Bruno Casati, il partigiano “Matteotti”
«È doveroso segnalare i nominativi di quei Partigiani, Patrioti e Benemeriti che in misura diversa ed in modi vari hanno dato il loro valido contributo alla lotta per la Liberazione, sia di coloro che hanno avuto l'attestazione della apposita Commissione Riconoscimento Qualifiche Partigiani Lombardia dell'allora Ministero Assistenza Postbellica, sia di coloro che parimenti operarono attivamente per il successo, sia infine di coloro che sentirono l'anelito alla Libertà ed aderirono alla Resistenza».
Così scriveva Angelo Cerizzi, sindaco di Lissone dal 1975 al 1985, in Appunti su uomini e fatti dell’antifascismo lissonese, in occasione del 40° anniversario della Liberazione. In quell’elenco di giovani lissonesi distintisi nella liberazione dell’Italia dal fascismo e dall’occupazione nazista, vi sono Bruno Casati ed il fratello Erino, che hanno avuto la qualifica di “partigiani combattenti per la Lotta di Liberazione” dalla Commissione Riconoscimento Qualifiche Partigiani Lombardia dell'allora Ministero Assistenza Postbellica (dall’Archivio del Comune di Lissone: b263, fase 5 Elenco partigiani e patrioti lissonesi, anni 1947-48)
da un quaderno di Bruno Casati:
«É meglio morire in piedi che vivere in ginocchio» Dolores Ibarruri
«Imparate imparate, che la società ha bisogno della vostra intelligenza» Antonio Gramsci
A Lissone, in Via Trieste, quasi al confine con Monza, vi è una casa con una targa che reca la dicitura “CASA IRENE 1926”. La villetta era stata costruita nel 1926 per la famiglia di Carlo Casati. Carlo Casati era nato a Monza: prima di trasferirsi nella nuova casa, abitava in una cascina adiacente situata però nel territorio del Comune di Monza.
Nel 1926, la famiglia di Carlo Casati risultava così composta: la moglie, Castelli Irene, i figli Bruno, di quattro anni (era nato l’8 novembre 1922) ed Erino di due anni (nato il 28 marzo 1924), e la piccola Annamaria. La primogenita Irene era morta di influenza “spagnola”, subito dopo la fine della prima guerra mondiale.
La nuova casa di via Trieste era stata dedicata alla moglie Irene, ma ricordava anche la primogenita. Nel 1930 nascerà Piera, ultimogenita, tuttora vivente.
Com’era Lissone in quegli anni ‘20?
Il paese contava quasi 13.000 abitanti.
In Italia, dall’ottobre 1922, a capo del Governo vi era Benito Mussolini, a cui il re Vittorio Emanuele III aveva dato l’incarico dopo la cosiddetta “marcia su Roma” dei fascisti.
Anche a Lissone, nel novembre del 1922, si era costituita la locale sezione del Fascio nazionale di combattimento.
Inaugurazione del gagliardetto del Fascio di Lissone
Nelle elezioni politiche dell’aprile 1924, il “Listone” di Mussolini, che su scala nazionale aveva ottenuto una media del 60% dei votanti, in Brianza aveva riscosso un misero 18,7%, uno dei peggiori risultati elettorali d’Italia. A Lissone il Listone di Mussolini era stato votato solamente da 307 elettori (il 13,2 % dei lissonesi votanti). I voti dei lissonesi erano andati al partito Popolare (1069), al partito socialista (432) e al partito Comunista (326).
Risultati elezioni 1924 LISSONE e manifesto di minaccia dei fascisti di Monza e circondario
Appena furono resi pubblici i risultati delle elezioni, un manifesto, a firma dei fascisti di Monza e del circondario, apparve sui muri dei paesi della Brianza, in cui si addebitava la causa dell’insuccesso del “Listone” di Mussolini in Brianza «ai vari bolscevichi bianchi e rossi» ... «Monza e il suo circondario fanno parte dell’Italia o della Russia?» ... «Basta! chi semina vento raccoglie tempesta» «sessantamila bastardi» ... «traditori».
Allora la furia di Mussolini si era abbattuta sulla Brianza.
Una raffica di violenze colpì le istituzioni cattoliche e quelle socialiste. Con l'aiuto di squadre fasciste giunte dalla Bassa milanese e da Milano, solo a Monza furono devastate le sedi del giornale “Il Cittadino” e della Camera del Lavoro, 14 circoli cattolici e 12 socialisti; nel circondario cooperative, circoli e biblioteche di ben 43 paesi subirono la stessa sorte. A Lissone la vendetta fascista si scatenò sull’Osteria della Passeggiata, con danni materiali e percosse ai presenti, e sul circolo della gioventù cattolica San Filippo Neri.
A Roma, nel giugno 1924, il rapimento e l’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti, che in Parlamento aveva protestato contro gli abusi, le illegalità, le violenze, chiedendo la sospensione di quasi tutti i deputati eletti nel “Listone”, aveva scosso la coscienza del paese.
E Matteotti sarà il “nome di battaglia” che Bruno Casati assumerà durante il suo periodo di vita partigiana.
Ritrovamento del corpo di Matteotti
Scriveva L’Unità il 16 settembre 1924: «Le sedi dei giornali e dei partiti sono state prese d’assalto a Roma. A Milano il prefetto fa sequestrare l’Avanti e l’Unità».
A Lissone, dal 15 settembre 1924 a capo del Comune vi era un Commissario prefettizio, il commendator Carlo De Capitani da Vimercate, (rimarrà in carica dal settembre 1924 al marzo 1927), in attesa della nomina del podestà.
Manifesto di insediamento del Commissario Prefettizio Carlo De Capitani da Vimercate
Superata la crisi che era seguita alla scoperta del delitto Matteotti, Mussolini nel discorso del 3 gennaio 1925 dichiarava: «Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è nella forza». Contro l'opposizione, il governo fascista usa la forza dello Stato e quella delle squadre di azione.
Con il 1926 il fascismo si era trasformato in regime totalitario. Tutte le garanzie contemplate dalla Costituzione e dalle vecchie leggi liberali non esistevano più. Incontrastato dominava il fascismo e con poteri assoluti il “dittatore”. Battuti, incarcerati, costretti all'esilio, qualche volta eliminati fisicamente i suoi più decisi oppositori, il fascismo poteva ormai procedere incontrastato.
Dopo le leggi eccezionali molti antifascisti decisero di evadere dal grande carcere che stava divenendo l'Italia andando all'estero per levare dinanzi al mondo intero la protesta degli spiriti liberi contro la dittatura fascista.
Lissone fine anni ‘30
Bruno Casati frequenta le scuole elementari di Via Aliprandi, a Lissone e le scuole professionali a Monza. Viene poi assunto alla Breda. All’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, lavora come meccanico presso il campo di volo. Ha vent’anni quando, l’8 Settembre 1943, Pietro Badoglio, capo del Governo italiano dal 25 luglio, chiede la resa incondizionata delle Forze Armate, annunciando alla radio la firma dell'armistizio con gli Alleati. Nel giro di pochi giorni tutte le principali città del nord e del centro Italia vengono occupate dai tedeschi.
Il 12 settembre 1943, Mussolini, prigioniero sul Gran Sasso, viene liberato da un Commando tedesco e portato in Germania. Ridotto ad un fantoccio nelle mani di Hitler, Mussolini, il 23 settembre 1943, proclama la “Repubblica Sociale Italiana”, formando un nuovo governo fascista la cui autorità si estende sul territorio della penisola occupato dai tedeschi.
Sui muri della Brianza compaiono bandi minacciosi del comando tedesco, insediato a Monza, che comminano la pena di morte per atti di sabotaggio, che vietano ogni assembramento e che impongono il coprifuoco dalle 9 di sera sino alle 5 del mattino.
Intanto verso la fine di settembre 1943 si formano i primi nuclei di partigiani sulle montagne lombarde. A Lissone alcuni antifascisti si ritrovano settimanalmente presso il bar della stazione, il cui gestore è un oppositore del regime.
È del dicembre 1943 il primo grande sciopero sotto l’occupazione tedesca, la prima grande sfida operaia contro industriali, fascisti e tedeschi. L'agitazione è la naturale conseguenza del malcontento operaio dovuto all'enorme aumento del costo della vita che si registra a causa della difficoltà degli approvvigionamenti, ma è dalla Caproni e dalla Magnaghi, dove esistono cellule comuniste in piena attività, che essa si propaga trascinando con sé quella di oltre 60 fabbriche di Milano e provincia.
Lo sciopero ha inizio il 12 dicembre e durerà sette giorni. La disponibilità delle masse alla lotta è enorme. L'inverno rigido, il poco cibo e la poca legna (o carbone) per scaldarsi, portano la gente alla disperazione. Non solo i licenziamenti continuano (sempre a causa della mancanza di materie prime e dei bombardamenti sugli impianti), i salari sono bassi, le tessere annonarie non coprono i fabbisogni quotidiani delle famiglie e i generi di prima necessità si trovano solo al mercato nero a un prezzo proibitivo.
Le fabbriche maggiori di Milano e di Sesto San Giovanni, si mobilitano al completo con Breda, Innocenti, Magnaghi, Ercole Marelli e Magneti Marelli, Olap, Pirelli, Radaelli, Elettromeccanica lombarda e Moto Garelli. Alla Breda sono la I e la V Sezione, composte dalle maestranze più qualificate, a svolgere la funzione di avanguardia di tutto il complesso industriale.
Le fabbriche in sciopero sono fondamentalmente quelle «protette», ossia mobilitate per la produzione bellica - dove i lavoratori vengono “trattati meglio” - ma dove l'antifascismo è anche più compatto. Qui, accanto alle richieste di natura economica, si rivendica la liberazione dei detenuti politici, molti dei quali sono ex membri delle Commissioni Interne.
Le autorità tedesche preoccupate delle ripercussioni delle agitazioni sulla resa della produzione finale, richiamano il Brigadeführer SS generale Paul Zimmermann, “l’incaricato speciale per la repressione degli scioperi”, già noto per aver sedato le agitazioni operaie nel torinese. Il Führer vorrebbe far arrestare qualche migliaio di persone da inviare in Germania.
Lo sciopero nel frattempo ha raggiunto dimensioni preoccupanti, estendendosi a un grande numero di officine siderurgiche e metallurgiche, meccaniche ed elettriche.
Sui lavoratori in sciopero vengono fatte intimidazioni dirette contro singoli operai scelti a caso. Dal 15 al 17 dicembre è un'altalena di minacce, fermi e promesse di miglioramenti salariali e alimentari. I datori di lavoro, quando non si fanno essi stessi responsabili della repressione (garantire la produzione significa per gli industriali continuare a ricevere dalla Germania le materie prime necessarie ed evitare il trasferimento degli impianti fuori dall'Italia), si nascondono dietro le autorità tedesche.
Le misure tedesche si fanno di conseguenza più pesanti: si intensificano gli arresti alla Breda, alla Olap, alla Falck, alla Cge, alla Singer.
Tra gli arrestati vi è anche Bruno Casati.
Ecco cosa racconta Angelo Signorelli nel libro “A Gusen il mio nome è diventato un numero”.
«Di notte la polizia fascista arriva a casa. Ci buttarono letteralmente giù dal letto. Mio fratello voleva cercare di scappare dalla finestra, ma poi non opponemmo resistenza, per evitare conseguenze ai nostri genitori. Ci portarono via in fretta e furia. Poi in caserma dei carabinieri di via Volturno a Monza con altri arrestati, tutti lavoratori presso le grandi industrie di Sesto San Giovanni (Falck e Breda) e di Monza (Singer e Hensemberger). All'alba il rastrellamento degli altri operai che avevano scioperato con noi era finito. C'era gente di Monza e Sesto San Giovanni. Fummo portati in prefettura a Milano e lì, oltre a noi c'erano dipendenti della Falck, della Breda, della Pirelli, della Marelli e di altre ditte. Fummo tutti interrogati senza diritto di replica, accusati di organizzazione e istigazione di scioperi e atti di sabotaggio contro la repubblica fascista. Ci mandarono a dormire al carcere di San Vittore, su un pagliericcio. ... Dopo due giorni fummo trasferiti tutti a Bergamo, in camion. Qui ci trovammo con altri operai rastrellati in giro per l'Italia, che si trovavano già lì da qualche giorno. Eravamo affamatissimi e come cibo ci davano una fetta di pane con del brodo per tutta la giornata».
Anche Bruno Casati viene rinchiuso nel carcere di Sant'Agata, ex monastero e dai primi anni dell' 800 destinato a carcere, situato a Bergamo Alta.
Una lettera di Bruno, recante la data 18 febbraio 1944, indirizzata alla zia Maria, sorella della madre, dal carcere di Bergamo, dove si trovava ancora detenuto in attesa di un processo.
In quei giorni di febbraio 1944 sui muri di Lissone erano comparsi manifesti recanti le norme di protezione antiaerea.
Racconta la sorella Piera, allora quattordicenne:«Con la mia amica Giacomina di sedici anni, quando possibile data la situazione di pericolo, ci recavamo a Bergamo in tram e con la funicolare raggiungevamo il carcere situato nella parte alta della città, portando a mio fratello Bruno del pane fatto in casa dalla nostra mamma». Per entrare nel carcere venivano perquisite, anche se in modo discreto data la loro giovane età.
Sempre in febbraio il governo di Salò emanava il bando di chiamata alle armi delle classi 1923, 1924, 1925, minacciando la pena di morte per i renitenti alla leva.
Ricorda Piera: «Mio fratello Erino si presentò alla chiamata alle armi con destinazione la città di Gorizia. Appena si presentò l’occasione, fuggì dalla caserma e, dopo varie peripezie, arrivò a Carugate, il paese di nascita di nostra madre, e trovò rifugio presso nostra zia Maria che lo nascose in un casolare di campagna». Da partigiano, Erino assumerà il nome di battaglia “Topo”. A Lissone, invece, il diciannovenne Gianfranco De Capitani da Vimercate, viene arrestato: finirà i suoi giorni nel lager nazista di Ebensee.
Negli stessi giorni, sulle montagne della Valdossola un gruppo di partigiani muore combattendo contro reparti tedeschi e Brigate Nere: tra di loro il monzese Gianni Citterio.
Mentre procede lentamente l’avanzata delle forze alleate verso Roma, a cui si sono aggregati reparti di soldati italiani, il cosiddetto ”esercito del Sud”, verso la metà di marzo un gruppo di detenuti del carcere di Bergamo si appresta a partire. Tra loro anche Bruno Casati.
Dal racconto di Angelo Signorelli: «Il 17 marzo fu il giorno della partenza. Arrivarono anche i miei genitori da Monza ... Incolonnati, scortati da una parte dalle SS e dall'altra dai fascisti, andammo a piedi alla stazione, minacciati e picchiati. Nessuno sapeva né che cosa avevamo fatto, né dove eravamo diretti. Eravamo spaventati. I parenti ci avevano portato viveri e la gente generosa di Bergamo ci regalò fiaschi di vino. Fummo stipati a quaranta alla volta su carri-bestiame. Eravamo totalmente inconsapevoli della nostra sorte. Pensavamo di andare a lavorare da qualche parte. Noi di Monza eravamo fortunati, avevamo delle torte fatte dai nostri familiari e del vino e ci dividemmo tutto. Cercammo di staccare qualche asse di legno per scappare».
Racconta Piera: «Durante una sosta, Bruno con altri quattro compagni riesce a fuggire dal treno. Dopo varie peripezie, si unisce ai partigiani che operano nell’alto novarese, in Valsesia e nel Verbano Cusio Ossola, con il nome di battaglia “Matteotti”».
Bruno fa parte della II Divisione d’Assalto “Garibaldi”, 15a Brigata, Battaglione “Volante Azzurra” Distaccamento Meneghini (i fratelli Meneghini, Bruno e Gino, erano caduti in Val Strona il 9 maggio 1944). Il comandante del battaglione era Ettore Carinelli, nome di battaglia Ettore.
Ingrossandosi le fila dei partigiani, il battaglione diventa Brigata “Volante Azzurra” inquadrata sempre nella 2a Divisione d’Assalto Garibaldi.
Tesserino di riconoscimento di Bruno Casati, membro della Brigata “Volante Azzurra”
La “Volante Azzurra”, dislocata nel novarese, operava alle pendici del Mottarone e nel Verbano-Cusio-Ossola.
Il suo principale compito era di effettuare azioni di sabotaggio e di disturbo ai presidi nazifascisti.
Racconta un vecchio partigiano appartenente alla formazione: «Erano dei ragazzi meravigliosi, fra i migliori di quanti ebbi l’onore di avere vicini durante “la stagione migliore della nostra vita”».
Dopo il tradimento del comandante della brigata, “Taras”, (una volta scoperto, fu processato, condannato a morte e quindi fucilato), la “Volante Azzurra” passò pressochè al completo alla 10a Brigata “Rocco”, (Rocco Bellio, partigiano fucilato in Valsesia nell'aprile del 1944), inquadrata nella 2a Divisione Garibaldi “Redi”.
Nel volgere di pochi mesi la formazione garibaldina s'ingrandì con i renitenti ai bandi della Repubblica Sociale Italiana (divenendo la 10a brigata "Rocco") e con l'afflusso di altri battaglioni provenienti dalla Valsesia divenne la 2a Divisione Garibaldi "Redi", nome di battaglia di Gianni Citterio, monzese, caduto a Megolo.
I Garibaldini della 10a Brigata Rocco, operativa dall’estate del 1944, erano stanziati sulle alture che si affacciano al Lago d'Orta, porta dell'Ossola e via d'accesso alla Svizzera per il passo del Sempione.
La 2a Divisione Garibaldi “Redi” fu tra le protagoniste delle grandi battaglie per la liberazione di quella zona, dal luglio all'ottobre del 1944, che ebbero il loro culmine nella creazione della libera Repubblica dell’Ossola.
La Repubblica dell’Ossola, nata nell’agosto del 1944, durò solamente 33 giorni. Era un vasto territorio occupato dai partigiani che diventò un vero e proprio Stato con un governo, un esercito e una capitale: Domodossola. Fu un esperimento democratico che stupì il mondo intero perché venne realizzato all’interno di un paese in guerra.
Quando smobilitò, la Divisione era la più forte e numerosa formazione partigiana del Verbano-Cusio-Ossola, comprendo oltre 1500 uomini.
In quei giorni il ventiduenne Bruno Casati conobbe Aldo Aniasi, il comandante Iso, che era salito tra quelle montagne con una “banda di ribelli” dopo l' 8 settembre 1943. Diceva Iso: «Il partigiano deve attaccare e sottrarsi al combattimento. Organizzare imboscate contando sulla sorpresa. Più che ogni altra attività umana, la guerriglia si impara praticandola». Lui la imparò nell'alta Valsesia. Qualche mese dopo la insegnava già ai più giovani, a quelli che non avevano mai maneggiato un fucile, e agli altri che lo incalzavano per l'ansia di attaccare. Impiegò meno di un anno, per passare da soldato semplice a comandante: alla testa della seconda divisione Redi. Era un capo partigiano stimato e seguito, Aldo Aniasi, intelligente, esperto a soli 23 anni.
Comandanti partigiani dell'Ossola: Aniasi è il primo a sinistra
Bruno incontrò anche Cino Moscatelli, organizzatore della guerra partigiana in Valsesia. Come commissario politico del raggruppamento Divisioni Garibaldi del Cusio-Verbano-Ossola conquistò presto vasta popolarità, ma soprattutto fama di temibile avversario presso i tedeschi e i fascisti.
Tra i documenti custoditi con cura da Bruno Casati quello recante le firme dei due famosi capi partigiani, Iso e Cino.
La firma Pippo è di Pippo Coppo, dirigente del Pci clandestino e commissario garibaldino della 2a Divisione “Redi”.
Per alimentare la Resistenza partigiana sulle montagne, per mantenere i collegamenti tra le varie formazioni, tra “i ribelli” e gli antifascisti locali e i Comitati di Liberazione locali, un ruolo fondamentale fu svolto dalle donne.
Racconta Marta: «L'8 settembre, quando, diciamo, si è sfasciato l'esercito, naturalmente ho scelto questa strada, perché ho capito che questi ragazzi in montagna avevano bisogno anche dell'apporto delle donne. Loro da soli non potevano, perché quelli che erano lassù, in montagna, non potevano naturalmente venire in città, perché sarebbero stati arrestati. Ed allora mi sono decisa a fare la staffetta. Ho cominciato ad andare avanti e indietro, con la mia bicicletta, a portare armi, munizioni, documenti, notizie, medicinali, viveri, secondo quello che poteva servire».
Gruppi operativi femminili si segnalarono, durante la Resistenza, attraverso la raccolta di indumenti, medicinali, alimenti per i partigiani e si adoperarono per portare messaggi, custodire liste di contatti, preparare case-rifugio, trasportare volantini, opuscoli ed anche armi.
Piera Casati, sorella di Bruno, giovanissima staffetta partigiana.
Piera, oltre al mantenimento dei contatti tra la sua famiglia e Bruno, quando questi si trovava rinchiuso nel carcere di Bergamo, ebbe un ruolo importante: fu una giovanissima staffetta partigiana.
Il suo compito principale era quello di postina.
Racconta Piera: «A casa Irene spesso arrivava una ragazza in bicicletta, le cui generalità, credo per motivi di sicurezza, non erano note a nessuno della nostra famiglia. Lasciava un “fagottino” con l’ordine di recapitarlo a Bruno. Senza aprirlo e senza conoscerne il contenuto, lo legavo in vita sotto i vestiti, e, accompagnata dalla zia Maria di Carugate, dove si nascondeva Erino e dove operavano partigiani delle SAP (Squadre di Azione Patriottica), con mezzi di fortuna, su carretti, furgoni, percorrendo anche dei tratti a piedi tra i vigneti, raggiungevamo Cavaglio d’Agogna, paesino sulle colline novaresi. Qui ci recavamo in una cascina di proprietà di Giovanni Tacca, che era una delle basi di collegamento con i partigiani operanti sulle montagne della zona. A Giovanni consegnavamo il fagottino e trascorrevamo la notte nella cascina». I Tacca erano una di quelle famiglie contadine che hanno avuto un’importante funzione nella Resistenza, prestando con generosità aiuto ai “ribelli”, anche nei momenti di pericolo, a volte mettendo a rischio la propria vita o correndo il rischio di vedersi incendiata la casa dai fascisti o dai tedeschi.
All’indomani, Piera e Maria ripartivano alla volta di Lissone con qualche lettera di Bruno.
Casa Irene, l’abitazione di Via Trieste della famiglia Casati, è soggetta a frequenti ispezioni da parte dei fascisti. Cercano Bruno ed Erino. Un giorno penetrano di soppiatto nella casa intimando ai presenti di tenere le mani alzate; inutilmente, perquisiscono ogni locale minacciando di fucilare papà Carlo, operaio alla Falk, se non rivela il nascondiglio dei figli.
Nonostante i pericoli, Bruno, dopo la caduta della Repubblica dell’Ossola, decide di venire a Lissone per rivedere i genitori. Dal racconto della sorella Piera: «Bruno arriva di nascosto a casa per trascorre qualche giorno in famiglia. Il suo arrivo a Lissone viene però notato: l’irruzione di alcuni fascisti locali, probabilmente allertati da qualche spia, lo costringono ad allontanarsi rapidamente. Per la fuga precipitosa, lascia una pistola sotto il materasso. Mia mamma, al corrente del nascondiglio, onde evitare spiacevoli conseguenze, si precipita verso il letto dove aveva dormito Bruno, solleva il materasso, prende la pistola e la nasconde nelle mie mutandine». Piera per la paura scoppia in un riso isterico mentre sale rapidamente le scale per raggiungere il gabinetto situato al primo piano.
A Maria Antonietta, figlia di Bruno Casati, sono rimasti impressi nella memoria alcuni episodi della vita da partigiano di papà, come le sono stati da lui raccontati. «Nell’ autunno del 1944, un'imboscata ci sorprese nel sonno e fummo costretti a scappare senza scarpe, solo coi mutandoni di lana attraversando il bosco per raggiungere un torrente che dovemmo traghettare per sfuggire all'agguato». Ricorda Maria Antonietta «Papà non dimenticò mai le spine dei ricci che gli si infilarono nei piedi!».
Prosegue Maria Antonietta: «La paura più grande – mi disse mio padre - la provai quando dovetti attraversare la stazione ferroviaria di Lissone, presidiata dai tedeschi, con uno zaino in spalla in cui vi erano delle armi nascoste sotto qualche pezzo di legna».
Col sopraggiungere dell’inverno il fronte che opponeva gli Alleati ai tedeschi si era attestato sulla cosiddetta “linea gotica”, che partiva dalle Alpi Apuane, a nord di Pisa, e raggiungeva il mare Adriatico a nord di Ravenna.
Le condizioni della popolazione lissonese erano pesanti: freddo, causato dalla mancata distribuzione della legna da ardere, penuria di alimenti, particolarmente aggravate dall'insufficienza o totale mancanza dei mezzi di trasporto necessari per ritirare i generi dalle località lontane.
Con l’arrivo della primavera, la fine della guerra si avvicina.
Molti partigiani, tra cui Bruno, scendono dai monti per prepararsi all’insurrezione. Rino e Bruno arrivano a Lissone. Prendono contatti con i membri del locale Comitato di Liberazione Nazionale.
Scrive Angelo Cerizzi in Appunti su uomini e fatti dell’antifascismo lissonese: «Nei primi mesi del 1945 gli incontri clandestini divennero numerosi. Quelli che avvenivano fra persone notoriamente antifasciste non potevano non sollevare sospetti e dovevano effettuarsi con molta cautela: diverse riunioni si svolsero così sulle panchine della stazione di Monza o del piazzale prospiciente la stessa come fra persone in attesa del treno. Le riunioni invece del CLN avvenivano, specie durante la stagione invernale, in casa di Volfango (Gaetano Cavina), la quale offriva, in caso di pericolo, la possibilità di eclissarsi attraverso i tetti.
L'attività relativa alla ricerca di armi e per i collegamenti militari veniva affidata dai singoli partiti del CLN ad un loro incaricato che si metteva in contatto con il comandante politico della 119a Brigata Garibaldina nella persona del geometra Riccardo Crippa (Ettore).
Nonostante tutte le precauzioni e le cautele con cui si agiva, proprio nei giorni precedenti la Liberazione si verificò un episodio che portò un certo scompiglio fra tutti i responsabili del movimento clandestino. La delazione ai danni di due patrioti delle SAP portò anche all'arresto di una loro zia la notte del 19 aprile. Furono trovate oltre ad una pistola, una lista di patrioti con i rispettivi incarichi per la imminente insurrezione: furono tutti immediatamente arrestati».
Tra di loro vi erano Bruno ed Erino Casati.
«Tradotti alla Villa Reale di Monza furono divisi per interrogarli. I primi arrestati con la zia furono malmenati, addentati da cani aizzati dagli aguzzini, bastonati per ottenere una confessione. Gli altri subirono pure tormenti e vessazioni. Furono tutti avvertiti che li aspettava la fucilazione in piazza a Muggiò quale rappresaglia per l'uccisione di un sottufficiale tedesco. L'attesa divenne spasimo in quel precipitare di eventi. L'incertezza che in quegli sgherri prevalesse la ferocia all'istinto di conservazione - cioè la fuga - provocava in loro una tortura troppo difficile da descrivere se non da chi la sofferse. Per quell'arresto Lissone avrebbe potuto piangere un altro gruppo di fucilati. La situazione si fece drammatica anche per i componenti del Comitato, che, avvertiti immediatamente dalle informatrici del grave pericolo che correvano perché ormai indiziati, si dispersero spostandosi giorno e notte alla periferia del paese.
Il CLN si riunì per l'ultima volta clandestinamente il 24 sera ed il 25 mattina lanciò al popolo il proclama della Liberazione, insediandosi come autorità riconosciuta insieme all'Amministrazione Comunale scaturita dal Comitato stesso, mentre venivano liberati gli ultimi patrioti detenuti alla Villa Reale».
Finita la guerra, Bruno tornò alle sue attività lavorative. Racconta Maria Antonietta: «Papà, però, volle completare i suoi studi prediligendo le materie scientifiche. Diverse furono le occasioni di incontro con i compagni partigiani con i quali aveva vissuto più di quindici mesi e, purtroppo, con i famigliari dei diversi caduti» (152 furono i caduti della 2a Divisione Garibaldi “Redi”). Inoltre, quel profondo legame di stima e di riconoscenza che si era stabilito tra Bruno e la famiglia Tacca si mantenne negli anni. Prosegue Maria Antonietta: «Io e le mie sorelle andavamo spesso con papà a Cavaglio d'Agogna a trovare Maria Tacca, rimasta vedova, e il figlio Eligio. Nostro padre non dimenticò mai l'aiuto che gli aveva prestato, nascondendolo e rifocillandolo, come una madre, in alcuni momenti difficili della vita da partigiano».
Diceva un partigiano lissonese che era stato con Bruno Casati in Valdossola: «Certo combattendo volevamo un futuro diverso. Prima di tutto abbiamo lottato per cacciare i tedeschi dal nostro paese e i fascisti che erano i loro servi; poi abbiamo lottato per creare un'Italia democratica».
E un’altro ex partigiano, nel 1964, in occasione di un raduno dei componenti della 2a Divisione Garibaldi “Redi”: «Allora forse eravamo un poco “matti”, tuttavia, malgrado le delusioni, le umiliazioni e le amarezze a causa di un’Italia che volevamo migliore e diversa, penso che tutto sommato “ne é valsa la pena!”. A patto che si vada avanti. Nella direzione indicata dalla Resistenza».
E oggi?
Scrive l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che aveva fatto parte del Corpo Italiano di Liberazione “l’Esercito del Sud” combattendo a fianco degli Alleati: «Dove sono i valori, la passione civile, la fiducia negli ideali che hanno infiammato generazioni di giovani disposti a ogni sacrificio personale? Purtroppo ora mi rendo conto che sto vivendo in un paese ben diverso da quello che avevo sognato in gioventù». Penso che anche il partigiano Bruno Casati sarebbe stato dello stesso parere.
Ho potuto ricostruire alcuni momenti della vita da partigiano di Bruno Casati dalle testimonianze della sorella Piera e della figlia Maria Antonietta. Un ringraziamento particolare anche per aver messo a mia disposizione documenti preziosi, parte dei quali sono inseriti nel testo.
Un ringraziamento va anche a direttori dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli "Cino Moscatelli" e dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola "Piero Fornara" per avermi fornito le informazioni in loro possesso.
Renato Pellizzoni