27 giugno 1924: l'Aventino
Dopo un primo periodo di incertezze e di sgomento seguìto all’uccisione di Matteotti, Mussolini cominciò a reagire passando alla controffensiva e, come primo atto, chiuse la Camera dei Deputati. Le opposizioni però, dai democratici ai popolari, dai socialisti ai comunisti, sembrarono finalmente in grado di coalizzarsi. Il 27 giugno, in una sala di Montecitorio, ricordando Matteotti, Filippo Turati pronunciò un solenne discorso. La mozione finale dell'assemblea, approvata all'unanimità, stabilì che l'opposizione non sarebbe rientrata alla Camera finché non fosse stata soppressa la milizia fascista e punita la violenza e la illegalità. Nacque così la secessione parlamentare che prese il nome di Aventino.
Col discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini si assunse da solo la responsabilità storica, morale, politica dell’accaduto. «Dichiaro qui - egli disse - al cospetto di questa assemblea, al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica, di tutto quanto è avvenuto ... se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere».
Come reagì l'Aventino? Quali che furono le incertezze e le debolezze della secessione, con essa si affermò in maniera netta l'opposizione morale, prima ancora che politica, fra i partiti democratici da una parte e il fascismo dall'altra. Ma la controffensiva democratica, chiesta fra gli altri da Gobetti, non ci fu. In realtà i deputati aventiniani, con Amendola in testa, credevano di avere posto le condizioni costituzionali per un intervento del re. Ma Vittorio Emanuele rimase sordo ai loro appelli confermando così la sua fiducia in Mussolini. Da quel momento l'antifascismo scelse la sua strada che fu d'opposizione intransigente. A Firenze un gruppo di ex combattenti (Cristofani, De Liguori, Piani, Traquandi) fondarono un'associazione antifascista clandestina, «Italia libera», che in qualche occasione scese anche in piazza apertamente, e di cui fecero parte Carlo Rosselli e Ernesto Rossi, la medaglia d'oro Raffaele Rossetti e tanti altri. Nacque quindi, patrocinata da Amendola, la «Unione Nazionale delle Forze Liberali e Democratiche », in cui rientrarono, fra i tanti, Bonomi e Calamandrei, Cianca e De Ruggiero, Papafava e Ruini, Salvatorelli e Vinciguerra, Carlo Sforza. Erano gli ultimi sussulti di libertà.
Il regime si sentiva forte, sicuro di vincere. L'ultima trincea dell'opposizione fu la stampa. Perseguitata in tutti i modi, soffocata, sabotata, la stampa antifascista continuò ad essere una delle poche voci libere in un Paese che si avviava alla tirannia. C'erano i grandi quotidiani ancora per poco indipendenti, e accanto ad essi Il Lavoro di Genova, Il Mondo di Roma, diretto da Alberto Cianca e sul quale scriveva Amendola. E c'erano i giornali di partito: Il Popolo, La Giustizia, L’Avanti, La Voce Repubblicana, L’Unità, e qualche altro. Accanto ad essi, si allineavano i grandi periodici di battaglia: insieme a L'Ordine Nuovo, che Antonio Gramsci aveva fondato nel 1919, c'era a Torino un centro ideologico e morale che fu La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti. A Firenze si distingueva un periodico battagliero diffuso clandestinamente, il Non mollare, nato in casa di Carlo e Nello Rosselli e a cui collaboravano anche Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini e Nello Traquandi. A Milano, Ferruccio Parri e Riccardo Bauer, con altri, dettero vita alla rivista Il Caffé.
In realtà dopo il 3 gennaio, il giornalismo indipendente cominciò ad avere la vita sempre più difficile: sequestri, arresti di direttori (tra i quali Pietro Nenni), allontanamento e sostituzione dei giornalisti irriducibilmente avversi. Il senatore Alfredo Frassati fu costretto a cedere La Stampa e Luigi Albertini ad abbandonare il Corriere della Sera. I giornali divennero così portavoce ufficiali della politica del governo, con ordini severi o comunicati precisi da pubblicare. La stampa libera, colpita da decreti di soppressione, fu costretta a diventare clandestina.
Poche ormai erano le voci che osavano levarsi contro il regime. Tra queste, il manifesto redatto da Benedetto Croce, con il quale il filosofo napoletano rispondeva al manifesto di Giovanni Gentile e degli intellettuali fascisti. Il documento di Croce, firmato da molti degli uomini di cultura che si opponevano alla tirannia, diceva, fra l'altro, di voler essere «la protesta sollevata da alcuni liberi intellettuali contro la versione e l'interpretazione delle cose d'Italia che gli intellettuali fascisti hanno creduto di dover diffondere». Anche nelle Università, tra gli studenti, si svilupparono fermenti di opposizione al fascismo. Nella vecchia Sapienza di Roma, come negli altri atenei italiani, si formò l'«Unione Goliardica per la Libertà» fra cui si ritrovarono, allora ventenni, alcuni uomini che nel 1943 si adoperarono per la ricostruzione dei partiti: Ugo La Malfa, Lelio Basso, Rodolfo Morandi, Giorgio Amendola, Leone Cattani e tanti altri.
Nel 1925 si tennero gli ultimi congressi d'opposizione: quelli dell'Unione Nazionale e del Partito Popolare. Il congresso del Partito Socialista fu proibito e quello comunista si tenne all'estero, a Lione. Nel suo discorso congressuale Amendola disse fra l'altro: «Dobbiamo maturare nel nostro spirito quell'atteggiamento di paziente intransigenza che soltanto può richiamare intorno a noi le forze migliori del nostro Paese ... ». E De Gasperi al congresso del Partito Popolare: «Imparino tutti i democratici, liberali e socialisti, che il nostro partito, anche quando ha lottato contro di loro, ha lottato in difesa della libertà». Ma, ormai, dai fascisti, neppure le parole venivano più tollerate. Nel luglio del 1925 Amendola fu aggredito e bastonato fra Montecatini e Pistoia. In ottobre a Firenze, in una fosca notte di violenza, molte persone furono uccise o ferite. La spedizione punitiva ebbe origine in via dell' Ariento dove i fascisti stavano dando la caccia a un tipografo del Non mollare. Nei tafferugli due uomini, fra cui un fascista, rimasero uccisi e la vendetta degli squadristi fu immediata e crudele. Per una intera notte entrarono di forza in alcune case della città in cerca di antifascisti. Così furono uccisi il deputato socialista Gaetano Pilati e l'avvocato Gustavo Console, ambedue distributori del Non mollare. L'antifascismo venne braccato, in tutti i modi, costretto a nascondersi o a prendere la via dell'esilio. Eppure Piero Gobetti poteva ancora scrivere fino alla fine del 1925: «Esiste in Italia un gruppo di uomini, nei partiti e fuori dei partiti che non ha ceduto e non cederà ... Anche se pochi, rimarranno come un esempio per la classe politica di domani... Sono minoranza, numericamente poverissima, ma incutono rispetto anche al più agguerrito nemico ...». Intanto, l'esperienza aventiniana s'era consumata senza esito positivo
Bibliografia:
Andrea Barbato e Manlio Del Bosco in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966