotto la direzione di Vittorio Cevasco, operò con la costituzione delle squadre artefici di quei sabotaggi contro la predisposizione del brillamento e la distruzione del porto. I tedeschi, che avevano già predisposto i collegamenti subacquei fra le 219 bombe per la diga foranea, costituite da grandi bombe di aerei e da proiettili del calibro 149 collegate da cavi elettrici, già nel gennaio del '45, furono costretti rinunciare ai collegamenti con i cavi subacquei riservandosi di allacciare dei cavi volanti al momento in cui fosse stato necessario operare il brillamento del porto.

La verità è che se quest'opera del Comitato di liberazione del porto di Genova fu l'elemento centrale che impedì la distruzione del porto, molti altri fattori si unirono a questa determinazione; io credo che vada pertanto ricordata, anche per misurarne l'efficienza, l'azione compiuta dalle Sap e dagli operai militarizzati che, nell'ambito del Comitato di liberazione, lavorarono all'affondamento della portaerei Aquila che gli alleati, attraverso le loro Missioni, avevano raccomandato venisse affondata nel luogo dove si trovava ormeggiata alla banchina, poiché il piano Zeta predisposto dai tedeschi per le distruzioni prevedeva invece per questa nave, che era il vecchio transatlantico «Roma» in via di trasformazione in portaerei, il suo affondamento all'imboccatura del porto per impedire l'ingresso nel porto stesso alle navi degli alleati . A ridosso ormai della liberazione, nello stesso giorno, il 18 aprile del '45, si sviluppò così una duplice azione.

Vi fu un'azione di Mariassalto, cioè di quella struttura militare della marina che si era posta al servizio degli alleati nell'ambito della cobelligeranza con lo Stato legittimo italiano, per cui il sottotenente di vascello Conte, con un maiale di quelli già utilizzati nel porto di Alessandria durante la fase antecedente della guerra fascista, arrivò finn sotto la portaerei e collocò con una spoletta il maiale per l’esplosione stabilita a sei ore di distanza, verso l'una di notte. Contemporaneamente, e casualmente, nello stesso giorno finiva di essere predisposta e veniva attivata la bomba che i lavoratori avevano costituito nell'interno della stiva della stessa nave, con il tritolo portato via via in piccole quantità nelle proprie valige di attrezzi e accumulato in modo tale da poterlo far poi esplodere al momento opportuno. Lo stesso giorno, dunque, un

valoroso, resistente dei portuali, il Medici, allacciò una miccia al tritolo e le diede fuoco facendo esplodere la carica a cui era collegata e che per contatto mise anche in attività la bomba sistemata da Mariassalto, squarciando così la nave che rimase contro la banchina inclinata su di un fianco e non potè essere utilizzata per i fini a cui i tedeschi miravano.

Va detto che vi fu anche un tentennamento da parte del generale tedesco che comandava la piazza di Genova rispetto all'attuazione di quella decisione, tanto che qualcuno dopo la liberazione, deponendo sulle intenzioni dei tedeschi, gli attribuì anche un merito nella non esecuzione degli ordini pervenuti direttamente da Hitler per il brillamento del porto. Certo è però che se anche l'ordine fosse stato dato, e non si sa se sia mai stato dato in modo ufficiale, il porto non avrebbe potuto essere brillato poiché mancavano i collegamenti tra le bombe e perché erano state sabotate anche le fosse scavate per situare le mine, così che vi era l'impossibilità materiale di far brillare il porto.

La mia opinione è che questa storia debba essere ricostruita pezzo per pezzo. Vi è stata una commissione d'inchiesta organizzata su iniziativa dell'Istituto Ligure per la Storia della Resistenza, presieduta da un magistrato, che negli anni cinquanta approfondì tutta la vicenda. Questo approfondimento rappresenta un contributo fondamentale e dimostra quale sia stata l'opera dei lavoratori in particolare per salvare il porto, infrastruttura fondamentale per la nostra città, la cui distruzione avrebbe comportato non solo dei danni contingenti, ma proiettati anche nel futuro della ricostruzione dell'intero nostro paese. Un'azione di salvataggio, quella del porto di Genova, quindi essenziale di un punto di forza delle infrastrutture nazionali, che per merito dei lavoratori fu riconsegnato integro all'Italia per la ricostruzione e per il futuro finalmente democratico del paese».

 

 

Intervento nel convegno di Genova del 14 aprile 2005 organizzato dalla CGIL e pubblicato a cura della Fondazione Giuseppe Di Vittorio in:  

Salvare le fabbriche. I lavoratori a difesa dei macchinari e delle grandi infrastrutture dalla furia dei nazisti in fuga – Ed. Ediesse Roma – pp 75-81

 

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