Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Enrico Consonni: storia vera di un soldato allo sbando

21 Août 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi

In occasione dell’8 settembre, pubblichiamo un articolo in cui vengono narrate le vicissitudini di un lissonese, Enrico Consonni, durante la  seconda guerra mondiale.

È tratto da un racconto, curato da Walter Consonni, socio dell’ANPI Lissone e figlio primogenito di Enrico, che ha trascritto le memorie del padre.


Enrico Consonni, figlio unico di Pietro Consonni e Maria Proserpio, è nato a Lesmo (Milano) il 30 gennaio 1922 ed è deceduto a Monza il 9 luglio 1979.

La madre Maria muore subito averlo partorito e suo padre, contadino nelle terre di Lesmo e Camparada, lo affida ad una zia che lo cresce fino ai 14 anni circa; nel frattempo frequenta la scuola materna “Ratti” e le Scuole Elementari di Lesmo insieme al suo migliore amico e coetaneo Tarcisio Beretta che condividerà con lui anche tutte le disavventure militari narrate successivamente in un memoriale.

A 14 anni viene inviato a Lissone presso il forno dei Meroni per imparare il mestiere di panettiere; Enrico, per il suo carattere buono, è accolto benevolmente dalla già numerosa famiglia del panettiere e cresce con i figli di questi come un nuovo fratello.

Viene chiamato alle armi nel 1942 a guerra iniziata.

I coscritti della classe 1922 di Lissone, in attesa di partire per il fronte di guerra. Enrico Consonni è il primo da destra della seconda fila (dal basso).

Prima inviato all’autocentro di Milano, dove condivide l’addestramento anche con Romeo Brugola (il futuro partigiano Rom ancora vivente a Lissone) e ottiene la patente di guida per condurre automezzi pesanti e autoblindo.


Da Milano viene trasferito a Caserta con i reparti destinati alla campagna nel Nord Africa;
 

imbarcato per la Libia durante il tragitto in mare l’imbarcazione è assalita dalla RAF e costretta al rientro immediato alla base; le tragiche sconfitte di El Alamein e Tobruk costringono il suo reparto allo spostamento sul fronte della Jugoslavia.

Enrico Consonni (a sinistra, con il suo migliore amico e coetaneo Tarcisio Beretta, a destra, che condividerà con lui anche tutte le disavventure militari narrate successivamente in un memoriale).

Enrico rimane in Istria e Croazia fino all’8 settembre del 1943 quando l’armistizio coglie di sorpresa i reparti motorizzati del regio Esercito e da quel giorno inizia il racconto autobiografico che narra delle sue tribolazioni e del suo vagabondare durato fino al novembre 1943.

Dal diario di Enrico Consonni, in cui descrive il suo avventuroso viaggio dalla Jugoslavia a Lissone:

"8 SETTEMBRE 1943

Era una sera limpida e prima ancora che calassero le tenebre il tenente radunò gli uomini rimasti nell'accampamento... L'ufficiale comunicò che il Governo Badoglio, costituito da appena 45 giorni, si era reso incondizionatamente alle forze alleate e ordinò agli uomini che prendessero essi stessi misure precauzionali arbitrarie onde difendere gli automezzi in caso di aggressione da parte di qualsivoglia forza bellica. ... si innalzò al cielo un generale urlo di gioia e immediatamente si manifestò un primo atto di rifiuto all'ordine di restare calmi. “Vogliamo andare a casa” era la parola d'ordine diffusa ovunque e già tutti si premuravano di organizzare, ognun per sé e Dio per tutti, la partenza. ...

9 SETTEMBRE 1943

L'alba del 9 settembre era serena, il sole non era ancora sorto e già gli uomini si radunavano spontaneamente in gruppetti per interpellarsi tra loro sui fatti della sera precedente. Nei loro occhi si poteva leggere una grande felicità, i loro cuori avevano un solo anelito: la casa. In ogni argomento di discussione, in ogni frase proferita non ci si poteva esimere dal ripetere “Andiamo tutti a casa”. Gli automezzi partiti la sera prima non erano ancora rientrati; ne arrivarono invece tre dal distaccamento di Cerquinicza. In quel paese erano scesi dai monti i partigiani e avevano chiesto al locale comando italiano la consegna pacifica di ogni sorta di materiale giacente, perché in caso contrario, avrebbero agito di conseguenza con le loro forze dislocate a pochi chilometri di distanza, nascoste negli antri più oscuri, celate dai boschi delle montagne adiacenti. ... Si passò il pomeriggio all'insegna di una certa calma. La continua eco di voci che provenivano dalla piccola borgata giungeva ai nostri orecchi come un palese invito a desistere da tutto e ad avviarsi sollecitamente verso la meta che cuore e pensiero sempre più desideravano. La nostra presenza sulla loro terra aveva rappresentato una vera oppressione; erano stati privati della libertà. In quel pomeriggio i visi della popolazione oppressa non erano tuttavia corrucciati da quei biechi e torvi sguardi che solevano mostrarci. I volti di quella gente, come noi provata da guerra, fame e stenti, apparivano in quel momento più sereni, ma lo sarebbero stati ancora di più se noi soldati italiani avessimo abbandonato in fretta la loro terra, dopo averla “conquistata” con non pochi sacrifici (guerra maledetta!). Durante quel pomeriggio nulla di particolare accadde. Soltanto verso il tramonto un aereo tedesco sorvolò il territorio e da bassa quota lanciò nugoli di manifestini. Corremmo per i campi a raccoglierne qualcuno, credendo di leggere possibili messaggi o ordini per il nostro reparto in attesa. Erano  fogli che riportavano frasi in lingua slava, indirizzati non agli italiani ma a quella popolazione. Mi imbattei in un uomo già anziano e gli chiesi di tradurmi nella mia lingua il contenuto dei volantini; lo fece abilmente e in poche parole mi spiegò che i tedeschi esortavano la popolazione slava ad unirsi compatta a loro per continuare la guerra contro i nemici della Germania. ...

10 SETTEMBRE 1943

... Nell'attesa dell'ordine di partenza della colonna degli autocarri, si vedevano dai finestrini transitare alcuni uomini mai visti fino a quel momento; erano vestiti per metà borghese e per metà militare e portavano all'occhiello una stella rossa. Si dirigevano verso il vicino baraccamento dei guastatori alla ricerca di armi. Notavo dal loro aspetto trasandato e sobrio che doveva trattarsi di persone appena scese dalle montagne circostanti oppure appena usciti dai nascondigli naturali che in quella zona abbondavano. A questi uomini piuttosto giovani si univano anche donne e ragazzi e tutti si accalcavano in quel luogo per procacciarsi un'arma. Il comandante in persona si dava un gran da fare per distribuirle elargendo anche preziosi consigli sull'uso; vedemmo anche  mpartire istruzioni per maneggiare i lanciafiamme. Fu una scena che ci rese tutti intimamente compiaciuti e concordi con la determinazione e la risolutezza di quel popolo che voleva essere definitivamente libero, e più che mai desiderava riconquistare la propria libertà anche combattendo, se necessario. ...

Finalmente il nostro reparto, rimasto ancora compatto, si mosse e in poco tempo raggiungemmo Fiume dove sostammo sulla strada provinciale per Abbazia. ...

Di queste soste prolungate ne approfittavano parecchi militari che si spostavano a piedi: autisti e soldati dei veicoli abbandonati, sbandati e sconosciuti di altre compagnie montavano con destrezza sul primo carro disponibile per poter proseguire con noi la marcia verso l'interno. Uno di quei soldati abbandonati o dispersi era proprio Tarcisio Beretta, il mio caro amico d'infanzia nativo di Lesmo, come me; il destino ci aveva voluti anche compagni d'armi e, durante la noia dell'addestramento, con lui ingannavo il tempo scrivendo liberi componimenti, in una strana lingua italiana frammista al dialetto brianzolo; continuammo poi le nostre imprese letterarie anche durante le ore libere negli accampamenti di Monastero e San Martino. Egli da tempo si era impegnato nella mia ricerca e proprio allora mi rintracciò tra la grande confusione; abbracciandomi mi spiegò le sue disavventure recenti. Lo invitai a rimanere con me per dormire e a dividere lo spazio sul mio autocarro, ancora funzionante, e poi aggiunsi: “D'ora in poi tutto quello che faremo sarà deciso insieme!”. Gli porsi una galletta delle mie e cercammo di venire a capo di quella situazione controversa. ...

11 SETTEMBRE 1943

Tra mille perplessità ed incertezze giungemmo così alle porte di Pola dove, appena superato l'aeroporto di Astura, ci assestammo. In poco tempo capimmo che era stato organizzato in quell'area un concentramento gigantesco di reparti mobili del nostro sfasciato esercito italiano: migliaia di automezzi erano dislocati nei boschi circostanti. ... Proseguire la marcia diventava impossibile. In quello stesso momento giungeva di gran carriera un motocarro della Wehrmacht con a bordo quattro uomini armati di grosse mitragliere. Era diretto verso l'aeroporto con uno scopo che fu presto chiaro: occuparlo. ... Tutti noi, coraggiosi soldati italiani sparsi a migliaia in quel luogo, non fummo capaci di intervenire in alcun modo. ... Fu così che quattro soli soldati tedeschi presero possesso dell'area aeroportuale, confiscarono tutto quanto esisteva al suo interno e vi posero una sentinella armata a guardia. Le ore passavano inesorabilmente, ma di ordini nemmeno uno. ... Passammo una notte insonne, rotta da continue scariche di mitra e sibili di proiettili che non facevano presagire niente di buono.

12 SETTEMBRE 1943

Con la luce del giorno vedemmo i nostri tenenti di guardia, allo scoperto lungo la linea ferrata, che rientravano verso di noi. Alle sette essi informarono tutto il nostro esercito di mezzi e uomini, o almeno ciò che ne era rimasto, di aver ricevuto dal comando tedesco una sorta di ultimatum che in sintesi poneva le seguenti due condizioni da scegliere: deporre ogni genere di armamento nelle mani dei tedeschi e quindi essere deportati al campo di concentramento di Lubiana - via Pola - come prigionieri; accettare di continuare a combattere a fianco delle armate germaniche contro le forze alleate. Il nostro tenente, soldato tutto d'un pezzo, rigoroso ufficiale del Regio Esercito Italiano, ci concedette cinque minuti per prendere una decisione e riportare ai tedeschi gli elenchi di coloro che dovevano essere ritenuti combattenti o prigionieri. Non occorse comunque molta meditazione a noi tutti per operare una scelta che escludesse nel modo più assoluto entrambe le proposte-capestro dei nostri ex-alleati, considerate a dir poco mortali. Il rifiuto del nostro gruppo fu dunque unanime e in un batter d'occhio ognuno prese a correre disordinatamente verso i luoghi dove poter rimediare tutto ciò che riteneva necessario per fuggire. Visto ciò che stava accadendo e capito che la situazione gli sfuggiva di mano, il tenente si piazzò col mitragliatore al lato nord del nostro luogo di concentramento, presumendo un esodo di massa da quella parte. L'intenzione era quella di scongiurare l'ammutinamento e fermare con estremo rimedio la fuga della sua truppa ormai allo sbando. A quella vista, l'affiatato terzetto di commilitoni composto da me con gli inseparabili amici Tarcisio Beretta e Luigi Spada, si gettò allora a spronbattuto in direzione opposta, verso il Mare Adriatico. Il dado era ormai tratto e l'azione decisiva aveva preso la strada del non-ritorno. ...

per la notte ... Ci coricammo sul nostro letto fatto di erba e zolle inumidite dalla frescura notturna e per coprirci usammo, Tarcisio ed io, una unica giacca divisa in due. ...

13 SETTEMBRE 1943

Spuntò l'alba del nuovo giorno, dopo lo snervante dormiveglia con i suoi torbidi e tristi sogni, e il chiarore dell'aurora cancellò presto ogni paura dalle nostre menti per lasciare spazio al nuovo progetto di riprendere il cammino ...  Dall'alto del colle si poteva vedere una parte della costa e sull'orlo di una insenatura, che il Mare Adriatico sembrava avere dipinto su una tela, era abbarbicato un paesello dall'atmosfera tranquilla e domestica. ...

Entrammo con decisione nella strada principale di Medolino, questo era il nome riportato sulla segnaletica stradale, camminando uno di fianco all'altro. Sulle porte delle case comparivano simultaneamente al nostro passaggio le donne del paese e, dal nostro abbigliamento e dal nostro modo di fare, subito riconobbero in noi dei soldati allo sbando. Qualcuna di loro, che più era sensibile ai dolori e alle pene dell'umanità e probabilmente ben conosceva le ristrettezze e gli stenti propri ed altrui, ci chiese se avessimo fame. Un gesto assai caritatevole al quale rispondemmo con immediatezza e positivamente. Ci rifocillarono con quel poco di pane e verdure che avevano, ci dissetarono, senza chiedere nulla di noi. Sentivamo di essere capitati tra persone amiche e quindi osammo domandare se non avessero da offrirci anche un rifugio nel quale rimanere a riposare pochi giorni. ...

ci incamminammo con passo spedito in direzione della strada provinciale costiera di Albona, con l'intenzione di operare un largo giro intorno a Pola ed evitare i tedeschi....

17 SETTEMBRE 1943

Verso le dieci fummo in vista di Pisino, un paese infossato in una verde conca, circondato da colline. Alle sue porte stazionavano di guardia alcuni partigiani armati. Ci avvicinammo ad essi con passo sicuro e, quando gli fummo di fronte, ci invitarono ad attendere l'arrivo di un altro gruppo di sbandati appena avvistati. Fummo inquadrati ed avviati alla vicina caserma accompagnati da un uomo già attempato. Sul portone di ingresso si potevano leggere ancora i nomi dei battaglioni dell'esercito italiano che vi erano stati insediati, ma sul pennone sventolava ormai la bandiera comunista dei partigiani di Tito. ... Lasciato Pisino, prendemmo la direzione di Pinguente. La strada provinciale era normalmente battuta da persone di diverse età, donne e uomini, accomunati da un unico fregio all'occhiello: la stella rossa ...  Una stella che, tuttavia, sembrava diffondere più il significato universale della libertà che quello troppo restrittivo di un ideale politico. ...

18 SETTEMBRE 1943

... Ci confortava sapere di avere coperto ormai una distanza di 120 chilometri; se le nostre stime erano esatte mancavano “solo” 45 chilometri circa a Trieste e pertanto decidemmo di percorrerli tutti nello stesso giorno. ... Erano le diciannove circa ed approssimandosi la sera, cercammo sistemazione ad Ospo, un piccolo paese dietro un colle in prossimità del capoluogo giuliano. Ci sentivamo ormai vicini al grande balzo ma non volevamo rischiare di compromettere quanto di buono avevamo combinato  fino ad  allora; pertanto ci mettemmo prima di tutto alla caccia di informazioni utili per entrare ed attraversare Trieste nel modo più sicuro. Ricevemmo qualche notizia da alcuni militari provenienti da  Aquila ed altre ancora dalla popolazione locale; fummo anche portati a conoscenza di alcuni gravi fatti. Una signorina appena rientrata in bicicletta da Trieste disse di aver sentito parlare di un silos nel quale erano concentrati militari e sbandati rastrellati nella zona in attesa di essere deportati e, inoltre, di avere letto un bando fatto affiggere sui muri della città dal comandante germanico Barnbek. Il testo del manifesto era rivolto agli appartenenti alle forze armate italiane e conteneva la diffida di presentarsi alle più vicine caserme dei carabinieri o ai comandi tedeschi entro 48 ore, pena la fucilazione o l'impiccagione. Questa brutta notizia fece naufragare d'un colpo tutte le nostre speranze. ...

20 SETTEMBRE 1943

Trovammo una nuova famiglia che ci ospitò con affetto, disposta a trattenerci con loro anche parecchi giorni, in attesa che gli eventi prendessero una piega più favorevole. ... I due vecchi Novak si spezzavano la schiena per star dietro alle campagne; i due figli non potevano essere d'aiuto in quanto, farsi vedere troppo in giro, significava rischiare di essere prelevati con la forza dai tedeschi. Così decidemmo di renderci utili ai Novak come contadini e manovali, in modo da sdebitarci con loro. Partecipammo alle operazioni di vendemmia nelle vigne del circondario; raccoglievamo uva dalla mattina alla sera o spannocchiavamo il granoturco e le giornate passavano in fretta. ...

Prendemmo così la decisione di tentare ulteriormente il passaggio di Trieste l'indomani ... ma... Non erano ancora le nove quando fummo distratti dal rumore di numerosi motori provenienti dalla strada di Trieste, prima piuttosto in lontananza e dopo pochi minuti decisamente più vicini a noi. ... Dalla vigna dove stavamo lavorando potevamo ormai scorgere diversi carri armati e autoblindo tedesche e ancora, subito dietro, autocarri che scaricavano a terra centinaia di soldati. Seguimmo con attenzione e terrore ogni movimento e, quando fummo certi che i temuti tedeschi avevano nel mirino proprio il nostro paese e i dintorni, fu il panico. Gli uomini delle S.S. si disposero a ventaglio per una retata capillare e tremenda; un reparto prese la nostra direzione ed un altro si spostò su tutta la collina di fronte. Si udirono i primi colpi, prima isolati e sporadici e poi più insistenti. Cercammo un nascondiglio mentre le S.S. salivano inesorabilmente ... Di lì a poco, nascosti nell'erba, sentimmo tutta la vallata rintronare di cannonate, raffiche di mitra e scoppi di bombe a mano. Sul versante opposto le fiamme stavano divorando San Servolo. Ci trovavamo dunque al centro di un rastrellamento in grande stile e le nostre vite correvano un drammatico pericolo. La paura ci aveva ipnotizzati; eravamo in quel frangente come due automi incapaci di pensare, privi di energie e paralizzati nei movimenti ... Con la coda dell'occhio vidi sbucare dalla cima un soldato tedesco e poi, circa dieci metri più in basso, eccone un altro. Anche Tarcisio vedeva altri soldati avanzare su tutto il  fronte dell'intera vallata. Il momento era drammatico. Udimmo alcuni rumori tra le foglie e dei passi, poi una raffica scaricata con rabbia; istintivamente chiudemmo gli occhi, ci stringemmo forte la mano ... Dopo ancora un attimo di sconcerto, socchiudemmo gli occhi e ci trovammo di fronte un soldato della S.S. con il mitra spianato e ancora fumante. Fu un incontro agghiacciante. Egli ci fissò per qualche secondo immobile e anche noi lo guardammo impauriti. Era un ragazzo molto giovane vestito con una tuta mimetica e carico di armi. Non so bene che cos'altro sia successo in quel terribile momento: ricordo che Tarcisio, con voce tenue guidata probabilmente da una forza sovrumana, disse: “Guten camerata, volete uva?” Con aria apparentemente seccata il tedesco rispose semplicemente e rudemente “nicht” e se ne andò. Ad una cinquantina di metri un gruppo di S.S. in rastrellamento sparava sventagliate di raffiche radenti il suolo e si allontanava in direzione opposta. L'avevamo scampata bella ... "

 

Occorreranno ancora diverse settimane, contrassegnate da immensi pericoli, disagi, privazioni e dal continuo altalenare sospeso tra la vita e la morte, prima che Enrico Consonni arrivi a Lissone.


Giunto sano e salvo a Lissone presso la famiglia di adozione, probabilmente tramite il Meroni, riesce a ottenere un lavoro di pubblica utilità presso la Ditta Motta (quella dei panettoni) che operava con una sede proprio a Lissone; il lasciapassare delle autorità tedesche gli permette di essere esentato dalle forze armate e dalla deportazione.

 

Per sdebitarsi dell’ospitalità concessagli dalla famiglia Meroni, mio padre partecipa al lavoro notturno nel forno di famiglia con i “fratelli”; Enrico nel tempo libero ama disegnare e dipingere e utilizza le sue opere da autodidatta di talento per pagare i pranzi e le cene nella vicina trattoria del Sole.

Dopo la guerra riesce anche a frequentare per un paio d’anni una Scuola di Avviamento Professionale e si fidanza nel 1948 con la sua futura moglie e mia madre Ines Valagussa che sposa nel 1951.



Tramite il suocero riesce ad aprire un’attività propria a Monza, un negozio di alimentari, panetteria e vino dove lavora fino a 57 anni quando muore improvvisamente di leucemia acuta.

 

Nella seguente poesia di Tarcisio Beretta, amico fraterno di Enrico Consonni, e suo compagno nelle vicissitudini della guerra, traspaiono le sensazioni provate dai due giovani, durante la loro fuga nei giorni seguenti l’8 settembre 1943, e nel momento terribile quando la loro vita è stata per un attimo nelle mani di un giovane soldato tedesco.


SETTEMBRE 1943


Folle la nostra fuga

concepita nella paura

verso ignoti orizzonti.

Allucinanti pensieri di morte

visioni di cimiteri spettrali

e molti scoppi nel cuore.

Sette interminabili giorni

con le membra logorate,

aggrediti dalla fame

e traditi

da tanti miraggi.

Su quelle aspre

doline carsiche

lasciammo lembi di carne

senza imprecazione

e nessun lamento.

Silenzio

per ascoltar rumori,

scrutare oltre lo spasimo

per non vedere

tute mimetizzate.

Le notti di pece

insidiavano i nostri trasferimenti

franando

nei cespugli delle valli.

Non un lume

per l'orientamento

ed il digiuno astronomico

arretravano il nostro cammino.

Nelle gambe piegate

le cinquecento miglia,

la mente indebolita

dall'urlo agghiacciante

della nostra fine

su uno dei tanti abeti

o spezzati

lungo i turgidi vigneti.

Trieste,

città promessa,

atterrita,

trafitta da fili spinati

distrusse le nostre speranze.

 

Ricacciati nella valle di Ospo,

la feroce trappola

del rastrellamento

stroncava le ultime forze

e le labbra

balbettavano preghiere.

Dei passi s'arrestarono

alle nostre spalle

per eterni istanti.

Un giovane S.S.

s'allontanò;

con l'alba

sulla dorsale

si compiva il miracolo

della Resurrezione.
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